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La Ocean Viking salva 37 naufraghi. La Guardia Costiera libica le intima di lasciare l’area
“Questa mattina la Ocean Viking ha ricevuto un allarme dall’aereo Seabird per una imbarcazione in difficoltà con 37 persone a bordo in acque internazionali nell’area di ricerca e soccorso libica. Dopo aver ricevuto l’ok a procedere dalle autorità di competenza, abbiamo salvato i naufraghi. Una nave della Guardia Costiera libica ci ha intimato di lasciare l’area. I sopravvissuti sono ora a bordo della nostra nave. La maggior parte di loro viene dal Sudan, dove c’è una gravissima crisi umanitaria in corso.” Lo riferisce SOS Mediterranee Italia su X.     Redazione Italia
Mali, la grande pesca sacra
Migliaia di persone si riuniscono ogni anno nella città di San per celebrare il “Sanké mon”, un’antica tradizione di pesca collettiva che ha l’obiettivo di invocare la benevolenza degli spiriti dell’acqua alla vigilia della stagione delle piogge. Oggi, tuttavia, la celebrazione è minacciata dai cambiamenti climatici e dall’instabilità nella regione. Camminano per ore, sotto il sole implacabile del Sahel. Arrivano da villaggi lontani, a decine di chilometri di distanza. Uomini, donne e bambini avanzano portando reti e nasse, intonando canti tradizionali che riecheggiano nella savana. Un’atmosfera di attesa e gioiosa eccitazione avvolge il lungo pellegrinaggio verso il piccolo lago nei pressi di San, nella regione di Ségou, nel cuore del Mali. Qui, ogni anno, si svolge l’evento più atteso e spettacolare: il “Sanké mon”, antico rito di pesca collettiva che raduna migliaia di persone e che, secondo la tradizione, propizia l’inizio della stagione delle piogge. Le radici della celebrazione affondano nella storia ancestrale dei Bambara. Una leggenda racconta che il Sanké mon ebbe origine oltre sei secoli fa, quando un sovrano della regione ordinò una pesca collettiva per celebrare la prosperità del suo regno e garantire l’abbondanza ai suoi sudditi. Da allora, questa manifestazione si è tramandata di generazione in generazione, mantenendo inalterato il suo carattere rituale. La forza della tradizione Nel 2009 il Sanké mon è stato inserito dall’Unesco tra i Patrimoni immateriali dell’umanità, riconoscimento che ha dato risalto internazionale a un rito sacro che rappresenta ben più di un evento folcloristico: per i Bambara è simbolo di rinnovamento, abbondanza e riconciliazione con la natura. Il Sanké mon trae la sua energia da un senso profondo di appartenenza collettiva e dal legame sacro che unisce la comunità all’acqua. I preparativi iniziano giorni prima, con gli anziani, i griot (custodi della storia orale) e i cacciatori che si riuniscono per pianificare l’evento. Questo si apre con danze accompagnate dal ritmo dei tamburi e di strumenti a corda, che riecheggiano nel villaggio creando un’atmosfera vibrante e spirituale. Uomini e donne indossano abiti cerimoniali e tessuti dai colori vivaci, mentre risuonano nell’aria canti di lode, evocando gli antenati e gli spiriti dell’acqua. Il culmine della celebrazione è la pesca nel lago sacro di Sanké. Al segnale degli anziani, migliaia di persone si tuffano nell’acqua torbida munite di reti, ceste e pentole di terracotta, immergendosi in una frenesia collettiva. La pesca dura quindici ore, durante le quali si odono grida di gioia e incitamenti, in un’esplosione di entusiasmo che coinvolge ogni partecipante. Al termine, il pesce catturato viene distribuito secondo regole di equità che tengono conto delle famiglie più bisognose, dei capifamiglia e degli ospiti, riflettendo i valori di condivisione e solidarietà che caratterizzano la comunità. Minacce e rimedi Non è solo una celebrazione: è un rito che rafforza l’identità culturale e sociale dei Bambara, mantenendo vivi la memoria collettiva e il senso di coesione. Tuttavia il Sanké mon è oggi minacciato. I cambiamenti climatici, con l’aumento dei periodi di siccità, hanno ridotto il livello dell’acqua nel lago, compromettendo l’abbondanza della pesca, che per il resto dell’anno è vietata per consentire il ripopolamento. Le risorse ittiche si vanno riducendo, e ciò che un tempo garantiva prosperità rischia di non essere più sufficiente a sostenere la comunità. Anche l’instabilità nella regione costituisce un pericolo crescente. L’insorgenza di gruppi jihadisti ha portato paura e insicurezza, minacciando la continuità di una festa che per secoli ha rappresentato un baluardo di pace. Le autorità militari, consapevoli del valore simbolico e spirituale del Sanké mon, mettono in campo eccezionali misure di sicurezza per consentirne lo svolgimento, inviando centinaia di soldati nell’area per garantire la protezione dei partecipanti. Il governo maliano ha annunciato progetti di riqualificazione ambientale del lago, con l’obiettivo di preservare l’ecosistema e favorire il ripopolamento delle specie ittiche. Parallelamente si punta a sensibilizzare la popolazione sulla tutela dell’ambiente come fonte di vita e benessere collettivo. Le sfide sono grandi, ma il Sanké mon continua a rappresentare la resilienza del popolo bambara, la sua capacità di adattarsi e di lottare per mantenere vive le tradizioni, anche in tempi difficili. La prossima edizione del Sanké mon, fissata, come sempre, per il secondo giovedì del settimo mese lunare, sarà un nuovo momento di sfida e speranza. Mentre il mondo esterno si confronta con le trasformazioni climatiche e sociali, a San si rinnova un rito che parla di vita, comunità e fedeltà alle proprie radici.   Africa Rivista
97 naufraghi ancora bloccati a bordo del mercantile Port Fukuoka
Come denunciato ieri da Sea Watch, 97 persone si trovano attualmente a bordo della nave mercantile Port Fukuoka dopo aver trascorso almeno quattro giorni in mare. Tra loro ci sono tre donne incinte e i cadaveri di due bambini. Il rischio che vengano respinti in Libia rimane alto. SOS Mediterranee informa che nella notte il capitano e il proprietario del mercantile hanno chiesto assistenza alla sua nave Ocean Viking, non essendo preparati a gestire una situazione così drammatica e non avendo ricevuto alcuna istruzione per lo sbarco delle persone salvate. “La mancanza totale di assistenza da parte delle autorità italiane è un vuoto enorme. Chiediamo di assegnare subito un porto” conclude la Ong su X. Redazione Italia
L’Africa deve guardarsi dentro, non indietro
SOUMAILA DIAWARA, RIFUGIATO MALIANO E ATTIVISTA POLITICO, RACCONTA IL SUO DRAMMATICO VIAGGIO VERSO L’EUROPA E ANALIZZA LE FERITE ANCORA APERTE DEL COLONIALISMO E LE NUOVE FORME DI DOMINIO CHE OPPRIMONO L’AFRICA. NEL SUO NUOVO LIBRO L’AFRICA MARTORIATA, DENUNCIA LE RESPONSABILITÀ ESTERNE MA ANCHE QUELLE INTERNE, INVITANDO A UN RISVEGLIO POLITICO E CULTURALE AFRICANO. A cura di Marco Trovato Soumaila Diawara, originario del Mali, è scrittore, attivista politico e rifugiato. Cresciuto a Bamako, si è formato nei movimenti studenteschi dell’opposizione democratica. Dopo il golpe militare del 2012 è stato costretto a fuggire. Ha attraversato il deserto e il Mediterraneo, arrivando in Italia nel 2014. Un viaggio, a tratti drammatico: «Una notte il nostro gommone è naufragato. Eravamo in 120, solo in 30 ci siamo salvati. Io sono rimasto in mare per più di un’ora prima di raggiungere la costa. Ho visto persone morire, essere uccise, ho vissuto l’inferno dei centri di detenzione in Libia». Dopo il memoir Le cicatrici del porto sicuro, firma ora un nuovo libro: L’Africa martoriata (Abra Books 2025, 318 pp. 20 €), un saggio appassionato e rigoroso sulle ferite del colonialismo europeo e sulle nuove forme di dominio che ancora gravano sul continente africano. Il suo libro parte da una riflessione storica: perché è così importante guardare al passato per capire l’Africa di oggi? È fondamentale perché non si può costruire un futuro solido senza analizzare a fondo gli errori del passato, non solo quelli dei colonizzatori, ma anche quelli compiuti dagli africani stessi. La politica africana spesso continua a essere ostaggio di logiche neocoloniali, talvolta rafforzate proprio da leader locali corrotti, che restano tra i principali responsabili del mancato progresso. Serve una vera assunzione di responsabilità da parte di tutti, africani in primis, per costruire una politica più libera, democratica e rivolta ai bisogni reali delle persone. E una maggiore stabilità in Africa non è solo nell’interesse degli africani: è un vantaggio per il mondo intero. Quali sono le eredità più gravi che il colonialismo ha lasciato in Africa? Le più evidenti sono le strutture di potere autoritarie che persistono in molti Paesi. In Togo, per esempio, la stessa famiglia è al potere da decenni. In Gabon i Bongo si sono tramandati il governo per tre generazioni. Ma ci sono anche eredità economiche pesanti, come i debiti contratti durante l’epoca coloniale che ancora oggi strangolano gli Stati africani. Si tratta di debiti imposti da potenze europee, spesso tra governi e banche dello stesso Paese colonizzatore, e che oggi ostacolano seriamente lo sviluppo africano.  Lei analizza i diversi modelli di colonialismo: chi si è macchiato delle responsabilità più gravi? Il Belgio, senza dubbio. È assurdo pensare che un Paese così piccolo, che all’epoca della Conferenza di Berlino nemmeno era una grande potenza, abbia potuto compiere atrocità tanto gravi nel solo Congo. Parliamo di oltre 10 milioni di morti – forse anche 20 secondo alcuni storici – e di mutilazioni inflitte ai bambini per punire i genitori che non raccoglievano abbastanza caucciù. Poi ci sono le violenze italiane in Etiopia, come l’uso di gas contro i civili; l’Italia ha avuto una parte oscura e violenta nel suo colonialismo, e minimizzarla è un errore storico e morale. Senza dimenticare il genocidio dei Nama e Herero in Namibia da parte dei tedeschi. Storie spesso ignorate, ma che parlano chiaro. Dopo oltre 60 anni dalle indipendenze, non è comodo per alcuni governi africani continuare a dare la colpa al colonialismo per i problemi attuali? Concordo. Alcuni regimi, al potere da decenni, continuano a usare il colonialismo come scusa per giustificare il proprio fallimento. Ma se la Francia, ad esempio, non è più presente in Mali e i problemi restano, significa che dobbiamo guardarci dentro. Non si può denunciare l’imperialismo occidentale e poi sottomettersi a quello di altre potenze come la Russia o la Cina. L’Africa deve uscire da questa logica di dipendenza, smettere di aggrapparsi al vittimismo e avviare una profonda pulizia interna. Solo così potremo costruire un’autentica sovranità africana. Lei parla anche delle nuove forme di dominio economico: cosa pensa del ruolo di Cina e Russia nel continente africano? La forma è cambiata, ma la sostanza resta. Il neocolonialismo oggi si presenta in modo più subdolo. La Cina costruisce strade, scuole, ospedali… ma spesso si tratta di infrastrutture pensate solo per collegare le miniere ai porti, non per migliorare la vita delle persone. La Russia, invece, funge da braccio armato, in Mali o nella Repubblica Centrafricana. Si parla tanto di cacciare i francesi, ma domani potremmo fare lo stesso con i russi? Dubito. Le nuove potenze fanno i propri interessi. L’Africa deve imparare a scegliere i partner in base al rispetto e alla reciprocità, non all’ideologia o alla convenienza del momento. Chi sono, oggi, i leader africani più credibili nella lotta per l’indipendenza economica e politica del continente? Purtroppo sono pochi. Spesso ci si illude su certe figure: il ruandese Kagame, per esempio, è visto come un panafricanista, ma in realtà destabilizza il Congo e ne sfrutta le risorse. Uno dei pochi che mi sembra stia davvero tentando di cambiare le cose, nel rispetto dei diritti umani, è Bassirou Diomaye Faye in Senegal. Ha condannato le repressioni e tende la mano ai giovani. Si può rompere con il colonialismo senza chiudere ogni dialogo con l’Europa. Serve equilibrio, non populismo. In Mali oggi governa una giunta militare. È una risposta alla corruzione dei governi precedenti o un nuovo problema? È un problema peggiore. I militari al potere hanno favorito una nuova élite, fatta di giovani legati alla giunta che improvvisamente sono diventati miliardari. È la fotocopia del regime di Moussa Traoré. Chiunque osi criticare viene messo a tacere, arrestato, perseguitato. I veri opinion leader sono spariti dalla scena pubblica. È un sistema autoritario, senza trasparenza né libertà. Cosa pensa del Piano Mattei promosso dal governo italiano? L’idea originale di Enrico Mattei negli anni ’50 era interessante, ma oggi quel piano non è più attuale. L’Africa non è quella degli anni ’50, la popolazione è triplicata, le sfide sono nuove. Parlare di sviluppo con 5 o 10 miliardi è pura propaganda. È un piano pensato più per garantire accesso alle risorse africane che per creare un vero partenariato. Servirebbe qualcosa di profondamente diverso. In Italia si parla spesso dell’Africa come minaccia, come origine di un’invasione migratoria. Cosa pensa quando sente queste narrazioni? Mi indigno. Sono narrazioni costruite ad arte per seminare paura. Gli africani in Italia sono una minima parte della popolazione migrante. Parlare di invasione è falso. Inoltre, lo stesso governo che si lamenta della migrazione irregolare chiede 500.000 lavoratori africani regolari. Allora perché non partire da chi è già qui? Regolarizzarli, formarli, insegnare loro la lingua, integrarli? È assurdo giocare sulla pelle delle persone solo per qualche voto in più. Lei è passato anche dalla Libia. Cosa ha pensato della liberazione del generale Osama al-Masri? Una vergogna. Quest’uomo è responsabile di stupri, torture, schiavitù. Ha fatto costruire un aeroporto privato con la manodopera dei migranti che lui chiamava “i suoi schiavi”. Il governo italiano lo ha accolto con onori, perdendo un’occasione storica per affermare i valori del diritto internazionale. È una sconfitta morale, oltre che politica. In molti Paesi africani stanno nascendo movimenti giovanili che protestano. Cosa chiedono? Ce la faranno a cambiare davvero le cose? Chiedono diritti, istruzione accessibile, lavoro, trasparenza. Vogliono concorsi pubblici senza raccomandazioni, tasse universitarie più basse, meno corruzione. Forse non ce la faranno subito, ma stanno già muovendo le coscienze. I governi non possono arrestarli tutti. E anche l’Occidente dovrebbe capire con chi collaborare: con i popoli, non con chi li opprime.  Spesso si dice che l’Africa non ha futuro. Lei cosa risponde? L’Africa sorprenderà ancora. La sua forza viene dalla sofferenza, ma anche da una nuova consapevolezza. I giovani sanno che il cambiamento non verrà da fuori. Hanno le capacità, la volontà e la forza per costruirsi un futuro. Non bisogna più guardare agli africani come a soggetti passivi. Chi lo fa alimenta il pensiero neocoloniale. Guardiamo a Ghana, Botswana, Sudafrica: l’Africa può farcela, e il suo riscatto sarà anche una chance per l’Europa.   Africa Rivista
I rifugiati di Agadez lanciano una petizione urgente dopo oltre 300 giorni di protesta
Mentre il governo del Niger intensifica la repressione e viola i diritti dei rifugiati, stare al loro fianco è più importante che mai. Firma e condividi ora 1. Da oltre 300 giorni, i rifugiati del Centro “Umanitario” di Agadez, in Niger, continuano la loro protesta pacifica, denunciando condizioni sempre più dure, negligenza amministrativa e intimidazioni da parte delle autorità nazionali. Dall’inizio di luglio, la maggior parte delle persone ospitate nel centro ha smesso di ricevere l’assistenza alimentare. Secondo l’UNHCR, l’aiuto continuerebbe a essere garantito alle cosiddette “categorie vulnerabili”, come vedove, minori non accompagnati e persone con disabilità o patologie croniche. Ma in pratica, le liste degli aventi diritto, emesse dall’UNHCR, hanno escluso numerose persone che rientrano chiaramente nei criteri dichiarati. Inoltre, chi aveva ricevuto aiuti da ONG partner nel 2023 è stato retroattivamente escluso dai nuovi elenchi. A queste persone, al momento della distribuzione, non era stato comunicato che si trattava di un progetto legato all’integrazione economica, né che quel sostegno avrebbe compromesso la possibilità di ricevere aiuti in futuro. In un comunicato diffuso lo scorso maggio, l’UNHCR ha giustificato i tagli come un’opportunità per “favorire l’autosufficienza” attraverso corsi di formazione professionale. Ma la realtà sul campo è che la maggior parte dei rifugiati oggi fatica a soddisfare i propri bisogni fondamentali.  Interviste/Confini e frontiere MENO CIBO, PIÙ AUTONOMIA? IL PARADOSSO DELL’ASSISTENZA DI UNHCR AL CAMPO DI AGADEZ, NIGER I rifugiati: «Non vogliamo restare qui, nel deserto» Laura Morreale 20 Giugno 2025 L’agenzia ONU attribuisce le difficoltà operative ai tagli dei finanziamenti internazionali e alle restrizioni imposte dal governo del Niger. Tuttavia, alcuni operatori umanitari presenti sul territorio segnalano un contesto sempre più repressivo, che rende difficile persino il dialogo diretto con la popolazione rifugiata. In particolare, lo staff UNHCR ha dovuto affrontare ostacoli e intimidazioni quando ha cercato di dialogare con i rifugiati coinvolti nella protesta. I rifugiati riportano che funzionari dell’Ufficio CNE – l’organismo nazionale incaricato di valutare le richieste d’asilo – hanno impedito o interrotto incontri tra il personale UNHCR e i rappresentanti dei rifugiati. Secondo diverse testimonianze, un funzionario del CNE avrebbe affrontato in modo aggressivo e minaccioso un rappresentante dell’UNHCR responsabile delle politiche nutrizionali nel campo, durante un incontro di routine. Episodi simili fanno pensare che le autorità locali stiano volutamente limitando la capacità dell’UNHCR di comunicare e difendere i diritti dei rifugiati. Notizie/Confini e frontiere GESTIRE IL DISSENSO AD AGADEZ Le autorità nigerine dichiarano sciolti i comitati dei rifugiati Laura Morreale 22 Aprile 2025 Nei giorni scorsi, ad alcuni rifugiati è stato detto di “parlare solo per sé stessi”, perché gli organismi di rappresentanza collettiva sono osteggiati dalle autorità nazionali. A partire da maggio, il CNE ha infatti dichiarato illegittimo il comitato dei rifugiati che guida la protesta. All’epoca, otto attivisti erano stati arrestati senza accuse formali e poi rilasciati. Sei di loro – tre donne e tre uomini – si sono visti sospendere la procedura d’asilo tramite un decreto ministeriale datato 3 luglio, con la motivazione di “disturbo dell’ordine pubblico e rifiuto di rispettare le leggi e i regolamenti in vigore nel paese ospitante”. I tentativi di contestare la decisione sono stati respinti dai giudici, che hanno rinviato i casi all’ufficio del governatore. I rifugiati che hanno cercato di presentare denunce formali sono stati ignorati o dirottati altrove. PH: Refugees in Niger Secondo le persone del centro con cui sono in contatto, altri due rifugiati sarebbero stati deportati verso il loro paese d’origine perché “si erano rivolte al tribunale e avevano parlato con i giudici delle condizioni del centro, del trattamento riservato ai rifugiati da parte del personale e degli incidenti verificatisi nel centro, in particolare l’omicidio di un rifugiato nel 2022”. In un contesto di tagli all’assistenza alimentare, restrizioni alla libertà d’espressione e mancanza di accesso alla giustizia, le condizioni psicologiche dei residenti del centro sono peggiorate. Una rifugiata, Nawal Daoud Mohamed, è stata rilasciata dal centro nonostante fosse noto che soffrisse di disturbi psicologici e ora risulta scomparsa. Il CNE ha riferito che sarebbe apparsa in un villaggio a ottanta chilometri dalla città di Agadez, ma i rifugiati non sanno se l’informazione sia accurata o se si tratti di una strategia per evitare disordini nel campo. Secondo i rifugiati, questo caso è emblematico di una negligenza generalizzata verso il benessere psicologico dei residenti del centro. Secondo i rifugiati, questo caso è emblematico di una negligenza generalizzata verso il benessere psicologico dei residenti del centro. Di seguito, condividiamo il messaggio e la petizione inviataci dai rifugiati di Agadez con cui siamo in contatto da diversi mesi: -------------------------------------------------------------------------------- Grazie a Melting Pot Europa per il sostegno costante e per aver dato visibilità agli abusi in corso ad Agadez. Nonostante la nostra resistenza, e una protesta pacifica e legale che dura da oltre 309 giorni, la situazione è purtroppo peggiorata. Abbiamo bisogno della vostra voce. Vi chiediamo di firmare, condividere e amplificare queste storie, petizioni e testimonianze da Agadez. Enough is enough: when peaceful protest is met with collective punishment Dal 15 luglio 2025, i rifugiati del Centro Umanitario di Agadez hanno vissuto quanto segue: * Nawal Daoud Mohamed, una donna di 27 anni, è scomparsa dopo essere uscita dal campo. Era in stato di grave sofferenza psicologica a causa delle condizioni di vita estreme e disumane del Centro Umanitario di Agadez. * Pompe dell’acqua disattivate nel mese più caldo dell’anno, lasciando 2.000 persone – tra cui 800 bambini – senza acqua adeguata, con temperature nel deserto che superano i 50°C. * Assistenza alimentare eliminata per 1.730 persone come punizione per l’espressione pacifica del dissenso. L’UNHCR lo chiama “promozione dell’autosufficienza”. Il diritto internazionale lo chiama punizione collettiva. Su oltre 2.000 residenti, solo 270 persone classificate come “più vulnerabili” hanno ancora accesso alla nutrizione di base. * Otto leader comunitari, sopravvissuti a una detenzione arbitraria a marzo, oggi affrontano nuove minacce semplicemente perché si rifiutano di restare in silenzio. Il CNE ha intensificato le intimidazioni, avvertendo che lo status di rifugiato potrebbe essere revocato a chiunque continui a documentare le condizioni del centro con la campagna #KeepEyesOnAgadez. * Le cure mediche sono state ridotte al minimo, con farmaci limitati a semplici antidolorifici, mentre donne incinte muoiono durante il parto e i bambini vengono respinti da cliniche chiuse. -------------------------------------------------------------------------------- Non possiamo lasciare che tutto questo continui. Firma ora le petizioni per chiedere il ripristino immediato di cibo, acqua, cure mediche e la fine delle intimidazioni. Ogni firma aumenta la pressione sul governo del Niger e sull’UNHCR. ✍️ Petizione al Governo del Niger ✍️ Petizione all’UNHCR Bastano 5 minuti, ma possono salvare delle vite. Condividi questo appello e tagga 3 persone che hanno a cuore i diritti umani. Quando firmiamo insieme, i funzionari devono ascoltare. 1. ✍️ Petizione al Governo del Niger ✍️ Petizione all’UNHCR ↩︎
Mediterraneo rotta letale: due bambini morti e una persona dispersa
Lunedì abbiamo individuato un’imbarcazione in difficoltà e allertato le autorità. Ieri il natante si è capovolto durante un’operazione di soccorso da parte di un mercantile. Lunedì il nostro aereo Seabird ha individuato un’imbarcazione in difficoltà con oltre 90 persone a bordo che era in mare da tre giorni. Due persone erano in acqua. Abbiamo immediatamente chiesto aiuto. Frontex è arrivata sei ore dopo, ha visto il natante e se n’è andata. Ieri mattina, le persone erano ancora abbandonate al loro destino. Le navi di soccorso europee avrebbero potuto raggiungerle in circa tre ore, ma hanno scelto di non intervenire. Quando la nave mercantile Port Fukuka, che si trovava nelle vicinanze, ha cercato di soccorrerle, l’imbarcazione si è capovolta. Tutte le persone a bordo sono finite in mare. Una volta soccorse, due bambini erano deceduti e una persona risultava dispersa. Oggi i naufraghi sono ancora sul mercantile e le autorità italiane stanno facendo di tutto per impedire loro di raggiungere l’Italia. C’è il pericolo imminente che la cosiddetta Guardia Costiera libica li rapisca e li porti in Libia, verso tortura e morte. È inaccettabile. La nostra nave veloce Aurora avrebbe potuto intervenire in soccorso di queste persone. Si trova a sole quattro ore e mezza di distanza, ma è bloccata dalle autorità italiane nel porto di Lampedusa con motivazioni prive di fondamento. Questo “spettacolo” vergognoso non si è ancora concluso, ma le autorità italiane ed europee non sono intervenute. È un sistema che sta facendo ciò per cui è stato progettato: lasciare che le persone anneghino ai confini dell’Europa. Silenziosamente, sistematicamente. Sea Watch
La Life Support salva 71 naufraghi in due operazioni di soccorso
La Life Support, la nave search and rescue (Sar) di EMERGENCY, ieri alle 19.20 ha concluso un secondo soccorso di un’imbarcazione in difficoltà nelle acque internazionali della zona SAR libica, portando in salvo altre 21 persone. Naufraghi che si sono aggiunti alle 50 persone soccorse sempre ieri, ma in mattinata. Complessivamente sono ora al sicuro a bordo della nave di EMERGENCY 71 persone.  Il secondo caso di mezzo in pericolo, una piccola barca in vetroresina inadatta ad affrontare la traversata del Mediterraneo, è stato avvistato direttamente dal ponte di comando della Life Support, poco prima delle 19. “Ieri sera mentre ci apprestavamo a raggiungere la posizione di un secondo caso di barca in difficoltà, abbiamo visto due mezzi che si avvicinavano alla nostra nave e ci siamo resi conto che uno dei due era sovraccarico di persone senza giubbotto salvagente e che chiedevano aiuto – spiega Jonathan Naní La Terra, Capomissione della Life Support di EMERGENCY. “Abbiamo quindi messo in acqua un mezzo di soccorso e ci siamo avvicinati al barchino. Il nostro team ha effettuato una prima valutazione del caso e distribuito i salvagente, successivamente ha trasferito le persone a bordo del nostro mezzo e poi al sicuro sulla Life Support. Ora stiamo navigando verso Ancona, il Pos (Place of safety) che ci è stato assegnato dalle autorità italiane, dove arriveremo il 26 luglio alle 13 circa.” Le 21 persone soccorse con l’intervento di ieri sera, tutti uomini tra cui 4 minori non accompagnati, provengono da Egitto, Bangladesh, Eritrea, Somalia e Myanmar. Tre persone che erano a bordo dell’imbarcazione in difficoltà hanno rifiutato il soccorso e, finito l’intervento della Life Support, si sono allontanate insieme all’altro mezzo che si era avvicinato senza interferire con le operazioni. Tra i 71 naufraghi a bordo della nave di EMERGENCY ci sono 2 donne, una delle quali incinta al nono mese, e 15 ragazzi minori non accompagnati. “Abbiamo attualmente a bordo 71 persone, tra loro ci sono anche minori non accompagnati e una donna alla 36esima settimana di gravidanza; tutti sono molto provati dal viaggio, ma fortunatamente al momento nessuno presenta criticità cliniche” dichiara Serena Buzzetti, Medical team leader della Life Support di EMERGENCY.  Dopo aver completato il soccorso e aver informato le autorità competenti alla Life Support di EMERGENCY è stato confermato il Pos di Ancona, a oltre 800 miglia di distanza dalla zona operativa. EMERGENCY ribadisce che costringere i naufraghi ad ulteriori giorni di navigazione prima di poter sbarcare in un porto sicuro significa aumentarne le sofferenze, posticipare il loro accesso alla rete dei servizi socio-sanitari e la loro richiesta di asilo. Tutte le persone soccorse in mare, in quanto naufraghe e considerate le loro difficili esperienze pregresse, sono vulnerabili e per questo dovrebbero essere sbarcate in luogo sicuro nel minor tempo possibile. La Life Support, con un equipaggio composto da marittimi, medici, infermieri, mediatori e soccorritori, sta compiendo la sua 34/a missione nel Mediterraneo centrale, operando in questa regione dal dicembre 2022. Durante questo periodo, la nave ha soccorso un totale di 2.854 persone.        Emergency
Suliman, Fatima e la tenace resistenza di Al Fashir in Darfur
“Una parte di Al Fashir ancora resiste” mi dice Suliman. Resiste ai Janjaweed (Forze di Supporto Rapido). Poi nel séguito della telefonata mi precisa che è solo il 25% della città ad essere ancora sotto il controllo delle Forze Armate Sudanesi e delle Forze congiunte. Il resto del Darfur è ormai tutto in mano -ahimé- ai Janjaweed: si tratta del 75% della stessa Al Fashir (capitale del Darfur settentrionale), e interamente delle quattro capitali delle corrispondenti altre regioni del Darfur: Nyala (capitale del Darfur meridionale, la città di Suliman, dove ancora si trova il fratello maestro di scuola che avendo fatto partire moglie e figli non aveva abbastanza soldi per mettersi in viaggio, alias in fuga, lui stesso); Zalingei (Darfur Centrale); El Geneina (Darfur Orientale, quello confinante col Ciad dove hanno riparato parenti di Suliman); El Daein (capitale del Darfur Orientale). Nei bei palazzi costruiti dagli inglesi rimasti in piedi in queste città si sono sistemati gli odiosi Janjaweed, assassini seriali mai sazi del sangue dei cittadini africani che abitano la loro terra e vivono nelle loro case. O forse dovrei dire “abitavano” e “vivevano”. Ma quel pezzetto di Al Fashir che resiste, ormai da 225 giorni, è un simbolo per tutto il Darfur. Chiedo se oltre a chi combatte ci sono dentro la città ancora cittadini che non sono riusciti ad andare via. E sì, qualche famiglia c’è, ma pochissime, rimaste intrappolate. Per il resto, gli abitanti di Al Fashir, così come quelli di tanti villaggi dei dintorni erano tutti confluiti nei grandi campi profughi allestiti fuori della città, di cui il più grande era Zanzan. Parlo al passato perché ora quel campo con il suo milione e mezzo di persone non c’è più: “Tutti morti o andati via”. Quando i Janjaweed sono entrati, dopo averlo a lungo assediato, hanno trovato tanti bambini morti perché senza più cibo né acqua e senza più genitori. “Zanzan finito” dice laconicamente il mio amico per telefono. Gli chiedo del Kordofan: sentivo giorni fa al radiogiornale che ci sono state migliaia di morti. Sì, me lo conferma: da circa 20 giorni il Kordofan (una regione a sud-ovest di Khartoum) è assediato in tante delle sue città, con morti a non finire. E Khartoum? “Adesso non c’è guerra” – dice – “però… non lo so”- aggiunge in tono mesto. In circa il 30% delle case della capitale sono stati trovati corpi di cittadini morti (gli abitanti delle case stesse). “Mia casa non c’è corpi… solo c’è un bagno chiuso”. Quindi inaccessibile e non si sa cosa ci sia dentro. Le testimonianze sono del suo vicino di casa che per fortuna è riuscito a salvarsi. “Tua figlia?” domando. E mi riferisco alla sua prima figlia (nata da un precedente matrimonio) che abita a Melit, città a nord di Al Fashir, sulla via per la Libia; mi dice che è lì con quattro figli e con lei c’è la cognata con tre figli. I mariti sono andati probabilmente in Ciad a cercare lavoro e questo nucleo di donne e bambini si trova circondato dalla guerra, senza strade per fuggire. La guerra fa anche questo: distrugge le strade oltreché le case: non puoi abitare e non puoi andartene. Il figlio Ahmed sta ad Anzari, a nord del Sudan: è tornato lì dove si era fermato mesi fa ed aveva lavorato come tecnico dei telefoni satellitari; è ritornato a fare quel lavoro lasciando Il Cairo (dove era andato a raggiungere i genitori) verificata l’impossibilità di lavorare nella capitale egiziana. Questo ragazzo ormai forse 28 enne, il “piccolo” di Suliman e Fatima, è un “acrobata dei tetti”: a Khartoum si era specializzato frequentando un corso ed era stato chiamato -fra l’altro- dall’Ambasciata Italiana per installare la parabola del satellitare sopra al loro palazzo. Chiedo a Suliman se essendo così giovane e pericolosamente appetibile per questi delinquenti combattenti non sia per lui rischioso trovarsi in territorio sudanese, ma Suliman mi dice che i Janjaweed non arrivano così a nord, non osano avvicinarsi all’Egitto, e anche se fra Anzari ed Assuan, nel sud dell’Egitto, ci sono comunque più di 500 Km si tratta però di chilometri di puro deserto. Questa è la vita di un giovane sudanese, brillante studente di ingegneria che ha dovuto fermarsi al terzo anno perché all’Università di Khartoum non c’è il biennio di ingegneria. Sognava di completare gli studi in un’Università italiana (avevamo puntato e contattato Perugia), ma il suo sogno è stato brutalmente interrotto. Mi chiedo quanti altri e altre siano nella stessa situazione. Probabilmente tutti e tutte – mi rispondo: la guerra è particolarmente crudele con i giovani; è crudele con il futuro. Finalmente chiedo notizie di loro due – lui e sua moglie Fatima: “E voi come state?” “Siamo … così.” mi risponde, con un tono di triste accettazione. Fatima per la sua malattia auto-immune (il Lupus) deve andare ogni 14 giorni in un ospedale (privato) a farsi fare due iniezioni. L’ospedale sta appena fuori dalla città, in una parte moderna e non collegata con la metro; devono prendere il taxi. La visita non è particolarmente cara, ma le due punture sì: sono 100 dollari da sborsare ogni 14 giorni. Per fortuna in questo periodo stanno ricevendo qualche supporto economico dalle due figlie – una dalla Germania e l’altra dagli Stati Uniti (speriamo non diventi vittima delle nuove ‘politiche migratorie’ di Trump, che altro non sono se non deportazioni di massa). Ecco cosa significa la mancanza di ‘Stato sociale’ – dico fra me e me pensando al “Lupus” da curare privatamente: i cittadini indigenti che non hanno aiuti e supporti da altre persone possono tranquillamente crepare. Ecco il tipo di Stato verso cui noi italiani stiamo pericolosamente tornando, mentre riempiamo gli arsenali a dismisura perché così ci chiedono le lobbies delle armi. Suliman ricorda la guerra che i Janjaweed (finanziati dall’allora governo di Al Bashir) avevano scatenato in Darfur agli inizi di questo millennio: diversamente da venti anni fa, quando ad essere attaccato era solo il Darfur, oggi la guerra è in tutto il Paese: dei 18 stati che compongono il Sudan, solo 6 non sono sotto il controllo delle Forze di Supporto Rapido (alias i Janjaweed)e sono controllati dal governo sudanese. Si tratta degli Stati del Nilo Azzurro, di Kassala, di Gedaref, dello Stato del Nord, dello Stato del Nilo e di quello del Mar Rosso. Nella capitale di quest’ultimo, Port Sudan, sono stati trasferiti tutti gli uffici amministrativi e le ambasciate fin da quando, a pochi mesi dall’inizio della guerra, il governo decise di lasciare Khartoum che era entrata da subito nel pieno delle battaglie. E a Port Sudan erano dovuti andare Suliman e Fatima quando, lasciato il campo profughi dell’Etiopia (racconti da far inorridire), avevano deciso di dirigersi verso l’Egitto: la “nuova capitale” sudanese era tappa d’obbligo per mettere in regola i passaporti. Una città dal clima pessimo: molto calda e umidissima, 50 gradi, anche la notte. “Port Sudan: un forno” ricorda Suliman, mentre “Darfur adesso non caldo: pioggia. Sempre buon clima in Darfur”. Quei tre mesi del caldo -mi spiega- sono mitigati dalla pioggia. E Al Cairo per quanto riguarda il clima? “Normale. 40-45 gradi, qualche giorno 35”. Ma non c’è umidità (nonostante la presenza del Nilo che -se ho capito bene- ha poca acqua lì alla foce); è un caldo secco. La TV egiziana non parla di questa gravissima guerra che è scoppiata ai propri confini e di cui lo stesso Egitto risente fortemente per la grande quantità di profughi arrivati e in arrivo. Si parla invece della Palestina, dell’assedio di Gaza (chissà se usano la parola “genocidio” o se sono pavidi come i nostri governanti). Nomino Meloni; lì per lì Suliman non capisce; gli ricordo che è la nostra Presidente del Consiglio. E lui, avendola a quel punto messa a fuoco: “Ah, quella signora che io non piace!”. Rido e aggiungo: “Anche io non piace”. Vuole poi che gli ricordi il nome del partito di questa signora e saputolo commenta: “Non è Sorelle. Fratelli”. La ‘sorella’ -non d’Italia, ma del mondo- arriva poco dopo da me al telefono: è Fatima che mi saluta avviando il nostro stringatissimo dialogo con un “Come stai?” perfettamente pronunciato. Brava Fatima, bravo Suliman, resistenti ad oltranza, come quel 25% di Al Fashir. Link agli articoli precedenti: https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/ https://www.pressenza.com/it/2025/01/la-mia-amica-fatima-che-resiste-come-al-fashir-in-darfur/ Francesca Cerocchi
Il Marocco espelle giornalisti e un attivista che sostengono il Sahara occidentale
Le autorità di occupazione marocchine hanno espulso l’8 luglio 2025 due giornalisti e un attivista per i diritti umani che si trovavano nel Sahara Occidentale per osservare e raccontare la situazione del popolo Saharawi; le persone coinvolte lavoravano in coordinamento con Equipe Media. Questo atto – definito illegale – sottolinea la continua repressione marocchina della libertà di stampa e dei difensori dei diritti umani nel territorio occupato. Gli espulsi sono la giornalista asturiana Leonor Suárez, Óscar Allende (direttore del media digitale El Faradio) e Raúl Conde, membro dell’organizzazione Cantabria per il Sahara. I tre sono stati intercettati e trattenuti durante un controllo della polizia a El Aaiún, capitale del Sahara Occidentale occupato. Dopo l’arresto, le autorità marocchine li hanno dichiarati “personae non gratae” (persona non gradita) senza fornire alcuna giustificazione formale. Sono stati quindi costretti a lasciare il territorio con la loro auto e scortati da quattro veicoli della polizia segreta marocchina fino alla città di Agadir, in Marocco. Gli espulsi hanno denunciato che «questa detenzione ed espulsione è la prova delle vessazioni subite non solo dagli attivisti saharawi, ma anche da coloro che cercano di sostenerli». Hanno aggiunto che «queste azioni riflettono il fatto che il Marocco non rispetta i diritti umani più elementari ed è preoccupante che continui a essere un partner preferenziale di Paesi democratici come la Spagna». Le tre persone espulse oggi portano a 330 il numero totale di osservatori e attivisti espulsi dal Sahara occidentale dalle autorità marocchine negli ultimi anni. Traduzione dallo spagnolo di Stella Dante. Revisione di Mariasole Cailotto. Equipe Media
SOS Humanity pubblica le prove di un respingimento illegale e della scomparsa di 4 persone durante un’operazione della Guardia Costiera tunisina e di quella italiana
Venerdì 11 luglio il nostro equipaggio è riuscito a salvare 26 persone da un gommone sovraffollato e non idoneo alla navigazione, senza giubbotti di salvataggio, nelle acque internazionali della zona di ricerca e soccorso (SRR) libica. Il luogo sicuro (PoS) assegnato dalle autorità italiane è Brindisi, dove Humanity 1 arriverà martedì 15 luglio alle 09:00 CET circa. Il caso di emergenza è stato individuato dai binoculari venerdì mattina. Intorno alle 11:15 CET, il soccorso di un’imbarcazione sovraffollata è stato completato e tutti i 26 sopravvissuti sono stati portati in salvo a bordo. Erano partiti da Zuwiyah e avevano trascorso 30 ore in mare. La maggior parte dei sopravvissuti, tra cui alcuni minori, proviene dal Sudan devastato dalla guerra, mentre altri provengono dall’Egitto, dal Mali e dalla Costa d’Avorio. Poco dopo aver completato il salvataggio, Humanity 1 ha ricevuto una richiesta di soccorso da un aereo Frontex che segnalava circa 70 persone in pericolo. L’aereo dell’ONG Seabird 1 era sul posto e ha confermato il caso di emergenza e che l’imbarcazione era alla deriva. Humanity 1 ha proceduto a prestare assistenza sotto il coordinamento del Centro di coordinamento marittimo italiano (MRCC). Durante la navigazione, l’equipaggio di Humanity 1 ha ascoltato una conversazione radio VHF tra la Guardia Costiera tunisina e quella italiana riguardo a un’operazione in mare: la Guardia Costiera tunisina ha riferito di aver preso a bordo 33 persone, mentre la Guardia Costiera italiana ha segnalato 27 persone a bordo della propria imbarcazione, indicando che quattro persone erano disperse. Il MRCC italiano ha successivamente informato l’equipaggio di Humanity 1 che le persone erano state “soccorse” e ha ordinato alla nave di procedere verso Brindisi. Le prove raccolte da SOS Humanity da bordo di Humanity 1 confermano un respingimento illegale da parte della Guardia Costiera tunisina, che ha costretto 33 persone a tornare in Tunisia e ha lasciato almeno 4 persone disperse in mare. L’intercettazione coercitiva da parte della Guardia Costiera tunisina è stata pubblicata per la prima volta dai progetti Maldusa e Mediterranean Hope sulla base delle testimonianze dei sopravvissuti sbarcati a Lampedusa dopo essere stati soccorsi dalla Guardia Costiera italiana venerdì 11 luglio. La loro pubblicazione rispecchia le prove raccolte in mare da Humanity 1. Questo è l’ennesimo esempio delle conseguenze mortali delle politiche di esternalizzazione dell’UE: con il sostegno dell’UE e dei suoi Stati membri, le persone in cerca di protezione vengono lasciate morire e i rifugiati vengono riportati contro il diritto internazionale in Tunisia, dove sono sottoposti a detenzione arbitraria, discriminazione razziale ed espulsioni collettive nel deserto. La Guardia Costiera tunisina non effettua operazioni di ricerca e soccorso in conformità con il diritto internazionale, ma costringe illegalmente le persone a tornare in Tunisia nonostante la Guardia Costiera italiana sia sul posto per soccorrerle e portarle in un luogo sicuro. Questa è la chiara conseguenza dell’esternalizzazione sistematica delle operazioni di ricerca e soccorso, che l’UE e i suoi Stati membri affidano alla Guardia Costiera tunisina. La perdita di quattro vite umane e il ritorno forzato di 33 persone in Tunisia, dove i loro diritti non sono tutelati, è l’ennesima prova lampante delle politiche migratorie letali dell’Europa e della sua diretta responsabilità per queste violazioni dei diritti umani in mare. Redazione Italia