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FOCUS ON AFRICA. Somalia tra shari’a e stato di diritto
L’interpretazione delle due fonti di governance ha avuto effetti diversi a seconda delle esigenze: dall’intransigenza degli sheikh sui rapporti tra i generi all’uso della legge islamica da parte delle femministe per ottenere diritti in nome dell’islam Poliziotti somali nella capitale Mogadiscio (Fonte: International Crisis Group) di Federica Iezzi Roma, 23 aprile 2022, Nena News – Dal 1990 la Somalia è stata oggetto di ripetuti interventi esterni di rafforzamento dello Stato. Una serie di governi e organismi internazionali hanno cercato di ricomporre una sorta di autorità centrale sul territorio dell’ex Repubblica di Somalia. Tuttavia, la shari’a, la legge sacra della religione islamica, è rimasta nell’aria del Paese come un’ombra. Le visioni coloniali dell’ordine legale tendono anche in Somalia a creare disordine e oppressione. I tentativi di centralizzare il potere si sono scontrati con idee alternative resilienti del diritto. Le leggi prodotte dallo Stato sono prive di legittimità agli occhi delle amministrazioni locali e le strutture che hanno lo scopo di far rispettare tali leggi sono spesso corrotte e arbitrarie. La conseguenza è che oggi i somali vedono gli attuali sforzi di costruzione della governance, da parte delle agenzie internazionali, come i diretti successori dei precedenti interventi coloniali. Il messaggio è chiaro. La stabilità e la pace non possono essere prodotte importando esperti legali per tenere seminari e consigliare processi legislativi. Devono basarsi su atti quotidiani di risoluzione delle controversie tra violenze e disordini. In contesti come quello somalo, per il 99% musulmano sunnita, la flessibilità tra shari’a e stato di diritto diventa fondamentale. La shari’a è talvolta descritta come un vincolo indipendente, fisso e sacro al potere politico. Lo stato di diritto appare come qualcosa di molto diverso dal semplice ordine legale che attori esterni cercano di imporre. Lo stato di diritto, in senso più espansivo, può essere collegato al liberalismo politico e alla promozione dei diritti umani, dell’uguaglianza e della libertà. Le tensioni tra queste due idee di stato sono significative. Ne è un esempio la storia dell’alto clero musulmano che ha energicamente denunciato le idee dei progressisti sul diritto di famiglia, introdotte dal regime dittatoriale di Siad Barre. Una serie di leggi e politiche che promuovevano la parità di genere, tra cui il diritto di famiglia del 1975, con eredità, divorzio e poligamia. Gli sheikh si sono opposti al diritto di famiglia a causa della sua insistenza sull’uguaglianza di genere e non come semplice atto di resistenza alla dittatura. Quindi stavano affermando la propria inflessibile lettura della shari’a. Entra nel grado di flessibilità della shari’a l’affascinante capitolo sulle donne attiviste della regione del Somaliland e il loro utilizzo della legge islamica come mezzo per affermare i diritti delle donne. In questo caso, la shari’a è stata usata per perseguire una particolare idea di diritto di protezione della donna, che si allineava con le attuali norme internazionali sui diritti umani. Le attiviste hanno fatto affidamento sugli sheikh per ottenere interpretazioni e giudizi su delicati argomenti come la violenza contro le donne, i matrimoni precoci e le mutilazioni genitali femminili. Piuttosto che enfatizzare i diritti legali previsti dal diritto internazionale, le attiviste si sono concentrate sull’insegnamento di come l’uguaglianza per le donne sia compatibile con i principi dell’Islam. Le democrazie occidentali tendono a proteggere con attenzione la separazione tra chiesa e Stato, ma molti Paesi a maggioranza musulmana sfidano le nozioni occidentali di islam e di legislazione secolare. I dittatori e gli amministratori coloniali europei hanno troppo spesso usato la shari’a per giustificare il loro potere. Allo stesso modo la popolazione somala ha invocato il libro sacro dell’islam per resistere agli oppressori, espellere i signori della guerra, combattere per l’uguaglianza di genere e costruire un percorso verso il governo di legge. In molti oggi stanno reinterpretando, riaffermando e rivendicando le fonti della shari’a, sia che vogliano opprimere, sia che vogliano progredire. Nena News
NENA IN PILLOLE. Iraq, Arabia Saudita
Prosegue l’operazione contro le montagne del nord iracheno, ma il bilancio di uccisi tra i militari turchi sale. Intanto la città di Suleymaniya si solleva contro l’offensiva di Erdogan. In pochi mesi le autorità saudite hanno lasciato senza un tetto sulla testa centinaia di migliaia di residenti dei quartieri sud della città per fare spazio a nuovi progetti di sviluppo urbanistico Il livello di distruzione nel sud di Gedda (Fonte:; YouTube) di Chiara Cruciati Roma, 22 aprile 2022, Nena News Ankara continua a bombardare. Pkk: «Uccisi 100 soldati turchi» Continuano i bombardamenti turchi sulle montagne del nord iracheno, base militare e ideologica del Pkk, il Partito curdo dei lavoratori. Secondo il movimento, dal 17 aprile scorso – inizio dell’operazione «Blocco dell’artiglio», seguita all’incontro ad Ankara tra il presidente turco e il premier del Kurdistan iracheno Barzani – sono stati compiuti almeno 150 bombardamenti e un tentativo di invasione via terra, supportato dai peshmerga di Erbil. Ma a salire è anche il bilancio dei soldati turchi uccisi: se il governo turco tiene fermo il conteggio ad appena due, per il Pkk sono almeno cento, di cui sei alti ufficiali. E se Barzani e il suo partito, il Kdp, proseguono sulla via della cooperazione totale con Ankara, a Suleymaniya – città orientale del Kurdistan iracheno, dominata dal partito rivale del Puk – si manifesta contro gli attacchi turchi: martedì sera migliaia di persone hanno marciato per le strade denunciando l’offensiva aerea sulla regione montagnosa di Medya e la collaborazione del premier Masrour Barzani. Che non è stato accolto a braccia aperte nemmeno a Londra, dove è andato in visita al premier Johnson. Ad attenderlo decine di manifestanti che hanno gridato slogan contro quello che definiscono un «tradimento» della causa curda. *** Sgomberi improvvisi e demolizioni per fare spazio alla «nuova» Gedda Tra fine 2021 e inizio 2022, le autorità saudite hanno lanciato una vasta campagna di demolizioni e sgomberi nei quartieri meridionali della città portuale di Gedda. A rivelarlo è l’associazione saudita Alqst, a seguito di una serie di interviste con i residenti che denunciano la mancata notifica degli espropri e la totale assenza di compensazioni. Gettati in mezzo alla strada per creare una nuova Gedda. I numeri sono impressionanti: centinaia di migliaia di persone hanno perso la loro casa all’interno di un ampio piano di ridefinizione urbanistica della città. E in pochissimo tempo: alcuni abitanti raccontano di essere stati cacciati di casa in una manciata di ore, senza nemmeno il tempo di portare via elettrodomestici e mobili. In molti hanno iniziato a dormire in auto, a causa di affitti impossibili da sostenere in una città considerata da Riyadh un hub economico strategico per l’intera petromonarchia e il Mar Rosso. La sua parte meridionale è da anni nel mirino: l’area più antica della città, è casa a diversi gruppi etnici. Il piano di demolizione è parte del progetto Vision 2030, ideato dal principe ereditario Mohammed bin Salman: l’obiettivo è l’eliminazione di quartieri poveri per fare spazio a progetti di sviluppo dal costo di 20 miliardi di dollari, musei, un acquario, uno stadio, 17mila unità residenziali e hotel di lusso.
CRONACHE IN DIASPORA. Noura e l’universalità della battaglia per la Palestina
Settima puntata della rubrica audio a cura di Jamila Ghassan sui giovani e le giovani palestinesi in Italia. Oggi incontriamo Noura, nata e cresciuta a Milano, originaria del villaggio di Safad, in Alta Galilea. Con lei abbiamo parlato della presa di coscenza dei legami politici e culturali con la sua terra d’origine fino all’ingresso nei movimenti pro-palestinesi in Italia Manifestazione per la Palestina a Milano della redazione Roma, xxx, Nena News – In questa nuova puntata della rubrica audio “Cronache in diaspora” a cura di Jamila Ghassan e realizzata in collaborazione con i Giovani Palestinesi d’Italia, abbiamo incontrato Noura, nata e cresciuta a Milano, originaria del villaggio di Safad, in Alta Galilea. Noura racconta la sua scoperta della Palestina, la sua essenza geografica ma anche metaforica, la vita della sua famiglia e l’impegno di suo padre e la prepotente presa di coscenza dei legami politici e culturali con la sua terra d’origine fino all’ingresso nei movimenti pro-palestinesi in Italia. La sua immagine, manifestazione in piazza a Milano. http://nena-news.it/wp-content/uploads/2022/04/noura-cronache.mp4 . .
EGITTO. I no del Cairo sull’omicidio Regeni e l’ennesima morte in cella
Per il regime di al-Sisi il caso è chiuso, nessun aiuto sull’elezione di domicilio dei quattro agenti sospettati dell’omicidio. E nega un incontro alla ministra Cartabia. La famiglia: «Una presa in giro». Intanto un altro prigioniero egiziano, sparito da due mesi, muore in custodia Ayman Muhammad Ali Hadhoud (Fonte: Twitter) di Chiara Cruciati – Il Manifesto Roma, 12 aprile 2022, Nena News – Sono passati tre mesi esatti dal giorno in cui il gup Roberto Ranazzi offriva 90 giorni al governo italiano per ottenere dall’Egitto risposte e ai carabinieri del Ros per indagare via banche dati, fonti confidenziali e social. Obiettivo comune: individuare il domicilio dei quattro membri dei servizi segreti egiziani sospettati del rapimento, le torture e l’omicidio di Giulio Regeni, scomparso al Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato il 3 febbraio successivo, senza vita. Tre mesi non sono bastati. Così ieri la nuova udienza di fronte al giudice per le udienze preliminari si è chiusa con un nuovo rinvio. Tutto rimandato al 10 ottobre prossimo, sei mesi di tempo per comunicare al generale Sabir Tariq, ai colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel e al maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif che in Italia si intende incriminarli per sequestro di persona pluriaggravato, lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato. Un rinvio a giudizio c’era stato già, lo scorso anno, ma il 14 ottobre 2021 la Terza Corte d’Assise lo aveva annullato: impossibile verificare che gli indagati siano effettivamente a conoscenza del procedimento. Il regime egiziano non ha mai risposto alla rogatoria della Procura di Roma, vecchia di tre anni (esatti). Né sembra intenzionato a farlo, lo ha detto ieri senza troppi giri di parole il ministero della Giustizia italiano. Proprio l’ammissione della totale chiusura da parte del Cairo alle pressioni di Roma – in una nota trasmessa a Piazzale Clodio si riporta del «rifiuto di collaborare nell’attività di notifica degli atti» e la staffilata del «per noi il caso è chiuso» – ha convinto il gup Ranazzi per la sospensione del processo ai quattro agenti e per nuove indagini, affidate ancora al Ros. Un no su tutta la linea a cui si aggiunge lo sfacciato silenzio alla richiesta, mossa il 20 gennaio scorso, di un incontro tra la ministra Marta Cartabia e l’omologo egiziano Omar Marwan «al fine di interloquire sui passi necessari a rimuovere gli ostacoli per la celebrazione del procedimento penale». Stavolta la reazione della famiglia del ricercatore italiano non ha ricalcato le speranze dello scorso 10 gennaio. Quel giorno la legale di Paola Deffendi e Claudio Regeni, Alessandra Ballerini, aveva espresso soddisfazione: «La nostra battaglia può proseguire». Ieri con la fine dell’udienza ha prevalso la rabbia per una strada sempre in salita: «Siamo amareggiati e indignati dalla risposta della procura del regime di al-Sisi che continua a farsi beffe delle nostre istituzioni e del nostro sistema di diritto – ha detto Ballerini – Chiediamo che il presidente Draghi pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei quattro imputati. Oggi è stata un’ennesima presa in giro». Poco prima, Piazzale Clodio era stato teatro di un sit-in, al centro lo striscione giallo «Verità per Giulio Regeni» retto dai genitori. Insieme a loro Beppe Giulietti, presidente dell’Fnsi e da sempre protagonista di quella scorta mediatica che ha tenuto accese le luci sulla vicenda e sull’impegno civile della famiglia: «Chiederemo che ci sia un’interruzione dei rapporti con l’Egitto qualora dovesse proseguire una politica di omissione e cancellazione delle prove». Un commento che centra il punto: quali pressioni stia facendo il governo italiano non è chiaro. I rapporti diplomatici, commerciali ed economici non sono mai stati scalfiti, garantendo al regime dell’ex generale al-Sisi l’alone di impunità necessario a proseguire come nulla fosse. Nel silenzio su Regeni e nella repressione interna: mentre ieri il gup leggeva la sua decisione, al Cairo la famiglia di Ayman Muhammad Ali Hadhoud, economista egiziano, membro del partito liberale Riforma e Sviluppo, dava conto pubblicamente della sua morte in custodia. Era scomparso il 5 febbraio scorso. Sabato scorso alla famiglia è stato comunicato il decesso, senza dettagli. Dei funzionari, lo scorso febbraio, avevano parlato di un ricovero per schizofrenia nell’ospedale psichiatrico Abbaseya, seppur Ayman non ne abbia mai sofferto. Alla richiesta di fargli visita, il procuratore ha risposto che l’arresto non risultava. Altri agenti avevano parlato di detenzione per il tentato furto di un’auto. Fino alla notizia della morte e alla scoperta che la procura aveva ordinato la sua sepoltura come «corpo non identificato». Una (forse) buona notizia invece arriva per l’attivista egiziano più noto, Alaa Abdel Fattah, condannato a dicembre agli ennesimi cinque anni di prigione. Ha ottenuto la cittadinanza britannica tramite la madre, la matematica Laila Soueif, nata a Londra. Ora la famiglia spera che quel passaporto si faccia chiave e apra la serratura della cella.