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Roberto Benigni: la ‘strage degli innocenti’ a Gaza e i giovani europei
Intervenuto a Propaganda Live del 13 giugno, il 73enne guitto italiano nel 1999 vincitore di tre premi Oscar al film La vita è bella ha parlato esplicitamente dell’assedio a Gaza e si è espressamente rivolto ai giovani europei. Dopo le minacce del governo israeliano, che gli attacchi del 7 ottobre 2023 annunciava una vendetta implacabile, l’appello “a non rispondere all’orrore con altro orrore” non è stato ascoltato, ha affermato Roberto Benigni ricordando che a Gaza i militari “continuano a uccidere i bambini” incessantemente da ormai più di un anno e mezzo. Roberto Benigni partecipava al programma televisivo per presentare IL SOGNO, edito da Einaudi, che ha scritto con Stefano Andreoli (ideatore e autore di SPINOZA.IT) e insieme al saggista, pubblicista, collaboratore de L’INKIESTA e IL PONTE e dirigente del MFE / Movimento Federalista Europeo , Michele Ballerin. Il libro contiene il testo del monologo recitato il 19 marzo 2025 in diretta su RAI1 e in Eurovisione nella sua versione integrale, con alcune parti non trasmesse, e ampiata con altri contributi: «Negli ultimi tempi ognuno dice la sua sull’Europa – spiega Roberto Benigni nella prefazione – Ma nessuno racconta mai quali sono le ragioni profonde per cui è nata l’Unione Europea, qual è la storia degli uomini e delle donne che l’hanno fatta. Allora ve lo racconto io. Come in un romanzo pieno di colpi di scena, dove succedono cose incredibili: non c’è un capitolo dove non ci sia un fatto clamoroso, una sorpresa. E sono sicuro che vi piacerà da morire, perché è il romanzo della nostra vita, del passato che abbiamo alle spalle e soprattutto del futuro che abbiamo davanti». Nel programma televisivo trasmesso il 13 giugno scorso Roberto Benigni ha proclamato la propria fiducia nei giovani, che ha definito “antropologicamente europei”. Rilevando che gli adulti di ogni epoca e luogo, dall’antichità ad Atene e a Roma e nel medioevo dantesco fino ai tempi moderni e post-moderni, fanno “sempre gli stessi discorsi” ripetendo “sempre la stessa solfa”, cioè denigrando i giovani con gli epiteti, ricorrenti, “disinterassati, qualunquisti, ignoranti, fannulloni, scimuniti, superficiali, rammolliti,…” e oggi anche biasimandoli perché sono perennemente collegati ai social-media, Benigni ha evidenziato che la nuova generazione è la più istruita di sempre perché annovera “più diplomati e laureati di quanti non se ne siano mai visti nella storia”. Con riferimento ai programmi ERASMUS / European Action Scheme for the Mobility of University Students, Benigni ha osservato che i ragazzi inglesi oggi voterebbero contro la brexit che li ha esclusi dagli scambi culturali e scientifici con i propri coetanei europei e che formano le nuove generazioni dei cittadini dell’Europa intesa come società civile evoluta, una “comunità democratica tra le nazioni che fino a ieri si sparavano addosso, per secoli avversarie”, ed in cui fino a pochi mesi fa era riposta la più grande speranza dell’umanità, “poter costruire una democrazia pacifica tra i popoli”. Rammentando che l’Unione Europea è stata concepita a Ventotene e formata dagli stati dopo l’orrore dell’olocausto e della seconda guerra mondiale proprio per contrastare gli orribili effetti del nazionalismo demagogico, il “carburante di tutti gli odi”, Roberto Benigni ha ammonito gli italiani a paventare ogni forma di sovranismo, soprattutto dal patriottismo contaminato dai fanatismi e dal militarismo.   Le registrazioni video del monologo e degli interventi di Benigni a Propaganda Live trasmessa da LA7 il 13 GIUGNO 2025 sono a disposizione nelle pagine online: * Guerra a Gaza: “Continuano a uccidere i bambini, non sono uomini!” * i giovani, “la generazione più istruita di sempre” (durata 9’15”) * “Il patriottismo è meraviglioso, io sono un patriota dell’Italia” Roberto Benigni su PRESSENZA * Per gli ergastolani (e i detenuti) la nostra Carta Costituzionale è cartastraccia / 2019 * “L’ultima volta che siamo stati bambini”, favola che spiega l’Olocausto ai più piccoli – di Bruna Alasia / 2023 Maddalena Brunasti
I giovani e la carriera militare: riflessioni a margine di un sondaggio
Il 29 maggio 2025 veniva pubblicato su www.skuola.net un articolo intitolato Le crisi globali non sembrano spaventare i giovani: 1 su 4 si dice pronto a una carriera “in divisa”. Le ragazze puntano al comando, i ragazzi all’azione. L’articolo riporta gli esiti di un sondaggio realizzato nell’ambito dell’Osservatorio “Professioni in divisa” da Skuola.net in collaborazione con Nissolino Corsi (si veda https://osservatorionomilscuola.com/2025/01/21/orientamento-scolastico-carriere-militari-italia-assorienta-nissolino/) su un campione di 2.700 ragazze e ragazzi dagli 11 ai 25 anni e di oltre 300 genitori.  Nell’introduzione all’articolo leggiamo che «nonostante i conflitti in corso e le tensioni internazionali, l’interesse dei giovani verso le Forze Armate e di Polizia resta alto. Per il 23% degli interessati a questi percorsi, gli investimenti in campo militare rappresentano una fonte di possibili opportunità». Il dato preoccupante però emerge dalle parole di Emanuele Buscarino, AD della Nissolino Corsi, il quale afferma che «valori, ordine, disciplina […], senso di appartenenza» sarebbero tra le principali motivazioni di questa scelta, legata anche alla ricerca di un “contesto di senso” in un momento storico caratterizzato da precarietà lavorativa ed esistenziale. Questo passaggio mi ha riportata a una discussione avvenuta in classe alcuni giorni fa. Insegno storia e,  parlando con la classe dei mutamenti della guerra nel corso dei secoli, quando siamo arrivati a toccare il tema del reclutamento ne ho approfittato per capire il loro orientamento circa la possibile reintroduzione della leva obbligatoria. Innanzitutto nessuno sapeva (il che è normale, visto il livello dell’informazione mainstream) che la leva è stata sospesa, non abolita, e che potrebbe essere reintrodotta senza necessità di passaggi parlamentari. In secondo luogo sono emerse da parte degli studenti posizioni nettamente favorevoli al servizio militare, che qui riassumo toccando le loro principali affermazioni (attribuendole all’alliev* 1, all’alliev* 2 etc e all’insegnante): – Alliev*1: “Prof, secondo me è giusto fare il servizio militare perché abbiamo bisogno di imparare l’obbedienza». – Insegnante: «A parte che potremmo pensare, con Don Milani, che l’obbedienza non è più una virtù. Ma facciamo finta che lo sia: perché se i genitori o la scuola vi chiedono di essere obbedienti e rispettare le regole voi non lo accettate e andate invece a cercare un’autorità esterna che vi imponga delle regole?». – Alliev*1: «Ma prof, i genitori e i professori non sono nessuno, cioè, noi vi rispettiamo come persone, ma non pensiamo di dovervi obbedire». – Insegnante: «E perché no?». – Alliev*1: «Perché il vostro compito è di farci stare bene». – Insegnante: «E perché poi volete cercare qualcuno che vi faccia stare male o scegliere un percorso in cui potreste mettere a rischio la vostra vita?». – Alliev*1: «Per crescere, per fare esperienze nuove, per confrontarci con il mondo». – Insegnante: «Il mondo è là fuori che vi aspetta e noi lavoriamo per prepararvi ad affrontarlo con curiosità e voglia di conoscenza: andate!». – Alliev*1: «No, perché se nessuno ci obbliga noi, a parte per le vacanze, non ci allontaniamo dalle nostre famiglie, però per crescere dovremmo farlo». – Insegnante: «Sono d’accordo sulla necessità del distacco dalla famiglia, ma è anche vero che spesso l’uscita di casa è posticipata dall’assenza di lavoro o dalla sua precarietà, quindi forse la vostra generazione dovrebbe chiedere lavoro e rispetto dei diritti, non di partire per la guerra!». – Alliev*1: «Noi giovani però non siamo abbastanza grati per quello che lo Stato ci dà e dovremmo imparare a diventare più rispettosi dello Stato e della bandiera, valori che si sono persi, come anche il senso dell’onore e del sacrificio». – Insegnante: «Lo stato siamo noi, possiamo coltivare lo stesso il rispetto reciproco e a scuola facciamo proprio questo». – Alliev*1: «No, io intendo una cosa più alta, dobbiamo dare qualcosa allo Stato». – Alliev*2: «No, scusa, io non voglio dare proprio un bel niente allo Stato, perchè lo Stato non dà niente a me» (chi parla è migrante di seconda generazione, priv* di cittadinanza). – Alliev*1: «Infatti a te non devono chiedere niente perché non sei nat* qui!». – Insegnante: «Scusate, ma perché non possiamo fare qualcosa per la comunità senza che ci sia di mezzo l’esercito?». – Alliev*1: «Perché poi non lo facciamo, perché non siamo obbligati, quindi è necessario che qualcuno ci obblighi». – Insegnante: «Quindi avete una visione così negativa dell’essere umano da pensare che non possa fare nulla per gli altri se non obbligato?». – Alliev*1: «Prof, bisogna essere realistici, le persone sono egoiste, la guerra esiste ed è sempre esistita, qualcuno dovrà pure difenderci in caso di attacco». – Insegnante: «Anche a costo di entrare in un meccanismo che potrebbe metterci nelle condizioni di uccidere ed essere uccisi». – Alliev*1: «Sì prof, perché se la mia famiglia e la mia patria sono attaccati da qualcuno, io mi sento in dovere di uccidere e quindi è giusto essere addestrati a farlo». – Insegnante: «Ma percepite davvero una minaccia così forte da ritenere necessario tutto questo?». – Alliev*1: «Forse nell’immediato no, però consideri che il servizio militare serve anche a migliorare tutta la società, per esempio saremmo tutti più disciplinati, più precisi, forse ci sarebbero anche meno femminicidi». – Insegnante: «Cosa c’entrano i femminicidi?». – Alliev*1: «C’entrano con il fatto che i maschi non sanno controllare i propri impulsi e che se fossero addestrati invece sarebbero in grado di farlo». – Insegnante: «Ma siete consapevoli che una delle ragioni della sospensione della leva è stata l’indicibile quantità di violenze legate al nonnismo? Sapete che in un contesto in cui si viene addestrati alla violenza la disponibilità a essere violenti è maggiore, non minore?». – Alliev*1: «Il nonnismo serve a farci sentire parte di un gruppo e questo è positivo perché noi come generazione siamo individualisti». – Insegnante: «Ci sono ragazzi morti o traumatizzati a vita a causa del nonnismo!». – Alliev*1: «Beh certo non bisogna esagerare, ma il principio non è sbagliato, e poi consideri che siccome le femmine hanno voluto la parità di diritti ci sarebbero anche loro e quindi forse ci sarebbe meno aggressività». – Insegnante: «Non è detto: avete presente di che crimini sia siano macchiate le soldatesse presenti ad Abu Ghraib?». L’insegnante spiega alla classe a cosa si faccia riferimento, visto che nessuno è a conoscenza dei fatti citati. La conversazione si perde a questo punto, fino a che non viene introdotto un nuovo tema, quello economico – Alliev*3: «Io volevo dire che i soldati dovrebbero essere pagati più delle altre persone perché lavorano per la comunità». – Insegnante: «Scusami, e io non lavoro per la comunità?». – Alliev*3: «Sì ma è diverso, perché lei non salva vite». – Alliev*2: «La prof no, ma i medici? Gli infermieri?». – Alliev*3: «Loro sì, ma non rischiano la vita, quindi comunque i soldati dovrebbero avere dei privilegi». – Insegnante: «Già li hanno: sia loro che le loro famiglie». – Alliev*3: «Ed è giusto così». Suona la campanella, il dibattito si conclude. Questo scambio è realmente avvenuto, nonostante la necessità di sintetizzarlo mi abbia indotta a riassumere le posizioni espresse. Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Un ragazzo su 5 non conosce il proprio medico di famiglia
Un’indagine condotta tra studenti degli ultimi anni delle scuole superiori rivela un preoccupante scollamento tra le nuove generazioni e il Servizio Sanitario Nazionale (SSN): oltre la metà non sa cos’è il ticket, 1 ragazzo su 5 non conosce il proprio medico di famiglia e oltre l’80% non ha mai usato il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE). In controtendenza, quasi il 40% utilizza tutti i giorni strumenti di intelligenza artificiale (IA) come ChatGPT, un dato che apre uno scenario ambivalente: se utilizzati per cercare informazioni su temi sanitari, l’assenza di adeguate competenze scientifiche e digitali può esporre i giovani a contenuti fuorvianti, con possibili ripercussioni sulla loro salute e sul corretto utilizzo dei servizi sanitari. Alla domanda “Conoscete il vostro Medico di Medicina Generale (MMG)?”, l’83,3 % degli studenti dichiara di averlo già incontrato, mentre il 16,7 % non sa ancora chi sia il proprio medico di famiglia. E anche in merito al ticket, il 53,6% degli studenti dichiara di non sapere a cosa serva il ticket sanitario, ovvero la quota che i cittadini versano per contribuire alle spese del SSN. Una lacuna significativa, sulla quota a carico dei cittadini per visite, esami e farmaci di fascia A, indispensabile a co-finanziare il SSN. Per quanto riguarda il Fascicolo Sanitario Elettronico (FSE), l’82,3% degli studenti dichiara di non aver mai utilizzato il FSE né per sé né per un familiare. Un dato in parte spiegabile con l’età – molti sono minorenni o appena maggiorenni – ma che rivela comunque una più ampia carenza di informazione, anche tra chi ha pieno accesso allo strumento. E sui 3 programmi di screening oncologici offerti gratuitamente dal SSN, solo poco più della metà degli studenti ha risposto correttamente, identificando i tre screening oncologici inclusi nei Livelli Essenziali di Assistenza (LEA): mammella, cervice uterina e colon-retto. Il resto del campione ha fornito risposte errate o ha ammesso di non conoscere la risposta. Alla domanda ”È sempre vantaggioso fare controlli periodici per tutti i tumori?”, il 71,9% degli studenti risponde poi erroneamente che è sempre utile sottoporsi a esami di laboratorio o strumentali per diagnosticare precocemente qualsiasi tipo di tumore. Quando poi si chiede gli antibiotici assunti per un’infezione delle alte vie respiratorie (es. raffreddore), uno studente su 5 risponde “spesso”, uno su 2 “qualche volta” e il 18,9% “mai”; il 12,3% dichiara di non aver mai avuto una infezione delle alte vie respiratorie. E per quanto attiene all’equità di accesso ai LEA da garantire allo stesso modo in tutte le Regioni, due studenti su tre (66,2 %), si dichiarano in totale o parziale disaccordo; il 21,1 % resta neutrale e il 12,7 % ritiene che il SSN sia uniforme su tutto il territorio nazionale. Infine, in merito all’uso di ChatGPT o applicazioni simili, il 37,2% degli studenti usa quotidianamente tali strumenti e il 36,5% sporadicamente. Segno che l’intelligenza artificiale sta diventando parte integrante della quotidianità delle nuove generazioni. Tuttavia, questa diffusione non è accompagnata da un’adeguata alfabetizzazione all’uso critico e consapevole, soprattutto in ambito scientifico o sanitario. “I risultati della survey, ha sottolineato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione GIMBE, restituiscono un quadro di luci e ombre. I giovani sono in larga parte consapevoli delle diseguaglianze regionali in sanità. Mancano però conoscenze specifiche sugli screening oncologici offerti dal SSN e 7 studenti su 10 sono convinti che eseguire test diagnostici in maniera indiscriminata equivalga sempre a “più salute”. Altri dati evidenziano criticità importanti: la scarsa conoscenza circa il corretto uso degli antibiotici per infezioni respiratorie e le lacune del passaggio di consegne tra pediatra medico di famiglia. In sintesi la survey conferma la necessità di trasferire già in età scolastica una solida cultura della prevenzione, della promozione della salute e dell’uso consapevole del SSN. La difesa del diritto costituzionale alla tutela della salute deve coinvolgere anche le nuove generazioni, già a partire dall’età scolastica”. Per questo, GIMBE nel gennaio 2023 ha avviato il progetto “La Salute tiene banco” per offrire agli studenti strumenti concreti per diventare cittadini consapevoli, in grado di tutelare la propria salute e riconoscere il valore del SSN. Ad oggi, il progetto ha coinvolto oltre 5.500 studentesse e studenti degli istituti superiori di tutta Italia. Durante gli incontri, i partecipanti hanno risposto a quiz interattivi su temi cruciali come il funzionamento del SSN, la prevenzione e l’uso degli strumenti digitali. Nel periodo ottobre 2024-marzo 2025 la Fondazione GIMBE ha realizzato 33 incontri in 30 istituti scolastici di varie città italiane: Alanno (PE), Bari, Bologna e provincia, Cesena, Chiavari (GE), Cuneo, Ferrara, Foggia, Modena, Parma e provincia, Piacenza, Ravenna e Roma. “Vogliamo espandere il progetto La Salute tiene banco, ha dichiarato Cartabellotta, anche alle aree più remote del Paese, per offrire a tutti l’opportunità di conoscere i propri diritti e doveri e come prendersi cura della propria salute. Per questo abbiamo lanciato una campagna di crowdfunding, attiva fino al 13 giugno. Abbiamo bisogno del supporto di tutti: insieme possiamo crescere una nuova generazione di cittadini consapevoli, capaci di proteggere il bene più prezioso che hanno: la salute”. E sempre in tema di sanità, si segnala che l’Istituto Tedesco Qualità e Finanza (ITQF), che conduce indagini di mercato finalizzate ad analizzare l’aspetto economico e qualitativo delle aziende attive in diversi settori, ha pubblicato nei giorni scorsi la seconda edizione della ricerca “Ospedali di Eccellenza”, non una classifica, ma un database con diversi parametri in grado di valutare aspetti importanti come l’igiene e l’accessibilità, permettendoci di verificare come si è curati nei diversi ospedali italiani per le diverse patologie e come funzionano i centri attorno a noi: https://istituto-qualita.com/ospedali-di-eccellenza-2025/. Qui per approfondire l’indagine di GIMBE: https://www.gimbe.org/pagine/341/it/comunicati-stampa. Giovanni Caprio
Educare al sentire: il grido dei giovani che ci riguarda tutti
Quello che sta accadendo oggi, giovani sempre più piccoli che uccidono, accoltellano, violentano, oppure si tolgono la vita, non è un incidente della storia. È un grido. Un grido che ci riguarda. Tutti. È l’epoca? Sì, anche. Viviamo immersi in un tempo accelerato, compulsivo, saturo di immagini e povero di linguaggio interiore. Le emozioni si consumano come stories da 24 ore, non si elaborano, non si abitano. La tecnologia ha reso tutto immediato, compresi i sentimenti, ma non ha insegnato a riconoscerli, né a reggerli. Chi cresce oggi è sommerso da messaggi contraddittori. Si può avere tutto, subito, eppure si è soli; si è costantemente connessi, ma disconnessi da sé. L’identità si costruisce per specchi e like, ma si sgretola al primo rifiuto. Questo crea adolescenti fragili e narcisisti insieme, incapaci di gestire il “no”, l’abbandono, la frustrazione. E quando non si sa nominare il dolore, si agisce. Contro l’altro o contro se stessi. È l’educazione sentimentale? Sì, profondamente. Per anni si è parlato di educazione civica, di competenze digitali, perfino di educazione finanziaria, ma si è dimenticata l’educazione al sentire. Ai sentimenti reali. Quelli che fanno male, quelli che sporcano, quelli che non si possono mettere in un post. Noi adulti non insegniamo più a distinguere tra amore e possesso, tra desiderio e sopraffazione. Non educhiamo i ragazzi alla cura dell’altro, alla reciprocità, alla responsabilità emotiva. E così crescono nell’idea, falsissima, che amare significhi “avere” e che essere lasciati equivalga a perdere potere. E il potere, nella loro testa, va difeso anche con la violenza. È la scuola? Anche. La scuola è diventata il luogo delle competenze, non della formazione umana. Si corre per stare nei tempi, si valutano prestazioni. I docenti, spesso stanchi, precari, lasciati soli, non hanno più il tempo (o il mandato) per accorgersi di chi sta cadendo nel vuoto. È che è stata tolta, alla scuola, la possibilità di essere un presidio affettivo, una palestra di cittadinanza emotiva. E abbiamo lasciato che il disagio si gonfiasse nel fare. A volte troppo e male. Sono anni che predico l’insegnante di sostegno per la classe. Diciotto ore piene di supporto per studenti e docenti. Sarebbe necessario. Sono i genitori? Sì, ma non da soli. Molti genitori sono confusi, impauriti, spaesati. Alcuni sono adolescenti mai cresciuti, che hanno figli senza avere sé stessi. Altri sono troppo soli, troppo stanchi, troppo occupati a sopravvivere. Oppure troppo presenti, troppo controllanti, troppo invischiati. Abbiamo smarrito il confine tra protezione e controllo, tra guida e imposizione e i ragazzi, privi di adulti autorevoli (non autoritari), cercano riferimenti altrove. Nella rete, nei coetanei, nei modelli tossici. È stato il Covid? Anche. Ma non solo. La pandemia ha fatto da detonatore. Ha isolato, ha interrotto il corpo a corpo della vita, ha bloccato il contatto, la scuola, la socialità, ha cronicizzato la solitudine, ma sarebbe riduttivo dire che tutto è iniziato lì. Il Covid ha solo accelerato un processo già in atto, la desertificazione emotiva. Quindi non è una sola cosa. È una rete che si è spezzata. Una rete fatta di parole non dette, di adulti assenti, di modelli culturali distorti, di silenzi complici. E adesso raccogliamo i frantumi. Giovani, ma anche adulti, che non sanno amare senza annientare, né soffrire senza scomparire. Ci serve un nuovo umanesimo. Ci serve una rivoluzione dolce ma radicale, che riporti la parola educare al suo significato originario: “tirare fuori”. Non performance, ma presenza. Non risultati, ma relazioni. Altrimenti tutto sarà sempre più buio, più triste, più assurdo. Ma come ci si può appendere all’oscurità? Dobbiamo guardarla in faccia, senza girare la testa dall’altra parte. Se vogliamo davvero comprendere perché accadono tragedie come quella di Martina, non possiamo limitarci a commuoverci il giorno dopo. Bisogna mettersi in ascolto, anche del dolore che fa paura. Qual è la soluzione? mi chiedo dopo questo tortuoso ragionamento. E mi rispondo che non ce ne può essere una sola. Non è un interruttore da accendere. È un intreccio di piccoli gesti, cambiamenti culturali profondi, prese di coscienza collettive. A dirla così, sembrerebbe generico. Un “se se vabbè”, me lo risponderei da sola. Eppure ci sono direzioni chiare e tutte passano per l’educazione. Non quella nozionistica, non quella delle prove Invalsi. Parlo di educazione sentimentale, etica, relazionale. La soluzione è ritornare al sentire. Rieducare al linguaggio delle emozioni, fin da bambini. Insegnare a riconoscere la rabbia, la gelosia, la frustrazione, il desiderio, il rifiuto e dare strumenti per non farsene travolgere. Questo significa lavorare sull’autocoscienza, sull’empatia, sulla gestione del conflitto. Nelle scuole. Nelle famiglie. Nelle comunità. Nei luoghi della cultura, quelli che, per tenerli in piedi, si fanno salti mortali, senza mai un aiuto. Serve un patto educativo collettivo, dove la scuola non sia lasciata sola, dove i genitori non siano giudicati ma accompagnati, dove i ragazzi non siano solo fruitori di contenuti, ma soggetti di pensiero. E dove la cultura, quella vera, fatta di parole profonde e non di slogan, torni ad avere un ruolo centrale. Centralissimo, essenziale. Cultura = Conoscenza Conoscenza = Scelta Scelta = Giudizio Giudizio = Capacità critica Capacità critica = Giudizio Giudizio = Scelta Federica Flocco, giornalista pubblicista, scrittrice, docente di diritto ed economia, fondatrice e già vicepresidente della Libreria IoCiSto di Napoli. Appassionata di libri, ha condotto per più di un decennio la rubrica televisiva Il libro della settimana su Canale21. Attualmente cura l’itinerario culturale del programma radiofonico I racconti della sera. Moderatrice e relatrice di incontri letterari, scrive recensioni e interviste per numerose riviste cartacee e online. Redazione Napoli
Per i giovani l’uso dell’intelligenza artificiale diventa sempre di più normalità
L’uso della Generative Artificial Intelligence (GenAI), un tipo di intelligenza artificiale in grado di generare contenuti nuovi e originali, come immagini, testi, audio e video, basandosi su dati di addestramento esistenti, diventa normalità per GenZ (la generazione delle persone nate tra la seconda metà degli anni novanta del XX secolo e la prima metà degli anni 2010) e Millennial italiani (generazione nata tra la metà degli anni ’80 e la metà degli anni ’90), mentre la preoccupazione per i nuovi conflitti supera il timore per la disoccupazione, entrando nella top 3 delle grandi questioni globali da affrontare insieme al caro vita e al cambiamento climatico. Questi sono alcuni dei trend che emergono dalla quattordicesima edizione della GenZ e Millennial Survey, lo studio globale di Deloitte condotto su oltre 23 mila Gen Z e Millennial di 44 Paesi in tutto il mondo. Sono il caro vita, l’ambiente e i conflitti le tre grandi questioni più sentite. Il costo della vita rimane la prima preoccupazione sia per la Gen Z italiana (37%) che per i Millennial (39%). Circa 6 giovani su 10 dichiarano di vivere di stipendio in stipendio e temono di non riuscire a raggiungere la pensione con un livello di benessere economico soddisfacente, una percentuale superiore alla media globale di circa 20 punti percentuali. La protezione dell’ambiente è indicata come seconda grande questione dal 28% dei Gen Z e dal 25% dei Millennial. In terza posizione, invece, emerge il timore per i conflitti in corso, una preoccupazione che riguarda un intervistato italiano su quattro e che riflette l’inasprirsi delle tensioni geopolitiche a livello mondiale. La GenAI diventa però quotidianità per GenZ e Millennial italiani. Abituati al mondo dei social e di internet, i GenZ e i Millennial si dimostrano molto aperti alle novità tecnologiche legate all’AI e alla GenAI. In Italia, infatti, sia la Gen Z che i Millennial intervistati dichiarano di utilizzare comunemente GenAI per la creazione di contenuti e l’analisi dei dati. Così, il 73% della Gen Z e il 73% dei Millennial italiani afferma che la GenAI ha liberato tempo e ha migliorato il work-life balance. Il 71% della Gen Z e il 76% dei Millennial italiani pensa che la GenAI abbia migliorato la qualità del proprio lavoro. Consapevole degli enormi cambiamenti in corso, il 62% della Gen Z e il 67% dei Millennial sta già considerando opportunità di lavoro meno vulnerabili all’automazione, mentre il 55% dei Millennial e il 61% dei Gen Z pensa che l’AI potrebbe comportare una riduzione dei posti di lavoro. Ma per cosa è usata la GenAI ? Sono numerose le funzioni per cui Gen Z e Millennial italiani fanno ricorso alla GenAI, a conferma della crescente integrazione di questi strumenti nelle attività quotidiane e professionali. Secondo quanto dichiarato dagli intervistati, i giovani italiani utilizzano la GenAI per la creazione di contenuti (39% Gen Z, 37% Millennial), per l’analisi dei dati (36% Gen Z, 39% Millennial), per il project management (33% Gen Z, 30% Millennial), per lo sviluppo di software (31% Gen Z, 30% Millennial), per il design e la creatività (27% Gen Z, 24% Millennial), per la formazione (26% Gen Z, 28% Millennial) e per il supporto clienti (25% Gen Z, 25% Millennial). Per la GenZ e per i Millennial italiani le priorità sono comunque la famiglia, gli amici e il lavoro, ma anche la cultura e lo sport. Interrogati sulle loro priorità nella vita, il 67% dei Gen Z e il 69% dei Millennial italiani confermano infatti che gli amici e la famiglia rimangono la cosa più importante in assoluto. Tra i fattori più rilevanti per il loro senso di identità c’è poi il lavoro, che è importante per il 55% dei Millennial e per il 45% dei Gen Z italiani, un livello più alto della media globale, che si assesta al 41% per i Gen Z e al 46% per i Millennial. Sopra la media globale anche l’importanza attribuita dagli italiani alle attività culturali (Gen Z globali e Millennial globali al 36% vs Gen Z italiani al 40% e Millennials italiani al 38%) e all’esercizio fisico (importante per il 28% dei Gen Z italiani e per il 26% dei Millennials italiani). Quanto alle aspettative sul futuro del lavoro, la formazione continua si conferma per essere più importante della carriera. Dalla ricerca emerge che la Gen Z, a livello globale, dà priorità alle opportunità di crescita professionale e di formazione nella scelta di un datore di lavoro, mentre solo il 6% aspira a ricoprire posizioni dirigenziali di alto livello. Sia la Gen Z che i Millennial, inoltre, si aspettano che i loro datori di lavoro e manager supportino l’apprendimento e lo sviluppo, ma dichiarano un ampio divario tra le loro aspettative e le esperienze reali. Rimane importante l’attenzione al work-life balance e alla salute mentale, che sono due delle grandi eredità del periodo pandemico ritenute imprescindibili dai più giovani. Infine, per quanto riguarda la sostenibilità, circa 7 giovani su 10 sono preoccupati per l’ambiente. Il 73% dei Gen Z e il 68% dei Millennial intervistati in Italia, rispetto al 65% della Gen Z e al 63% dei Millennial a livello globale, affermano di essersi sentiti preoccupati o ansiosi per l’impatto ambientale nell’ultimo mese. Per proteggere il pianeta, quindi, Gen Z e Millennial italiani sono disposti ad agire concretamente. Tra le azioni che hanno intrapreso o che sono disposti a intraprendere ci sono l’acquisto di un veicolo elettrico, il miglioramento della propria casa per renderla più sostenibile e un uso attento dell’acqua. Il 33% dei Gen Z e il 25% dei Millennial dichiara anche di aver condotto ricerche sulle politiche ambientali delle aziende prima di acquistarne prodotti o servizi. E c’è anche chi (14% Gen Z e 10% Millennial) ha lasciato il proprio lavoro o in futuro potrebbe lasciarlo (24% Gen Z e 23% Millennial) perché preoccupato del suo impatto ambientale. Qui per approfondire e scaricare il Report: https://www.deloitte.com/global/en/issues/work/genz-millennial-survey.html?icid=top_genz-millennial-survey. Giovanni Caprio
Neet a chi?
CI SONO DOMANDE SUL SENSO DEL VIVERE IN QUESTO TEMPO DI INQUIETUDINE E SULLA SOCIETÀ CHE COSTRUIAMO OGNI GIORNO CHE VENGONO CONTINUAMENTE RIMOSSE OPPURE CHE CI OSTINIAMO A VOLER INTERPRETARE CON STRUMENTI CHE SERVONO A POCO. L’ESPRESSIONE NEET, AD ESEMPIO, SI SFALDA FACILMENTE SE PARTISSIMO COL DEFINIRE QUALI SONO I LAVORI FORMALI A CUI AVREBBE ACCESSO UNA LARGA PARTE DEI COSIDDETTI NEET – PERSONE CON STORIE DI VITA, ATTITUDINI, VOLONTÀ E PASSIONI MOLTO DIVERSE TRA LORO -, NEL MOMENTO IN CUI DECIDESSERO, PER USARE UNA METAFORA INSOPPORTABILE MA MOLTO GETTONATA, DI ALZARSI DAL DIVANO. LE COSE CERTE SONO DUE E SAREBBERO SUFFICIENTI PER COMINCIARE A PENSARE DIVERSAMENTE. LA PRIMA: UNA QUOTA DIFFICILMENTE QUANTIFICABILE DI GIOVANI, ABBANDONATI GLI STUDI, NON SI RIVOLGE NÉ ALLE FORME PIÙ O MENO TRADIZIONALI DI OCCUPAZIONE PER FORMARE IL REDDITO DI CUI HA BISOGNO, NÉ ALLA FORMAZIONE PROFESSIONALE PER OTTENERE LE INFORMAZIONI CHE SERVONO A QUELLO SCOPO. LA SECONDA: NEET NON RAPPRESENTA UN ACRONIMO IN CUI I SUPPOSTI APPARTENENTI SI RICONOSCONO Foto di Nilde Guiducci -------------------------------------------------------------------------------- Entrato ormai da anni nel vocabolario comune del mercato e delle politiche del lavoro, il termine Neet serve a indicare una persona (solitamente giovane) che non lavora, non studia e non è nella formazione professionale (Not in employment, education and training). Quello che si intende fare in questo articolo è dare alcune informazioni generali sul rapporto tra giovani e lavoro in Liguria nella prima parte e a problematizzare il termine Neet nella seconda, proponendo di spostare l’attenzione su aspetti che vengono giudicati di grande attinenza con quanto si propone di discutere. Il quadro delle previsioni di entrate nel lavoro di giovani fino ai 29 anni1 viene descritto nella prima tabella. Tali previsioni si concentrano nelle prime due professioni, calando sensibilmente nelle successive, e ancor più nelle tantissime che non sono riportate nella tabella. Le più richieste sono professioni che, in termini generali, vivono di stagionalità, che fanno quindi della flessibilità la propria condizione di esistenza. Non a caso, tra le competenze richieste, c’è il predominio assoluto di flessibilità e adattamento, relegando a un ruolo marginale tutte le altre. La difficoltà di reperimento degli addetti che si vorrebbe introdurre (seconda tabella) indica come quella modalità lavorativa sia poco apprezzata, anche perché dietro il termine flessibilità si presentano, in forma neppure troppo celata, altre caratteristiche del modello di lavoro proposto. Se guardiamo alle tipologie di contratto dei giovani avviati nel 20242, vediamo il peso che hanno sul totale le varie forme di lavoro cosiddetto atipico, che atipico ormai non è più da molto tempo. Anzi, considerando il fatto che delle oltre 76.000 persone avviate con meno di 29 anni meno di 7.000 hanno avuto un contratto a tempo indeterminato, se c’è un contratto atipico, oggi, è proprio questo. La domanda di lavoro descritta in queste prime righe si rivolge a una corrispondente offerta di lavoro. Le due definiscono insieme uno specifico mercato del lavoro. È uno dei tanti mercati del lavoro, forse il più esteso in termini numerici, il meno qualificato, quello che offre retribuzioni più basse, contratti e condizioni lavorative meno appetibili. Detto in altri termini, è il mercato del lavoro di coloro, tra i giovani, che vengono ritenuti economicamente e culturalmente più adatti a ricoprire incarichi di quel tipo. In modo meno diplomatico, a coloro che vengono giudicati più ricattabili, perché privi di esperienza, con livelli più bassi di scolarizzazione, con alle spalle famiglie non abbienti, o appartenenti alle cosiddette categorie fragili. Stiamo parlando di lavori che richiedono, a fronte di condizioni lavorative discutibili e contenuti qualitativi bassi, un elevato livello performativo, un investimento emozionale, una valorizzazione di quello che viene chiamato ormai da decenni “capitale umano”, il nostro, quello che ci fa, o ci dovrebbe far sentire, delle aziende mononucleari, percepire e agire come “imprenditori di se stessi”. Gestirsi, valorizzarsi, superarsi, non porsi limiti, ma, per favore, senza mettere in discussione quelle condizioni di lavoro. È sufficiente questo per spiegare il fenomeno dei Neet come insieme di persone che rifiutano quel modello lavorativo? No, serve solo a definire a quali lavori formali avrebbe accesso una larga parte dei Neet, nel momento in cui decidessero, per usare una metafora molto gettonata ma da rifiutare in toto, di alzarsi dal divano. L’altra variabile che interagisce con il fenomeno Neet è costituita dalle classificazioni ufficiali, che definiscono un occupato, un disoccupato, uno studente o un formando sulla base di parametri fissi e stabiliti ormai da lungo tempo (la condizione di occupato venne elaborata all’inizio degli anni ’50, con qualche recente modifica che non ne ha cambiato il senso), nonostante i profondi cambiamenti intercorsi. Anche i Servizi per le politiche attive del lavoro definiscono le azioni da intraprendere sulla base di strategie e obiettivi che non sempre (mi tengo largo) prendono in considerazione le mutate caratteristiche del rapporto tra vita, lavoro, reddito, progetti e futuro che interessano una quota molto importante di giovani, ben al di là di quelli rientranti nella categoria di cui si sta trattando. Ma questo ancora non basta a descrivere il quadro generale. Se, a partire dalla fine degli anni Novanta, Internet ha modificato il modo di lavorare su larga scala, è con l’economia delle piattaforme che si registra un ulteriore salto in avanti nel rapporto tra rete e lavoro, in stretta sintonia con l’evoluzione dei rapporti sociali, con la perdita di senso e valore del collettivo e l’acquisizione di centralità dell’individuo. Su quelle piattaforme vengono proposte più o meno piccole, saltuarie opportunità lavorative che non sempre riescono a rientrare nei parametri che vengono usati per classificare l’occupato, ma che interessano una quota significativa di giovani, predominanti tra gli internet users e dove quella percentuale indicata in tabella cresce. Amazon Mechanical Turk, MelaScrivi, AirB&B, Uber, le piattaforme per la consegna di cibo, per l’”alimentazione” e “pulizia” dei siti e dei motori di ricerca, ecc., consentono al lavoratore di risultare occupato in forme diverse, o anche di non risultare affatto occupato. Questo senza dimenticare il lavoro non regolamentato, che interessa tutti i settori, dall’artigianato, ai servizi alle aziende, alle persone o agli animali e in cui ritagliarsi forme di produzione di reddito è tutt’altro che impossibile. Un lavoro che molte volte non viene dichiarato da chi lo svolge, per tutti i motivi che si possono facilmente immaginare. Per non dilungarsi oltre nell’elenco, quello che si vuole sostenere è che, a fronte di classificazioni rigide e obsolete, sulla cui base viene definita una condizione o un’altra, le opportunità di svolgere attività lavorative come via di fuga dalle forme-contratto che abbiamo visto essere più gettonate certamente non mancano. Una quota difficilmente quantificabile di giovani, abbandonati gli studi, non si rivolge né alle forme più o meno tradizionali di occupazione per formare il reddito di cui ha bisogno, né alla formazione professionale per ottenere le informazioni che servono a quello scopo. Si affidano, in molti casi temporaneamente, ad altre modalità, con altri tempi, sulla base di altre previsioni e priorità. Da questo momento in poi entrano in campo altri elementi, in diretta conseguenza di quanto detto finora, chiaro, ma che fanno spostare il centro dell’attenzione su altro. Provando a fare un passo avanti per capire cosa c’è in più, partiamo da una considerazione. A differenza di altri termini usati in passato, che sono serviti per riconoscere e interpellare gli appartenenti a un determinato gruppo sociale, il termine Neet non è nato all’interno di quella categoria di persone. Neet non rappresenta un acronimo in cui i supposti appartenenti si riconoscono, con maggiore o minore trasporto, anche perché non porta con sé certamente un’aurea di illuminazione spirituale. Altre definizioni hanno avuto molta più fortuna, perché scaturite dall’interno, prive, quindi, di un’accezione stigmatizzante: andando a ritroso, nerd, yuppie, punk, hippie, tra le molte che si possono ricordare. Ognuna di queste definizioni descrive una modalità di relazione tra lavoro, vita e linguaggio che muta nel tempo e che produce forme di soggettivazione articolate, tradotte in rappresentazioni identitarie piuttosto chiare e rivendicate. Allora, se loro non si chiamano Neet, perché li chiamiamo noi Neet? Perché, nell’impossibilità di trovare una modalità assertiva, serviva un termine per unire tre negazioni, riferite a ciò che si suppone essere un soggetto riconoscibile e portatore di una specificità identitaria. Serve a farne un oggetto di studio da parte di chi deve ridurre la complessità di un fenomeno a quello che si riesce a classificare e vedere; oppure che non si riesce a vedere perché è troppo vicino. In questo, una parte non insignificante dei sociologi sono dei veri specialisti. Qui viene il punto, a mio parere, più interessante: le quattro categorie ricordate (chiamiamole così in attesa di trovare un termine più adatto) si innestavano un tempo sulla relazione che si è detta – lavoro, vita, linguaggio -, producendo forme di esistenza che manifestavano conflitto, antagonismo, adesione, spinta e interiorizzazione psichica nei confronti delle proposizioni socioculturali ed economiche dominanti. Si tratta, in sintesi, di soggettività che si reificano in un’interazione, agonistica o antagonistica, con quelle stesse proposizioni. Da qui, parte l’autoriconoscimento, sulla base di tratti etici, estetici, comportamentali che ne definiscono i contorni e il contenuto, e il conseguente riconoscimento da parte di altri o, in termini lacaniani, dell’Altro, che li interpella, li parla, financo li governa, tramite la produzione di identità. Le identità infatti, autoriconosciute e riconosciute, sono oggetto di azioni politiche importanti, quelle che vanno sotto il nome di politiche dell’identità. L’obiettivo di tali politiche non è solo, o non è tanto, la produzione e la gestione di identità docili, a-problematiche; deve includere – differenzialmente – identità e rivendicazioni di una qualunque minoranza nelle pratiche discorsive che legittimano e rendono fruibile il sistema di norme da cui quelle politiche dipendono. Questo ha interessato le nostre quattro categorie e le innumerevoli altre che compongono il corpo sociale, la società civile, nel tempo contemporaneo. La categoria Neet è stata, ed è, oggetto di politiche dell’identità, non potrebbe essere diversamente. Tramite l’assegnazione di un nome vengono classificate persone in modo arbitrario e non riconosciuto dalle stesse. Per evitarne la forclusione, si prevedono azioni di ricerca e d’intervento finalizzate a una inclusione che, a seconda di dove quelle azioni vanno a impattare, presenta vari gradi di differenzialità. Qual è allora il tratto, se esiste, che connota la categoria Neet, dato che non sembra ci siano prodotti identitari che ne consentano una rappresentazione riconoscibile? Rispondere a questa domanda è tutt’altro che facile, perché in quella categorizzazione rientrano persone con storie di vita, attitudini, volontà e passioni molto diverse tra loro. Persone a cui è stata data un’etichetta identitaria che non li rappresenta, frutto di una politica dell’identità a senso unico, non richiesta e non riconosciuta. Riprendendo quanto detto all’inizio, la prima connotazione che verrebbe da presentare è il senso di estraneità nei confronti del lavoro, per come è stato inteso da generazioni, e dei percorsi a esso propedeutici; un lavoro che deve offrire determinate garanzie, durante e dopo, per sé e per i propri familiari. Ma non è certo l’unica, ve ne sono altre e altrettanto importanti. Proviamo a considerare alcune variabili3 tra quelle che hanno scandito l’evoluzione dell’esistenza della grandissima maggioranza dei cittadini, non solo dell’Italia, ma dell’intero Occidente, per un periodo che va dalla seconda rivoluzione industriale alla fine del millennio: carriera, professionalità, pensione, orario di lavoro, tempo di lavoro/tempo di non lavoro nell’arco del quotidiano e in quello della vita, risorse del lavoratore/capitale umano, diritto alla salute, diritto allo studio, cura della famiglia/di sé, fiducia nel futuro, solidarietà, ideologie forti, progresso, risparmio, investimenti, mobilità sociale, senso di appartenenza a un contesto territoriale, a una classe, alla Storia. Immaginiamo un campione di giovani rappresentativo delle complessità sociale contemporanea, le cui vite vengano declinate all’interno di queste variabili. L’impressione è che affronteremmo non poche difficoltà a spiegare anche solo il significato di alcune di queste. All’interno delle ben note e ampie trasformazioni nel complesso sistema di relazioni, valori, norme ed enti che compongono la società civile, quelle variabili assumeranno significati diversi rispetto al passato, anche recente. La processualità in cui vivono, fatta di continuità e discontinuità, ne ha modificato profondamente il senso, dando a questo termine un’accezione più ampia rispetto a quella di significato. È evidente che si sta parlando di qualcosa che va ben oltre i non precisati confini della categoria Neet. Ciò che più interessa è che, tramite questa operazione, saremo in grado di definire la “posizione” di un soggetto che, almeno apparentemente, non lavora, non studia e non è in formazione all’interno di un discorso che prende in considerazione una o più di quelle variabili. Alcune risulterebbero irriconoscibili, altre magari riconoscibili, ma solo come estraneità, altre ancora potrebbero risultare oscene, risibili. “Posizione del soggetto” nel discorso è il termine chiave. Il discorso non è il prodotto di quel soggetto, ma lo spazio semantico al cui interno egli trova una posizione come “variabile intrinseca”, secondo la definizione di Deleuze. Un discorso che lo precede e lo contiene, che lo classifica. Un discorso che consente di far trasparire gli enunciati che lo innervano, segni inconfutabili del tempo che lo ha prodotto, sulla cui base un soggetto che vi entra parla e viene parlato. Per concludere, il discorso al cui interno viene inserito il Neet non lo vede attivamente coinvolto. Egli vi prende una posizione come soggetto dell’enunciato (colui di cui si parla), mai come soggetto dell’enunciazione (colui che parla). Sarebbe fondamentale capire come quel soggetto si collocherebbe nel discorso Neet come “colui che parla”, che posizioni “intrinsecamente variabili” ne deriverebbero. Probabilmente ne otterremmo una gamma molto vasta, in funzione del modo in cui quelle tre negazioni si relazionano con altre, non meno importanti. Sono quelle che interessano, genericamente parlando, chiaro, le condizioni di esistenza di molti giovani. Ci troveremmo a descrivere qualcosa che potremmo definire la crisi irreversibile dei pilastri storico-culturali dell’Occidente gerontocratico. Non si fanno figli, non si creano famiglie tradizionali, non si fa sesso, non esiste nell’orizzonte di riferimento il futuro come “passione utopica”. Le relazioni (anche quelle erotico-sentimentali) sono e saranno sempre più prevalentemente virtuali; i ragazzini oggi adolescenti sono cresciuti, come ricorda Franco Berardi Bifo, sentendo più le voci riprodotte negli smartphone di quelle delle loro madri. L’ente uomo-macchina sta eliminando pezzo per pezzo l’ingombrante eredità lasciatagli dall’Uomo prodotto dell’umanesimo. I Neet, come sintomo più che come problema, possono aiutarci a ridefinire, con loro e con tutte le soggettività che prendono forma visibile nelle trame complesse e in costante evoluzione del nostro tempo, il senso di un vivere che ci ostiniamo a voler interpretare con strumenti che servono a poco o nulla. Soprattutto, non servono a capire come proprio quel senso, per una larga parte di chi è nato a cavallo tra i due millenni, stia scomparendo irreversibilmente, sotto i nostri occhi presbiti e miopi, insieme all’Uomo che lo ha prodotto, “come sull’orlo del mare un volto di sabbia”. -------------------------------------------------------------------------------- 1 Per ragioni di spazio, si propongono solo i dati per le professioni che hanno una previsione di minimo 500 entrate nel corso dell’anno. La lista completa è molto più lunga, ed è consultabile nel sito di Excelsior Unioncamere. 2 I dati degli avviati non corrispondono alle previsioni di ingresso, perché raccolti con procedure diverse: da indagine campionaria i primi, da fonte amministrativa i secondi. 3 Secondo la descrizione che ne dà Alquati, “la variabile è una qualunque cosa che in qualche modo sta in una processualità ed è soggetta a trasformazione, è suscettibile di assumere più stati. Muta passando tra più stati, in relazione a qualcosa che la fa mutare”. R. Alquati, Per fare conricerca, Calusca, Padova, 1993, p. 69. -------------------------------------------------------------------------------- * Ricercatore indipendente e lavoratore nomade. Gestisce il blog di “Transglobal”. La sua ultima pubblicazione collettiva è: La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023). Collabora saltuariamente con riviste online italiane e lusofone. Ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Neet a chi? proviene da Comune-info.
Quello che accade fuori ci riguarda
LA SPARATORIA CON TRE MORTI A MONREALE INTERROGA TUTTI IN MOLTE CITTÀ. È QUALCOSA CHE TRAVOLGE IL MANTRA INUTILE DI PIÙ ESERCITO NELLE STRADE, PERCHÉ PARTE DEL PROBLEMA DA CUI VOGLIAMO DIFENDERCI SIAMO NOI STESSI. È UNA TEMPESTA CHE SI SCAGLIA CONTRO I FORTINI DELLE NOSTRE INDIVIDUALITÀ NEI QUALI CI ILLUDIAMO DI PENSARE CHE CIÒ CHE ACCADE FUORI NON CI RIGUARDI. È UN GRIDO DI TUTTE LE MARGINALITÀ CHE ABBIAMO ALLONTANATO. “OCCORRE RITROVARE LE PAROLE PER TESSERE NUOVE STORIE – SCRIVE DAVIDE FICARRA -, PER TORNARE A RACCONTARCI TUTTI SENZA LASCIARE NESSUNO FUORI, NEANCHE IL LUPO CATTIVO…” unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- C’è un filo che si è spezzato, il filo che ci tiene insieme, quel legame che chiamiamo umanità e che ci spinge a soccorrere chi ha bisogno di aiuto, che ci ricorda che la vita, la nostra, quella dei nostri cari, quella di tutti è sacra. Questo filo rotto ci interroga tutti, ci parla del nostro fallimento, di una società allo sbando, di una ferocia priva di senso, di una criminalità psicotica priva di progetto. Si invocano più poliziotti, più carabinieri, l’esercito ed il coprifuoco, ma parte del problema da cui vogliamo difenderci siamo noi stessi. Siamo noi che abbiamo smarrito il senso della comunità, siamo noi che ci siamo rinchiusi nei fortini delle nostre individualità ritagliandoci ristretti orizzonti personali, pensando che quello che accade fuori non ci riguardi. Tutte le marginalità che abbiamo allontanato adesso sono una massa enorme, un buco nero di protervia insensata e violenza gratuita, un ammasso che dobbiamo impegnarci a sfoltire e disarmare occupandocene. A Monreale è morto anche un pezzo di Palermo, e oltre al dolore per le giovani vite spezzate, per questa strage senza ragioni, per il senso di vuoto in cui i fatti di sabato notte ci hanno sprofondati, occorre ritrovare le parole per tessere nuove storie, per tornare a raccontarci tutti senza lasciare nessuno fuori, neanche il lupo cattivo. Mi aspettavo che il sindaco Roberto Lagalla dichiarasse il lutto cittadino anche a Palermo. -------------------------------------------------------------------------------- Davide Ficarra vive e lavora a Palermo. Coautore dei soggetti di diversi documentari, ha scritto il romanzo Milza Blues (Navarra ed.) ambientato nella Palermo anni Settanta. Cura con altri il blog Bar Pickwick Palermo e l’esperienza sociale che germoglia dietro. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Quello che accade fuori ci riguarda proviene da Comune-info.
CRONACHE IN DIASPORA. Noura e l’universalità della battaglia per la Palestina
Settima puntata della rubrica audio a cura di Jamila Ghassan sui giovani e le giovani palestinesi in Italia. Oggi incontriamo Noura, nata e cresciuta a Milano, originaria del villaggio di Safad, in Alta Galilea. Con lei abbiamo parlato della presa di coscenza dei legami politici e culturali con la sua terra d’origine fino all’ingresso nei movimenti pro-palestinesi in Italia Manifestazione per la Palestina a Milano della redazione Roma, xxx, Nena News – In questa nuova puntata della rubrica audio “Cronache in diaspora” a cura di Jamila Ghassan e realizzata in collaborazione con i Giovani Palestinesi d’Italia, abbiamo incontrato Noura, nata e cresciuta a Milano, originaria del villaggio di Safad, in Alta Galilea. Noura racconta la sua scoperta della Palestina, la sua essenza geografica ma anche metaforica, la vita della sua famiglia e l’impegno di suo padre e la prepotente presa di coscenza dei legami politici e culturali con la sua terra d’origine fino all’ingresso nei movimenti pro-palestinesi in Italia. La sua immagine, manifestazione in piazza a Milano. http://nena-news.it/wp-content/uploads/2022/04/noura-cronache.mp4 . .