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Agenzia Stampa Vicino Oriente

PRIMO MAGGIO. Lavoro minorile femminile in Africa
In occasione della festa dei lavoratori, un articolo dal continente africano. Dal Ghana al Sudafrica, le bambine costrette a lavorare per sostenere la famiglia e se stesse. E se le leggi per impedirlo ci sono, spesso restano lettera morta (Fonte: International Labour Organization) di Federica Iezzi Roma, 30 aprile 2022, Nena News – L’International Labour Organization (Ilo) stima che circa 100 milioni di ragazzine siano coinvolte nel lavoro minorile a livello globale. E un quinto delle ragazze africane entra precocemente nel mondo del lavoro. Oggi milioni di bambine sono spinte a diventare lavoratrici per prendersi cura di se stesse e delle proprie famiglie. Anche l’accattonaggio fa parte del lavoro minorile, che secondo la definizione dell’Ilo è un lavoro che priva i bambini della loro infanzia, delle loro potenzialità e della loro dignità. Secondo lo studio “Begging for Change”, condotto dall’organizzazione Anti-Slavery International, non è raro trovare bambini costretti a mendicare per il loro bisogno di sopravvivere. E sono proprio le ragazze a correre rischi maggiori perché sono più vulnerabili allo sfruttamento sessuale e ad altre forme di abuso. In Ghana le minorenni sono spesso spinte a lavorare al posto dei fratelli maschi in quanto i genitori di fatto considerano l’istruzione delle loro figlie un investimento scarso, dal momento che ci si aspetta che si sposino e lascino la famiglia. In altri casi, le ragazze vengono formate come domestiche, altra forma di lavoro considerata tra le occupazioni meno regolamentate. Lavorando nel buio delle singole case, le bambine sono spesso invisibili al mondo esterno e quindi particolarmente vulnerabili alla violenza, allo sfruttamento e agli abusi. Per combattere il lavoro minorile femminile, il governo del Ghana ha implementato il National Plan of Action against Child Labor. Il programma, coordinato delle politiche di sviluppo economico e sociale del Ghana, in collaborazione con il Ghana Shared Growth and Development Agenda, dovrebbe fungere da quadro operativo per migliorare la protezione dei minori e per affrontare i livelli esorbitanti di disoccupazione giovanile nel Paese. Settantacinque anni di brutale colonialismo europeo continuano ad avere un impatto devastante sulla Repubblica Centrafricana e hanno aperto la strada a molte delle difficoltà che il Paese continua ad affrontare oggi. Come lo sfruttamento del lavoro legato alla raccolta di caffè, cotone, gomma e altre risorse locali. Nella Repubblica Centrafricana esiste un quadro giuridico nazionale consolidato per la protezione dei diritti dell’infanzia e il Paese ha ratificato trattati internazionali chiave sui diritti dell’infanzia, tra cui il Child Rights Convention e l’African Charter on the Rights and Welfare of the Child. Il Paese, tuttavia, non è parte della Convenzione dell’Aia del 1980, in materia di minori. Sembra esserci un’ampia mancanza di applicazione di queste leggi. Secondo l’Unicef, il 31% dei bambini dell’Africa centrale tra i 5 ei 17 anni lavora. Il Sudafrica è un Paese di origine, transito e destinazione per la tratta di bambini. Anelli di traffico iniziano nelle zone rurali e maturano nei centri urbani come Bloemfontein, Cape Town, Durban e Johannesburg. Il Paese ha compiuto notevoli progressi per eliminare le più pesanti forme di lavoro minorile. L’adozione della Phase IV of the National Child Labor Program of Action for South Africa ha aumentato i finanziamenti per il Child Support Grant, destinati ai bambini vulnerabili. Dal 1990, a livello internazionale e regionale, l’Angola fa parte della Convenzione sui Diritti dell’Infanzia, ratificata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite. Adottati anche i suoi Protocolli Opzionali. Tuttavia, la crisi economica derivante dal calo dei prezzi del greggio ha fatto sì che lo stato angolano abbia meno fondi da investire in programmi sociali per migliorare la situazione dei bambini e garantire il rispetto dei loro diritti, Nena News
TURCHIA. «Gezi golpista»: ergastolo aggravato per Osman Kavala
Toccato il fondo: per il filantropo fine pena mai, per altri sette attivisti 18 anni di prigione a testa. Ankara lega con un folle filo rosso le proteste di Taksim del 2013 con il fallito colpo di stato del 2016. Schiaffo all’Europa Osman Kavala (Foto: Amnesty International) di Chiara Cruciati – Il Manifesto Roma, 26 aprile 2022, Nena News – L’hanno definita una delle peggiori pagine giudiziarie della Turchia, ma quanto accaduto ieri dentro la 13esima corte penale di Istanbul va oltre: è la sentenza più politica che potesse uscire da 22 anni di dominio di Recep Tayyip Erdogan. I tre giudici della corte hanno condannato all’ergastolo aggravato (in isolamento e senza possibilità di ottenere un rilascio anticipato, se non dietro grazia del presidente) il filantropo e attivista Osman Kavala e a 18 anni di carcere sette tra i volti più noti delle proteste di Gezi Park, nei giorni del suo nono anniversario. L’accusa stata costruita per tempo: tentativo di rovesciare il governo. Ovvero, tentato golpe. Un fascicolo che la magistratura turca del post-2016, oggetto di un’enorme campagna di epurazione, ha aperto tre anni fa collegando con un filo rosso le proteste nel parco di Istanbul della primavera 2013 al vero fallito golpe, quello del 15 luglio 2016. Come fosse un evento unico, lungo tre anni, di matrice golpista e magari anche terrorista, cancellando in un colpo il senso di tre milioni di persone in piazza per mesi in 81 città contro le politiche neo-liberiste del partito di governo, l’Akp di Erdogan. Non a caso Kavala, arrestato una prima volta con l’accusa di aver finanziato la protesta di Taksim, era stato rilasciato nel 2020 per essere riarrestato in relazione al tentato colpo di stato. Per Mucella Yapici, Çigdem Mater, Hakan Altınay, Mine Özerden, Can Atalay, Yigit Ali Ekmekçi e Tayfun Kahraman 18 anni di carcere a testa per aver partecipato al crimine. Kavala è in detenzione preventiva già da 1.637 giorni, quattro anni, nel famigerato maxi carcere di Silivri. Non ne uscirà, questa la decisione dei tre giudici che lo hanno esentato solo dall’accusa di spionaggio: prove insufficienti, hanno detto. Una sentenza a cui è seguita un’immediata reazione: fuori dal tribunale è scoppiata la protesta al grido di «Tutto è Taksim, tutto è resistenza, lunga vita alla resistenza», i social sono stati invasi in poche ore dallo sdegno per il buco nero in cui è stato risucchiato il dissenso nel paese, mentre le associazioni internazionali per i diritti umani, da Amnesty International a Human Rights Watch, parlavano di processo-farsa. È uno schiaffo in faccia anche all’Europa che attraverso la Cedu, la Corte europea per i diritti umani, nel 2019 ha chiesto – la prima di svariate volte – il rilascio immediato di Osman Kavala da quella che ha definito una detenzione «politica». E lo scorso ottobre Ankara arrivò a minacciare di espulsione dieci ambasciatori occidentali (tra cui quelli di Usa, Francia e Germania) etichettandoli come «persona non grata» per una nota congiunta in cui chiedevano la liberazione del filantropo. Fino alla decisione, a inizio 2022, del Consiglio d’ Europa di avviare una procedura di violazione per la Turchia proprio in riferimento al mancato rilascio dopo la sentenza della Cedu. Ma la definizione migliore, ieri, l’ha data lo stesso Kavala: «Un omicidio giudiziario». Nena News
FOCUS ON AFRICA. Somalia tra shari’a e stato di diritto
L’interpretazione delle due fonti di governance ha avuto effetti diversi a seconda delle esigenze: dall’intransigenza degli sheikh sui rapporti tra i generi all’uso della legge islamica da parte delle femministe per ottenere diritti in nome dell’islam Poliziotti somali nella capitale Mogadiscio (Fonte: International Crisis Group) di Federica Iezzi Roma, 23 aprile 2022, Nena News – Dal 1990 la Somalia è stata oggetto di ripetuti interventi esterni di rafforzamento dello Stato. Una serie di governi e organismi internazionali hanno cercato di ricomporre una sorta di autorità centrale sul territorio dell’ex Repubblica di Somalia. Tuttavia, la shari’a, la legge sacra della religione islamica, è rimasta nell’aria del Paese come un’ombra. Le visioni coloniali dell’ordine legale tendono anche in Somalia a creare disordine e oppressione. I tentativi di centralizzare il potere si sono scontrati con idee alternative resilienti del diritto. Le leggi prodotte dallo Stato sono prive di legittimità agli occhi delle amministrazioni locali e le strutture che hanno lo scopo di far rispettare tali leggi sono spesso corrotte e arbitrarie. La conseguenza è che oggi i somali vedono gli attuali sforzi di costruzione della governance, da parte delle agenzie internazionali, come i diretti successori dei precedenti interventi coloniali. Il messaggio è chiaro. La stabilità e la pace non possono essere prodotte importando esperti legali per tenere seminari e consigliare processi legislativi. Devono basarsi su atti quotidiani di risoluzione delle controversie tra violenze e disordini. In contesti come quello somalo, per il 99% musulmano sunnita, la flessibilità tra shari’a e stato di diritto diventa fondamentale. La shari’a è talvolta descritta come un vincolo indipendente, fisso e sacro al potere politico. Lo stato di diritto appare come qualcosa di molto diverso dal semplice ordine legale che attori esterni cercano di imporre. Lo stato di diritto, in senso più espansivo, può essere collegato al liberalismo politico e alla promozione dei diritti umani, dell’uguaglianza e della libertà. Le tensioni tra queste due idee di stato sono significative. Ne è un esempio la storia dell’alto clero musulmano che ha energicamente denunciato le idee dei progressisti sul diritto di famiglia, introdotte dal regime dittatoriale di Siad Barre. Una serie di leggi e politiche che promuovevano la parità di genere, tra cui il diritto di famiglia del 1975, con eredità, divorzio e poligamia. Gli sheikh si sono opposti al diritto di famiglia a causa della sua insistenza sull’uguaglianza di genere e non come semplice atto di resistenza alla dittatura. Quindi stavano affermando la propria inflessibile lettura della shari’a. Entra nel grado di flessibilità della shari’a l’affascinante capitolo sulle donne attiviste della regione del Somaliland e il loro utilizzo della legge islamica come mezzo per affermare i diritti delle donne. In questo caso, la shari’a è stata usata per perseguire una particolare idea di diritto di protezione della donna, che si allineava con le attuali norme internazionali sui diritti umani. Le attiviste hanno fatto affidamento sugli sheikh per ottenere interpretazioni e giudizi su delicati argomenti come la violenza contro le donne, i matrimoni precoci e le mutilazioni genitali femminili. Piuttosto che enfatizzare i diritti legali previsti dal diritto internazionale, le attiviste si sono concentrate sull’insegnamento di come l’uguaglianza per le donne sia compatibile con i principi dell’Islam. Le democrazie occidentali tendono a proteggere con attenzione la separazione tra chiesa e Stato, ma molti Paesi a maggioranza musulmana sfidano le nozioni occidentali di islam e di legislazione secolare. I dittatori e gli amministratori coloniali europei hanno troppo spesso usato la shari’a per giustificare il loro potere. Allo stesso modo la popolazione somala ha invocato il libro sacro dell’islam per resistere agli oppressori, espellere i signori della guerra, combattere per l’uguaglianza di genere e costruire un percorso verso il governo di legge. In molti oggi stanno reinterpretando, riaffermando e rivendicando le fonti della shari’a, sia che vogliano opprimere, sia che vogliano progredire. Nena News
NENA IN PILLOLE. Iraq, Arabia Saudita
Prosegue l’operazione contro le montagne del nord iracheno, ma il bilancio di uccisi tra i militari turchi sale. Intanto la città di Suleymaniya si solleva contro l’offensiva di Erdogan. In pochi mesi le autorità saudite hanno lasciato senza un tetto sulla testa centinaia di migliaia di residenti dei quartieri sud della città per fare spazio a nuovi progetti di sviluppo urbanistico Il livello di distruzione nel sud di Gedda (Fonte:; YouTube) di Chiara Cruciati Roma, 22 aprile 2022, Nena News Ankara continua a bombardare. Pkk: «Uccisi 100 soldati turchi» Continuano i bombardamenti turchi sulle montagne del nord iracheno, base militare e ideologica del Pkk, il Partito curdo dei lavoratori. Secondo il movimento, dal 17 aprile scorso – inizio dell’operazione «Blocco dell’artiglio», seguita all’incontro ad Ankara tra il presidente turco e il premier del Kurdistan iracheno Barzani – sono stati compiuti almeno 150 bombardamenti e un tentativo di invasione via terra, supportato dai peshmerga di Erbil. Ma a salire è anche il bilancio dei soldati turchi uccisi: se il governo turco tiene fermo il conteggio ad appena due, per il Pkk sono almeno cento, di cui sei alti ufficiali. E se Barzani e il suo partito, il Kdp, proseguono sulla via della cooperazione totale con Ankara, a Suleymaniya – città orientale del Kurdistan iracheno, dominata dal partito rivale del Puk – si manifesta contro gli attacchi turchi: martedì sera migliaia di persone hanno marciato per le strade denunciando l’offensiva aerea sulla regione montagnosa di Medya e la collaborazione del premier Masrour Barzani. Che non è stato accolto a braccia aperte nemmeno a Londra, dove è andato in visita al premier Johnson. Ad attenderlo decine di manifestanti che hanno gridato slogan contro quello che definiscono un «tradimento» della causa curda. *** Sgomberi improvvisi e demolizioni per fare spazio alla «nuova» Gedda Tra fine 2021 e inizio 2022, le autorità saudite hanno lanciato una vasta campagna di demolizioni e sgomberi nei quartieri meridionali della città portuale di Gedda. A rivelarlo è l’associazione saudita Alqst, a seguito di una serie di interviste con i residenti che denunciano la mancata notifica degli espropri e la totale assenza di compensazioni. Gettati in mezzo alla strada per creare una nuova Gedda. I numeri sono impressionanti: centinaia di migliaia di persone hanno perso la loro casa all’interno di un ampio piano di ridefinizione urbanistica della città. E in pochissimo tempo: alcuni abitanti raccontano di essere stati cacciati di casa in una manciata di ore, senza nemmeno il tempo di portare via elettrodomestici e mobili. In molti hanno iniziato a dormire in auto, a causa di affitti impossibili da sostenere in una città considerata da Riyadh un hub economico strategico per l’intera petromonarchia e il Mar Rosso. La sua parte meridionale è da anni nel mirino: l’area più antica della città, è casa a diversi gruppi etnici. Il piano di demolizione è parte del progetto Vision 2030, ideato dal principe ereditario Mohammed bin Salman: l’obiettivo è l’eliminazione di quartieri poveri per fare spazio a progetti di sviluppo dal costo di 20 miliardi di dollari, musei, un acquario, uno stadio, 17mila unità residenziali e hotel di lusso.
Secondo giorno di scontri, Shengal manifesta contro l’esercito iracheno
Unità militari attaccano l’autodifesa egida: la protesta dell’Amministrazione autonoma e delle donne. Il governo di Baghdad contro la Turchia: «Basta bombe sul nostro territorio». Pkk: «Uccisi 44 soldati» Blindati dell’esercito iracheno accanto a una protesta ezida contro il muro tra Shengal e Rojava – Chiara Cruciati di Chiara Cruciati – il Manifesto Shengal (Iraq), 20 aprile 2022, Nena News – Ieri a Shengal con la tensione, resa plastica dalle strade chiuse e gli scontri a intermittenza, saliva anche la sabbia. Un vento giallo e appiccicoso ha avvolto lento le proteste nei villaggi ezidi e gli scambi di fuoco tra unità dell’esercito iracheno e quelle delle forze di autodifesa dell’Amministrazione autonoma della regione. Era cominciata nel pomeriggio di lunedì, sullo sfondo dei bombardamenti turchi contro le montagne nord-irachene, quartier generale politico e militare del Pkk, la forza ispiratrice dietro l’autonomia ezida. È proseguita nella notte e di nuovo ieri: postazioni delle Asaysh (le forze interne ezide) e poi quelle delle Ybs (l’autodifesa da attacchi esterni) sono state prese di mira da soldati iracheni, quelli che di solito quei checkpoint li condividono con gli ezidi. Negli scontri di lunedì nel villaggio di Dugure sono state ferite sette persone, cinque Asaysh e due civili. Poi la tensione si è allargata ai villaggi di Sinone e Khanasor, per erompere – ieri mattina – a Shengal City e a Til Ezer, sul lato nord del monte Shengal. I proiettili hanno mandato in frantumi le vetrine dei negozi, ma nessun ferito. La gente non è rimasta a guardare. Se lunedì sera, dopo il tramonto, le strade sono state calpestate dalle donne che si sono sedute a pochi passi dall’esercito iracheno (a gridargli in faccia «Vergogna, andatevene») ieri ha preso parola l’Amministrazione autonoma e la galassia di associazioni che la compongono: i membri dell’Associazione dei martiri, delle municipalità, dei comitati di base hanno presidiato i centri dei villaggi e microfono alla mano chiesto la fine degli attacchi. «In questi giorni il popolo ezida celebra il Carsema Nisane (il mercoledì d’aprile, tradizionale festa di primavera, ndr) – ha recitato l’Assemblea del popolo – La nostra gente che sperava di poter celebrare questa festa sulla propria terra non può tornare a Shengal. Una forza affiliata al governo centrale ha attaccato la sicurezza pubblica ezida». Sta qua, secondo molti, la ragione della provocazione armata dei militari iracheni. Con le uova lessate e colorate, simbolo del mondo e del cosmo nella tradizione ezida, già pronte e i vestiti tradizionali bianchi tirati fuori dall’armadio, ora le celebrazioni sono in dubbio. «Vogliono impaurire chi ancora non è tornato – ci spiegano fonti dell’Amministrazione – Di 500mila ezidi presenti a Shengal prima del massacro dell’Isis, nell’agosto 2014, ne restano 250mila. Gli altri sono nei campi profughi in Kurdistan iracheno o sono stati portati in Europa. Molti vorrebbero tornare qui a celebrare la festa e sono tante le famiglie che pensano di rientrare nelle loro case. Facendo scoppiare la tensione, i governi della regione tentano di impedirlo, facendo passare Shengal per un posto insicuro». I governi su cui l’Autonomia punta il dito sono quello turco, quello centrale di Baghdad e quello del Kurdistan iracheno. Su livelli diversi: «Gli attacchi di questi giorni – continuano – non sono stati ordinati da Baghdad ma da unità militari stanziate a Mosul che nei fatti sono legate al Kdp, il partito del clan Barzani, leader del Kurdistan iracheno». Altra dimostrazione della frammentazione politica dell’Iraq, Stato fallito gestito da forze fedeli ad attori esterni, dall’Iran alla Turchia. Su cui guardano gli occhi di tutti: a voler vedere eclissata l’esperienza dell’autonomia ezida è prima di tutto Ankara, da anni impegnata su diversi fronti contro il progetto politico curdo del confederalismo democratico. Da domenica le bombe turche continuano così a cadere sulla regione di Zap, nel nord iracheno, dove il Pkk ha la sua base. Ma l’operazione, ribattezzata «Blocco dell’artiglio», non va come previsto. Secondo il movimento curdo, sarebbero almeno 44 i soldati turchi uccisi dalle Hpg, il braccio armato del Pkk, tra loro sei alti ufficiali. Intanto ieri, a 48 ore dall’inizio dell’operazione, si è fatta sentire Baghdad. Il governo iracheno, come successo spesso in passato per restare però lettera morta (anche a causa della carenza di sovranità dello Stato di cui dicevamo sopra), ha duramente condannato Ankara per i bombardamenti in corso. Lo ha fatto il presidente della Repubblica Salih, curdo come previsto dalla costituzione (ma del Puk, il rivale del Kdp di Barzani alleato della Turchia): «Le pratiche unilaterali per risolvere questioni di sicurezza sono inaccettabili e la sovranità irachena va rispettata. Ci rifiutiamo di essere terra di conflitti e arena per risolvere le guerre altrui». E lo ha fatto il ministero degli Esteri che ha convocato l’ambasciatore turco a Baghdad: «Il governo rigetta e condanna l’operazione militare turca. È una violazione della sovranità del nostro paese e un atto che viola i trattati internazionali». Protesta, su Twitter, anche Moqtada al-Sadr, che si sogna già premier pur non riuscendo, da ottobre scorso, a mettere insieme una coalizione di governo. Nena News
CRONACHE IN DIASPORA. Noura e l’universalità della battaglia per la Palestina
Settima puntata della rubrica audio a cura di Jamila Ghassan sui giovani e le giovani palestinesi in Italia. Oggi incontriamo Noura, nata e cresciuta a Milano, originaria del villaggio di Safad, in Alta Galilea. Con lei abbiamo parlato della presa di coscenza dei legami politici e culturali con la sua terra d’origine fino all’ingresso nei movimenti pro-palestinesi in Italia Manifestazione per la Palestina a Milano della redazione Roma, xxx, Nena News – In questa nuova puntata della rubrica audio “Cronache in diaspora” a cura di Jamila Ghassan e realizzata in collaborazione con i Giovani Palestinesi d’Italia, abbiamo incontrato Noura, nata e cresciuta a Milano, originaria del villaggio di Safad, in Alta Galilea. Noura racconta la sua scoperta della Palestina, la sua essenza geografica ma anche metaforica, la vita della sua famiglia e l’impegno di suo padre e la prepotente presa di coscenza dei legami politici e culturali con la sua terra d’origine fino all’ingresso nei movimenti pro-palestinesi in Italia. La sua immagine, manifestazione in piazza a Milano. http://nena-news.it/wp-content/uploads/2022/04/noura-cronache.mp4 . .
FOCUS ON AFRICA. Alla conoscenza degli Yorùbá
La nostra rubrica sul continente africano si occupa oggi di questo vasto gruppo etno-linguistico presente nell’Africa occidentale e soprattutto in Nigeria, tra le voci principali nella lotta per la ristrutturazione nigeriana post-coloniale di Federica Iezzi Roma, 16 aprile 2022, Nena News - Gli Yorùbá sono stati parte integrante della politica in Nigeria a partire dal 1914, dalle vicissitudini della politica delle lotte nazionaliste contro l’imposizione coloniale, alla politica di indipendenza e di costruzione della nazione, i valori tradizionali fondamentali e la visione filosofica. La giustizia per la popolazione Yorùbá è al centro della vita sociale, non importa quanto comunalista o individualista. E la famiglia rappresenta l’unità di base della vita sociale. Nella società Yorùbá tradizionale, il marito è il capofamiglia riconosciuto. In quanto tale, ci si aspetta che sia leale nei rapporti con la moglie e i figli, per non danneggiare la coesione familiare. Questo livello di giustizia è direttamente proiettato sulla comunità e sulle relazioni gerarchiche. L’errata percezione della violazione gerarchica è stata al centro di vari disordini civili nello Yorùbáland pre-coloniale. Lottare è contro natura ed essere ostacolati da altri esseri umani è un ulteriore insulto che chiama la resistenza. Gli Yorùbá esprimono apertamente e coraggiosamente la loro opposizione a ciò che percepiscono come un’imposizione ingiusta di un dominio dagli strani costumi e convenzioni che calpestano di fatto la loro tradizionale vita sociale e politica. Prima dell’incursione britannica in Africa, furono combattute numerose guerre civili tra gli Yorùbá a causa della percezione dell’ingiustizia. Ògún, il dio della giustizia Yorùbá, è venerato per il suo approccio intransigente alla sua responsabilità. Una credenza comune è che Ògún punirà chiunque infranga un voto o una promessa. L’idea è che chiunque si appropria indebitamente di qualcosa non la farà franca. Oltre alle situazioni di conflitto, gli Yorùbá fanno appello alla giustizia nella valutazione di specifiche realtà, come l’assegnazione di beni e servizi o la corruzione pubblica. L’approccio tradizionale alla giustizia punitiva è al centro dell’attenzione. I valori morali tradizionali del popolo Yorùbá presuppongono una rete di relazioni tra individui concepite per essere metafisicamente eguali. Nonostante questa uguaglianza metafisica, è giustificato l’ordine gerarchico nella vita sociale, in risposta al bisogno sociale di stabilità e protezione comune.  Una delle basi per l’allontanamento di un capo è il tradimento della fiducia dei soggetti subalterni. La giustizia preserva il bene della vita sociale attraverso un sistema di aspettative reciproche: dalla società c’è l’aspettativa che ogni individuo contribuisca con i suoi sforzi alla stabilità e al progresso del gruppo. Dall’individuo, c’è l’aspettativa che i suoi bisogni vengano soddisfatti. Nei moderni contesti politici delle relazioni interetniche e delle implicite lotte per il potere, gli Yorùbá sono stati apparentemente guidati dai tradizionali appelli alla giustizia nel contesto delle relazioni sociali e politiche. Il dominio straniero si insinuò nello Yorùbáland nel 1861 con l’annessione di Lagos, che, un anno dopo, divenne una colonia formale della Gran Bretagna. Fu solo nel Nigerian Youth Movement (NYM) che il fascino yorùbá per la giustizia incontrò per la prima volta il Consiglio Legislativo nigeriano. Alle porte dell’indipendenza, la Nigeria era una federazione di tre regioni: nord, ovest ed est, ciascuna con una nazionalità etnica maggioritaria e una miriade di nazionalità minoritarie le cui culture e lingue erano a grave rischio di estinzione. Il nord era a maggioranza fulani. L’occidente aveva gli Yorùbá e l’oriente aveva gli Igbo. Era chiaro che, per una questione di equità e giustizia, se il Paese non sostituiva il colonialismo esterno con il colonialismo interno, il posto delle minoranze etniche nella democrazia nigeriana veniva perduto. Da un’onesta osservazione della politica della Nigeria dall’era coloniale è chiaro come l’acuto senso di giustizia che ha spinto gli Yorùbá a lottare contro l’imposizione coloniale, contro un traballante sistema federale, difendendo i diritti delle minoranze in tutto il Paese, ha invocato un vero sistema democratico. Che gli Yorùbá siano stati le voci principali nella lotta per la ristrutturazione nigeriana post-coloniale, è indubbio. È coerente con la loro avversione all’ingiustizia sociale e con la promozione dell’unità, evitando la marginalizzazione culturale ed economica. Nena News
SIRIA. Torna la fame nei quartieri curdi di Aleppo
Dal 13 marzo il governo siriano ha imposto l’embargo ai quartieri a maggioranza curda della “capitale del nord” per sostituirsi all’autogestione sorta dopo il 2012 del modello-Rojava. Senza farina, i forni chiudono. Ma la gente, curdi e arabi, reagisce La marcia di protesta dello scorso sabato nei quartieri di Aleppo, Sheikh Maqsoud e al-Ashrafiyyah, contro l’embargo imposto dal governo siriano (Foto: Medya News) di Chiara Cruciati – Il Manifesto Roma, 14 aprile 2022, Nena News – Va avanti ormai dal 13 marzo scorso: oggi compie un mese l’isolamento imposto dal governo siriano ai quartieri di Aleppo a maggioranza curda, Sheikh Maqsoud e al-Ashrafiyyah. Per prenderli per fame: da trenta giorni la quarta divisione dell’esercito siriano impedisce che alla popolazione, 200mila persone, arrivino rifornimenti di cibo. «I residenti vengono perquisiti ai posti di blocco e quelli sorpresi a portare cibo nel quartiere arrestati – ci spiega Tiziano, volontario italiano nella Siria del nord-est – Diversi camion e auto di generi alimentari di proprietà dei negozianti sono stati già sequestrati e per la scarsità di farina i panifici non sono in grado di funzionare, causando carenza di pane». In pieno Ramadan, il mese sacro dell’Islam, nella seconda città del paese e tra le più antiche al mondo, la “capitale del nord”, tornano i fantasmi del passato recente. Nessun bombardamento, di quelli che negli anni brutali della guerra civile siriana sfigurarono le sue antiche bellezze e affamarono la sua popolazione, gli anni della battaglia, durissima, tra il governo siriano da una parte e le milizie islamiste e qaediste dall’altra. Ma la fame è dietro l’angolo. Sta già arrivando. «Ci sono tre porte per entrare a Sheikh Maqsoud: Ashrafiyeh, Awared e Maghsalat al-Jazira – continua Tiziano – Da due mesi il governo siriano le apre e le chiude al commercio e al passaggio dei residenti a intermittenza. Così i prezzi dei generi alimentari nei mercati stanno arrivando alle stelle, un litro d’olio costa 15mila lire». In un paese in cui il salario medio mensile – nel settore pubblico – non supera le 100mila lire; dove, secondo i dati Onu, l’80% della popolazione vive in povertà; e dove l’inflazione negli ultimi mesi ha toccato picchi del 300%, un mix di svalutazione della moneta, sanzioni internazionali e mancata ricostruzione delle reti economiche del paese. Se a Sheikh Maqsoud e al-Ashrafiyyah le chiusure a singhiozzo sono ormai realtà da tre anni, stavolta la tensione è iniziata a montare a inizio marzo, con maggiori controlli ai checkpoint del governo: uno studente si è visto comminare tre mesi di carcere, lo hanno trovato con 300mila lire addosso, quando Damasco ha imposto arbitrariamente un limite di 150mila per chi entra ed esce dai due quartieri. Uno dei forni chiusi a Sheikh Maqsoud Il 13 marzo, l’embargo. «Il giorno dopo, il 14, i soldati del regime hanno provato a confiscare un camion di zucchero che entrava – aggiunge Tiziano – Il proprietario si è rifiutato e ha forzato il blocco. I soldati hanno aperto il fuoco, le forze di autodifesa del quartiere hanno risposto: un soldato siriano è morto, due feriti». Un mese dopo, con i prezzi dei beni di prima necessità triplicati, si tenta di reagire. Ad Aleppo sabato scorso a migliaia sono scesi in strada per manifestare contro la chiusura: hanno marciato verso i confini dei due quartieri, intonato slogan, «No all’assedio», «No alla politica della fame». Al checkpoint Jizre, in mano il microfono, uno dei membri del comitato di quartiere di Sheikh Maqsoud, Ali al-Hasan, ha gridato per ricordare il ruolo che curdi e arabi hanno avuto contro le milizie jihadiste negli anni della guerra: «Questi due quartieri hanno protetto Aleppo e il suo castello, è stato grazie alla resistenza della nostra gente che Aleppo non è caduta». «Come la gente del quartiere ha resistito nel 2016 all’invasione dei mercenari dello Stato turco – racconta Yasmin Idlibi, giovane araba – così oggi resistiamo all’embargo. Siamo tutti siriani, abbiamo il diritto di chiedere che il governo risponda delle sue colpe». Al polo opposto del territorio settentrionale, a rispondere sono state le Asaysh, le forze di autodifesa interna dell’Amministrazione autonoma della Siria del nord-est: come pressione reciproca, hanno bloccato la strada che conduce all’aeroporto di Qamishlo, sotto gestione russa, e assunto il controllo della panetteria al-Ba’ath della città “capoluogo” del Rojava, quella che rifornisce le forze militari siriane e i commercianti che lavorano nella zona controllata dal governo. «Ad Aleppo il problema principale è che il regime ha sequestrato tutti i carichi di farina che vanno ai forni popolari per la distribuzione del pane – spiega Tiziano – Cinque giorni fa le sette panetterie nel quartiere di Sheikh Maqsoud hanno finito le scorte e hanno chiuso. L’Amministrazione autonoma fa pressione sul regime bloccando il forno al-Ba’ath a Qamishlo e quello nel quartiere Mahatta ad Hasakah che riforniscono le basi delle milizie, dell’esercito e i quartieri controllati da Damasco». Una strategia che ricalca quella del 2021: a un assedio simile su Sheikh Maqsoud le Asaysh avevano reagito circondato le postazioni del governo siriano a Qamishlo e Hasakah. Alla fine Damasco sospese il blocco. A monte sta la realtà sorta negli anni della guerra civile a Sheikh Maqsoud e al-Ashrafiyyah: con il collasso dello Stato e la realizzazione del progetto del confederalismo democratico, teorizzato leader del Pkk Abdullah Ocalan, dal Rojava è nata un’amministrazione autonoma condivisa da etnie e confessioni diverse. E che non è rimasta confinata nei cantoni a maggioranza curda: ad Aleppo i due quartieri sono gestiti con l’identico modello, dai consigli popolari, e difesi dalle unità curde Ypg e dalle Asaysh. Lo sottolinea Ibrahim Etalah, arabo, ai microfoni di Anha: «Arabi, curdi e cristiani vivono in pace in questi quartieri dentro il progetto di fratellanza dei popoli. Il fattore decisivo contro l’embargo è la resistenza comune». Per Damasco l’autogestione e l’autodifesa interne sono un ostacolo alla riassunzione del controllo totale sulla seconda città siriana, mai del tutto riacquisito dal 2012. Una realtà che non è confinata ad Aleppo: numerose le città “divise”tra forze e agende diverse.
EGITTO. I no del Cairo sull’omicidio Regeni e l’ennesima morte in cella
Per il regime di al-Sisi il caso è chiuso, nessun aiuto sull’elezione di domicilio dei quattro agenti sospettati dell’omicidio. E nega un incontro alla ministra Cartabia. La famiglia: «Una presa in giro». Intanto un altro prigioniero egiziano, sparito da due mesi, muore in custodia Ayman Muhammad Ali Hadhoud (Fonte: Twitter) di Chiara Cruciati – Il Manifesto Roma, 12 aprile 2022, Nena News – Sono passati tre mesi esatti dal giorno in cui il gup Roberto Ranazzi offriva 90 giorni al governo italiano per ottenere dall’Egitto risposte e ai carabinieri del Ros per indagare via banche dati, fonti confidenziali e social. Obiettivo comune: individuare il domicilio dei quattro membri dei servizi segreti egiziani sospettati del rapimento, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, scomparso al Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato il 3 febbraio successivo, senza vita. Tre mesi non sono bastati. Così ieri la nuova udienza di fronte al giudice per le udienze preliminari si è chiusa con un nuovo rinvio. Tutto rimandato al 10 ottobre prossimo, sei mesi di tempo per comunicare al generale Sabir Tariq, ai colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel e al maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif che in Italia si intende incriminarli per sequestro di persona pluriaggravato, lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato. Un rinvio a giudizio c’era stato già, lo scorso anno, ma il 14 ottobre 2021 la Terza Corte d’Assise lo aveva annullato: impossibile verificare che gli indagati siano effettivamente a conoscenza del procedimento. Il regime egiziano non ha mai risposto alla rogatoria della Procura di Roma, vecchia di tre anni (esatti). Né sembra intenzionato a farlo, lo ha detto ieri senza troppi giri di parole il ministero della Giustizia italiano. Proprio l’ammissione della totale chiusura da parte del Cairo alle pressioni di Roma – in una nota trasmessa a Piazzale Clodio si riporta del «rifiuto di collaborare nell’attività di notifica degli atti» e la staffilata del «per noi il caso è chiuso» – ha convinto il gup Ranazzi per la sospensione del processo ai quattro agenti e per nuove indagini, affidate ancora al Ros. Un no su tutta la linea a cui si aggiunge lo sfacciato silenzio alla richiesta, mossa il 20 gennaio scorso, di un incontro tra la ministra Marta Cartabia e l’omologo egiziano Omar Marwan «al fine di interloquire sui passi necessari a rimuovere gli ostacoli per la celebrazione del procedimento penale». Stavolta la reazione della famiglia del ricercatore italiano non ha ricalcato le speranze dello scorso 10 gennaio. Quel giorno la legale di Paola Deffendi e Claudio Regeni, Alessandra Ballerini, aveva espresso soddisfazione: «La nostra battaglia può proseguire». Ieri con la fine dell’udienza ha prevalso la rabbia per una strada sempre in salita: «Siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di al-Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto – ha detto Ballerini – Chiediamo che il presidente Draghi pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei quattro imputati. Oggi è stata un’ennesima presa in giro». Poco prima, Piazzale Clodio era stato teatro di un sit-in, al centro lo striscione giallo «Verità per Giulio Regeni» retto dai genitori. Insieme a loro Beppe Giulietti, presidente dell’Fnsi e da sempre protagonista di quella scorta mediatica che ha tenuto accese le luci sulla vicenda e sull’impegno civile della famiglia: «Chiederemo che ci sia un’interruzione dei rapporti con l’Egitto qualora dovesse proseguire una politica di omissione e cancellazione delle prove». Un commento che centra il punto: quali pressioni stia facendo il governo italiano non è chiaro. I rapporti diplomatici, commerciali ed economici non sono mai stati scalfiti, garantendo al regime dell’ex generale al-Sisi l’alone di impunità necessario a proseguire come nulla fosse. Nel silenzio su Regeni e nella repressione interna: mentre ieri il gup leggeva la sua decisione, al Cairo la famiglia di Ayman Muhammad Ali Hadhoud, economista egiziano, membro del partito liberale Riforma e Sviluppo, dava conto pubblicamente della sua morte in custodia. Era scomparso il 5 febbraio scorso. Sabato scorso alla famiglia è stato comunicato il decesso, senza dettagli. Dei funzionari, lo scorso febbraio, avevano parlato di un ricovero per schizofrenia nell’ospedale psichiatrico Abbaseya, seppur Ayman non ne abbia mai sofferto. Alla richiesta di fargli visita, il procuratore ha risposto che l’arresto non risultava. Altri agenti avevano parlato di detenzione per il tentato furto di un’auto. Fino alla notizia della morte e alla scoperta che la procura aveva ordinato la sua sepoltura come «corpo non identificato». Una (forse) buona notizia invece arriva per l’attivista egiziano più noto, Alaa Abdel Fattah, condannato a dicembre agli ennesimi cinque anni di prigione. Ha ottenuto la cittadinanza britannica tramite la madre, la matematica Laila Soueif, nata a Londra. Ora la famiglia spera che quel passaporto si faccia chiave e apra la serratura della cella.
FOCUS ON AFRICA. Il Kenya a un anno dal voto per una politica sempre più etnicizzata
Nel paese si va a elezioni l’anno prossimo, dopo decenni di tornate elettorali sanguinose. L’avvento della democrazia multipartitica  nel 1992 ha portato all’etnicizzazione della politica, con i partiti che si uniscono attorno ai mediatori del potere tribale Poster elettorali e graffiti che invocano la pace a Nairobi (Fonte: Human Rights Watch) di Federica Iezzi Roma, 9 aprile 2022, Nena News – Negli ultimi anni, la democrazia in Africa ha tremato. Il ritorno dei colpi di stato militari in Guinea, Ciad e Mali, l’inefficace rivoluzione democratica in Sudan, i conflitti civili e la violenza politica in Etiopia e Somalia. In Uganda e Tanzania, elezioni libere ed eque si sono rivelate un obiettivo sfuggente. È in questo ambiente febbrile che il Kenya si prepara ad affrontare i propri demoni elettorali. A partire dai sondaggi. A volte sono stati davvero strumenti per l’espressione della volontà popolare, come nel 2002, quando l’ex dittatore Daniel Arap Moi, successore di Jomo Kenyatta, perse contro il democratico Mwai Kibaki, leader della National Rainbow Coalition. Solo cinque anni dopo, il Paese si è quasi fatto a pezzi a causa dei risultati elettorali contestati. Da allora, le elezioni sono diventate occasioni che ispirano grandi speranze di cambiamento e contemporaneamente una terribile paura dei risultati. Gli ultimi due cicli elettorali presidenziali hanno visto questa dinamica all’opera. Sono ancora vividi i ricordi delle violenze etniche post-elettorali del 2007-2008 tra i due principali schieramenti politici, i Kikuyu del Partito di Unità Nazionale, guidati dal Presidente Mwai Kibaki, e i Luo del National Super Alliance (NASA), coalizione dei principali partiti all’opposizione, con a capo Raila Odinga. Tensione alta anche nel 2013 durante le elezioni di presidente, membri del Parlamento, governatori regionali e dirigenti di 47 assemblee distrettuali. Nonostante le abbondanti prove, le elezioni non si svolsero nel rigoroso rispetto della legge e la neonata Corte Suprema, guidata dall’avvocato Willy Mutunga, fece di tutto per dichiarare valido il risultato. Così, Uhuru Kenyatta divenne presidente. Nel 2017, l’offerta di Kenyatta per la rielezione è naufragata quando la Corte Suprema, guidata da David Maraga, giudice ultra-conservatore, ha annullato le elezioni per mancato rispetto della legge. I tribunali kenyani negli ultimi anni hanno dimostrato coraggio nella difesa della Costituzione, frenando i tentativi di Kenyatta e di Odinga di cambiarla. I sondaggi presidenziali meno violenti sono stati nel 2002 e nel 2013, quando i limiti di mandato hanno impedito rispettivamente a Daniel Arap Moi e al suo successore Mwai Kibaki di candidarsi ancora. Kenyatta affronterà la stessa barriera l’anno prossimo e la sua volontà di minacciare e cooptare istituzioni indipendenti rimane immutata. Ma Martha Koome, rinomata avvocata, difensora dei diritti umani e prima donna a capo della giustizia del Paese, ha mostrato poca voglia di combattere con l’esecutivo. Il sostegno alla democrazia in tutto il continente rimane ostinatamente alto, secondo i sondaggi di opinione. L’avvento della democrazia multipartitica in Kenya nel 1992 ha portato all’etnicizzazione della politica, con i partiti che si uniscono attorno ai mediatori del potere tribale, e a un panorama politico in continua evoluzione, mentre le alleanze interetniche si formano e si disgregano. In assenza di partiti basati su un’ideologia politica coerente, la strumentalizzazione delle identità tribali e la manipolazione delle lamentele etniche rimangono la base primaria della mobilitazione politica, con la seria minaccia della violenza. Nena News