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Gkn: un blocco per sbloccarsi
Un racconto del corteo di sabato: occupato per circa 30 minuti l’aeroporto di Firenze-Peretola, sfondato il cordone delle forze dell’ordine da una folla non prevista. Il popolo di Gkn non è dormiente e non resta passivo ad aspettare.
“Fecero il deserto e lo chiamarono pace” – Gaza tra tregua e illusione
“Fecero il deserto e lo chiamarono pace” Così Publio Cornelio Tacito, storico e oratore romano vissuto tra il 55 e il 120 d.C., nel De Agricola descriveva la pace imposta dai Romani ai popoli conquistati: una pace che, in realtà, era solo una desolazione generata dalla guerra Se la Storia si ripete, annullando ogni arco temporale, riproponendo fatti, eventi, reazioni e sentimenti che – se non fossero datati e contestualizzati – potrebbero appartenere a qualsiasi epoca dell’umanità, allora anche le conquiste più epocali dell’uomo rischiano di essere azzerate. E in questo caso, i parametri per giudicare e analizzare ciò che oggi accade a Gaza non possono più avere un unico denominatore. La diversità delle posizioni apre a scenari in cui ogni opinione può essere legittima. Così, quella che per alcuni è finalmente pace a Gaza, per altri è semplicemente il “deserto”. Esiste un’unica verità? Sembrerebbe di no. Mentre Gaza continua ad essere teatro di una delle più gravi crisi umanitarie del XXI secolo, in un’alternanza continua tra la speranza di ricominciare a vivere – dopo la cosiddetta “pace di Trump” – e il rischio di ricadere nell’abisso da un momento all’altro, al centro del dibattito italiano ed europeo si discutono – con posizioni molto diverse – le proposte di pace e la loro reale portata storica. La pace attuale ha stabilito un cessate il fuoco tra Hamas e Israele, mediato da diversi Paesi, che ha portato a qualche risultato concreto: il rilascio di ostaggi, la sospensione dei combattimenti in alcune aree. Accolta con gioia da molti palestinesi perché le armi finalmente tacciono e centinaia di vite sono state risparmiate, è vista con cautela dalla Palestinian Authority, che spera in un accordo completo. Tuttavia, vi è una miscela di speranza e scetticismo: si tratta di un piano che in parte ignora i diritti fondamentali. La pace sembra fragile. Molti punti focali dell’accordo si stanno realizzando, ma i temi strutturali – come il disarmo, il ritiro dai territori occupati, la definizione di uno Stato palestinese – sono ancora poco sviluppati e basati su equilibri temporanei, più che su una vera riconciliazione. C’è un’assenza di fiducia reciproca, un’evidente asimmetria di potere tra le parti, che rende questi accordi estremamente vulnerabili. La pace rischia di essere soltanto una tregua, se non verranno affrontate le questioni centrali: autodeterminazione, sicurezza e giustizia per entrambe le popolazioni. La “Pace di Trump” e il suo significato La cosiddetta “Pace di Trump” legittima un progetto di riassetto della Striscia di Gaza senza la partecipazione attiva dei palestinesi. È questo uno degli aspetti più evidentemente fallaci: l’esclusione dei rappresentanti palestinesi dal processo decisionale. Non sono coinvolte né l’Autorità Nazionale Palestinese (ANP), né la società civile, né forze alternative come ONG indipendenti. Le critiche al progetto lo definiscono un paradigma coloniale travestito da accordo. Questa “pace” viene percepita da molti come un diktat unilaterale, perché legittima l’occupazione di ampie porzioni della Cisgiordania, riconosce come permanenti le colonie illegali secondo il diritto internazionale e riduce Gaza a una zona amministrata da attori arabi o internazionali, ma senza alcuna sovranità. Gaza verrebbe così trasformata in una regione gestita esternamente, ma senza alcun potere decisionale per i suoi abitanti. È un modello che ripropone una logica coloniale, simile a quella di un protettorato, più che un autentico piano di pace. I palestinesi sarebbero “gestiti” più che liberati. Invece dei diritti – che non si acquistano – il piano offre compensazioni economiche sotto forma di investimenti e progetti, che resterebbero comunque inaccessibili a chi ormai non ha più nulla. In sostanza, si legittima l’asimmetria tra occupante e occupato. Ma nessuna pace è sostenibile se costruita sopra la testa del popolo coinvolto. Non è pace, ma imposizione e sottomissione. La libertà non si compra, si riconosce. Una pace giusta richiederebbe La partecipazione diretta dei palestinesi, in tutte le loro componenti politiche e civili. Il riconoscimento dei crimini dell’occupazione. Il riconoscimento pieno del diritto di autodeterminazione, senza condizioni economiche imposte da Israele. La condanna chiara delle violazioni del diritto internazionale. Una posizione italiana ed europea coerente con i valori fondativi dell’Unione Europea: rispetto dei diritti umani, del diritto dei popoli alla libertà e alla giustizia. La vera pace non può essere un esercizio geopolitico calato dall’alto, ma deve partire dal riconoscimento del diritto dei palestinesi alla libertà, alla dignità e all’autodeterminazione. Perché allora, per alcuni, è un’operazione straordinaria? Perché, finalmente, c’è stato un cessate il fuoco, una riduzione delle sofferenze civili, il rilascio di ostaggi da parte di Hamas, uno scambio di prigionieri, e un impegno internazionale alla ricostruzione e all’assistenza umanitaria. Inoltre, è stato rilanciato – almeno formalmente – il principio dei “due popoli, due Stati”, sostenuto in molte dichiarazioni europee e mediorientali. L’accordo ha una forte dimensione simbolica: riconosce il dolore dell’altro, alimenta la speranza. Il cessate il fuoco è stato salutato come una “porta verso una pace eterna”, come l’ha definita il Presidente degli Stati Uniti. Questo è l’aspetto che, secondo molti, dà all’intesa un significato che va oltre il semplice armistizio: è un trampolino verso un nuovo assetto regionale. Appoggiato e sostenuto da Qatar, Egitto, Unione Europea, Turchia, Arabia Saudita ed Emirati Arabi, l’accordo è esaltato perché interrompe un ciclo devastante di guerra, restituisce libertà a civili e famiglie e rappresenta – per alcuni – un’occasione storica per costruire una stabilità geopolitica nella regione. E l’Italia? L’Italia ha sostenuto il diritto di Israele a difendersi, pur chiedendo – a parole – il rispetto del diritto internazionale umanitario e la protezione dei civili. Tuttavia, questa richiesta non è mai stata accompagnata da sanzioni concrete verso Israele. Non è stata tra i mediatori della pace, ma ha partecipato agli incontri dell’Unione Europea per sostenere il cessate il fuoco. Dopo l’accordo, il governo italiano ha dichiarato di essere pronto a contribuire alla ricostruzione di Gaza e a programmi di assistenza civile. Ha affermato che la soluzione duratura passa per “due popoli, due Stati”, anche se questo principio non è presente nel piano attuale. Questa tregua tra Israele e Hamas è fragile: ha certamente interrotto un ciclo sanguinoso di violenza e aperto qualche spiraglio, ma non ha affrontato le radici profonde del conflitto. La questione palestinese resta irrisolta e, di fatto, assente dall’accordo. Al momento, tutto ciò sembra solo una tregua temporanea, fragile e minacciata ogni giorno. Non ha ancora tracciato una vera via verso un processo politico concreto. Per alcuni, è il successo di Trump, che avrebbe deciso di mettere fine ai crimini israeliani dopo averli sostenuti per anni con l’invio di armi al governo di Netanyahu. Secondo altri, dietro c’è un piano economico e politico per la ricostruzione dell’area con mire speculative. Il governo italiano, accusato di “complicità” per aver evitato di definire come coloniali le politiche israeliane, per avere appoggiato la “sicurezza di Israele” come valore assoluto, senza pretendere il rispetto concreto del Diritto umanitario internazionale non si è opposto al Progetto che esclude i Palestinesi. “La Palestina sarà riconosciuta più facilmente se il piano verrà implementato”, ha dichiarato la premier italiana al vertice per la pace di Sharm el-Sheikh. Ha dettato condizioni affinché quel riconoscimento sia possibile. Con questa posizione l’Italia prende le distanze da altri Paesi dell’Unione che hanno unilateralmente riconosciuto lo stato della Palestina ritenendo che sia uno strumento di grande portata simbolica ma soprattutto valorizza il diritto all’autodeterminazione palestinese, condizione basilare per un reale processo di pace. Escludere i Palestinesi dalla determinazione del loro stesso futuro rende in partenza precaria e inefficace qualsiasi costruzione di Pace. Redazione Napoli
Gli auguri che non possiamo fare a Federico Aldrovandi
Ieri avrebbe compiuto 38 anni, se una notte del 2005 non si fosse imbattuto nei quattro agenti di polizia che lo uccisero. Domani a Ferrara una "sound parade" per ricordare una vicenda di dolore ma anche di riscossa sociale, che Zeroincondotta seguì giorno per giorno: consulta lo speciale ancora online con tutti gli articoli.