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Aumentano i chirurghi pediatrici in Uganda
Entebbe (Uganda), 17 set. – Chirurghi che fanno crescere l’Africa. Capaci di renderla più forte e più in salute, grazie a un impegno comune che permette la condivisione di esperienze e competenze. “Qui in Uganda nel 2012 c’era un solo chirurgo pediatrico, mentre adesso sono in 12” calcola Giacomo Menaldo, direttore nazionale di Emergency, già al lavoro in aree di crisi e conflitto come l’Afghanistan e l’Iraq. Alle spalle i mattoni di terra cruda del Centro pediatrico di Entebbe, disegnato dall’architetto Renzo Piano e aperto dall’ong italiana nel 2021, aggiunge: “Noi ovviamente speriamo che presto siano 20, 30 o 50 certificati, con un approccio panafricano che garantisca l’eccellenza della formazione insieme con un alto livello di competenze e la qualità delle cure”. I chirurghi, in arrivo non solo dall’Uganda ma anche dall’Etiopia o dal Sudan, li incontriamo nelle corsie e nei reparti del Centro pediatrico. “Questo ospedale è divenuto parte della rete del Cosecsa, il Collegio dei chirurghi dell’Africa centrale, orientale e meridionale” spiega Menaldo: “Un risultato raggiunto negli ultimi due anni, grazie alla collaborazione con il Mulago Hospital, che nella capitale Kampala è un fiore all’occhiello”. Istituto nel 1999, il Collegio ha stabilito la propria base ad Arusha, in Tanzania. Si propone di alzare lo standard professionale, garantendo livelli uniformi tra i Paesi del continente. Il training riguarda le diverse branche del settore, dalla chirurgia pediatrica a quella ortopedica, dalla cardiochirurgia alla neurochirurgia. La cura dei bambini, in particolare nei casi di malformazioni congenite, ha un valore particolare: secondo le statistiche internazionali, l’età media della popolazione supera di poco i 19 anni. “Qui da noi arrivano fellow e studenti che, in un percorso di specializzazione triennale, si fermano da noi per tre mesi” riprende Menaldo. “I nostri punti di forza sono la chirurgia addominale, quella urologica e quella plastica”. Di formazione parliamo anche al Mulago Hospital, all’ultimo piano di un grattacielo, mentre gli alberi nel cortile sono sferzati da un temporale tropicale. Ci accoglie il vice-direttore della struttura, John Sekabira, esperto e figura di riferimento: fino a poco più di dieci anni fa era proprio lui l’unico chirurgo pediatrico dell’Uganda. “Gli specializzandi devono poter imparare nei nostri Paesi e non essere costretti ad andare lontano, magari nel Regno Unito o in Sudafrica come è capitato a me” sottolinea il dottore. “Il rischio è che poi restino all’estero, mentre qui ci sono tanti bisogni e servono specialisti e professionalità: solo in questi padiglioni abbiamo 1.700 posti letto”. Buone notizie stanno arrivando anche grazie a una collaborazione tra Cosecsa e Kids Operating Room, un’organizzazione internazionale che si è impegnata per la chirurgia pediatrica a partire dal 2018, con un primo progetto proprio a Kampala, realizzato insieme a Sekabira. Programmi di tirocinio hanno coinvolto Paesi che non hanno mai avuto specialisti, come il Burundi: i suoi primi chirurghi generali che si stanno specializzando in pediatria si chiamano Alliance Niyukuri e Carlos Nsengiyumva.     Redazione Italia
Humanity 2, una nuova barca a vela per la ricerca e soccorso nel Mediterraneo
Con la barca a vela Humanity 2, l’organizzazione di ricerca e soccorso SOS Humanity, attiva da dieci anni, sta portando una seconda nave di soccorso nel Mediterraneo centrale. La barca a vela, lunga circa 24 metri, è attualmente in fase di acquisto da parte di SOS Humanity e sarà poi convertita. A partire dalla metà del 2026, la Humanity 2 colmerà un gap letale al largo delle coste tunisine come nave di soccorso e di monitoraggio. “Le rotte migratorie nel Mediterraneo stanno diventando sempre più pericolose perché l’UE paga i Paesi terzi per intercettare i rifugiati. Invece di salvare vite umane, l’Europa si sta isolando a tutti i costi e rendendo il Mediterraneo ancora più letale”, afferma Till Rummenhohl, amministratore delegato di SOS Humanity. “Nella zona marittima al largo della Tunisia si è creato un vuoto di operazioni di soccorso che mette a rischio la vita delle persone ed è caratterizzato da violazioni sistematiche dei diritti umani da parte della Guardia Costiera tunisina. Le imbarcazioni scompaiono senza lasciare traccia perché la Tunisia impedisce la ricognizione aerea e il Centro di coordinamento dei soccorsi tunisino non coordina adeguatamente i soccorsi. Le persone fuggono su imbarcazioni metalliche altamente pericolose che affondano rapidamente. Questa drammatica realtà ci spinge ad agire. Con la barca a vela Humanity 2 salveremo vite umane e documenteremo le violazioni dei diritti umani al largo della Tunisia, dove l’Europa sta fallendo. La nostra barca a vela è perfettamente complementare alla Humanity 1, che opera al largo della Libia. In questo modo saremo in grado di soccorrere più persone in pericolo in mare e aumentare la pressione sui responsabili”. Il veliero è attualmente ancora ormeggiato in un porto sulla costa francese, ma sarà trasferito in Sicilia nel mese di novembre e dovrebbe essere sottoposto a lavori di conversione presso il cantiere navale a partire da dicembre. SOS Humanity sta ora raccogliendo donazioni per finanziare il progetto. “Soprattutto ora che il nuovo governo federale tedesco ha tagliato tutti i finanziamenti statali, abbiamo più che mai bisogno del sostegno della società civile”, sottolinea Till Rummenhohl. “Siamo fermamente convinti che la maggioranza dei cittadini europei non voglia semplicemente lasciare annegare chi cerca protezione nel Mediterraneo. La società civile ci ha permesso di salvare oltre 39.000 persone in dieci anni e continuerà a sostenere il nostro lavoro di soccorso”. Questa solidarietà e umanità in azione dovrebbero servire da esempio ai politici. Dal 2015, l’UE e i suoi Stati membri non sono riusciti a istituire un programma europeo di ricerca e soccorso per porre fine alle morti nel Mediterraneo. Al contrario, sono complici di violazioni dei diritti umani e ostacolano deliberatamente il lavoro delle organizzazioni di soccorso in mare. Ma non ci faremo intimidire; continueremo con una seconda nave!”. Redazione Italia
La Global Sumud Flotilla salpa dall’Italia, dalla Tunisia e dalla Grecia per riunirsi in acque internazionali
La Global Sumud Flotilla (GSF) ha iniziato la tappa finale del suo viaggio storico per contribuire a rompere l’assedio illegale di Israele su Gaza. Ieri, 18 barche sono salpate da Catania, Italia. Decine di altre partiranno oggi e domani dalla Tunisia e dalla Grecia e l’intera flotta si riunirà presto in acque internazionali per proseguire insieme verso Gaza. Nelle ultime settimane, la flottiglia ha affrontato numerose sfide, tra cui due attacchi con droni contro imbarcazioni attraccate in Tunisia, difficoltà logistiche e carenze di carburante, che hanno ritardato la nostra partenza verso Gaza. Inoltre, alla luce delle terrificanti minacce del ministro israeliano Ben-Gvir contro i passeggeri della flottiglia, abbiamo intrapreso ulteriori e approfondite pianificazioni di sicurezza per rafforzare la nostra protezione. Invece di permettere che questi ostacoli ci facessero deragliare, GSF ha preso misure decisive per rafforzare la nostra operazione: abbiamo trasferito alcune navi in altri porti per le ultime preparazioni, condotto severi test in mare e adattato i nostri protocolli di sicurezza. A seguito di questi cambiamenti, e in previsione di condizioni sempre più ostili, siamo stati costretti a prendere la difficile decisione di ridurre la capacità di partecipanti su diverse imbarcazioni dirette a Gaza. I volontari hanno affrontato molte sfide, difficoltà e incertezze — in parte a causa di attacchi deliberati contro la nostra missione e in parte per la portata enorme di questa iniziativa popolare e degli inevitabili errori di calcolo lungo il percorso. Il comitato direttivo di GSF continua a esprimere immensa gratitudine a coloro che sono intervenuti e hanno dimostrato con la loro presenza il loro impegno per questa causa imprescindibile. Stiamo lavorando a stretto contatto con tutti i partecipanti in profonda solidarietà durante questi cambiamenti, mentre restiamo fermamente impegnati a portare avanti la missione nei nostri Paesi di origine, guidando mobilitazioni coordinate e rafforzando ulteriormente il movimento globale di solidarietà per la Palestina. Le modifiche strategiche ai nostri piani ci permetteranno di tutelare meglio i partecipanti nella misura massima possibile, preservare l’impatto della missione e dimostrare la resilienza di questo movimento globale per la Palestina. Quando le nostre flotte si uniranno nel Mediterraneo, invieremo un messaggio chiaro: il blocco e il genocidio a Gaza devono finire. Rimaniamo fermi e determinati a sfidare l’assedio illegale di Israele e a fare tutto il possibile per porre fine al genocidio a Gaza.   Redazione Italia
Le librerie africane custodi di cultura e memoria che resistono nel tempo
Nel continente resistono e fioriscono librerie universitarie e non solo, capaci di resistere al mercato centralizzato dei libri. Custodi della memoria e del sapere dell’Africa, questi spazi non vendono solo libri, ma sono spazi culturali vivi ed eterogenei. In un mondo editoriale sempre più digitale e centralizzato, ci sono librerie universitarie e piccole realtà indipendenti, situate in Paesi diversi dell’Africa, capaci di resistere nel tempo. Una di queste si trova a Ibadan, in Nigeria, una città che ha costituito un importante polo culturale negli anni Sessanta, il Mbari Mbayo Club. Un luogo dove pensatori e intellettuali come Chinua Achebe, Wole Soyinka, JP Clark, Christopher Okigbo, Uche Okeke, Bruce Onobrakpeya, Mabel Segun e il sudafricano Es’kia Mphahlele si riunivano e scambiavano idee. Ibadan è stata la prima città della Nigeria, nel 1948, ad avere un’università. Ed è proprio nell’università della città che resiste ancora oggi uno scrigno importante per la conservazione e la promozione intellettuale del Paese. La libreria universitaria, riporta un approfondimento pubblicato su The Conversation, è infatti oggi un luogo vivo, ricco di libri e iniziative, un polo culturale che testimonia la vivacità intellettuale del Paese nella storia e nella contemporaneità. Questo spazio non vende solo libri, ma possiede un archivio, una tipografia ed è impegnato nel promuovere, diffondere e conservare libri, riviste e pubblicazioni nigeriane. Un polo che resiste alla centralizzazione del mercato librario dei giganti europei e americani. La vita intellettuale africana resiste e non solo in Nigeria. Altre piccole realtà come questa si trovano sparse nel continente, tante piccole fiammelle di luce che accendono la speranza per il futuro. Molto simile alla libreria universitaria di Ibadan è la libreria dell’Università di Harare, in Zimbabwe. Conserva e promuove testi accademici, poesia e narrativa africana. Spostandoci in Ghana, una di queste è sicuramente la libreria indipendente EPP Bookshop ad Accra e Kumasi. Fondata nel 1991 da Gibrine Adam, all’epoca autore emergente, oggi è considerata la più grande del Paese. E’ noto il suo impegno nel rendere più accessibili testi universitari e scolastici. Muovendoci ancora più a sud del continente, a Johannesburg (Sudafrica) troviamo il Kalamazoo Bookstore, piccola libreria dal forte impegno culturale, riferimento per scrittori, intellettuali, docenti e studenti. Africa Rivista
Diritti Lgbtqa+ in Africa tra nuove repressioni e timide aperture
Tra leggi sempre più dure e poche aperture, i diritti Lgbtq+ in Africa stanno vivendo anni difficili: dal caso dell’Uganda, dove una legge prevede persino la pena capitale per “omosessualità aggravata”, al caso recente del Burkina Faso. Una speranza si accende però in 23 Paesi che hanno scelto invece di decriminalizzarla. Sono tempi complicati per i diritti delle persone Lgbtq+ in Africa, tra una nuova ondata repressiva e qualche timida apertura. Lo scorso anno Amnesty International ha rilevato che al 2023 31 Stati su 54 criminalizzavano ancora i comportamenti di queste minoranze (erano 39 fino agli anni ’90), con sanzioni che vanno da ammende monetarie all’ergastolo, come può accadere in Tanzania, Zambia, Sierra Leone e Gambia. Caso emblematico di questa recrudescenza è stato quello dell’Uganda, dove le relazioni omosessuali erano già vietate, ma le autorità hanno varato nel 2023 una nuova legge che prevede persino la pena capitale per “omosessualità aggravata”. Oggi, se possibile, la situazione è addirittura peggiorata, con altri Paesi che hanno imboccato la strada della repressione. Questo mese il Burkina Faso è diventato il 32° Stato africano a criminalizzare ufficialmente l’omosessualità. La decisione è stata presa dai 71 membri (non eletti) dell’Assemblea legislativa di transizione, come parte del nuovo codice penale. La nuova normativa prevede pene severe per gli atti omosessuali, con condanne che vanno da 1 a 20 anni di reclusione e multe comprese tra 500.000 e 1 milione di franchi Cfa (da 762,25 a 1.524,50 euro). Questa misura si inserisce nel solco delle politiche sovraniste e avverse ai valori occidentali che la giunta al potere dal 2022 sta portando avanti in questi anni. Già nel 2023 alle reti nazionali è stato vietato di trasmettere contenuti a sfondo omosessuale. Anche il Mali, alleato del Burkina Faso nel Sahel e come quest’ultimo guidato da un governo militare, ha adottato nel novembre 2024 una legge che punisce gli omosessuali. Tra gli altri, anche il Ghana ha in programma l’approvazione di un disegno di legge anti-Lgbt sul quale pendeva un ricorso, poi respinto, davanti alla Corte Suprema. Il neo-presidente John Dramani Mahama, entrato in carica a gennaio, ha dichiarato di essere determinato a far passare il provvedimento. Il sesso omosessuale, e non tanto l’omosessualità, è già illegale nel Paese dell’Africa occidentale e prevede una pena detentiva di tre anni. La nuova legge, se promulgata, imporrebbe fino a cinque anni di carcere per chi sostiene o sponsorizza “attività Lgbt”. I motivi di queste politiche, secondo gli esperti, sono da ricercare in una serie di fattori concorrenti, tra i quali l’eredità del colonialismo, oltre all’influenza delle fedi cristiana e islamica. Per il Council on Foreign Relations, le leggi anti-Lgbtq+ non sono solo il frutto di convinzioni culturali, ma anche di strategie politiche. Alcuni leader africani, nel tentativo di rafforzare il consenso interno e mascherare i propri insuccessi, ricorrono a retoriche divisive, presentando le identità Lgbtq+ come una “minaccia importata dall’Occidente” alla stabilità e alla coesione sociale. Parallelamente a questi inasprimenti, però, diversi Paesi africani negli ultimi anni hanno invece scelto di decriminalizzare l’omosessualità. In tutto sono 23, con Mauritius (2023), Angola (2021), Gabon (2020) e Botswana (2019) gli ultimi a farlo in ordine di tempo. Nel 2023 anche la Namibia ha iniziato a riconoscere i matrimoni tra persone dello stesso sesso contratti all’estero e ha invalidato una vecchia “legge sulla sodomia”. Nel continente rimane però solo il Sudafrica a permettere dal 2006 i matrimoni tra persone dello stesso sesso.   Africa Rivista
Global Sumud Flotilla, partenze dalla Tunisia e dall’Italia
La Global Sumud Flotilla sta per salpare. Dopo il primo gruppo di barche in procinto di partire oggi dal porto di Sidi Bou Said, a 20 km da Tunisi, il Global Movement to Gaza si prepara alla partenza imminente della flotta italiana, in programma giovedì 11 settembre dal porto di Siracusa. I due ordigni incendiari, lanciati da droni le scorse notti sulle barche ormeggiate al largo di Tunisi, la “Familia Madeira” e la “Alma”, non fermano la missione, ma rendono gli equipaggi ancora più determinati nel portarla avanti in sostegno della popolazione di Gaza. Nelle ultime ore i gazawi sono sottoposti a un’evacuazione forzata verso sud, costretti a spostarsi sotto il fuoco delle bombe israeliane. Facciamo appello al popolo, che da terra ci accompagnerà come un grande equipaggio virtuale, affinché tenga alta l’attenzione sulla missione, si attivi con le mobilitazioni e spinga il governo a dare risposte concrete. L’attacco alle barche non può essere in alcun modo paragonato agli orrori a cui sono sottoposti quotidianamente i palestinesi e i due episodi non devono distogliere dall’obiettivo finale: forzare il blocco navale imposto da Israele, aprire un corridoio umanitario verso Gaza e fare pressione sui governi per fermare il genocidio in corso. Giovedì alle ore 14:00 presso Marina di Ortigia, a Siracusa, è in programma un presidio organizzato dal Comitato Siracusano per la Palestina per salutare la partenza delle barche e si terrà una conferenza stampa. Interverranno giornalisti e attivisti in partenza, tra cui: Maria Elena Delia, Portavoce GMTG e componente del comitato direttivo Global Sumud Flotilla; Simone Zambrin, Freedom Flotilla; Stefano Rebora, Music For Peace; Abderrahmane Amajou, Action Aid Italia;  Annalisa Corrado, Europarlamentare, PD; Marco Croatti, Parlamentare, M5S; Benedetta Scuderi, Europarlamentare, AVS; Equipaggio in partenza; Comitato Siracusano per La Palestina; Catanesi solidali con il popolo palestinese; Altre forze sociali e partitiche locali a sostegno della Global Sumud Flotilla. Al termine della conferenza stampa le barche salperanno da Siracusa per riunirsi in mare con la flotta proveniente da Tunisi e proseguire poi la navigazione verso Gaza.   Redazione Italia
Sulla Flottilla piovono droni
Un nuovo drone ha attaccato nella notte di questo martedì una delle navi della Flottiglia della Libertà, provocando un incendio sul ponte che è stato domato pochi minuti dopo. L’apparecchio ha lanciato un proiettile sull’imbarcazione Alma, battente bandiera britannica, che si trovava ormeggiata di fronte al porto di Tunisi, ed in questa occasione è caduto vicino ad almeno uno dei membri dell’equipaggio che si trovavano nella parte anteriore della nave. Nessuno è rimasto ferito e sono stati segnalati solo danni minori all’imbarcazione. Il protocollo previsto in queste situazioni è stato attivato immediatamente ed è risultato efficace. Si tratta dello stesso modus operandi utilizzato nell’attacco avvenuto appena 24 ore prima contro la Familia Madeira l’imbarcazione sulla quale viaggiano gli organizzatori e i volti più noti della Global Sumud Flotilla, tra cui Greta Thunberg, Thiago Avila, Yasmin Acar e Ada Colau ex sindaca di Barcellona. La polizia tunisina si è recata sul posto, mentre alcuni testimoni nel porto hanno visto altri droni sorvolare la zona, incluso uno delle autorità costiere. Sarà difficile per i tunisini continuare a dire che sono incidenti legati ad autocombustione. Il timore di nuovi attacchi durante la notte non si è ancora dissipato, perciò la sorveglianza è stata intensificata e diversi organizzatori si sono spostati al porto. È stata aperta un’indagine per conoscere più dettagli su quanto accaduto. “Si tratta del secondo attacco di questo tipo in due giorni. Questi attacchi avvengono durante l’intensificarsi dell’aggressione israeliana contro i palestinesi a Gaza e sono un tentativo di distrarre e far deragliare la nostra missione”, hanno dichiarato dall’organizzazione. Inoltre, hanno aggiunto che la Global Sumud Flotilla “prosegue senza esitazione” e hanno assicurato che la missione di rompere il blocco israeliano e portare aiuti umanitari a Gaza “continua con determinazione e fermezza”. Dopo il primo attacco, il comitato direttivo della flottiglia ha riunito i partecipanti questo martedì per ricordare loro i protocolli su come devono agire in tali situazioni e ha chiesto di prendere la massima precauzione. Le guardie sulle imbarcazioni sono state rafforzate per affrontare efficacemente queste eventualità. “Il loro unico obiettivo è fermare le oltre 250 persone provenienti da 45 paesi che viaggeranno fino a Gaza con aiuti umanitari. È lo stesso tentativo di logoramento psicologico”, ha dichiarato dal porto Saif Abukeshek, uno degli organizzatori della Global Sumud Flotilla. “Cosa ci si può aspettare da un paese che lancia bombe contro ospedali, scuole e uccide bambini?”, ha aggiunto. Decine di persone si erano radunate in precedenza nei dintorni del porto di Tunisi per manifestare il proprio sostegno alla missione, con grida a favore della Palestina e diversi fumogeni accesi, cosa che inizialmente aveva generato confusione. Secondo la pianificazione ufficiale, la partenza della flottiglia da Tunisi con circa 40 barche dovrebbe avvenire questo mercoledì, ma gli incidenti degli ultimi due giorni e i problemi meccanici di alcune imbarcazioni potrebbero ritardare la partenza di circa 24 ore. Manfredo Pavoni Gay
SOS MEDITERRANEE determinata a consegnare alla giustizia tutti i responsabili dell’attacco armato alla Ocean Viking
SOS MEDITERRANEE ha annunciato oggi durante una conferenza stampa online di aver presentato una denuncia penale alla Procura italiana – che ha già avviato un’indagine – a seguito dell’attacco armato contro la nave di soccorso Ocean Viking da parte della Guardia Costiera libica il 24 agosto. Si tratta del primo passo di una serie di azioni legali volte a perseguire sia gli autori dell’aggressione sia coloro che l’hanno resa possibile. La denuncia chiede il perseguimento penale per tentato omicidio plurimo, tentato naufragio, danneggiamento di un’imbarcazione, nonché qualsiasi altro reato che l’autorità giudiziaria ritenga applicabile. Dopo un tentato omicidio, l’azione penale è solo il primo passo per assicurare i responsabili alla giustizia. Saranno intraprese azioni legali anche a livello internazionale per affrontare la responsabilità della catena di comando all’interno della Guardia Costiera libica e delle istituzioni e degli Stati che continuano a finanziarla, equipaggiarla e addestrarla. Nuove prove confermano l’aggressione deliberata nonostante la comunicazione continua con le autorità. Nella conferenza stampa odierna, SOS MEDITERRANEE ha anche presentato nuove prove audiovisive a conferma del fatto che l’Ocean Viking è stata oggetto di un attacco armato deliberato, mirato e senza precedenti, che ha messo in pericolo di morte immediato i sopravvissuti, gli operatori umanitari e i marittimi, nonostante la nave rispettasse rigorosamente il diritto marittimo internazionale e fosse in costante coordinamento con le autorità italiane. “Questo attacco deve servire da monito. Gli operatori umanitari e i sopravvissuti non possono essere lasciati senza protezione in mare mentre gli Stati europei continuano a esternalizzare il controllo delle frontiere a un’autorità libica che ha ripetutamente dimostrato il suo disprezzo per il diritto internazionale”, afferma Bianca Benvenuti, responsabile dell’advocacy internazionale e del posizionamento pubblico di SOS MEDITERRANEE. SOS MEDITERRANEE chiede: * Un’indagine indipendente e trasparente sull’attacco e l’assunzione di responsabilità sia da parte dei responsabili che di coloro che li hanno aiutati. * La sospensione di tutto il sostegno dell’UE e dell’Italia – finanziario, materiale e operativo – alla Guardia Costiera libica. * L’abolizione del Memorandum d’intesa Italia-Libiadel 2017 e la cessazione del programma SIBMMIL. * La sospensione e la revisione del riconoscimento della regione di ricerca e soccorso libica da parte dell’Organizzazione marittima internazionale (IMO) attraverso un audit nell’ambito del programma di audit degli Stati membri. * La protezione delle ONG umanitarie di ricerca e soccorso, compresa la fine della criminalizzazione e dell’ostruzionismo amministrativo.  Qui il documento di approfondimento elaborato da SOS MEDITERRANEE con la ricostruzione dei fatti e le richieste dell’associazione alle autorità.   Redazione Italia
La nave veloce Aurora prende a bordo 41 naufraghi abbandonati da sei giorni su un mercantile
Da sei giorni 41 persone erano abbandonate da Italia ed Europa nel Mediterraneo, a bordo del mercantile Maridive. Tra loro, un minore gravemente malato e un uomo diabetico, che nessuno è andato a soccorrere. Hanno rischiato di essere catturati e respinti in Tunisia dalla Marina Militare tunisina, ma prima che accadesse siamo riusciti a intervenire con Aurora. Le 41 persone sono ora a bordo della nostra imbarcazione veloce, stiamo navigando verso nord e abbiamo casi medici che richiedono un’assistenza urgente. Ancora una volta, mentre gli Stati europei si giravano dall’altra parte, la società civile soccorreva le persone in pericolo. Sea Watch
Suliman e Fatima contano i morti e i torturati in famiglia
A casa di Suliman e Fatima al Cairo è arrivato un ragazzo: è spaventosamente magro e provato nel corpo e nello sguardo da vessazioni e torture. E’ il loro nipote Abdullah Abdel-Rahman, che racconta la sua storia: arrestato dalle Forze di Supporto Rapido a El Fashir insieme ad altri quattro giovani il giorno della caduta di Zamzam, è stato torturato insieme agli altri tre; gli altri sono morti per le sevizie e per la fame, mentre lui è stato gettato in una discarica vicino a Zamzam. Questo succedeva il 10 agosto, mentre infuriava la battaglia. Lì nella discarica è stato individuato e messo in salvo da uomini delle Forze Congiunte, che lo hanno caricato sui loro veicoli e trasportato fino ad Al-Judud; qui Abdullah è stato affidato ad alcuni sudanesi che si recavano nelle zone aurifere al confine tra Sudan ed Egitto (molto sudanesi cercano lavoro in quella zona: forse questa attività è uno dei pochi lavori possibili in questo momento). Nella dolorosa e tristissima vicenda di Abdullah ci sono stati anche tanti incontri positivi, con persone che lo hanno di fatto salvato: così è stato per i cercatori d’oro che gli hanno pagato il biglietto per arrivare ad Assuan e da lì al Cairo. “Oggi lo abbiamo ricoverato al Pronto Soccorso”: così termina il messaggio di Suliman. Le notizie continuano la sera: il nuovo messaggio dice che all’ospedale hanno deciso di fargli esami del sangue approfonditi, ecografie ed altro; il ragazzo soffre di rigidità allo stomaco perché per quattro mesi ha mangiato soltanto mangime per animali e pane secco. In un successivo messaggio vengo a sapere che la madre di Abdullah è la cugina di Suliman e che in questi giorni è lì a casa con lui e Fatima. Aggiunge che appena avranno i risultati delle varie analisi andranno dal medico, ma “le sue condizioni sono molto critiche”. Non mancano purtroppo i lutti in famiglia ed ecco che ricevo l’elenco: “Sei persone sono morte di fame nel campo profughi di Naivasha e nessuno ne ha saputo nulla”. Sembra che i vicini si siano accorti della loro morte soltanto pochi giorni dopo. Questa precisazione mi lascia di stucco: anche in un campo profughi, anche fra tenda e tenda può esserci così tanta distanza da ignorare l’agonia e la morte di sei persone? Forse non ho capito bene. Questa parte del messaggio si conclude con: “Che Dio abbia pietà di loro e li perdoni”. Segue l’elenco dei nomi che voglio qui riportare perché non è un numero a essere stato ucciso da questa insulsa e gravissima guerra di fazioni, ma sono persone specifiche, ognuna còlta a un certo stadio della vita – con il suo carattere, la sua voce, i suoi modi, i suoi pensieri, con i suoi sogni per un futuro che è svanito con violenza inenarrabile. Eccoli: Hajja Mariam Tandel Suleiman Hajja Saliha Suleiman Bedi Madre Amani Fath Al-Rahman Bambino Saber Salem Mustafa Bambino Saeed Salem Mustafa Bambino Sabry Salem Mustafa Ho fatto bene a scriverli anche perché scrivendoli me li sono immaginati: i loro nomi chiamati dalla mamma e loro, i bambini, che corrono. La comunicazione con il mio amico Suliman continua per Whatsapp. Due giorni dopo ricevo un articolo intitolato “Darfur e la sua reputazione offuscata a causa dei Janjaweed”. Mi sembra un pezzo importante perché ristabilisce la verità delle cose anche per tutti quelli che, poco informati, prendono con superficialità le notizie che arrivano (di rado, a dire il vero) dal Sudan. Soprattutto illumina il Darfur di una luce diversa da quella che implicitamente gli si dà sentendolo nominare solo per atti di brutalità, feroci assassini e stragi gratuite. “In tutto il Darfur non troverete mai una persona che uccida il proprio fratello per il suo bestiame, tranne i Janjaweed”. Se conflitti si sono verificati tra le varie tribù, movimenti e organizzazioni dei diversi Stati del Darfur – continua l’articolo – si è trattato di contrasti di tipo politico-sociale. Per il resto il Darfur era e rimane terra di diversità e convivenza e la sua gente sostiene i valori della generosità, del coraggio e della protezione dei propri ospiti; non certo dell’odio, del saccheggio e dell’omicidio, modalità che sono sempre e solo appartenute ai Janjaweed, con i vari nomi che negli anni questa milizia si è auto-attribuita: Guardie di Frontiera, Ambaga, Consiglio del Risveglio, Forze di Supporto Rapido. E dietro ci sono sempre loro, impegnati ad annientare le comunità, a impadronirsi delle terre e degli animali, a distruggere i villaggi e a uccidere i loro abitanti. E quello che nel 2023 hanno fatto nei vari Stati del Darfur oggi lo stanno ripetendo ancora in Darfur e purtroppo anche in tutto il Sudan, compresa la sua bella capitale Khartoum. La distruzione di un Paese. Il genocidio di un popolo. Ieri però è arrivato un nuovo messaggio in Whatsapp: Abdullah verrà dimesso dall’ospedale domenica prossima perché “le sue condizioni sono in continuo miglioramento”. Questa sì che è una bellissima notizia. Da una telefonata che infine riusciamo a fare vengo a sapere che Abdullah era arrivato a casa loro non camminando sulle sue gambe, ma accompagnato e sostenuto da altri ragazzi sudanesi, anche loro in fuga. Ora riesce a camminare e anche a “chiacchierare”. Circa il nutrimento, per il momento bisogna limitarsi a latte e succhi di frutta, oltre alle flebo. Suliman continua a ringraziare per una piccola somma che con una rapida colletta avevo inviato non appena saputa la notizia di questo arrivo inaspettato: senza quei soldi non avrebbe potuto pagare gli esami medici, le cure e la degenza ospedaliera. Perché è tutto a pagamento per gli stranieri. “Anche se devo parlare devo pagare soldi in Egitto” dice, con tono più amaro che ironico. Solo quando si ottiene l’asilo politico si può andare nell’ospedale dell’Onu o anche in un ospedale normale a carico (non intero) dell’Onu stessa. Gli chiedo del suo asilo politico, quanto manca per avere la convocazione: ancora quattro mesi, sarà a dicembre (dal dicembre scorso che ha presentato la domanda). E’ arrivato in questi giorni il suo amico italiano Domenico, già console (o qualcosa del genere) in Sudan e gli ha portato diverse scatole della sua medicina per la prostata. E anche questa è una buona notizia. Il figlio Ahmed, che lavora nelle zone aurifere del nord Sudan occupandosi della telefonia satellitare, gli invia tutti i mesi i soldi dell’affitto, e anche le figlie, una dagli Stati Uniti e l’altra dalla Germania si danno da fare come possono. Affetto e premure non mancano dalla famiglia stretta, ma oggi Suliman ha una voce diversa, quella di una persona sfinita, che ha completamente esaurito la sua “sabur” (pazienza, proverbiale in lui). Glielo dico. Mi risponde che i motivi sono il vivere fra persone malate – Abdullah, la moglie Fatima, lui stesso – e “la povertà”. Ma come si può non essere immensamente, eternamente tristi e pieni di dolore quando non ci sono più la tua casa, la tua città, il tuo Paese, la tua gente? Link agli articoli precedenti: https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/ https://www.pressenza.com/it/2025/01/la-mia-amica-fatima-che-resiste-come-al-fashir-in-darfur/ https://www.pressenza.com/it/2025/07/suliman-fatima-e-la-tenace-resistenza-di-al-fashir-in-darfur/         Francesca Cerocchi