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IRAQ: LE ELEZIONI POLITICHE TRA CORRUZIONE, INFLUENZE ESTERNE E RASSEGNAZIONE. “L’UNICA SPERANZA È UNA NUOVA MOBILITAZIONE DI PIAZZA DEI GIOVANI”
L’11 novembre 2025 si sono svolte le elezioni politiche in Iraq. Si tratta della settimana tornata elettorale dalla caduta del regime di Saddam Hussein in seguito all’invasione del Paese da parte degli Usa. Da allora è stato costruito un sistema elettorale fragile, spesso alle prese con casi di corruzione e fortemente influenzato dalle divisioni culturali, nazionali e religiose. Gli elettori erano chiamati a scegliere tra oltre 7.700 candidati per occupare i 329 seggi del Consiglio dei rappresentanti, cioè il parlamento iracheno. Le elezioni cadevano in un momento storico di grande tensione e cambiamento di una serie di equilibri nella regione mediorientale. Lo stesso Iraq – che non è stato coinvolto nell’ondata di guerre e bombardamenti che l’esercito israeliano ha portato in tutta l’area dopo il 7 ottobre 2023 – è in realtà da anni diviso tra la dipendenza politica, economica e militare dagli Stati Uniti d’America e l’influenza iraniana, esercitata da Teheran tramite la presenza di proprie milizie in Iraq, accordi economici e il supporto a partiti sciiti iracheni. La stessa coalizione del premier uscente Mohammed Shia al Sudani non è gradita agli Usa perché considerata troppo vicina alle milizie sciite filo-iraniane. Al Sudani, però, punta alla rielezione e la sua coalizione “Ricostruzione e sviluppo” ha vinto le elezioni a livello nazionale. Gli altri grandi partiti confermati da questa tornata elettorale sono il blocco sciita “Tasmeem” di Asaad al-Eidani, che prevale nell’area di Bassora, e i partiti che si spartiscono da vent’anni la regione del Kurdistan iracheno: da una parte il Partito Democratico del Kurdistan, legato alla famiglia Barzani, che si conferma a Erbil, Duhok e Ninive, dall’altro il Partito dell’Unione Patriottica del Kurdistan, legato alla famiglia Talabani, che si conferma a Sulaymaniyah e Kirkuk. La formazione di un nuovo governo dovrà passare per una lunga trattativa. Dopo le elezioni del 2021 i negoziati tra le forze politiche per il nuovo esecutivo durarono più di un anno. Al Sudani ha dichiarato di voler tenere in considerazione la volontà di tutte le forze politiche che di fatto si spartiscono il paese e le sue risorse, in particolare quelle petrolifere, con il pretesto delle divisioni settarie. Il premier uscente ha dichiarato di voler considerare anche il partito dell’influente leader sciita Moqtada Sadr, che ha invitato a boicottare questa tornata elettorale. Al Sudani, inoltre, è intenzionato a mantenere il difficile equilibrio tra i due alleati Usa e Iran. L’affluenza ufficiale è stata piuttosto alta: il 56% degli elettori contro il 41% delle elezioni del 2021, che avevano segnato il record negativo. “Il sistema elettorale adottato per queste elezioni è fatto per favorire i potenti, i grandi partiti, e penalizzare quelli più piccoli. Per questo in molti, dal partito sciita di Sadr fino alle persone di sinistra, hanno boicottato queste elezioni”, commenta su Radio Onda d’Urto l’attivista iracheno per i diritti umani Ismaeel Dawood. “L’affluenza al 56% è irrealistica, per gonfiare questo dato sono stati presi in considerazione coloro che hanno rinnovato la tessere elettorale, non tutti i 25 milioni di aventi diritto al voto”, ha aggiunto Dawood ai nostri microfoni. Per quanto riguarda la situazione economica e sociale, “grazie ai soldi del petrolio e alla corruzione è in corso una campagna enorme di ricostruzione del paese“, spiega Ismaeel Dawood. “Allo stesso tempo, stiamo assistendo a un processo di privatizzazione che avanza in tutti i settori e alla creazione di un sistema nel quale le persone comuni non hanno davvero un ruolo, soprattutto i giovani. Inoltre, manca uno stato di diritto che sia in grado di proteggere le persone”, aggiunge l’attivista per i diritti umani ai nostri microfoni. “Il futuro del Paese – conclude Ismaeel Dawood – appare più caotico che mai. Ancora una volta, l’unica speranza del popolo iracheno è la piazza. Come per la rivolta del 2019, l’unica soluzione possibile, soprattutto per i giovani, sembra essere la mobilitazione sociale“. L’intervista di Radio Onda d’Urto all’attivista iracheno Ismaeel Dawood. Ascolta o scarica.
Elezioni in Iraq, il sistema si stabilizza
Sono stati resi noti i risultati delle elezioni politiche svoltesi in Iraq l’11 novembre, le seste da dopo la caduta del regime baathista per mano dell’imperialismo statunitense che, si ricorda, da allora, mantiene una significativa militare presenza nel paese. Rispetto al contesto e alle occasioni precedenti, gli elementi di tensione […] L'articolo Elezioni in Iraq, il sistema si stabilizza su Contropiano.
Ecocidio in Palestina: perché custodire i semi è un atto politico
In un anno di assedio, l’esercito israeliano ha distrutto tre quarti delle terre coltivabili di Gaza, pompato acqua salata nel suolo (danneggiando le falde acquifere e rendendo sterili i campi), sradicato migliaia di ulivi. La cancellazione dell’identità di un popolo inizia anche da qui: dall’attacco alla sua agricoltura. Sottrarre la terra, distruggere le sementi, colonizzare i campi. Difenderli, al contrario, significa proteggere il diritto a esistere. Tra la marea di immagini strazianti che arrivano da Gaza e dai territori occupati palestinesi, alcune sono passate quasi inosservate. Un video mostra alcuni cecchini dell’esercito israeliano colpire, una dopo l’altra, tre pecore che attraversano una strada a Khan Younis. Un’altra fotografia ritrae il bombardamento di una banca dei semi. E poi le immagini di oltre diecimila ulivi sradicati dai bulldozer israeliani nel villaggio di al-Mughayyir, in Cisgiordania, durante un assedio di tre giorni. Perché colpire delle pecore? Perché distruggere semi, olivi, campi coltivati? Questa sequenza di immagini racconta più di molte parole. È la rappresentazione visiva dell’ecologia della guerra.  Ogni forma di vita — umana o non umana — che appartiene all’indigeno diventa un potenziale nemico. Una risorsa da sottrarre, uno spazio da depredare, una memoria da cancellare. Il non umano, l’ambiente, la terra, diventano strumenti del progetto coloniale in Palestina. La colonizzazione, la guerra e la resistenza in Palestina sono anche — e soprattutto — un conflitto ecologico. Un conflitto che si materializza attraverso l’espropriazione della terra, dell’acqua, delle risorse naturali. Il 31 luglio 2025, l’esercito israeliano ha attaccato l’Unità di Moltiplicazione dei Semi dell’Unione dei Comitati di Lavoro Agricolo, a Hebron. Con bulldozer e macchinari pesanti, ha distrutto magazzini e infrastrutture dove erano custoditi semi autoctoni, strumenti, materiali agricoli. Un attacco apparentemente minore, ma di enorme portata simbolica: colpire la possibilità di riprodurre la vita, di rigenerare. E non è un caso isolato. In un anno di assedio, l’esercito israeliano ha distrutto tre quarti delle terre coltivabili di Gaza. Ha pompato acqua salata nel suolo, danneggiando le falde acquifere e rendendo sterili i campi. E ha sradicato migliaia di ulivi, alberi antichi che per i palestinesi non sono solo fonte di reddito, ma simbolo di identità, radici e resistenza. La distruzione degli ulivi è la distruzione della memoria collettiva, della continuità generazionale. La cancellazione dell’identità di un popolo inizia anche da qui: dall’attacco alla sua agricoltura. Sottrarre la terra, distruggere le sementi, colonizzare i campi. Difenderli, al contrario, significa proteggere il diritto a esistere. Non è la prima volta che succede. Nel 2003, dopo l’invasione americana dell’Iraq, la banca nazionale dei semi di Abu Ghraib — una collezione genetica unica al mondo — fu saccheggiata e devastata. Più di 1400 varietà di semi adattate nei millenni al caldo, alla siccità, andarono perdute. Solo pochi scienziati iracheni riuscirono a salvarne alcune, spedendole anni prima al centro ICARDA di Aleppo. Ma la distruzione materiale non bastò. L’Autorità Provvisoria della Coalizione, guidata da Paul Bremer, emanò l’Ordine 81: una legge che proibiva agli agricoltori di riprodurre i propri semi, aprendo il mercato alle grandi multinazionali. A ricostruire l’agricoltura irachena fu chiamato Dan Amstutz, ex dirigente Cargill — la più grande esportatrice di cereali del mondo — nominato dal governo Bush. Oggi, nel mondo, quattro multinazionali — Bayer-Monsanto, Corteva, ChemChina-Syngenta e BASF — dominano il 60% del mercato delle sementi e il 75% dei pesticidi. E altre quattro, note come il gruppo ABCD — Archer Daniels Midland, Bunge, Cargill e Louis Dreyfus — controllano fino al 90% del commercio mondiale di cereali. Dietro la distruzione dei semi, degli ulivi e delle pecore palestinesi c’è dunque una logica più ampia: quella del dominio economico, dell’estrazione, dell’accumulazione. La stessa logica che lega Gaza all’Iraq e l’agricoltura al potere delle multinazionali. “Fare il nostro cibo è una forma di liberazione”. Me lo ha detto Lina, del Forum Agroecologico di Ramallah. Una frase semplice, ma che contiene tutto: la resistenza, la cura, la possibilità di immaginare un futuro di giustizia e di libertà. Perché custodire un seme — oggi in Palestina come altrove — non è solo un atto agricolo. È un atto politico. Un atto di libertà. Sara Manisera è giornalista freelance. Ha realizzato reportage per testate nazionali e internazionali sulle donne, i conflitti e la società civile in Medio Oriente. Segui Sara Manisera sul suo blog. Attraverso la Campagna AcquaPerGaza puoi sostenere non solo la risposta locale e palestinese all’emergenza in atto, ma anche il lavoro straordinario di UAWC con cui continua a preservare i semi indigeni palestinesi. Forum Salviamo il Paesaggio
Iraq: al via il voto speciale per la sesta legislatura del Parlamento
Oltre 1,3 milioni di elettori, tra forze di sicurezza e sfollati, partecipano al processo elettorale in tutte le province, inclusa la Regione del Kurdistan. Oggi alle 7:00 di questa mattina, con la partecipazione dei membri delle forze di sicurezza e sfollati in centri d’accoglienza, è iniziato in tutte le province dell’Iraq — compresa la Regione del Kurdistan — il voto speciale per la sesta legislatura del Parlamento iracheno. Le votazioni proseguiranno fino alle 18:00 di questa sera. Secondo la Costituzione e la legge irachena, il periodo previsto per la nomina del futuro Primo Ministro va da un minimo di 70 a un massimo di 120 giorni dopo lo svolgimento delle elezioni, a condizione che le procedure si svolgano regolarmente. È importante ricordare che oltre un anno fa nel 20 ottobre 2024 si sono tenute le elezioni per il Parlamento regionale della Regione autonoma del Kurdistan, ma i nuovi parlamentari eletti non si sono ancora insediati. A oggi, infatti, continuano a operare lo stesso governo e il parlamento della precedente legislatura. Siamo orgogliosi della giovane democrazia conquistata nella prima regione del Kurdistan che ha ottenuto l’autonomia e si è liberata dall’occupazione. Tuttavia, sembra che siamo ancora lontani da una democrazia piena e autentica, basata su istituzioni realmente funzionanti e sulla volontà popolare. Gulala Salih donna kurda, presidente di udik Unione donne Itaiane e kurde Unione Donne Italiane e Kurde (UDIK)
Quel vecchio mostro di Dick Cheney
Dick Cheney è morto troppo vecchio e troppo libero. Il fatto che tali mostri possano morire a ottant’anni circondati da persone care anziché da soli in gabbia è un atto d’accusa di tutta la nostra civiltà. In una società sana di mente, Richard Bruce Cheney avrebbe vissuto la sua vita […] L'articolo Quel vecchio mostro di Dick Cheney su Contropiano.
Protezione sussidiaria ad un cittadino curdo iracheno che in sede di Commissione aveva ottenuto solo la protezione speciale
Il Tribunale di Roma ha accolto il ricorso, ritenendo fondata la domanda nella parte in cui si evidenzia che la zona di provenienza del ricorrente (Erbil) è tuttora interessata da molteplici conflitti armati che coinvolgono l’esercito turco, il PKK, cellule dell’ISIS e altri gruppi paramilitari. Tale situazione rende l’Iraq uno Stato instabile sotto il profilo della sicurezza, motivo per cui anche eventuali periodi di apparente miglioramento non possono, allo stato attuale, considerarsi duraturi o tali da escludere un rischio concreto. Alla luce di queste considerazioni, è stata riconosciuta la protezione sussidiaria ai sensi dell’articolo 14, lettera c), del D.Lgs. 251/2007. Tribunale di Roma, decreto del 30 giugno 2025 Si ringrazia l’Avv. Marco Galdieri per la segnalazione e il commento. Il ricorso è stato redatto con la collaborazione dell’Avv. Maddalena Moratti.
Lo storico israeliano Avi Shlaim contro il sionismo. Ora è al fianco di Hamas
Sei mesi dopo l’attacco del 7 ottobre, è apparso online un video che ha fatto infuriare molti spettatori. L’uomo raffigurato era lo storico ebreo-israeliano Prof. Avi Shlaim dell’Università di Oxford. A prima vista, sembra un gentile nonno britannico, con una folta chioma di capelli bianchi e un modo di parlare […] L'articolo Lo storico israeliano Avi Shlaim contro il sionismo. Ora è al fianco di Hamas su Contropiano.
Come gli USA hanno inventato un traffico di droga per potenziale attacco contro il Venezuela
Improvvisamente, dal nulla, le agenzie governative statunitensi hanno cominciato a ripetere il nome “Tren de Aragua” come se fosse la nuova al-Qaeda. A gennaio 2025, la Casa Bianca ha designato il Tren de Aragua come “organizzazione terroristica straniera”, e a marzo l’amministrazione del presidente statunitense Donald Trump ha invocato l’Alien […] L'articolo Come gli USA hanno inventato un traffico di droga per potenziale attacco contro il Venezuela su Contropiano.
Concentrandosi sull’essenza del conflitto a Sulaymaniyah
Alla base dei conflitti interpartitici nel Kurdistan meridionale c’è la lotta per il potere politico e l’autorità. Non esiste un parlamento funzionante. I partiti politici non hanno mai avuto l’intenzione di instaurare un sistema democratico. Nelle prime ore di venerdì mattina sono scoppiati scontri tra le forze di sicurezza interna e le forze di Lahur Sheikh Jangi nel centro di Sulaymaniyah. A seguito del conflitto, durato quattro ore, Lahur e i suoi fratelli Aso e Polad sono stati arrestati. Tuttavia, le contraddizioni tra le due parti continueranno a essere all’ordine del giorno curdo per molto tempo a venire. Per un certo periodo, Bafel Talabani e Lahur sono stati co-presidenti dell’Unione patriottica del Kurdistan (PUK). Le tensioni tra i due si sono intensificate nel periodo successivo. In effetti, è stata questa contraddizione e la questione della condivisione del potere a spingerli a ricoprire la carica di co-presidenti del partito. Con l’aggravarsi delle tensioni, Lahur ha lasciato il PUK e ha costituito un nuovo partito politico chiamato Bereyi Gel (Fronte Popolare). Sebbene non abbia ottenuto un successo significativo alle elezioni locali del 2024, è riuscito ad assicurarsi due seggi in parlamento. Tuttavia, la tensione tra Lahur e i Talabani non si è placata. Entrambe le parti hanno proseguito ad accusarsi a vicenda. È degno di nota anche il fatto che Lahur aveva fondato il suo partito a Hewlêr (Erbil) dopo aver lasciato il PUK. Le forze di sicurezza di Sulaymaniyah hanno chiesto la resa di Lahur in linea con una sentenza del tribunale emessa un giorno prima dell’inizio dell’operazione, sostenendo che Lahur stesse presumibilmente preparando un colpo di stato. Lahur, tuttavia, ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna sentenza del tribunale. Naturalmente, non possiamo conoscere i dettagli della vicenda. Tuttavia, da qualche tempo si vocifera che Lahur stia cercando di formare una forza peshmerga affiliata al suo partito e che il PUK sia molto a disagio al riguardo. Entrambe le parti si sono impegnate di tanto in tanto in campagne diffamatorie reciproche sulla stampa. Tuttavia, nessuno si aspettava fino a poco tempo fa che la situazione arrivasse a questo punto. Un’altra ipotesi circolata negli ultimi giorni è che Lahur Sheikh Jangi stesse pianificando un colpo di stato. Alcuni noti personaggi politici del Bashur (Kurdistan meridionale) sono stati persino menzionati in relazione a Lahur. Quando l’altra parte ha fatto la sua mossa, Lahur e i suoi fratelli sono venuti alla ribalta, mentre per ora gli altri nomi non vengono pronunciati. Da oggi non si parla più di informazioni dietro le quinte, tensioni, ecc., ma piuttosto del conflitto tra le parti. Sulaymaniyah si è trasformata in una zona di guerra da giovedì sera a venerdì mattina. Le misure di sicurezza, intensificate in serata ai punti di ingresso e di uscita della città, sono state estese al centro città. Alle 3:30 del mattino, la tesa attesa ha lasciato il posto agli scontri. Con l’intensificarsi degli scontri nella zona in cui si trovava Lahur, le forze a lui fedeli hanno lanciato un attacco con droni nella zona di Dabashan, dove si trova l’abitazione della famiglia Talabani. Durante l’attacco, durato quattro ore, quattro membri delle forze di sicurezza sono stati uccisi, come riportato da dichiarazioni ufficiali. Non sono state fornite informazioni sul numero delle vittime tra le forze di Lahur. Quindi, qual è il problema? Alla radice dei conflitti interpartitici nel Kurdistan meridionale c’è la lotta per il potere politico e l’autorità. Il capitale gioca un ruolo fondamentale nel consolidamento del potere politico. Con l’aggiunta delle forze armate, diventa inevitabile una situazione di potere che si estende a tutti gli ambiti della vita. In effetti, il motivo di fondo delle tensioni tra i partiti politici non è mai stato l’istituzione di un sistema più democratico. Nonostante abbia uno status federale e un parlamento, il potere è diviso tra i partiti, il che significa che non è il parlamento a esercitare il potere nella governance regionale, ma sono i partiti politici a detenere il potere. La causa principale del problema è l’assenza di una costituzione, di una mentalità politica comune, di un parlamento funzionante e di una politica e di una mentalità incentrate sugli interessi comuni del Paese e del suo popolo. Questa situazione ha portato alla divisione della regione federale in diversi centri amministrativi, al punto che qualche anno fa il PUK ha presentato una richiesta a Baghdad chiedendo l’autonomia per Sulaymaniyah. A causa di questa frammentazione, il KDP-PUK governa di fatto le aree sotto il loro controllo come due governi separati. Hanno le proprie forze peshmerga, servizi segreti, forze speciali e forze di sicurezza. Di conseguenza emerge una struttura orientata verso obiettivi comuni, governata da leggi e regolamenti propri e priva di qualsiasi centro di responsabilità o controllo; caratterizzata dal predominio partigiano e dall’interesse personale. I crescenti problemi portano inevitabilmente al predominio dei partiti, agli interessi economici e al potere militare che questi richiedono nelle regioni in cui non esistono tribunali equi o la giustizia, le tensioni basate sul desiderio di mantenere il potere si trasformano in conflitti armati. La realtà che il potere non può essere conquistato democraticamente rende inevitabile il contrario. Questa situazione apre la strada a ogni tipo di fazionismo, polarizzazione, ricerca di rendita e corruzione. In un luogo in cui il potere politico è diviso tra amici, è certo che il sistema non sarà democratico e non darà priorità agli interessi del popolo e della società. È necessario considerare i problemi dal punto di vista delle forze coinvolte. Gli eventi di Sulaymaniyah sono stati tristi per tutti i curdi. Tuttavia, ci sono senza dubbio coloro che ne hanno gioito. Chi sono queste forze? Questa è una delle domande principali. Sembra quindi estremamente improbabile che le contraddizioni politiche che portano al conflitto non abbiano connessioni esterne. In effetti, l’influenza di queste forze deve essere sicuramente presa in considerazione dietro il parlamento disfunzionale, la costituzione non scritta e il crescente schieramento partigiano di cui sopra. Finché la politica del Bashur non riuscirà a superare questa frammentazione interna, sarà sempre soggetta a tali conflitti provocati. Di conseguenza, anziché impantanarsi nei dettagli degli scontri di ieri sera nel Kurdistan Bashur e perdere di vista l’essenza del problema concentrandosi su chi ha fatto cosa e chi ha detto cosa, è meglio concentrarsi sulla mentalità alla base del problema, sul sistema distorto e sulla struttura amministrativa, e cercare di identificare la causa principale del problema. Finché ciò non verrà fatto, e finché ogni partito nella regione avrà una propria forza militare e autorità amministrativa, non ci sarà spazio per lo sviluppo di alcun potere alternativo o democratico. Inoltre, in un sistema in cui persino le organizzazioni della società civile prendono forma come formazioni affiliate ai partiti politici, è impossibile che si sviluppi un movimento a nome del popolo. Finché prevarrà la mentalità di accaparrarsi una fetta della torta, la cui distribuzione non è nemmeno garantita, è inevitabile che le tensioni interne si trasformino in conflitti più ampi. Il contrario sarebbe contrario alla natura delle cose. Forse chi è al potere potrebbe cambiare ruolo; coloro che oggi si definiscono opposizione (che non è certamente un’opposizione che agisce per conto del popolo) potrebbero arrivare al potere domani. Tuttavia, i problemi strutturali continueranno a persistere, diventando sempre più complessi e insolubili. Fonte: Yeni Özgür Politika   L'articolo Concentrandosi sull’essenza del conflitto a Sulaymaniyah proviene da Retekurdistan.it.
L’occidente vuole disarmare la Resistenza, i regimi arabi si accordano
Il nuovo mantra della diplomazia occidentale per alleggerire le pressioni internazionali sul regime sionista è “la resistenza deve disarmare”. Questo è, infatti, il filo rosso che unisce le ultime mosse su tre terreni, quello palestinese, quello libanese e quello iracheno. In tutti e tre i casi si cerca di ottenere […] L'articolo L’occidente vuole disarmare la Resistenza, i regimi arabi si accordano su Contropiano.