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Decreto Delrio su antisemitismo e antisionismo: svolta repressiva anche del PD
L’INCEDIBILE ASCESA DELLA EQUIPARAZIONE TRA ANTISIONISMO E ANTISEMITISMO. L’ENNESIMO DECRETO DI LEGGE DI STAMPO REVISIONISTA PER APRIRE UNA NUOVA CACCIA ALLE STREGHE…QUESTA VOLTA DA PARTE DEL PARTITO DEMOCRATICO CON GRAZIANO DELRIO. Incalcolabili sono i danni recati dalla parentesi renziana a capo del Partito Democratico, danni che poi portano alcuni nomi e cognomi con posizioni in politica estera analoghe, o fotocopia, di quelle delle destre. A volte tornano sotto i riflettori distinguendosi con l’inutile servilismo verso lo Stato di Israele, presentando una proposta di legge che equipara l’antisionismo all’antisemitismo, superando a destra i parlamentari di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega. Il Disegno di Legge, presentato da Graziano Delrio, denominato “Disposizioni per il rafforzamento della strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, e per la prevenzione ed il contrasto all’antisemitismo e delega al Governo in materia di disciplina degli interventi relativi ai contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme online di servizi digitali” già dal titolo fa capire il fine della iniziativa: un controllo repressivo che riguarderà scuole, università, realtà sociali e i social destinatari della campagna securitaria (clicca qui per le info). Il disegno di legge segue i classici copioni sperimentati in qualche trasmissione televisiva, narrare la piaga dilagante dell’antisemitismo, dell’odio verso gli ebrei condito da rigurgiti razzisti. E così gli autori del genocidio, i sionisti, in un colpo solo diventano le vittime. E la fonte da cui attingere dati e informazione non è certo super partes, parliamo del monitoraggio operato dal Centro di documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) (https://www.osservatorioantisemitismo.it/), vicino ad ambienti sionisti e da anni attivo nel catalogare ogni espressione di odio contro gli ebrei che spesso e volentieri vengono confusi con i fautori del sionismo. Peccato che tra le segnalazioni si possa ritrovare anche un semplice adesivo di solidarietà con la Palestina affisso alla fermata dei bus o all’ingresso di una mensa. La narrazione parla di un incremento degli episodi antisemiti molti dei quali non sarebbero tracciati giusto a drammatizzare ulteriormente la situazione.  Leggiamo testualmente: «Le evidenze raccolte non sono solamente allarmanti da un punto di vista quantitativo, essendo rilevante l’esame qualitativo della tipologia degli atti segnalati, consistenti, tra l’altro, in invettive e stereotipi antisemiti nella realtà virtuale e nella vita quotidiana, in particolare nelle istituzioni scolastiche e universitarie. Si ravvisano altresì minacce a persone ed istituzioni ebraiche, atti di discriminazione (si pensi a esponenti politici e giornalisti cui è stata resa impossibile la partecipazione agli eventi pubblici) e persino alle aggressioni fisiche in luoghi pubblici». Avete letto bene? In Italia radio, giornali e tv sarebbero occupati da antisemiti, giornalisti e politici, manipoli di razzisti si aggirerebbero per le città nel solo intento di impedire l’esercizio di parola agli ebrei recendo loro violenza verbale e fisica. La verità è che le reti Mediaset e la Rai sono sistematicamente occupate da esponenti del centrodestra con posizioni filoisraeliane, parliamo di oltre il 90% degli ascolti televisivi, aggiungiamo i giornali nelle mani di pochi gruppi editoriali e schierati a destra o, se su posizioni del centro sinistra, vicino alle posizioni governative in materia di politica estera. Vittimismo o strategia del complotto? Continuando a leggere il disegno, l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo si fa sempre più forte fino a denunciare un’autentica persecuzione degli ebrei ai quali sarebbe impedito di manifestare la loro stessa religione e identità. Negli ultimi anni da parte dei movimenti solidali con la causa palestinese non c’è stato alcun gesto contro simboli ebraici e sinagoghe, al contrario gli episodi di aggressione ai danni di attivisti filopalestinesi risultano innumerevoli. La narrazione vittimista è funzionale a descrivere una realtà falsata, le grandi adesioni alle mobilitazioni contro il genocidio possono essere avversate non criminalizzando i milioni di partecipanti, ma facendo credere che nel Paese il germe del razzismo antisemita sta prendendo corpo, il passaggio successivo sarà la criminalizzazione di tutti i solidali e gli antisionisti trasformati in odiatori da tastiera al pari di chi lancia invettive senza costrutto assalito dall’odio instillato dalle dichiarazioni avventate di politici senza memoria. E tra gli odiatori chi ritroviamo? Una lunga sequela di nemici che vanno dai movimenti sociali ai sindacati, dagli intellettuali non allineati agli islamici tout court, tutti accomunati da odio ed aggressività. Ma qual è il fine di questo disegno di Legge? Leggiamo dal testo: «Il presente disegno di legge si pone l’obiettivo di adattare la disciplina vigente in ambito digitale e formativo, recando misure volte a prevenire e contrastare le nuove forme di antisemitismo nonché a rafforzare efficacemente l’attuazione della Strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, elaborata nel quadro di quella europea dal Coordinatore nazionale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri». Incredibile la descrizione del propagarsi dell’odio antisemita che, secondo questo disegno di legge, sarebbe una minaccia pericolosa alla democrazia e alla libertà. Passando in rassegna il testo si va dalla delega al Governo per l’adozione – entro sei mesi – di uno o più decreti legislativi, volti a disciplinare in modo organico il contrasto all’antisemitismo online (il che fa presagire il controllo della rete stessa, la chiusura di bollettini, siti, pagine social e riviste di orientamento antisionista), fino alla tutela e della libertà della ricerca e di insegnamento in ambito universitario, come se l’autentica minaccia all’università non fosse rappresentata dalla Bernini e dai suoi provvedimenti che andranno ad espellere migliaia di ricercatori. Il vero obiettivo di questo disegno è la normalizzazione del controllo nelle scuole e nelle università a partire dalla sorveglianza dell’operato dei docenti, istaurando un clima repressivo e di soffocante controllo pur celandosi dietro al sommo «valore della conoscenza ed il principio della libera manifestazione del pensiero, nella fondamentale ottica del reciproco rispetto e del confronto civile» (Cass. civ. 28853/2025). E dopo l’alza bandiera arriveranno le buone azioni contro l’antisemitismo, spingendo le scuole a segnalare tutte le iniziative intraprese a sostegno di queste indicazioni con tanto di segnalazioni alle forze di polizia e al Ministero di ogni azione e opinione che possa configurarsi come antisemita. E ancora una volta si va a confondere antisemitismo con antisionismo. Chiunque criticherà l’operato di Israele verrà tacciato di istigatore dell’odio razziale alla stessa stregua di un nazista. Se questo è il disegno di legge partorito dalla fervida immaginazione di un parlamentare del PD, la prossima mossa del centrodestra sarà quella di venirci a prendere a casa per portarci in qualche carcere. Occorre fermare oggi questa follia; occorre fermarli con le ragioni, le azioni propositive e le argomentazioni di cui siamo capaci, è ormai un dovere etico e civile. Federico Giusti, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università -------------------------------------------------------------------------------- Se come associazioni o singoli volete sostenerci economicamente potete farlo donando su questo IBAN: IT06Z0501803400000020000668 oppure qui: FAI UNA DONAZIONE UNA TANTUM Grazie per la collaborazione. Apprezziamo il tuo contributo! Fai una donazione -------------------------------------------------------------------------------- FAI UNA DONAZIONE MENSILMENTE Apprezziamo il tuo contributo. 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Catania. La repressione cala sul movimento per la Palestina
Piovono a Catania misure cautelari e multe per decine di migliaia di euro nei confronti di attivist3 che hanno partecipato ai blocchi del porto e della stazione durante gli Scioperi Generali del 22 settembre e del 3 ottobre. Migliaia di persone in piazza, equipaggi di terra che hanno accompagnato dall’inizio […] L'articolo Catania. La repressione cala sul movimento per la Palestina su Contropiano.
Puglia: contestazioni contro la crociera dei genocidi
La nave da crociera Crown Iris che porta soldati israeliani a riposarsi dopo il servizio prestato al genocidio palestinese è arrivata stamani al porto di Brindisi cercando di far perdere le sue tracce, doveva infatti arrivare ieri. Un gruppo di compagne e compagni l'ha attesa sul porto, poi si è spostato alla Capitaneria di porto. Ora compagne e compagni si stanno riorganizzando per raggiungerli nelle diverse destinazioni che hanno scelto
Siamo ancora qui
LA GRANDI E DIFFUSE AZIONI INIZIATIVE NELLE PIAZZE PER LA PALESTINA DI OTTOBRE E NOVEMBRE DIMOSTRANO CHE LA MOBILITAZIONE NON È PER NULLA FINITA CON LA FALSA “PACE” DI TRUMP E CHE IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE HA SVELATO LA “NUOVA” LOGICA DELL’ORDINE GLOBALE, RIORGANIZZATA SEMPRE PIÙ ATTORNO ALLA GUERRA. MA QUELLE PROTESTE DICONO ANCHE CHE COLORO CHE SONO IN BASSO SONO CAPACI DI INDIVIDUARE ALCUNI PUNTI DEBOLI DI QUELLA RIORGANIZZAZIONE CARICA DI MORTE, AD ESEMPIO IL FATTO CHE IL REGIME DI GUERRA NECESSITA DI UN APPARATO LOGISTICO PIENAMENTE FUNZIONANTE. I PORTI, IN QUESTO SENSO, HANNO UN RUOLO CENTRALE. QUELLI CHE SONO IN ALTO TEMONO MOLTO I BLOCCHI DEI PORTI, PARTITI DA GENOVA È DIFFUSI IN ALTRE CITTÀ EUROPEE Il 28 novembre è stato convocato uno sciopero generale dalla USB (Unione Sindacale di Base), il sindacato che è stato fortemente coinvolto in tutte le manifestazioni svoltesi durante il “bimestre d’oro italiano”, tra settembre e ottobre di quest’anno. La Palestina è rimasta il tema centrale della mobilitazione, che questa volta ha visto però una maggiore articolazione con altre questioni legate alle condizioni di vita e di lavoro in Italia – e non solo. A Genova, la città dove tutto è cominciato con il blocco delle navi effettuato dagli operatori portuali del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali), più di 10.000 manifestanti hanno aderito allo sciopero, con una presenza elevatissima di studenti e giovani. Il giorno successivo si è tenuta una manifestazione nazionale a Roma, alla quale hanno partecipato circa 100.000 persone, convocata sempre dalla USB e da altre organizzazioni politiche e della società civile. Anche lì, quella presenza giovanile si è distinta come uno degli elementi caratterizzanti della moltitudine che ha riempito Piazza San Giovanni. In questi due giorni di mobilitazione generale, la parola d’orine è stata quella che Riccardo Rudino, portuale genovese, ha gridato al megafono davanti a 40.000 persone in una serata degli ultimi giorni di agosto: “Se loro [i militari israeliani] faranno qualcosa [all’equipaggio della Global Sumud Flotilla], dal porto di Genova non uscirà nemmeno un chiodo. Blocchiamo tutto!”. Una frase che ha fatto il giro del mondo, tradotta e gridata in molte lingue. Riccardo – che i suoi compagni del CALP chiamano affettuosamente “vecchio” – è diventato, suo malgrado, con il suo aspetto un po’ riservato, una delle figure più conosciute nei movimenti globali per la Palestina libera. Si vogliono qui sottolineare tre elementi che caratterizzano oggi il movimento che ha portato nelle piazze di quasi tutte le città italiane circa due milioni di persone dall’inizio di settembre. Ciò, al fine di intravedere le prospettive – se non garantite, certamente sperate – del movimento nel prossimo futuro. Il primo riguarda la persistenza stessa del movimento: contrariamente a quanto era stato frettolosamente previsto, la mobilitazione non è finita con la falsa “pace” di Trump in Palestina. La narrazione proposta dai media mainstream non è stata accolta favorevolmente da chi segue, attraverso altri mezzi, le esecuzioni a sangue freddo, gli abusi, la distruzione di case e terre perpetrati da coloni protetti dall’IDF – e dall’IDF stessa. Qualcosa si è sedimentato in quei due mesi, rimanendo vivo nella coscienza di molti: non c’è giustizia nella pace proclamata dagli assassini e dai loro sostenitori. Non si tratta di un elemento secondario. Segna, anzi il consolidamento di ciò che è stato descritto in queste stesse pagine come un atteggiamento etico, un orgoglio di essere lì, da parte di molti che non avevano mai partecipato a manifestazioni di piazza. L’etica è direttamente legata al politico, si sovrappongono in modi diversi. In questo caso, l’etica assume la funzione di un “dire la verità” nello spazio pubblico, che diventa subito un atto di critica. È lì, nelle piazze, nelle scuole e nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, che quell’atto emerge come una forza capace di trasformare noi stessi. “Dire la verità” non significa solo proporre una lettura diversa dei fatti: è prendere una posizione che diviene subito un atto politico. È una posizione che travalica, pur utilizzandoli, i social network; si appropria di uno spazio pubblico, fa della visibilità il suo punto di forza. È lo stesso che sta accadendo in molti contesti in giro per il mondo. Le bandiere della pace, della Palestina, della USB, dei gruppi politici di sinistra sono accompagnate dalla bandiera del Jolly Roger di One Piece: teschio sorridente, ossa incrociate e cappello di paglia. Il secondo elemento riguarda la menzionata articolazione dei temi che sono entrati in questi due giorni di mobilitazione. La Palestina è una questione globale, perché la Palestina è la Palestina Globale. Ciò significa vedere nel genocidio del popolo palestinese l’aspetto più tragico di una logica che riorganizza l’ordine globale attorno alla guerra. La guerra permanente, dunque, come elemento non eccezionale della ristrutturazione del modello delle relazioni globali – politiche, economiche, energetiche, ambientali, razziali – che costituiscono un vero e proprio “regime di guerra globale”, come è stato definito da Sandro Mezzadra e Michael Hardt. Questa consapevolezza emerge chiaramente in ogni manifestazione, riunione, assemblea, nella misura in cui riconosce in tale regime il coinvolgimento dell’intera catena di produzione, sia di beni sia dell’ordine “poliziesco”. Inutile dire che al suo vertice si trovano le big tech statunitensi, come è stato descritto innumerevoli volte – e con grande chiarezza – in queste pagine. Allo stesso modo, sarebbe ridondante ricordare come i governi del mondo multipolare giochino – ciascuno in base ai propri interessi e alla propria capacità di influenza – il ruolo che più conviene loro. Una consapevolezza – infine – che non risparmia le scelte compiute dal governo italiano e dai centri di potere economico e finanziario (così come da altri paesi europei, con la Germania in testa alla lista dei peggiori), per quanto riguarda le priorità nella pianificazione finanziaria dello Stato. La relazione tra le misure adottate sul piano internazionale e quelle che hanno un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone non lascia dubbi a nessuno. Ecco allora la moltitudine che ha riempito le strade negli ultimi giorni di novembre vedere, come parte della stessa strategia tanatopolitica, i popoli vittime delle brutalità e del cinismo assassino, le famiglie che rinunciano a cure mediche e ospedaliere, che cambiano abitudini alimentari, che non riescono a pagare l’affitto della casa in cui vivono per mancanza di mezzi economici. Allo stesso modo, queste condizioni si legano a quelle di lavoro e di vita – e di morte – nei paesi del Sud Globale, i primi anelli della lunga catena di approvvigionamento del capitalismo bellicista delle piattaforme. Ma vi è anche un altro livello di consapevolezza, che costituisce il terzo elemento caratterizzante del movimento. Il regime di guerra, pluriforme nei suoi modi di agire, necessita di un apparato logistico pienamente funzionante. Guerra e logistica, com’è noto, vanno di pari passo da secoli. Non esiste guerra senza logistica, così come non esiste logistica senza un’organizzazione “militare” dei flussi di approvvigionamento lungo l’intera catena. La struttura che la logistica ha assunto nell’era dell’intermodalità presuppone un legame stretto tra le diverse fasi che la compongono. I porti, in questo senso, hanno svolto un ruolo centrale. Ciò, a partire dalla rivoluzione introdotta dal container negli anni Ottanta, come mezzo di stoccaggio, movimentazione e trasporto di quasi ogni tipo di merce. Il container ha trasformato il trasporto – prima frammentato – in una linea unica e ininterrotta, come scrive Andrea Bottalico nel suo saggio La logistica in Italia. Per farsi un’idea chiara dell’importanza del trasporto marittimo tramite container, basta ricordare i giorni in cui una nave in avaria bloccò il Canale di Suez nel marzo 2021. Si scatenò il panico generale, con i prezzi che minacciavano di schizzare alle stelle, a causa della scarsità di componenti essenziali per molti settori industriali. E tutto questo durò appena una settimana. Il porto, in sostanza, cessa di essere soltanto una tappa nella linea che conduce dallo smistamento delle materie prime alla consegna al cliente finale, per diventare il centro strategico delle operazioni logistiche. La privatizzazione dei porti – e Genova non fa eccezione – con l’affidamento delle operazioni sulle banchine agli operatori privati, è stata la svolta che ha sottolineato tale centralità. Di tutto ciò sono pienamente consapevoli i portuali del CALP – che organizzano il blocco delle navi con carichi di armi dal 2019 – così come tutti gli altri soggetti che hanno articolato le proprie lotte con quella dei portuali. “Articolare tra” è diverso da “convergere verso”. Una consapevolezza che ha contagiato i lavoratori di altri porti, sia in Italia sia in altri paesi europei (Grecia, Cipro, Francia, Spagna e, in una certa misura, Portogallo). Il “blocchiamo tutto” di Riccardo è diventato la parola d’ordine che ha accompagnato le mobilitazioni in molte città contro il regime di guerra nel quale vogliono trascinarci – o nel quale siamo già stati trascinati. Quale potrà essere il destino di questo movimento non è una questione facilmente prevedibile. Innumerevoli sono le variabili, di natura diversa, che potranno influenzarlo. Ciò che sembra non lasciare dubbi è la visione che dobbiamo rafforzare riguardo il contesto di riferimento della stessa lotta. Il compito di ciascuno di noi è lavorare per una sua crescente estensione e internazionalizzazione, come del resto sta già avvenendo. Ciò passa attraverso la costruzione di ulteriori articolazioni lungo l’intera catena di approvvigionamento, a monte e a valle, all’interno e all’esterno. Sarebbe fondamentale cercare alleanze con i lavoratori dell’industria siderurgica che stanno vivendo giorni drammatici, con quelli dell’“ultimo miglio”, dei magazzini delle grandi centrali di distribuzione, che hanno subito minacce, violenze, licenziamenti per aver organizzato scioperi o picchetti. Allo stesso modo, le forze della società civile stanno producendo contenuti che arricchiscono e spostano la lotta su altri livelli, come nel caso di Weapon Watch e di altre organizzazioni di volontariato. La forza del movimento sta nel suo divenire, nella sua capacità di cambiare i propri obiettivi, le proprie articolazioni, le proprie strategie ogni volta che si renda necessario. La logistica non rimarrà ferma a ciò che è oggi, neppure l’intero ciclo di valorizzazione di cui la logistica costituisce il centro nevralgico. Come è sempre accaduto nei momenti di alta conflittualità, gli avversari delle classi popolari troveranno le misure per cercare di fermare le mobilitazioni. Ciò avverrà tanto nei porti quanto negli altri luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, così come in qualsiasi altra realtà in cui ci sia qualcuno disposto a bloccare tutto, in nome di un futuro che vogliamo cominciare a frequentare fin da ora. -------------------------------------------------------------------------------- *Stefano Rota è ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. Le sue più recenti pubblicazioni collettive sono La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023) e in G. Ferraro (a cura di), Altraparola. La figura di sé (Efesto Edizioni, 2023). Collabora occasionalmente con riviste online italiane e lusofone. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Siamo ancora qui proviene da Comune-info.
Non in nostro nome! Incontro a Milano con il Rabbino Dovid Feldman
Mercoledì 3 dicembre presso l’Università Statale si è svolto un interessante incontro con il Rabbino Dovid Feldman di New York, di passaggio a Milano dopo aver partecipato venerdì scorso 28 novembre alla manifestazione a Genova e sabato 29 a quella di Roma a favore della Palestina, sempre sfoggiando una kefiah al collo. Purtroppo i tempi per ottenere l’autorizzazione all’evento da parte dell’Università erano troppo stretti e gli organizzatori, il Prof. Antonio Violante e Alessandro Corti, hanno optato per tenere comunque l’incontro davanti all’Università. Erano presenti diverse decine di persone e molti passanti incuriositi si sono fermati per ascoltare. Il Rabbino Dovid Feldman appartiene al movimento Neturei Karta International, un gruppo religioso ebraico ortodosso che non riconosce l’autorità e la stessa esistenza dello Stato di Israele, in base all’interpretazione del giudaismo e della Tōrāh. I seguaci, concentrati principalmente a Gerusalemme, sono circa 5.000, ma sono presenti anche a New York, a Londra e in Canada. Nonostante le ridotte dimensioni la Neturei Karta  ha esercitato una notevole influenza nei dibattiti sulla relazione tra ebraismo e sionismo. I suoi membri non commerciano con banconote israeliane, non si uniscono alla riserva dell’esercito dello Stato ebraico, obbligatoria per i cittadini israeliani adulti, non cantano l’inno nazionale, non celebrano il Giorno dell’Indipendenza di Israele e non pregano nel luogo più sacro al giudaismo: il Muro del Pianto. Intrattengono rapporti con le autorità palestinesi e il mondo arabo e contestano ai sionisti la strumentalizzazione dell’Olocausto. Il movimento fu fondato nel 1938 a Gerusalemme da ebrei appartenenti all’antica comunità ortodossa stanziata da molte generazioni in Palestina. Gli antisionisti più radicali si raccolsero attorno ai Neturei Karta. Secondo questi la terra oggi occupata dallo Stato di Israele apparteneva a coloro che la abitavano da secoli: arabi, a qualunque confessione appartenessero ed ebrei che vivevano nelle terre palestinesi prima dell’affermarsi della colonizzazione. Il Rabbino Feldman ha tenuto il suo pacato e  lucido discorso in inglese. Non è sembrato vero poter udire una voce ebraica così autorevole e chiara nel definire lo stato attuale delle cose e le responsabilità dello Stato di Israele, nel genocidio del popolo palestinese, definendo criminali gli atti compiuti. Il rabbino ha insistito nel distinguere i concetti di ebraismo e sionismo, arrivando a dire: “ Il sionismo è proibito dalla religione ebraica. Il creatore del mondo ci ha mandato in esilio e ci ha proibito di lasciare tale esilio con il nostro potere umano. Lasciare l’esilio da soli sarebbe una ribellione contro Dio e quindi gli ebrei che credono in Dio non possono sostenere il sionismo. Ciò è ancora più vero alla luce del fatto che il progetto sionista è stato intrapreso a spese di molte persone innocenti e ha comportato la sottrazione della loro terra e delle loro proprietà, l’uccisione di molti di loro e l’espulsione degli altri senza che avessero alcuna colpa.” Il rabbino ha inoltre enumerato i vari pericoli dell’equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, definendolo un crimine contro la verità, perché crea la falsa impressione che ebrei e sionismo siano una cosa sola. Si tratta di una profanazione del nome di Dio, poiché implica che gli ebrei si siano ribellati a Dio. Inoltre questa stessa nozione porta le persone a indirizzare erroneamente la loro opposizione politica ai crimini dello Stato di Israele verso tutti gli ebrei del mondo. La definizione di antisemita in realtà rischia di scatenare l’antisemitismo là dove tenta di mettere a tacere la rivendicazione palestinese, causando un effetto boomerang e portando molte persone a etichettare tutti gli ebrei come sionisti. In conclusione, afferma il rabbino, l’attribuzione del termine antisemita a chi si oppone al sionismo e allo stato di Israele è sbagliata e criminale. Voci come questa dovrebbero poter risuonare ovunque per fare chiarezza e giustizia di tanta confusione e iniquità che pervade i dibattiti e le nostre relazioni. Era presente anche il giovane Assessore del Municipio 1 Lorenzo Pacini, che ha salutato ed espresso solidarietà e posizioni davvero coraggiose rispetto al dramma palestinese e la questione sionista, in evidente contrasto con le opinioni e le dichiarazioni dei suoi colleghi. Un incontro emozionante per la chiarezza, la pulizia, la moralità e l’umanità che questo religioso ha saputo portare e trasmettere. Loretta Cremasco
Quale lato della barricata?
Con un compagno della rete liberi-e di lottare parliamo di quanto avvenuto in seguito alla manifestazione per la Palestina a Torino del 28 novembre, dove un gruppo di manifestanti è entrato nella redazione de La Stampa. Partendo del comunicato della rete liberi-e di lottare, proviamo a ribaltare la narrazione ed affrontare nel merito il discorso della protesta, della critica all'informazione e della crisi della critica. 
Abu Mazen non vada ad Atreju. Lettera aperta al Presidente Mahmoud Abbas
L’Italia ha legami storici con la Palestina e la sua giusta causa da molti anni, sebbene questi legami siano rimasti sostanzialmente stagnanti dall’era di Silvio Berlusconi. Non sono migliorati durante i governi di centro-sinistra, né durante il governo di destra guidato da Giorgia Meloni, di origini fasciste. L’Italia, più di […] L'articolo Abu Mazen non vada ad Atreju. Lettera aperta al Presidente Mahmoud Abbas su Contropiano.
Un omaggio alla resistenza palestinese nel cuore verde d’Italia
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Perugia, capoluogo del “cuore verde” d’Italia, su iniziativa dell’associazione “Umbria della pace”, ha accolto un simbolo vivo della resistenza palestinese e lo ha ospitato in uno dei suoi luoghi non solo più belli ma più emblematici: il giardino dei Giusti del Mondo all’interno dell’antico complesso monumentale San Matteo degli Armeni, dove si trova anche la biblioteca personale appartenuta ad Aldo Capitini che proprio da lì, nel lontano 1961, lanciò la marcia per la pace Perugia-Assisi. Essendo passati più di sessant’anni ed essendo divenuta la marcia Perugia-Assisi più rituale che sostanziale, forse molti si stupirebbero nel leggere le parole del  filosofo della nonviolenza e scoprire che il suo obiettivo era alimentare “idee e iniziative contrarie al capitalismo, al colonialismo, all’imperialismo”, o che “la lotta per la pace deve essere severa contro i mascheramenti dei vari imperialismi, contro le crociate verso un popolo o un altro” come scritto in uno dei suoi editoriali nel periodico “Il potere è di tutti” da lui fondato nel 1964 e consultabile nella sua biblioteca. Luogo migliore per piantare l’olivo della resistenza palestinese, un piccolo olivo scampato alla furia devastatrice israeliana, forse non ce n’era. La targa spiega perché quest’alberello non è dedicato a una singola persona, come tutti gli altri, ma alla difesa di un diritto che si trasforma in azione. Il diritto all’autodeterminazione di un popolo e alla Libertà, quella per cui ogni epoca della storia ha avuto i suoi martiri, tutti, in vario modo, combattenti per la resistenza all’oppressore. Oggi più che mai l’iniziativa dell’Umbria della Pace, accolta e condivisa  dall’amministrazione comunale, risulta importante e insieme coraggiosa. Importante perché consentirà a chiunque andrà a visitare il complesso di San Matteo degli Armeni di vedere che Perugia riconosce il diritto di un popolo oppresso a resistere. Coraggiosa perché la longa manus dell’entità sionista poteva “sporcare” l’iniziativa con la strumentale accusa di antisemitismo, come avvenuto in molteplici altre occasioni. Quindi, veder omaggiare la bandiera palestinese dai numerosi presenti, tra cui l’assessore Croce in rappresentanza del Comune, ha aggiunto senso all’iniziativa e, come si è ricordato durante la cerimonia, la piantumazione di quel piccolo figlio verde della martoriata Palestina, uscito rocambolescamente dalla Striscia di Gaza, non vuole essere solo simbolica testimonianza di solidarietà, ma invito ad agire, ognuno come sa e come può affinché venga fermato il genocidio tuttora in corso e venga stroncato il criminale progetto sionista che avanza da quasi ottant’anni stritolando, nel suo avanzare impunito, anche il diritto internazionale. Cos’avrebbe detto Capitini davanti all’ultimo scempio delle Nazioni Unite dal cui Consiglio di Sicurezza dieci giorni fa è uscita la vergognosa Risoluzione 2803 in piena violazione dei principi della stessa Carta dell’ONU? Siamo certi che avrebbe denunciato la corruzione servile alla legge del più forte e che il suo invito di tanti anni fa “a creare una permanente mobilitazione per controllare la politica estera, la politica militare, la politica scolastica e denunciare errori, colpe, storture, alleanze dei conservatori, degli imperialisti, dei capitalisti…“ si sarebbe fatto ancora più forte ed avrebbe chiamato all’azione, perché c’è una pratica della nonviolenza attiva che può a ben diritto chiamarsi resistenza e non è il chiacchiericcio da salotto. È vero che Aldo Capitini pensava di cambiare il mondo opponendo ai potenti, cioè ai criminali della storia, la forza della nonviolenza come lui la stava costruendo prendendo le mosse dalla resistenza gandhiana,  ma Capitini era anche il cattolico nonviolento che non aveva temuto le rappresaglie fasciste quando nel 1929 aveva definito i Patti Lateranensi  una “merce di scambio” tra Pio XI e il fascismo, e che non aveva accettato il ricatto di Giovanni Gentile di iscriversi al fascismo per non essere licenziato . Tutto questo ci porta a credere, al pari di Gabriele De Veris, il bibliotecario che ci ha mostrato le sue opere, degli organizzatori dell’evento e di tutti gli intervenuti, che il fondatore della marcia Perugia-Assisi avrebbe sostenuto la resistenza palestinese e che il piccolo olivo scampato ai criminali con la stella di David lo avrebbe accolto come simbolo di resistenza e invito a non cedere ai ricatti di una falsa promessa di pace il cui vero volto, ripulito dalle maschere mediatiche, mostra di essere non pace ma pacificazione imposta col ricatto dal colonialismo sionista sostenuto dal suprematismo  occidentale, servile con i potenti e liberticida con chi reclama la libertà. E così, accanto ad alberi piantati in memoria e in omaggio di figure come Maria Montessori, Carlo Urbani, Danilo Dolci, Anna Frank, Gino Strada, Pietro Terracina e tanti altri, compresi artisti che hanno sempre testimoniato il loro impegno per il rispetto dei diritti umani, l’olivetto di Gaza e la sua esplicita targa saranno in ottima compagnia. Il fatto che sia stato casualmente piantato proprio in prossimità della giornata mondiale degli alberi e della giornata che l’Unesco ha dedicato alla tutela dell’olivo come simbolo di resilienza, di identità culturale e come millenaria fonte di nutrimento del genere umano, richiama l’attenzione sulla continua violenza che subisce da sempre anche l’ambiente rurale palestinese dove la distruzione di frutteti e oliveti, l’espianto e il furto degli olivi secolari e l’abbattimento degli olivi più giovani in tutta la Palestina illegalmente occupata, è uno dei reati pressoché quotidiani che il mondo dei potenti, il mondo complice dell’entità sionista, lascia compiere senza vergognarsi della sua connivenza. Ma, come è stato ricordato da uno dei relatori, l’olivo è capace di rigenerarsi, anche dalle proprie ceneri, e neanche il gelo può ucciderne il ceppo che ne è la “madre”, che è il cuore della resistenza dell’olivo, quella che produce i polloni, la vera e propria rinascita che tramanda il DNA dal ceppo madre ai suoi germogli. Il piccolo olivo uscito di contrabbando da Gaza, e forse proveniente dal ceppo dei millenari olivi dei Getsemani, è quindi simbolo di rigenerazione ed è lì a dire che “la resistenza non verrà schiacciata neanche dai carrarmati”. Una delle relatrici ha ricordato la frase scritta su un muro di Nusseirat, ora distrutto dalla furia israeliana, che riportava questo verso di un poeta greco: “Hanno provato a seppellirci. Non sapevano che eravamo semi” e questo lo si può leggere anche nei polloni che germogliano dai ceppi degli olivi palestinesi bruciati o abbattuti. Non serve molto altro per spiegare che l’olivo rappresenta la capacità di resistere al male e, in ultima analisi, il percorso verso la pace – non la pacificazione imposta dall’oppressore – che è segnato dalla bussola della resistenza. Mentre chiudiamo quest’articolo ci arriva il comunicato di un’altra realtà umbra, la Fondazione Perugi-Assisi la quale invita a partecipare alla manifestazione del 29 novembre, giornata internazionale di solidarietà col popolo palestinese e definisce l’ignobile Risoluzione 2803 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU “un nuovo attentato alla pace e ai diritti umani…” e “un piano di guerra e non di pace” dandone ampia e indiscutibile documentazione. Dal “cuore verde” d’Italia per il momento è tutto. -------------------------------------------------------------------------------- Inviato anche a Pressenza -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Un omaggio alla resistenza palestinese nel cuore verde d’Italia proviene da Comune-info.