Tag - elezioni

New York, la battaglia di Zohran Mamdani
Nell’odierno panorama politico polarizzato, leader in ascesa come Zohran Mamdani si trovano ad affrontare il fuoco di entrambi gli estremi: l’estrema destra e i centristi sostenuti dalle aziende. Accuse di antisemitismo, comunismo ed estremismo gli vengono rivolte in una campagna diffamatoria coordinata. Naturalmente, queste accuse sono infondate, ma come la storia ci ricorda – da Joseph Goebbels ai moderni troll della disinformazione – le voci spesso si diffondono più velocemente dei fatti, soprattutto nell’era dei social media virali. Ciò che rende la recente vittoria di Mamdani davvero storica è che ha sconfitto alle primarie l’establishment del Partito Democratico e il suo candidato di alto profilo, Andrew Cuomo. Sostenuto dai Clinton, dal ricchissimo ex sindaco Michael Bloomberg e da grandi interessi economici, Cuomo rappresentava la vecchia guardia della politica newyorkese. Eppure gli elettori democratici, soprattutto milioni di giovani, hanno scelto Mamdani con un netto margine, quasi dieci punti percentuali. Si è trattato di un coraggioso rifiuto della politica “business-as-usual”. E l’establishment politico dello status quo non è contento. I suoi media non sono contenti. Pertanto, la lotta non è finita. Con Cuomo che si rifiuta di cedere e l’attuale sindaco Eric Adams che si presenterà al voto di novembre, la posta in gioco è più alta che mai. Sia Cuomo che Adams hanno ora un chiaro bersaglio: il crescente movimento socialista democratico rappresentato da Mamdani e da altri in tutti gli Stati Uniti. Per Trump e i suoi, qualsiasi politica che parli di civiltà e uguaglianza viene automaticamente bollata come radicale, di estrema sinistra, comunista… persino terrorista. Purtroppo, molti americani della classe operaia – compresi quelli a cui ho insegnato per molti anni – credono alle loro bugie. Le tensioni sono aumentate ulteriormente in seguito alla recente sparatoria di massa a Manhattan, dove un uomo armato ha ucciso quattro persone, tra cui l’agente di polizia Didarul Islam. All’indomani della tragedia, la richiesta di Mamdani di “tagliare i fondi alla polizia”, avanzata da tempo, è stata distorta e strumentalizzata. I media di destra, il candidato repubblicano e conduttore radiofonico Curtis Sliwa e la macchina Cuomo-Adams non hanno perso tempo per sfruttare la tragedia, accusando Mamdani di essere contro la polizia e ignorando convenientemente la crisi delle armi in America e l’influenza tossica della NRA. Siamo chiari: Mamdani non si è mai espresso contro le forze dell’ordine in quanto tali. Ciò che ha criticato, giustamente, è la militarizzazione della polizia di New York e gli abusi sistematici che hanno portato all’omicidio di George Floyd e di innumerevoli altre persone. Chiede riforme, responsabilità e ridistribuzione dei fondi pubblici a sostegno dell’istruzione, dell’edilizia popolare e della sanità, non brutalità. La stessa distorsione è evidente nella sua posizione sulla Palestina. Mamdani non ha mai parlato contro il popolo ebraico. Anzi, un gran numero di ebrei liberali, tra cui alcuni che conosco personalmente, lo sostengono. Si è espresso contro i crimini di guerra e le politiche di apartheid del regime di Benjamin Netanyahu. Per questo è stato etichettato come antisemita dai difensori dell’estrema destra israeliana, che ignorano la sua chiarezza morale e la sua posizione di principio a favore dei diritti umani. La reazione non è venuta solo dai gruppi filoisraeliani. Anche le forze di destra indù, in particolare i sostenitori del regime indiano di Modi e dell’RSS, sono entrate nella mischia. Il New York Times ha recentemente riportato come questi gruppi stiano conducendo una campagna attiva contro Mamdani. Lo vedono come un critico aperto dell’ultranazionalismo indù e un difensore della democrazia laica, sia in India che negli Stati Uniti e questo lo rende un loro nemico naturale. Con l’avvicinarsi delle elezioni di novembre, Zohran Mamdani dovrà affrontare una dura battaglia. Le diffamazioni si intensificheranno. Gli attacchi diventeranno più personali. Ma ciò che egli rappresenta – un movimento popolare per la giustizia, l’uguaglianza e la pace – è più potente di qualsiasi macchina politica. Seguiremo da vicino la situazione. E gli resteremo accanto. Traduzione dall’inglese di Anna Polo Questo articolo fa parte di una serie dedicata alle importantissime elezioni di novembre per scegliere il prossimo sindaco di New York. Il dottor Banerjee è uno scrittore, educatore e attivista per i diritti umani che vive a New York. Ex membro dell’RSS, organizzazione di estrema destra indù, ha in seguito denunciato il loro programma fascista globale attraverso i suoi libri e articoli. Email: thescriptline@yahoo.com       Partha Banerjee
“Difendete l’acqua pubblica”. Appello ai candidati alle elezioni regionali in Campania
Stiamo vivendo l’estate più calda del secolo con forti riduzioni delle portate d’acqua e frequenti interruzioni del servizio idrico in numerosi territori campani. Davanti a questi scenari la regione Campania, guidata da Vincenzo De Luca, non è riuscita a fare di meglio che deliberare la costituzione di un società partecipata […] L'articolo “Difendete l’acqua pubblica”. Appello ai candidati alle elezioni regionali in Campania su Contropiano.
Siria: le elezioni dell’Assemblea Popolare si svolgeranno tra il 15 e il 20 Settembre
In una intervista rilasciata all’agenzia statale siriana SANA il Il presidente del Comitato superiore per le elezioni dell’Assemblea popolare, Mohammed Taha al-Ahmad ha annunciato che le prime elezioni dell’epoca post Assad si svolgeranno 15 e il 20 Settembre e che il sistema elettorale è frutto di un ampio dibattito tra tutte le componenti della società civile siriana e che ha visto un’importante partecipazione delle donne a cui il sistema riserva come minimo il 20% delle candidature. L’annuncio sembra voler tranquillizzare la comunità internazionale allarmata da dichiarazioni di esponenti del governo provvisorio che parlavano di tempi molto più lunghi. Nell’intervista si sottolinea anche la necessità che le elezioni si svolgano in tutti i territori della Siria e che escludano “coloro che sostengono criminali o incitano al settarismo, alla divisione e al fanatismo”; quest’affermazione viene interpretata come un primo passo di esclusione di quelle forze politiche e militari che occupano varie regioni del Paese e che non riconoscono l’autorità dell’attuale governo. Pressenza IPA
L’orizzonte strategico non è più a sinistra
OGNI TANTO, LA SINISTRA SI ENTUSIASMA PER LE ULTIME NOVITÀ MEDIATICHE CHE PROMETTONO TEMPI FELICI. IN QUESTI GIORNI, I NOMI DEL SOCIALISTA ZOHRAN MAMDANI, COME POSSIBILE SINDACO DI NEW YORK, E DI JEANETTE JARA, COME CANDIDATA ALLA PRESIDENZA PER I PROGRESSISTI CILENI, SONO MOTIVO DI GIOIA PER TANTI. ENTUSIASMI ANCHE PIÙ FORTI SI SONO REGISTRATI QUALCHE ANNO FA ANCHE IN EUROPA CON L’ASCESA DI PODEMOS IN SPAGNA E SYRIZA IN GRECIA. MA PER RICONOSCERE QUALCOSA IN GRADO DI RICONSEGNARE SIGNIFICATO ALLA PAROLA SINISTRA FORSE BISOGNEREBBE CAMBIARE SGUARDO, DARE MENO IMPORTANZA ALLA DEMOCRAZIA RAPPRESENTATIVA. IN AMÉRICA LATINA, AD ESEMPIO, SECONDO RAÚL ZIBECHI, SONO LE RIAPPROPRIAZIONI TERRITORIALI, PROMOSSE DA ATTORI COLLETTIVI NELLE AREE RURALI E URBANE, A POSSEDERE “LA PROFONDITÀ STRATEGICA CHE LA SINISTRA HA PERSO ASSESTANDOSI NELLA ZONA DI COMFORT DELLO STATO E DELLE ISTITUZIONI…” Tratta dalla pag. fb della rete brasiliana Teia Dos Povos  -------------------------------------------------------------------------------- Di tanto in tanto, la sinistra si entusiasma per le ultime novità mediatiche che promettono tempi felici, solo per vedere questo fervore svanire senza conseguenze, poiché raramente si guarda indietro per valutarne i risultati. In questi giorni, i nomi del socialista Zohran Mamdani, come possibile sindaco di New York, e di Jeanette Jara, come candidata alla presidenza per i progressisti cileni, sono motivo di gioia e speranza. Per alcuni analisti e per il quotidiano di sinistra Sin Permiso, la vittoria di Mamdani alle primarie democratiche ha causato un “terremoto politico” così profondo che, secondo l’analista, “le ramificazioni di questa inversione di tendenza si faranno sentire per anni, in tutti gli Stati Uniti e nel mondo sviluppato”. Essendo socialista, musulmano e filo-palestinese, la sinistra si illude che il suo arrivo a sindaco della città simbolo cambierà le cose, nonostante tutte le prove contrarie. Per il settimanale di sinistra El Siglo, il comunista cileno Jara incarna “la reale possibilità che il popolo governi con la propria voce, le proprie richieste e la propria dignità in prima linea”. Per i media progressisti, come Página 12 in Argentina, il semplice fatto che Jara non provenga dall’élite incarna “la speranza di una vita migliore”. La sinistra assomiglia sempre più ai media mainstream che tanto critica. Un entusiasmo enorme, espresso in titoli di giornale, produce effetti immediati ma di breve durata. Una volta esaurito l’effetto, non si chiedono che fine abbiano fatto quelle speranze che erano riuscite a entusiasmare i loro seguaci. Credo sia necessario ricordare le esplosioni di passione che hanno caratterizzato l’ascesa di Podemos in Spagna e l’ascesa al potere di Syriza in Grecia. Sono solo fuochi d’artificio destinati a tenere a galla una sinistra traballante, che ha perso ogni spessore strategico, incapace di andare oltre effimere manovre tattiche che non cambiano nulla e vengono presto dimenticate. Mi sembra strano che molti cileni stiano di nuovo cadendo nella trappola. Sono stati ingannati da figure come la leader studentesca Camila Vallejo, che nel 2011 promise di cambiare il Paese e che l’opportunista quotidiano britannico The Guardian ha paragonato al Subcomandante Marcos. Sono ancora più sorpreso che la memoria collettiva non possa nemmeno risalire al 2019, quando un’Assemblea Costituente (convocata dalla destra e solo da una figura di sinistra, l’attuale presidente Gabriel Boric) ha spinto gran parte del movimento sociale a sciogliere le assemblee regionali e a recarsi alle urne. Vorrei fare un paragone. Lo scorso fine settimana, tre compagni brasiliani vicini alla Teia dos Povos (la straordinaria Rete brasiliane dei Popoli riunisce comunità, popoli e organizzazioni politiche rurali e urbane che promuovono percorsi di emancipazione collettiva per costruire un’alleanza nera, indigena e popolare, “il nostro obiettivo non è essere un movimento sociale che abbracci gli altri, vogliamo camminare insieme, non produrre un’unità monolitica…”, ndr) hanno visitato una mezza dozzina di riappropriazioni (bonifiche territoriali) del popolo Guarani Kaiowá nello stato del Mato Grosso do Sul, vicino al confine con il Paraguay. Negli scambi che abbiamo avuto, hanno descritto la potenza di questi spazi, uno dei quali occupa seicento ettari, la diversità delle colture e la forza delle comunità riterritorializzate. Uno degli insediamenti sta contestando 11.000 ettari di terreno con l’agroindustria, sebbene “si trovino in una situazione di grande vulnerabilità, con attacchi notturni da parte di uomini armati dei proprietari terrieri con cui si contendono il territorio ancestrale, che passano a bordo di camion 4×4 e sparano alla comunità. Sono riusciti a rimanere nella zona a intermittenza per 47 anni di riappropriazione”, dice la compagna Silvia Adoue. Riguardo a quello spazio, Pakurity, compa Esteban del Cerro scrive su Quilombo Invisível che dalla riconquista del 1986, “ci sono stati decenni di permanenza e movimento a Pakurity attraverso altri mezzi: lavori temporanei nell’azienda, utilizzo della foresta vicina per l’estrazione di piante medicinali, erbe, radici e frutta, caccia e pesca; spostamenti di famiglie nella regione; memoria dei defunti e degli antenati”. Il testo conclude: “Da nord a sud del continente, i popoli indigeni si fanno portavoce del grido zapatista per i beni comuni e la non-proprietà, e le riconquiste continuano a chiarire che la via dell’insurrezione è la via per la vittoria. L’insurrezione dimostra anche che il recupero delle terre ci dà speranza, anche in mezzo alle trincee, per un nuovo modo di relazionarci con gli esseri viventi“. La terra trasformata in territorio apre orizzonti di vita. Le riappropriazioni territoriali in tutto il continente, sostenute da attori collettivi nelle aree rurali e urbane, possiedono la profondità strategica che la sinistra ha perso assestandosi nella zona di comfort dello Stato e delle istituzioni. Non sorprende più che coloro che celebrano minime “vittorie” elettorali stiano voltando le spalle alle lotte che stanno ricostruendo il movimento popolare, impegnandosi per la sopravvivenza collettiva durante la tempesta sistemica che ci sta colpendo. -------------------------------------------------------------------------------- Pubblicato anche su La Jornada (qui con l’autorizzazione dell’autore, che da oltre dieci anni di prende cura anche di Comune). Traduzione di Comune. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI GIORGIO AGAMBEN: > Il medioevo prossimo venturo -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE: > Gridare, fare e pensare mondi nuovi -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo L’orizzonte strategico non è più a sinistra proviene da Comune-info.
Dal chavismo al madurismo: il Venezuela visto da Cuba
Roberto Livi è un giornalista di lungo corso. A partire dall’inizio degli anni Settanta del secolo scorso ha scritto per il Manifesto, L’espresso e Il Messaggero, quotidiano per il quale è stato diverso tempo inviato a Mosca, seguendo la fase di crollo dell’Unione Sovietica. Da più di vent’anni vive a Cuba ed è corrispondente del Manifesto. Lo abbiamo intervistato sulla situazione in Venezuela, prendendo spunto dall’ultima tornata elettorale e si è soffermato anche su alcun aspetti cruciali dell’America Latina. La recentissima tornata elettorale ha registrato una scarsa partecipazione di cui hanno scritto anche alcuni giornali italiani. Il Manifesto ha riportato un dato che oscilla tra il 25 e il 42%. Qual è la tua valutazione? Si può parlare di disaffezione al voto?                                                              Indubbiamente è così; le cifre ufficiali parlano del 43%, cifra non controllabile, probabilmente è molto meno, però è un fenomeno riscontrabile in tutta l’America Latina. Tutte le inchieste esplicitano come il consenso verso la democrazia formale, cioè le elezioni, sia bassissimo, per ragioni storiche. Quindi si tratta di un dato strutturale. Queste elezioni venezuelane sono state anticipate ora rispetto a novembre, perché Maduro aveva l’esigenza di consolidarsi nei confronti di un’opposizione comunque molto indebolita e divisa, che ha raccolto il 17,3% dei consensi e 24 seggi, mentre la destra estrema guidata dalla Machado ha deciso di rimanere fuori dalla contesa elettorale. L’operazione politica di Maduro è stata un successo perché ora controlla l’Assemblea Nazionale con 253 deputati su circa 285, cioè ha la maggioranza qualificata per fare le cosiddette leggi “abilitanti”,  per la riforma della Costituzione articolo per articolo e per far passare altre riforme e leggi  che ha già ventilato. In sostanza si tratta di rafforzamento del madurismo, perché a mio avviso non si può più parlare di chavismo, e un indebolimento dell’opposizione. La pretesa della Machado che la bassa affluenza sia una vittoria è una pia illusione. Inoltre c’è da parte dello schieramento antigovernativo l’assenza di un programma politico che non sia quello di Trump. In definitiva non possono parlare di una “vittoria politica”. Per quanto riguarda la situazione sociale ed economica cosa sta accadendo? Si è parlato molto delle grandi difficoltà della popolazione, dei flussi migratori verso altri Paesi a causa delle condizioni materiali difficili… E’ esattamente quella che tu hai indicato: crisi economica, emigrazione, povertà, disillusione… Di nuovo c’è, se confermato, l’alleanza tra l’entourage di Maduro con il settore privato, criticata dalla sinistra chavista e dal Partito Comunista che la individua come la nascita della boliborghesia, cioè la borghesia bolivariana. E’ una scelta che però sta dando i suoi frutti perché secondo il governo l’85% dei prodotti  messi in vendita nel mercato nazionale sono  venezuelani. Dunque ci sarebbe il fenomeno che negli anni Settanta del secolo scorso si chiamava  “desarollismo”, cioè la creazione di una borghesia nazionale capace di produrre per sostituire le importazioni, per porre le basi di una nazionalismo democratico. Tutto questo è da verificare ma bisogna tenerlo presente. L’altra cosa da rilevare è che ha posto la questione della Guayana Esequiba, Stato annesso per le elezioni come territorio venezuelano, nonostante sia oggetto della Corte Internazionale di Giustizia per decidere a chi appartiene. Attualmente è della Guayana, una questione di non secondaria importanza perché là si estrae il petrolio. A mio avviso sono questi i due elementi di novità che andranno valutati nel prossimo periodo. Hai accennato al passaggio dal chavismo al madurismo. L’impressione è che il consenso che avevano le politiche di Chavez sia in netto calo. E’ bene ricordare che quando si tentò un colpo di mano militare arrestandolo, dopo due ore venne liberato a furor di popolo. Che differenze ci sono, se ci sono? La trasformazione della società verso il socialismo non c’è stata, ma del resto non è solo colpa di Maduro. Ci sono delle somiglianze con la situazione che si vive a Cuba. Galeano diceva che Cuba non è quello che ha voluto, ma quello che ha potuto essere. Cioè la Cuba di adesso non è certamente quella che Fidel voleva. E quella che ha potuto essere è ben poco non solo per gli errori interni, ma a causa dell’interventismo micidiale degli Stati Uniti. Lo stesso avviene in Venezuela. L’idea che forse si ha in Europa dell’embargo è molto inferiore rispetto alla realtà, perché si tratta di una minaccia pervasiva costante. Al Venezuela hanno sottratto l’oro, ora Trump ha tolto il permesso che Biden aveva dato di continuare a produrre, hanno tentato colpi di Stato, ne hanno fatte di tutti i colori. Quindi al di là di tutte le critiche che si possono fare sul fatto che il “Socialismo del XXI” secolo non si sia sviluppato, ripeto non solo a causa di Maduro, di uno che palesemente è attaccato al potere, che lo detiene perché ci sono i militari, che reprime, ma anche per il condizionamento criminale degli Stati Uniti che crea enormi difficoltà. In questo senso c’è una differenza di visione tra l’Europa e dove vivo io, come del resto sulla democrazia: la nostra generazione, cioè quella nata dopo il secondo dopoguerra, è cresciuta nella convinzione della democrazia formale, il Parlamento, il voto. Ora questo sistema è in crisi, come dimostra l’ascesa al potere di Meloni, Orban, il governo polacco, ecc., ma è stato sempre in crisi anche in America Latina, dove non c’è stata mai una cultura democratica come la intendiamo noi. Qui la democrazia era quella dei popoli indigeni, del tutto diversa dalla nostra. Anche in quei Paesi che si definivano “europei” come il Cile, nei momenti cruciali, tipo Allende, si è visto quanto la democrazia fosse rispettata. L’11 settembre del 1973 c’è stato il golpe  con tutto ciò che di orribile è accaduto. E’ vero che in Venezuela c’è repressione, polizia, non c’è rispetto dei diritti umani, però le condizioni sono difficili. Questo non significa giustificare, però è difficile giudicare. Hai fatto riferimento ai diritti umani. Negli ultimi mesi in Italia è cresciuta l’attenzione su Alberto Trentini, il cooperante arrestato e in carcere da tempo. Presa Diretta gli ha dedicato in parte una puntata e ha anche accesso i fari sulla prigionia di altri cittadini di altri Paesi. Tu che impressioni hai? Premesso che non me ne occupo direttamente, cioè non scrivo su questo, ho la sensazione che quello che si dice in buona parte sia vero. Però facendo riferimento al contesto cubano, il problema è che se si cede un poco cambia tutto. In sostanza se apro un po’ la porta, poi arrivano gli Stati Uniti. La stessa cosa in Venezuela. Per cui da una parte certamente la militarizzazione del potere è orribile, ma dall’altra ci sono i tentativi di colpi di stato, gli omicidi, ecc. Sergio Sinigaglia
La repressione serpeggia tra i banchi di scuola, ma anche all’università
A sei giorni dalle elezioni al CNSU (Consiglio Nazionale degli studenti universitari) l’Università di Bologna invia nove denunce ad altrettanti studenti del movimento Cambiare Rotta, rei di avere dato vita ad uno spazio autogestito per creare un processo di agibilità politica, recuperando, all’interno dell’Università di Bologna, un’auletta in disuso. “Occupazione per trarne altrimenti profitto” questa sarebbe la fantasiosa accusa. Poco tempo fa alcuni studenti avevano fatto pacificamente irruzione in un convegno targato Leonardo SpA, contestando gli accordi di ricerca che chiudono sempre un occhio e a volte anche due, giocando sull’equivoco della ricerca “dual-use” (civile-militare), ma soprattutto la presenza asfissiante della Leonardo, che finanzia convegni, stage, tirocini e si propone in tutta Italia come punta di diamante di uno sviluppo industriale di morte, ma che può offrire un futuro a molti giovani brillanti soprattutto in campo tecnologico: sistemi d’arma, visori ottici di ultima generazione a uso militare, sistemi avanzati interconnessi per il controllo pervasivo dei territori contro fastidiosi sommovimenti popolari (le cosiddette “Smart-cities”), intelligenza artificiale applicata ai droni, ecc ecc. In una recente intervista, gli studenti di Cambiare Rotta protagonisti dell’azione hanno raccontato il loro percorso di democratizzazione all’interno dell’ateneo bolognese anche attraverso il recupero di spazi di socialità: ed è stato proprio grazie al recupero di quest’interstizio di vita all’interno dell’università che è stato possibile per loro, stando sul posto, bypassare l’onnipresente controllo della Digos e degli agenti dell’AISI (Agenzia informazioni e sicurezza interna) e fare irruzione nell’aula convegni. Il CNSU è un organo elettivo consultivo istituito ai tempi di Luigi Berlinguer, con al suo interno rappresentanti degli studenti iscritti ai corsi di laurea, laurea specialistica e dottorato di ricerca. È composto da 28 studenti iscritti ai corsi di laurea, uno studente dottorando di ricerca e uno specializzando. Attualmente il consiglio è monopolizzato da forze politiche della sinistra moderata riformista, più o meno riconducibili al PD e a forze centriste, alcune delle quali vicine al mondo cattolico, mentre la restante parte è decisamente ancora più a destra e di ideologia conservatrice. Cambiare Rotta, invece, fin dall’inizio ha fatto riferimento a un pensiero politico riconducibile alla sinistra radicale, antimilitarista e antisionista ed è decisamente contraria al riarmo e all’asservimento del mondo della ricerca a quello industriale in modo particolare quando fa accordi con Israele. A questo link si trova l’appello degli studenti di Cambiare Rotta per il ritiro delle denunce. Stefano Bertoldi
ELEZIONI AMMINISTRATIVE MAGGIO 2025: GENOVA E RAVENNA AL CENTROSINISTRA SUBITO, A MATERA E TARANTO BALLOTTAGGIO. AFFLUENZA AL 56%.
Chiuse nel pomeriggio di lunedì 26 maggio 2025 le elezioni amministrative in 128 Comuni, tra cui 1 capoluogo di Regione, Genova, e 3 di provincia, Ravenna, Taranto e Matera. Lo scrutinio, a rilento, procede. Risultati definitivi tra la tarda serata di lunedì 26 maggio e la mattinata di martedì 27 maggio. Sul fronte dei dati della tornata elettorale, l’ultima prima dei referendum dell’8 e 9 giugno, in primo piano l’affluenza, sopra il 56%, in linea con il voto precedente e senza invece il calo di diversi punti che si registrava fino a ieri sera. Ad alzare la media Genova, che passa dal 44% al 52% e dove il centrosinistra extralarge genovese, con la candidata Salis, vince al primo turno; al momento è al 54%. Primo turno con il centrosinistra vincente anche a Ravenna; Barattoni è al 57%. Nelle altre due città sarà invece necessario il secondo turno. Centrosinistra pure qui in testa: a Taranto Bitetti (37%) di Pd, Avs e centristi (ma non M5S) è avanti sul candidato civico (ma in realtà leghista) Tacente al 27%, davanti al centrodestra ufficiale di Lazzaro. A Matera avanti Cifarelli (centrosinistra, senza M5S), al 42%, con il centrodestra di Nicoletti al 39%. Sul voto più significativo, quello di Genova, che torna al centrosinistra dopo 8 anni con noi Domenico Megu Chionetti, consigliere nazionale del Cnca e storico volto della Comunità San Benedetto al Porto, quella guidata per decenni da don Andrea Gallo. Ascolta o scarica Ancora elezioni: tra la trentina di Comuni non capoluogo ma comunque sopra i 15mila abitanti dove si stanno ancora scrutinando le schede ci sono, in Lombardia, Saronno, Cernusco sul Naviglio, Desio e Rozzano. Al centro Italia ci sono Assisi, Osimo, Ortona e Sulmona; più a sud Giugliano, Capaccio, Nola, Rende, Lamezia Terme, Isola di Capo Rizzuto. Nel Bresciano votava invece solo a San Felice del Benaco, 3.500 residenti, a due passi da Salò. Qui Marzia Manovali è la nuova sindaca. L’affluenza al 59%, in netto calo rispetto al 68,5% di un anno fa, con la sindacatura di Lorenza Baccolo durata solo pochi mesi per problemi di eleggibilità della stessa sindaca e conseguenti dimissioni di massa nella maggioranza
PORTOGALLO: I CONSERVATORI VINCONO LE ELEZIONI ANTICIPATE. CROLLANO I PARTITI DI SINISTRA, AVANZA L’ESTREMA DESTRA DI “CHEGA!”
In Portogallo le elezioni politiche anticipate confermano il centrodestra del premier uscente Luis Montenegro. Le novità, rispetto a 14 mesi fa, sono però il crollo dei socialisti, dal 28 al 23%, oltre che di tutte le liste o partiti di sinistra, e l’avanzata della destra nazionalista e xenofoba di “Chega!” (“Basta!”), guidata dal commentatore sportiva André Ventura, che di fatto raggiunge il Partito socialista al 23%. Sulle frequenze di Radio Onda d’Urto abbiamo raccolto i commenti di: * Franco Tomassoni, ricercatore di Colador in collegamento da Lisbona. Ascolta o scarica. * Simone Tulumello, compagno italiano che vive e lavora a Lisbona. Ascolta o scarica.  [Foto: manifestazione antifascista a Porto, in Portogallo]
ROMANIA: Nicușor Dan eletto presidente. Sconfitta l’estrema destra
ROMANIA: Nicușor Dan eletto presidente. Sconfitta l’estrema destra Gianmarco Bucci 19 Maggio 2025 Nicușor Dan è eletto presidente della Romania grazie ad una forte mobilitazione contro l’estrema destra: sconfitto George Simion. Nicușor Dan, sindaco di Bucarest, è stato eletto presidente della Romania. Il risultato, in parte sorprendente, segue un primo turno in cui l’estrema destra di AUR, dietro il candidato George Simion, si era largamente posizionata in testa. Chi è Nicușor Dan? Nel 2012 Dan si è candidato da indipendente, senza successo, alla carica di sindaco di Bucarest. Ha quindi creato un partito politico liberale e anti-corruzione (Unione Salvate Bucarest), poi diventato Unione Salvate la Romania (USR) a livello nazionale. Nel 2020 viene finalmente eletto sindaco. Anche allora volta Dan si è presentato come indipendente a seguito della fuoriuscita dal suo partito USR in occasione del referendum sulla famiglia tradizionale del 2017: già prima di entrare in politica, Dan aveva più volte manifestato idee ambigue sulle minoranze sessuali, dichiarando di volersi mantenere neutrale durante la campagna referendaria di quell’anno (neutralità in parte mantenuta durante l’attuale campagna elettorale.) L’USR si era invece apertamente schierato in maggioranza a sostegno della comunità LGBTQ+ romena, provocando le dimissioni di Dan. Le ragioni della vittoria Dan è riuscito a tenere tuttavia saldo gran parte del disperso elettorato della destra liberale e moderata che gli ha garantito l’accesso al secondo turno delle elezioni. A influire sulla sua vittoria finale una serie di fattori che hanno ribaltato le prime previsioni (con oltre il 40% al primo turno, il candidato d’estrema destra Simion era ad un passo dalla presidenza). Innanzitutto, lo spauracchio dell’estremismo ha fatto affluire alle urne un numero molto elevato di elettori, quasi il 65% degli aventi diritto (nel 2019 l’affluenza era stata del 55%). A mobilitarsi con maggior forza rispetto al passato sono stati i centri urbani, i giovani, le regioni a minoranza ungherese (ostili tradizionalmente all’estrema destra) e, soprattutto, la diaspora (con numeri altissimi in Moldavia, dove più di un milione di cittadini è in possesso di passaporto romeno.) Si conferma bastione dell’estrema destra la diaspora dell’Europa occidentale, ma il largo consenso per Simion non è stato sufficiente a colmare il divario creatosi in patria. In secondo luogo, Simion ha condotto una campagna elettorale catastrofica, colma di gaffe e un incidente diplomatico con la Francia, paese a cui la Romania è tradizionalmente legata. Dopo essersi vantato dei suoi ottimi rapporti all’internazionale di fronte ad un semi-sconosciuto Nicușor Dan, Simion ha accusato Macron di tendenze dittatoriali in una trasmissione francese. A rincarare la dose c’è stata una pioggia di meme sul francese zoppicante di Simion. Dan, in risposta, ha pubblicato un video di una chiamata con Macron che ha sottolineato il suo sostegno al candidato liberale. Dimostrando una certa supponenza, Simion ha inoltre scelto di non partecipare a quasi nessun dibattito elettorale. Quando lo ha fatto, ha utilizzato temi e immaginari direttamente importati da oltre-oceano, in particolare per quanto riguarda la lotta allo stato sociale, ai “parassiti” e agli impiegati statali, cara ai colleghi Milei e Musk. Una scelta incomprensibile visto che per arrivare alla presidenza c’era da conquistare l’enorme elettorato del Partito Social Democratico (PSD), che nel primo turno si era disperso tra il candidato del governo Crin Antonescu e l’ex premier Victor Ponta. Una fetta di popolazione che certo è in parte attratta dalla retorica nazionalista, ma che è anche sensibile al programma sociale dei candidati. I primi dati suggeriscono che molti elettori PSD hanno preferito rimanere a casa. Ci si aspetta ora che Dan indichi un candidato, forse l’attuale presidente ad interim Ilie Bolojan del Partito Nazional Liberale (PNL), per formare un governo di stampo pro-Europeo. Questo includerebbe l’USR, i due partiti tradizionali PNL e PSD e il partito della minoranza magiara UDMR. L’unica incognita sarà il comportamento del PSD, messo in crisi dal duello liberali-estrema destra e sul quale il partito non ha indicato preferenze di voto (quasi a segnale che i social democratici erano pronti a lavorare con entrambi, vista la viscerale necessità per il partito di rimanere al potere). Il PSD potrebbe quindi dare il suo sostegno ad un governo di minoranza formato dalle forze di destra, o partecipare al nuovo governo pro-Europeo. Scelta difficile viste le impopolari riforme che il prossimo esecutivo dovrà portare avanti per ridurre il deficit elefantiaco del paese e calmare un tasso di cambio euro-leu impazzito. East Journal
ALBANIA: ‘INSIEME’ ENTRA IN PARLAMENTO PER “PORTARE LA VOCE DEI PIÙ DEBOLI E DELLA CLASSE LAVORATRICE”
Ampia vittoria del Partito socialista del premier Edi Rama alle elezioni parlamentari che si sono svolte domenica 11 maggio in Albania. Secondo i risultati ufficiali diffusi, i socialisti hanno ottenuto il 52,1% contro il 34,2% della destra di Sali Berisha. Per Edi Rama, il cui partito ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, inizia quindi il quarto mandato alla guida del paese delle aquile. Restano ancora da conteggiare poche schede provenienti dai residenti all’estero, che non cambieranno in maniera sostanziale i risultati attuali. Entra in parlamento per la prima volta anche “Insieme” – Lëvizja Bashkë – giovanissimo partito politico nato come movimento dal basso e a sinistra. Alfred Bushi, esponente di “Insieme” nuovamente ai nostri microfoni, ha sottolineato come la campagna elettorale di Edi Rama sia stata vuota di contenuti. Il primo ministro “ha usato la sua influenza, il controllo sui media e il clientelismo” per consolidare il proprio potere. Lëvizja Bashkë ha svolto una campagna elettorale praticamente senza budget e mettendo l’accento sui problemi reali dell’Albania: “un paese in cui il salario minimo si aggira intorno ai 400 euro, la pensione minima intorno ai 100 euro, il costo della vita è largamente inadeguato agli stipendi, i servizi pubblici e la sanità non funzionano, un paese da dove centinaia di migliaia di persone sono emigrate”. Il seggio in parlamento ottenuto da Lëvizja Bashkë sarà occupato da Redi Muçi, che avrà il compito di proseguire le lotte del movimento “dando la priorità alle persone coraggiose, preparate e non corrotte”. Redi Muçi, già ospite ai nostri microfoni per commentare l’accordo Italia-Albania per la costruzione del lager per migranti, è un giovane professore alla facoltà di geologia ed è stato uno dei fondatori del partito. Avrà il non facile compito di “portare in parlamento le voci dei più deboli e della classe lavoratrice”. Il collegamento da Tirana con Alfred Bushi, esponente di Lëvizja Bashkë – Insieme. Ascolta o scarica