EGITTO. I no del Cairo sull’omicidio Regeni e l’ennesima morte in cella
Per il regime di al-Sisi il caso è chiuso, nessun aiuto sull’elezione di
domicilio dei quattro agenti sospettati dell’omicidio. E nega un incontro alla
ministra Cartabia. La famiglia: «Una presa in giro». Intanto un altro
prigioniero egiziano, sparito da due mesi, muore in custodia
Ayman Muhammad Ali Hadhoud (Fonte: Twitter)
di Chiara Cruciati – Il Manifesto
Roma, 12 aprile 2022, Nena News – Sono passati tre mesi esatti dal giorno in cui
il gup Roberto Ranazzi offriva 90 giorni al governo italiano per ottenere
dall’Egitto risposte e ai carabinieri del Ros per indagare via banche dati,
fonti confidenziali e social. Obiettivo comune: individuare il domicilio dei
quattro membri dei servizi segreti egiziani sospettati del rapimento, le torture
e l’omicidio di Giulio Regeni, scomparso al Cairo il 25 gennaio 2016 e ritrovato
il 3 febbraio successivo, senza vita.
Tre mesi non sono bastati. Così ieri la nuova udienza di fronte al giudice per
le udienze preliminari si è chiusa con un nuovo rinvio. Tutto rimandato al 10
ottobre prossimo, sei mesi di tempo per comunicare al generale Sabir Tariq, ai
colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel e al maggiore Magdi Ibrahim Abdelal Sharif
che in Italia si intende incriminarli per sequestro di persona pluriaggravato,
lesioni aggravate e concorso in omicidio aggravato.
Un rinvio a giudizio c’era stato già, lo scorso anno, ma il 14 ottobre 2021 la
Terza Corte d’Assise lo aveva annullato: impossibile verificare che gli indagati
siano effettivamente a conoscenza del procedimento.
Il regime egiziano non ha mai risposto alla rogatoria della Procura di Roma,
vecchia di tre anni (esatti). Né sembra intenzionato a farlo, lo ha detto ieri
senza troppi giri di parole il ministero della Giustizia italiano.
Proprio l’ammissione della totale chiusura da parte del Cairo alle pressioni di
Roma – in una nota trasmessa a Piazzale Clodio si riporta del «rifiuto di
collaborare nell’attività di notifica degli atti» e la staffilata del «per noi
il caso è chiuso» – ha convinto il gup Ranazzi per la sospensione del processo
ai quattro agenti e per nuove indagini, affidate ancora al Ros. Un no su tutta
la linea a cui si aggiunge lo sfacciato silenzio alla richiesta, mossa il 20
gennaio scorso, di un incontro tra la ministra Marta Cartabia e l’omologo
egiziano Omar Marwan «al fine di interloquire sui passi necessari a rimuovere
gli ostacoli per la celebrazione del procedimento penale».
Stavolta la reazione della famiglia del ricercatore italiano non ha ricalcato le
speranze dello scorso 10 gennaio. Quel giorno la legale di Paola Deffendi e
Claudio Regeni, Alessandra Ballerini, aveva espresso soddisfazione: «La nostra
battaglia può proseguire». Ieri con la fine dell’udienza ha prevalso la rabbia
per una strada sempre in salita: «Siamo amareggiati e indignati dalla risposta
della procura del regime di al-Sisi che continua a farsi beffe delle nostre
istituzioni e del nostro sistema di diritto – ha detto Ballerini – Chiediamo che
il presidente Draghi pretenda, senza se e senza ma, le elezioni di domicilio dei
quattro imputati. Oggi è stata un’ennesima presa in giro».
Poco prima, Piazzale Clodio era stato teatro di un sit-in, al centro lo
striscione giallo «Verità per Giulio Regeni» retto dai genitori. Insieme a loro
Beppe Giulietti, presidente dell’Fnsi e da sempre protagonista di quella scorta
mediatica che ha tenuto accese le luci sulla vicenda e sull’impegno civile della
famiglia: «Chiederemo che ci sia un’interruzione dei rapporti con l’Egitto
qualora dovesse proseguire una politica di omissione e cancellazione delle
prove».
Un commento che centra il punto: quali pressioni stia facendo il governo
italiano non è chiaro. I rapporti diplomatici, commerciali ed economici non sono
mai stati scalfiti, garantendo al regime dell’ex generale al-Sisi l’alone di
impunità necessario a proseguire come nulla fosse.
Nel silenzio su Regeni e nella repressione interna: mentre ieri il gup leggeva
la sua decisione, al Cairo la famiglia di Ayman Muhammad Ali Hadhoud, economista
egiziano, membro del partito liberale Riforma e Sviluppo, dava conto
pubblicamente della sua morte in custodia. Era scomparso il 5 febbraio scorso.
Sabato scorso alla famiglia è stato comunicato il decesso, senza dettagli. Dei
funzionari, lo scorso febbraio, avevano parlato di un ricovero per schizofrenia
nell’ospedale psichiatrico Abbaseya, seppur Ayman non ne abbia mai sofferto.
Alla richiesta di fargli visita, il procuratore ha risposto che l’arresto non
risultava. Altri agenti avevano parlato di detenzione per il tentato furto di
un’auto. Fino alla notizia della morte e alla scoperta che la procura aveva
ordinato la sua sepoltura come «corpo non identificato».
Una (forse) buona notizia invece arriva per l’attivista egiziano più noto, Alaa
Abdel Fattah, condannato a dicembre agli ennesimi cinque anni di prigione. Ha
ottenuto la cittadinanza britannica tramite la madre, la matematica Laila
Soueif, nata a Londra. Ora la famiglia spera che quel passaporto si faccia
chiave e apra la serratura della cella.