Suliman e Fatima contano i morti e i torturati in famigliaA casa di Suliman e Fatima al Cairo è arrivato un ragazzo: è spaventosamente
magro e provato nel corpo e nello sguardo da vessazioni e torture. E’ il loro
nipote Abdullah Abdel-Rahman, che racconta la sua storia: arrestato dalle Forze
di Supporto Rapido a El Fashir insieme ad altri quattro giovani il giorno della
caduta di Zamzam, è stato torturato insieme agli altri tre; gli altri sono morti
per le sevizie e per la fame, mentre lui è stato gettato in una discarica vicino
a Zamzam. Questo succedeva il 10 agosto, mentre infuriava la battaglia. Lì nella
discarica è stato individuato e messo in salvo da uomini delle Forze Congiunte,
che lo hanno caricato sui loro veicoli e trasportato fino ad Al-Judud; qui
Abdullah è stato affidato ad alcuni sudanesi che si recavano nelle zone aurifere
al confine tra Sudan ed Egitto (molto sudanesi cercano lavoro in quella zona:
forse questa attività è uno dei pochi lavori possibili in questo momento). Nella
dolorosa e tristissima vicenda di Abdullah ci sono stati anche tanti incontri
positivi, con persone che lo hanno di fatto salvato: così è stato per i
cercatori d’oro che gli hanno pagato il biglietto per arrivare ad Assuan e da lì
al Cairo.
“Oggi lo abbiamo ricoverato al Pronto Soccorso”: così termina il messaggio di
Suliman. Le notizie continuano la sera: il nuovo messaggio dice che all’ospedale
hanno deciso di fargli esami del sangue approfonditi, ecografie ed altro; il
ragazzo soffre di rigidità allo stomaco perché per quattro mesi ha mangiato
soltanto mangime per animali e pane secco. In un successivo messaggio vengo a
sapere che la madre di Abdullah è la cugina di Suliman e che in questi giorni è
lì a casa con lui e Fatima. Aggiunge che appena avranno i risultati delle varie
analisi andranno dal medico, ma “le sue condizioni sono molto critiche”.
Non mancano purtroppo i lutti in famiglia ed ecco che ricevo l’elenco: “Sei
persone sono morte di fame nel campo profughi di Naivasha e nessuno ne ha saputo
nulla”. Sembra che i vicini si siano accorti della loro morte soltanto pochi
giorni dopo. Questa precisazione mi lascia di stucco: anche in un campo
profughi, anche fra tenda e tenda può esserci così tanta distanza da ignorare
l’agonia e la morte di sei persone? Forse non ho capito bene. Questa parte del
messaggio si conclude con: “Che Dio abbia pietà di loro e li perdoni”. Segue
l’elenco dei nomi che voglio qui riportare perché non è un numero a essere stato
ucciso da questa insulsa e gravissima guerra di fazioni, ma sono persone
specifiche, ognuna còlta a un certo stadio della vita – con il suo carattere, la
sua voce, i suoi modi, i suoi pensieri, con i suoi sogni per un futuro che è
svanito con violenza inenarrabile. Eccoli:
Hajja Mariam Tandel Suleiman
Hajja Saliha Suleiman Bedi
Madre Amani Fath Al-Rahman
Bambino Saber Salem Mustafa
Bambino Saeed Salem Mustafa
Bambino Sabry Salem Mustafa
Ho fatto bene a scriverli anche perché scrivendoli me li sono immaginati: i loro
nomi chiamati dalla mamma e loro, i bambini, che corrono.
La comunicazione con il mio amico Suliman continua per Whatsapp. Due giorni dopo
ricevo un articolo intitolato “Darfur e la sua reputazione offuscata a causa dei
Janjaweed”. Mi sembra un pezzo importante perché ristabilisce la verità delle
cose anche per tutti quelli che, poco informati, prendono con superficialità le
notizie che arrivano (di rado, a dire il vero) dal Sudan. Soprattutto illumina
il Darfur di una luce diversa da quella che implicitamente gli si dà sentendolo
nominare solo per atti di brutalità, feroci assassini e stragi gratuite. “In
tutto il Darfur non troverete mai una persona che uccida il proprio fratello per
il suo bestiame, tranne i Janjaweed”. Se conflitti si sono verificati tra le
varie tribù, movimenti e organizzazioni dei diversi Stati del Darfur – continua
l’articolo – si è trattato di contrasti di tipo politico-sociale. Per il resto
il Darfur era e rimane terra di diversità e convivenza e la sua gente sostiene i
valori della generosità, del coraggio e della protezione dei propri ospiti; non
certo dell’odio, del saccheggio e dell’omicidio, modalità che sono sempre e solo
appartenute ai Janjaweed, con i vari nomi che negli anni questa milizia si è
auto-attribuita: Guardie di Frontiera, Ambaga, Consiglio del Risveglio, Forze di
Supporto Rapido. E dietro ci sono sempre loro, impegnati ad annientare le
comunità, a impadronirsi delle terre e degli animali, a distruggere i villaggi e
a uccidere i loro abitanti. E quello che nel 2023 hanno fatto nei vari Stati del
Darfur oggi lo stanno ripetendo ancora in Darfur e purtroppo anche in tutto il
Sudan, compresa la sua bella capitale Khartoum. La distruzione di un Paese. Il
genocidio di un popolo.
Ieri però è arrivato un nuovo messaggio in Whatsapp: Abdullah verrà dimesso
dall’ospedale domenica prossima perché “le sue condizioni sono in continuo
miglioramento”. Questa sì che è una bellissima notizia. Da una telefonata che
infine riusciamo a fare vengo a sapere che Abdullah era arrivato a casa loro non
camminando sulle sue gambe, ma accompagnato e sostenuto da altri ragazzi
sudanesi, anche loro in fuga. Ora riesce a camminare e anche a “chiacchierare”.
Circa il nutrimento, per il momento bisogna limitarsi a latte e succhi di
frutta, oltre alle flebo.
Suliman continua a ringraziare per una piccola somma che con una rapida colletta
avevo inviato non appena saputa la notizia di questo arrivo inaspettato: senza
quei soldi non avrebbe potuto pagare gli esami medici, le cure e la degenza
ospedaliera. Perché è tutto a pagamento per gli stranieri. “Anche se devo
parlare devo pagare soldi in Egitto” dice, con tono più amaro che ironico. Solo
quando si ottiene l’asilo politico si può andare nell’ospedale dell’Onu o anche
in un ospedale normale a carico (non intero) dell’Onu stessa. Gli chiedo del suo
asilo politico, quanto manca per avere la convocazione: ancora quattro mesi,
sarà a dicembre (dal dicembre scorso che ha presentato la domanda). E’ arrivato
in questi giorni il suo amico italiano Domenico, già console (o qualcosa del
genere) in Sudan e gli ha portato diverse scatole della sua medicina per la
prostata. E anche questa è una buona notizia.
Il figlio Ahmed, che lavora nelle zone aurifere del nord Sudan occupandosi della
telefonia satellitare, gli invia tutti i mesi i soldi dell’affitto, e anche le
figlie, una dagli Stati Uniti e l’altra dalla Germania si danno da fare come
possono.
Affetto e premure non mancano dalla famiglia stretta, ma oggi Suliman ha una
voce diversa, quella di una persona sfinita, che ha completamente esaurito la
sua “sabur” (pazienza, proverbiale in lui). Glielo dico. Mi risponde che i
motivi sono il vivere fra persone malate – Abdullah, la moglie Fatima, lui
stesso – e “la povertà”.
Ma come si può non essere immensamente, eternamente tristi e pieni di dolore
quando non ci sono più la tua casa, la tua città, il tuo Paese, la tua gente?
Link agli articoli precedenti:
https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/
https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/
https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/
https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/
https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/
https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/
https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/
https://www.pressenza.com/it/2025/01/la-mia-amica-fatima-che-resiste-come-al-fashir-in-darfur/
https://www.pressenza.com/it/2025/07/suliman-fatima-e-la-tenace-resistenza-di-al-fashir-in-darfur/
Francesca Cerocchi