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VERONA: CHIUSA L’OCCUPAZIONE DEL GHIBELLIN, MA “LA LOTTA È ANCORA APERTA”. TRASMISSIONE SPECIALE CON LE VOCI PROTAGONISTE
Si è chiusa l’esperienza di occupazione abitativa del Ghibellin Fuggiasco. Attiviste e attivisti del Laboratorio Autogestito Paratod@s di Verona hanno comunicato alla stampa una decisione presa già da alcuni mesi e che a portato alla chiusura definitiva dello stabile di viale Venezia 51, lo scorso 10 maggio. Il tempo intercorso da allora è servito a Paratod@s per elaborare una posizione politica da rendere pubblica e anche per continuare a trovare una soluzione abitativa alle decine di migranti che senza il Ghibellin non hanno un posto dove abitare. L’idea di occupare lo stabile abbandonato da trent’anni, che si trova a lato dello spazio Paratod@s, era stata presa nel 2021. All’epoca decine di giovani originari principalmente da alcuni paesi dell’Africa occidentale, erano stati ospitati nei locali in affitto da compagni e compagne, dove da dieci anni si svolgono attività politiche e culturali. Era poi scaturita l’idea di occupare la struttura adiacente al Laboratorio. Non doveva essere un’occupazione di lungo periodo, precisano nel comunicato diffuso oggi il collettivo Paratod@s, “pensavamo si trattasse di una situazione temporanea e non immaginavamo l’inizio di un percorso”. I coinquilini che alloggiavano al Ghibellin erano perlopiù lavoratori in regola con il permesso di soggiorno, provenienti principalmente da Mali, Burkina Faso, Senegal, Gambia e Nigeria. Oltre 150 quelli ospitati negli anni: hanno alloggiato nei due piani dello stabile occupato, in alcuni periodi, anche da 60 persone contemporaneamente. Negli stessi spazi aveva trovato alloggio anche Moussa Diarra, ventiseienne maliano ucciso dalla Polizia il 20 ottobre scorso. “Le condizioni igienico/sanitarie e le problematiche strutturali dell’edificio non consentivano più di garantire il pieno rispetto della dignità umana. E se non abbiamo tenuto fede all’impegno di chiudere prima dell’inverno è stato solo per non aggiungere altro disagio alla già grave emergenza freddo, gestita con numeri e modalità che da sempre riteniamo insufficienti e non adeguate”, è scritto nel comunicato stampa. “Negli anni si è venuta a creare una comunità di lotta composta da attivisti e migranti“, aggiungono ai nostri microfoni da Paratod@s, ripercorrendo l’esperienza. “Speravamo che l’enormità del problema sollevato e la nostra spinta dal basso avrebbero portato a risposte concrete e ad un cambio radicale di visione sul tema casa, accoglienza e dormitori”. Negli anni qualche risposta è arrivata, lo riportano i numeri diffusi oggi da Paratod@s: “15 persone sono stabilmente ospitate in strutture Caritas, attraverso l’intervento del vescovo Pompili, tra dicembre 2023 e gennaio 2024; 22 persone hanno una casa AGEC (tra quelle non comprese nel piano di riatto/assegnazione dell’ente) attraverso la collaborazione con la cooperativa La Casa degli Immigrati; 5 persone hanno ottenuto posti letto attraverso la collaborazione con la cooperativa La Milonga; 1 persona ha avuto posto letto attraverso i servizi sociali del Comune di Verona; circa 30 persone hanno ottenuto la residenza fittizia, attraverso il dialogo con l’ufficio anagrafe del comune di Verona e la collaborazione con la rete sportelli; 6 persone sono state escluse da qualunque tipo di percorso e soluzione da parte delle istituzioni, nonostante la pressione esercitata nei mesi successivi, affinché si trovasse una sistemazione”. Compagni e compagne di Paratod@s rivendicano un’esperienza che “ha mostrato come l’azione dal basso di autorecupero di un edificio abbandonato sia pratica possibile, realizzabile e necessaria. In una città come Verona, con centinaia di edifici pubblici vuoti, con un mercato immobiliare intossicato dal profitto, in cui a student3 universitari3 vengono chiesti 500 euro per un posto letto, i progetti di Hotel/cohousing sociale dovrebbero essere pubblici e accessibili”. Radio Onda d’Urto ha incontrato la comunità del Ghibellin presso il Laboratorio Autogestito Paratod@s e ha realizzato una trasmissione speciale con i protagonisti dell’esperienza dell’occupazione abitativa. La prima parte della trasmissione (37 minuti). Ascolta o scarica La seconda parte della trasmissione (42 minuti). Ascolta o scarica Con le voci di Rachele Tomezzoli, Giuseppe Capitano, Osasuyi, Alessia Toffalini, Bakari Traoré, Sekou.
Il lavoro ripudia la guerra. Manifesto per un diritto del lavoro della pace
L’umanità sta attraversando un crinale della storia che rischia di essere senza ritorno. La guerra e l’uso della forza armata sembrano costituire sempre di più l’unico mezzo per la risoluzione dei conflitti internazionali e per il perseguimento di miopi interessi nazionali, dimenticando che l’umanità ha un unico comune destino. Il piano di riarmo deciso dall’Unione europea, l’aumento oltre ogni sostenibilità delle spese militari deciso dalla NATO, la folle corsa agli armamenti, costituiscono di per sé una “dichiarazione di guerra”, attraverso la sottrazione di risorse ai diritti fondamentali: la salute, la casa, l’istruzione, la cultura, la salvaguardia dell’ambiente. L’economia di guerra condanna per sempre i lavoratori al precariato e allo sfruttamento ed è incompatibile con un “esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.). Essa inoltre comporta una proliferazione delle attività lavorative connesse con la guerra; la produzione, il commercio ed il trasporto delle armi, stanno portando ad un crescente coinvolgimento di lavoratori e lavoratrici in attività connesse direttamente o indirettamente con il settore bellico Riteniamo che il movimento sindacale, con il sostegno delle forze della società civile che hanno a cuore la pace e il disarmo, abbia il dovere di dare una risposta all’altezza dei tempi al desiderio diffuso di tanti lavoratori e lavoratrici di sottrarsi agli ordini dei propri datori di lavoro quando questi sono in esplicito contrasto con i valori di pace e di convivenza umana: oggi più che mai si pone per i lavoratori il tema della “non collaborazione” con una economia di guerra e con un sistema di relazioni internazionali fondato sulla palese violazione del diritto internazionale e del diritto umanitario. Si tratta di andare oltre il motto “non in mio nome” e proclamare con azioni concrete “non con le mie mani, non con le mie conoscenze, non con il mio lavoro”. Se “l’Italia ripudia la guerra” (art. 11 Cost.) e se “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro” (art. 1 Cost.), deve ritenersi coerente con il dettato costituzionale la volontà dei lavoratori e delle lavoratrici di non collaborare, di disobbedire, di non effettuare nessuna prestazione lavorativa che abbia un’attinenza diretta o indiretta con l’economia e la cultura della guerra, in ogni settore: industriale, della logistica e del trasporto, della ricerca, dell’istruzione. Questa volontà di disobbedienza deve potersi manifestare anzitutto con il libero esercizio del diritto di sciopero (art. 40 Cost.) e di ogni azione collettiva di lotta (art. 39 Cost) che si opponga alla guerra e alle politiche di riarmo L’esercizio di questo diritto per essere davvero libero deve essere svincolato da ogni controllo del potere esecutivo e della Commissione di garanzia sul diritto di sciopero, dal momento che è di tutta evidenza che il trasporto e la movimentazione di armi dentro e fuori il territorio nazionale (a maggior ragione fuori dal territorio nazionale), non possono essere definiti “servizi pubblici essenziali” non avendo alcuna attinenza con “il godimento dei diritti della persona, costituzionalmente tutelati, alla vita, alla salute, alla libertà e alla sicurezza, alla libertà di circolazione, all’assistenza e previdenza sociale, all’istruzione ed alla libertà di comunicazione” (art. 1 l. 146/1990) . Riteniamo, al contrario, che lo sciopero contro le armi e le azioni collettive sindacali di contrasto alla movimentazione di armamenti costituiscano lo strumento più idoneo a garantire i principi costituzionali di rifiuto della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali ed il rispetto del diritto umanitario ed internazionale. Ad un tempo riteniamo che debba essere garantito il diritto dei singoli lavoratori e delle singole lavoratrici di qualsiasi settore o comparto, di dichiararsi obiettori di coscienza per convincimenti morali, filosofici o religiosi rifiutando di effettuare la propria prestazione lavorativa se questa è connessa direttamente o indirettamente con le armi e la guerra ed essere assegnati a mansioni alternative. Pur auspicando che tale diritto sia garantito da una norma positiva, riteniamo sussista già nel nostro ordinamento un diritto all’obiezione di coscienza che trova la sua fonte in principi di diritto internazionale di diretta applicazione. La coscienza, insieme alla ragione, è ciò che distingue gli esseri umani, come recita l’art. 1 della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani (“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”). La Convenzione EDU, all’art. 9, prevede che “ogni persona” ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione, senza alcuna eccezione. L’art. 2 della Costituzione “riconosce e garantisce” i diritti inviolabili dell’uomo. Auspichiamo che pertanto venga riconosciuto il diritto di ogni lavoratore e lavoratrice di rifiutare per motivi di coscienza di effettuare la prestazione lavorativa se questa è connessa direttamente o indirettamente all’economia e alla cultura della guerra e di essere assegnato/a ad attività alternative. Siamo convinti che lo sciopero, la disobbedienza, l’azione collettiva ed il rifiuto individuale da parte dei lavoratori e delle lavoratrici possano costituire la più efficace forma di lotta nonviolenta e possano fermare i signori della guerra e la follia del riarmo, consentendo alla Repubblica, fondata sul lavoro, di ripudiare la guerra e bandirla dalla storia. Per aderire: illavororipudialaguerra@gmail.com Firmatari:  Alessandra Algostino (costituzionalista – Università Torino)- Michela Arricale (avv. Co-Presidente CRED) – Olivia Bonardi ( giuslavorista, Università di Milano) – Silvia Borelli (giuslavorista Università di Ferrara) -Marina Boscaino (Portavoce dei Comitati contro ogni Autonomia differenziata) – Piera Campanella (giuslavorista, Università di Urbino) – Giulio Centamore (giuslavorista Università di Bologna) – Chiara Colasurdo (avv. CEING) – Andrea Danilo Conte (avv. CEING) – Antonello Ciervo (costituzionalista) – Giorgio Cremaschi (sindacalista) – Claudio De Fiores (Presidente Centro Riforma dello Stato, costituzionalista) – Aurora D’Agostino (copresidente Associazione Giuristi Democratici) – Beniamino Deidda (magistrato, ex Procuratore generale Firenze) – Antonio Di Stasi (giuslavorista Università Politecnica delle Marche) – Riccardo Faranda (avv. CEING) – Cristiano Fiorentini (Es. Naz. USB) – Domenico Gallo (magistrato, già Consigliere Corte di Cassazione) – Andrea Guazzarotti (costituzionalista Università Ferrara) -Carlo Guglielmi (avv. CEING) – Roberto Lamacchia (copresidente Associazione Giuristi Democratici) – Antonio Loffredo (giuslavorista Università di Siena) – Guido Lutrario (Es. Naz. USB) – ⁹Fabio Marcelli (giurista internazionalista Co-Presidente CRED) – Federico Martelloni (giuslavorista Università Bologna) – Roberto Musacchio (già parlamentare europeo) – Valeria Nuzzo (giuslavorista Università Campania) – Giovanni Orlandini (giuslavorista Università Siena) – Francesco Pallante (costituzionalista Università Torino) – Paola Palmieri (Cons. Cnel per USB) – Alberto Piccinini (Presidente Comma 2) – Giancarlo Piccinni (Presidente Fondazione Don Tonino Bello) – Franco Russo (già parlamentare, CEING) – Giovanni Russo Spena (già parlamentare) – Arturo Salerni (avv. CEING) – Jacobo Sanchez (avv. CEING), Simone Siliani (Direttore Fondazione Finanza Etica) – Carlo Sorgi (magistrato, già Presidente Tribunale Lavoro Bologna) – Francesco Staccioli (Es. Naz. USB) – Anna Luisa Terzi (magistrato, già Consigliere Corte appello Trento) – Associazione Comma 2 – Associazione Giuristi Democratici – Pax Christi Italia
LAVORO: DOPO 17 GIORNI DI PROTESTA, FIRMATO ACCORDO PER I LAVORATORI DEL GRUPPO 8 DI FORLÌ
Ha vinto la lotta degli operai e del sindacato Sudd Cobas all’azienda Gruppo 8 di Forlì. Con 17 giorni di sciopero e picchetto contro l’intenzione della multinazionale HTL di chiudere lo stabilimento e delocalizzare la produzione in Cina, i lavoratori sono riusciti a difendere le condizioni contrattuali che avevano ottenuto nei mesi scorsi sempre grazie alla lotta. Fino a dicembre, infatti, i lavoratori di questa azienda erano costretti a vivere dentro il capannone, dove cucinavano anche, con le bombole del gas e i cavi elettrici scoperti. Grazie alla lotta, hanno ottenuto condizioni di lavoro almeno dignitose. Una vertenza che ha visto, lunedì 14 luglio, le manganellate della celere mandando tre lavoratori all’ospedale. È stato firmato ieri un accordo tra le parti che scongiura i licenziamenti per i prossimi sei mesi e mantiene le conquiste delle lotte precedenti e da  oggi riapre  riapre lo stabilimento di via Gramadona, con il rinnovo del contratto di comodo d’uso con cui Gruppo 8 continuerà a concedere gli spazi alla Sofalegname. L’accordo prevede il blocco dei licenziamenti per sei mesi e l’attivazione di un contratto di solidarietà. “È un risultato strappato con 17 giorni molto duri” commenta ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Luca Toscano del sindacato di base Sudd Cobas. Ascolta o scarica.
Satnam e i suoi fratelli. Cinque lavoratori indiani morti in provincia di Salerno in nove mesi
(disegno di otarebill) È passato un anno dalla tragica morte, o meglio omicidio, di Satnam Singh in provincia di Latina, avvenuta il 19 luglio 2024. In questi giorni i suoi parenti sono in Italia, e stanno incontrando politici e sindacalisti: il presidente della Regione Lazio, Rocca, il segretario della Cgil, Landini, i deputati Pd, e infine al Senato la Commissione di indagine sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro.  In questi incontri è risuonato il condivisibile slogan “mai più casi come quelli di Satnam”, ma cosa è cambiato realmente nell’ultimo anno? Purtroppo poco o niente, la situazione sembra addirittura peggiorata: dalla morte di Satnam Singh a oggi, sono almeno trenta i lavoratori indiani morti in Italia in seguito a incidenti sul lavoro, malori avvenuti sui posti di lavoro o investiti mentre si recavano o tornavano dal lavoro. Una delle comunità indiane più numerose presenti in Italia è quella che vive in provincia di Salerno, che, al primo gennaio 2024, contava 3.529 residenti. Circa un terzo della comunità indiana vive tra Battipaglia, Eboli e Capaccio, ed è impiegata principalmente nei settori dell’allevamento di bufale e bovini e nell’agricoltura. Solo in provincia di Salerno sono morte cinque persone di origine indiana negli ultimi nove mesi, e purtroppo non risultano dichiarazioni di politici, sindacati e associazioni, rispetto a queste morti, neppure semplicemente di cordoglio. Le comunità e i parenti delle vittime sono state lasciate sole, senza alcun supporto. Il caso più recente è avvenuto l’8 luglio 2025, è stato descritto così dal quotidiano La Città di Salerno: “Lo hanno trovato nella vasca, dove si raccoglie il letame. Privo di vita, morto da diversi giorni. Aveva 37 anni, l’indiano. Padre di un figlio, rimasto in Asia in compagnia della madre. La salma è stata sequestrata dai carabinieri di Serre, guidati dal capitano Greta Gentili. Le indagini sono coordinate dal pm Gianpolo Nuzzo che, ieri mattina, ha incaricato il medico legale Gabriele Casaburi di effettuare un primo esame cadaverico esterno. Nell’azienda bufalina erano presenti gli avvocati Mario e Carlo Conte, in rappresentanza del titolare della ditta che non è indagato”. Da quello che è stato possibile ricostruire, leggendo i vari articoli, la mattina dell’8 luglio alcuni lavoratori hanno attivato un macchinario per svuotare dall’abbondante acqua piovana caduta nelle ore precedenti una vasca che raccoglie il letame in un’azienda bufalina in località Borgo San Lazzaro a Serre, ed è riemerso il cadavere di un uomo. Era presente anche il cognato della vittima, anch’egli di origine indiana, impiegato nell’azienda. La salma era già in avanzato stato di decomposizione, forse da giorni. La vasca dove è stato ritrovato il corpo, stranamente, non risulta sequestrata, nemmeno per verificare se fosse stata costruita a norma di legge, e con le misure di sicurezza prevista per evitare incidenti.  Nessun articolo riporta il nome dell’uomo, scrivono che sia stata ritrovato senza documenti ed effetti personali, eppure contraddittoriamente aggiungono informazioni dettagliate quali il fatto che avesse 37 o 38 anni, un figlio e una moglie in India, fosse attualmente disoccupato o non “formalmente impiegato nell’azienda bufalina”, vivesse in Italia da vari anni e fosse stato ricoverato e poi dimesso da un ospedale della zona il 30 giugno. Il 10 luglio si sarebbe dovuta tenere l’autopsia della salma, nell’obitorio dell’ospedale di Eboli. Non si sa se i familiari abbiano potuto nominare un tecnico di parte, o se ne siano stati informati.  In precedenza un altro lavoratore di origine indiana, di 54 anni, era deceduto colpito da un malore il 13 maggio 2025 a Positano. Anche in questo caso non si conosce il nome della vittima né altri dettagli.  Il 21 marzo un lavoratore indiano, che abitava e lavorava ad Altavilla Silentina (paese confinante con Serre) in un’azienda agricola era stato ritrovato senza vita in circostanze “misteriose”: “Il giallo della morte di Sandhu Gurmeet Singhi, 25enne di origine indiana, si infittisce. Il suo corpo è stato ritrovato ieri lungo la riva del fiume Calore, a Serre, nascosto tra i rami, dopo ore di ricerche condotte dai carabinieri di Eboli, vigili del fuoco e Protezione civile. Ora sarà l’autopsia a stabilire cosa sia realmente accaduto. Tre le ipotesi al vaglio degli inquirenti: omicidio, suicidio o caduta accidentale. L’allarme era scattato dopo mezzogiorno, quando il giovane non aveva fatto rientro a casa. Preoccupati, gli amici avevano segnalato la sua scomparsa, dando il via alle ricerche”. A distanza di quattro mesi, anche in questo caso non si è saputo più nulla dei risultati dell’autopsia e delle indagini.  Il 29 novembre 2024 è la volta di Onkar Syng, un ventitreenne di origini indiane, investito da un treno alla stazione di Ascea. I media locali non forniscono nessun dettaglio, la storia di Onka viene riportata solo in un articolo pubblicato da PTC Punjabi UK, un canale televisivo, voce della comunità di lingua punjabi europea, con sede nel Regno Unito: “Onkar Singh era arrivato in Italia nell’ottobre 2023. Il padre di Onkar,Bhupinder Singh, ha affermato che, dopo aver contratto un prestito di dodici-tredici lakh di rupie (circa 13 mila euro) , era riuscito a mandarlo in Italia in modo che il suo unico figlio maschio potesse essere il suo sostegno nella vecchiaia. Ma le circostanze che ha dovuto affrontare dopo il suo arrivo qui non possono essere descritte. L’intermediario che lo aveva invitato in Italia non lo ha aiutato, motivo per cui i documenti italiani di Onkar non erano pronti, e senza documenti in Italia, non riusciva a trovare lavoro regolare da nessuna parte. Mentre viaggiava da Catania a Brescia in treno, per cercare un lavoro, durante il tragitto è sceso alla stazione ferroviaria di Ascea in provincia di Salerno. Il padre ritiene che Onkar abbia preso questa decisione a causa delle vessazioni subite in Italia, che gli hanno causato una depressione”. L’8 novembre 2024 in località Campolongo di Eboli è morto Singh Manjinder, quarantanovenne indiano, schiacciato da un trattore mentre lavorava nei campi della Piana del Sele. Pare che, per cause da accertare, gli sia finita addosso la pala meccanica del mezzo agricolo. Anche in questo caso, gli unici approfondimenti degni di rilievo, provengono da testate giornalistiche indiane e punjabi: “Manjinder Singh Rimpa lavorava nei campi con la sua famiglia da diversi anni. Ieri stava guidando un trattore e stava arando il terreno, quando improvvisamente il mezzo si è ribaltato e qualcosa lo ha colpito gravemente, provocandogli una morte dolorosa. I familiari sono perplessi sul perché si sia verificata questa tragedia e le reali ragioni dell’incidente non vengono presentate in modo adeguato dalle autorità. La famiglia ha affermato che dietro questa morte ci sono ragioni profonde e chiede un’indagine imparziale sull’accaduto. Perché è successo questo? Perché è avvenuto l’incidente? Il proprietario non sta dando la risposta corretta. I parenti del defunto stanno fornendo informazioni su questo incidente”. “Un operaio che lavorava con lui ha dichiarato alla stampa che il defunto Manjinder Singh stava arando i campi come al solito e che lui aveva lasciato il lavoro nel pomeriggio per andare a riposare nei campi poco distanti. Dopo un po’, il proprietario dei campi e suo figlio sono arrivati e gli hanno intimato di non uscire di casa, perché la polizia era arrivata nei campi. Il collega ha inoltre affermato di aver provato a parlare con Manjinder Singh al telefono, ma di non aver ricevuto risposta. Successivamente, ha chiamato un altro lavoratore punjabi di una fattoria vicina e gli ha chiesto spiegazioni. Quest’ultimo gli ha riferito che si era verificato un incidente con un trattore nei campi del suo datore di lavoro, in cui un lavoratore era morto”. Le notizie su queste morti di solito vengono rapidamente dimenticate, i media ne scrivono per un paio di giorni e poi il caso scompare totalmente. Questo avviene proprio perché, senza un supporto solidale, i parenti, gli amici e le famiglie delle vittime non possono farsi sentire, avere i fondi per nominare avvocati e periti di fiducia, e spesso nemmeno le risorse necessarie alla vita quotidiana. I media locali si limitano a riportare le veline degli inquirenti e delle forze dell’ordine, non pongono domande né fanno inchieste, non riportano mai i racconti dei familiari e colleghi delle vittime. I sindacati tacciono: è possibile verificare come sui siti e sui canali social delle principali organizzazioni provinciali di categoria, non ci sia letteralmente traccia di queste morti. Anche l’operato di forze dell’ordine e inquirenti appare superficiale. Il più recente processo relativo alla morte sul lavoro di un bracciante indiano, nella provincia di Salerno, lo scorso 10 dicembre ha visto il titolare dell’allevamento di bufale dove era morto nel 2019 Avtar Singh, assolto in appello con formula piena “perché il fatto non sussiste”. Come per Satnam Singh, anche familiari, amici e colleghi delle vittime nel salernitano, vogliono verità e giustizia, e sono disposti a farsi sentire: è necessaria e urgente la creazione di una rete di solidarietà attiva sui territori, che rompa la cappa di silenzi e complicità che permette lo sfruttamento e la strage di lavoratori e lavoratrici, immigrati e non. (emme)
Meloni al congresso Cisl, sceneggiata di regime
Sostiene che sul lavoro va tutto bene, ma ha fatto male i conti: il paese è una polveriera La Meloni rivendica il forte incremento di posti di lavoro, ma dimentica di precisare che si tratta di lavoratori poveri, condannati a salari da fame. Il lavoro che cresce in Italia è […] L'articolo Meloni al congresso Cisl, sceneggiata di regime su Contropiano.
Gkn, la lotta che non possiamo perdere
Articolo di Giulio Calella «Siamo alla ricerca della spallata decisiva per far cadere il muro di gomma. Ad oggi, la nostra spalla non si è rotta, ma il muro non è ancora venuto giù. Siamo condannati a provare e riprovare». Con queste parole di Dario Salvetti del Collettivo di fabbrica ex Gkn, si è aperta sabato 12 luglio, davanti a circa 700 persone, la seconda assemblea nazionale degli azionisti di Gff (Gkn for future), la cooperativa promossa dagli operai che ha un piano industriale per riprendersi la fabbrica (che produceva semiassi per automobili) e rimettere al lavoro 109 persone producendo Cargo Bike e pannelli fotovoltaici. La sera prima, con lo slogan «Resistere per Ri-esistere», un grande concerto con, tra gli altri, España Circo Este, Bandabardò e Piero Pelù, ha celebrato davanti ad alcune migliaia di persone (che alla fine hanno dato vita anche a un corteo notturno fino al sagrato della Basilica di Santa Croce) i 4 anni di quella che è la lotta più lunga della storia del movimento operaio, iniziata con il licenziamento via mail di 400 lavoratori e lavoratrici il 9 luglio del 2021.  Sembra incredibile ma, pur con difficoltà e defezioni, l’assemblea permanente dopo 4 anni è ancora lì. Quattro anni in cui quegli operai e operaie hanno bloccato per due volte i licenziamenti in tribunale, portato in piazza decine di migliaia di persone, costruito convergenza con i movimenti sociali italiani e internazionali, ispirato film e libri, portato in scena spettacoli teatrali, messo in piedi una Società operaia di mutuo soccorso con le energie solidali del territorio, organizzato tre Festival di letteratura working class, preparato insieme a ricercatori solidali un piano di reindustrializzazione dal basso ecologicamente sostenibile, raccolto un azionariato popolare di oltre un milione e mezzo di euro, e ottenuto una legge regionale che permette, attraverso un Consorzio industriale pubblico, di riprendersi la fabbrica e rimettersi al lavoro in cooperativa in forma autogestita. L’ULTIMO MURO DA ABBATTERE «Quattro anni non sono un traguardo da festeggiare, ma una ragione per indignarsi», hanno sottolineato i militanti del Collettivo di fabbrica. Perché questi quattro anni hanno mostrato non solo l’incredibile resistenza operaia ma anche l’arrogante determinazione della violenza padronale: prima con il licenziamento collettivo e poi con la volontà di sfinire la lotta per fame, senza preoccuparsi nemmeno di adempiere al giudizio del tribunale che li obbliga a pagare 15 mesi di stipendi non corrisposti. Nel frattempo il governo Meloni ha osservato la vicenda con totale indifferenza, scatenando però i propri esponenti locali con calunnie e accuse verso gli operai rimasti senza stipendio, colpevoli sostanzialmente di non essersi arresi.  Se questa incredibile lotta non ha ancora vinto è perché per loro sarebbe un precedente difficile da gestire. E perché la proprietà dell’ex Gkn, invece di presentare un suo nuovo piano industriale come avrebbe dovuto per legge, sembra perseguire progetti speculativi, o almeno così fanno pensare gli strani passaggi di proprietà dell’immobile della fabbrica, in un gioco di scatole cinesi e cambi di valore quantomeno dubbi.  A questo si aggiunge la minaccia di sgombero del presidio arrivata nei giorni scorsi dal Tribunale fallimentare che, nel più classico dei copioni, potrebbe avvenire in piena estate. Mentre le Istituzioni locali, che pure hanno appoggiato la proposta di reindustrializzazione dal basso della fabbrica, procedono nella giusta direzione ma con una lentezza estenuante.  «Ancora una volta – hanno detto sabato gli operai davanti agli azionisti di Gff – questa assemblea si svolge senza poter deliberare l’avvio del progetto. Il Consorzio è vicino, ma non ancora costituito». Al momento hanno aderito al Consorzio industriale pubblico i Comuni di Campi Bisenzio, Calenzano e Sesto Fiorentino, e il 16 luglio dovrebbe aggiungersi anche la Città metropolitana di Firenze. A quel punto il Consorzio dovrà andare dal notaio per costituirsi ufficialmente, dopodiché la Regione Toscana potrebbe compiere il passo decisivo per prendere possesso dell’immobile e metterlo a disposizione dell’unico piano industriale esistente, quello degli operai.  I tempi sono strettissimi. Non solo per la sempre più difficile capacità di resistenza degli operai, che oggi dopo 15 mesi consecutivi senza stipendio sopravvivono grazie al sussidio di disoccupazione. Sono stretti perché da un lato c’è la minaccia di sgombero del Tribunale e dall’altro incombe la fine della legislatura regionale: in Toscana si voterà il nuovo Consiglio il prossimo ottobre, e si rischia di arrivare alla campagna elettorale senza aver reso operativo il Consorzio industriale pubblico. Cosa che – sia detto per inciso – sarebbe un clamoroso autogol per la stessa maggioranza di Centrosinistra, viste le accuse arrivate da destra per i fondi impegnati per il suo avviamento. Il progetto di reindustrializzazione è invece ormai arrivato ai dettagli, con i contratti per la linea produttiva già concordati, i corsi di formazione per i lavoratori pronti e le linee di credito attivate con tre diversi istituti finanziari. Serve solo l’ultimo passo e spetta alla Regione Toscana, che lo stesso Piero Pelù dal palco del concerto ha invitato a fare al più presto ciò che si è impegnata a fare. LA PROPOSTA PER L’AUTUNNO «Se ci sgomberano, siamo sicuri che faremo una piazza cinque volte più grande di questa – ha detto Dario Salvetti dal palco di venerdì sera – Eppure sarebbe comunque una sconfitta. Di fare la parte degli eroi che vengono sgomberati a noi non frega nulla. Abbiamo solo assoluto bisogno di vincere questa lotta, ricominciare a lavorare e provare a diventare un motore di mutualismo e di un’idea alternativa di produzione». La parola «vincere» negli ultimi decenni è però diventata fantascienza per i movimenti sociali. Dall’inizio del nuovo millennio non sono mancate le lotte e i movimenti, ma quasi sempre, anche quando hanno prodotto grandi mobilitazioni di piazza, si sono ritrovate con nulla in mano. È il problema epocale del deterioramento dei rapporti di forza politici e sociali, che ha prodotto un riflusso crescente delle esperienze di attivismo e la stessa esplosione dell’astensione elettorale, con un distacco sempre più profondo tra politica e società.  Questa debolezza ha innescato anche un sempre più insostenibile circolo vizioso nelle soggettività organizzate che pure si oppongono radicalmente allo status quo: la debolezza ha infatti paradossalmente aumentato la frammentazione delle lotte e delle soggettività sociali e politiche, come se ogni iniziativa partisse già rassegnata a essere una mera testimonianza. Utile nel migliore dei casi ad aggregare nuove energie militanti, ma senza mai avere una vera strategia per ottenere, anche parzialmente, i propri obiettivi e provare così a incidere sui rapporti di forza. Per fare solo l’ultimo esempio, basti pensare alle due manifestazioni contro il riarmo dello scorso 21 giugno, che hanno marciato separate pur con piattaforme in larga parte sovrapponibili.  Se la lotta della Gkn è durata così a lungo è perché ha rappresentato un tentativo in controtendenza rispetto a questo stesso circolo vizioso che sembra non avere fine. Ha praticato e creato l’immaginario della convergenza, rigettato l’idea dell’autosufficienza, immaginato un obiettivo praticabile da raggiungere, anche quando la speranza di un nuovo piano industriale dell’azienda è definitivamente tramontata.  Se anche questa lotta, così lunga, creativa e resistente, dovesse finire senza nulla in mano sarebbe una sconfitta pesantissima per tutti i movimenti che provano a resistere alla guerra, al liberismo e alle politiche securitarie.  Dal palco del concerto di venerdì e all’assemblea di sabato sono intervenute decine di realtà, movimenti e organizzazioni che in questi quattro anni hanno solidarizzato con la vertenza della Gkn. Ma per vincere serve qualcosa di più della solidarietà.  Sarà decisiva la capacità di cogliere in modo diffuso la proposta avanzata dal Collettivo di fabbrica nell’assemblea di sabato: «Mettiamo a disposizione la nostra esigenza di mobilitazione alle esigenze di mobilitazioni più generali – hanno detto gli operai – Mettiamo a disposizione la piazza di Firenze alle decisioni delle prossime assemblee di movimento, per costruire un nuovo corteo ‘Per questo, per altro, per tutto’, sulla base delle rivendicazioni che oggi ci paiono intrecciare tutte le lotte».  Una proposta che invitano a discutere in tutte le organizzazioni e i luoghi di movimento nei prossimi mesi, perché si possa convergere in una data unitaria autunnale che abbia la forza di dare la spallata decisiva per permettere alla vertenza Gkn di vincere, alla reindustrializzazione di partire, rafforzando al contempo il rilancio di tutti i percorsi di movimento.  Del resto, Il progetto di reindustrializzazione dell’ex Gkn parla direttamente alle battaglie per la transizione ecologica, alle vertenze per l’aumento dei salari, alle mobilitazioni contro il Ddl Sicurezza che reprime chi lotta, alle esperienze mutualistiche territoriali e ai movimenti contro il genocidio in Palestina, il riarmo e la conversione bellica delle aziende automobilistiche.  Per questo, quella della Gkn è una lotta che non possiamo permetterci di perdere. Perdere qui, dopo questo lunghissimo e intenso percorso, renderebbe quanto mai difficile per chiunque trovare la forza di rialzarsi. Vincere, al contrario, sarebbe contagioso. Ed è il contagio di cui abbiamo urgentemente bisogno.  *Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, è editor di Jacobin Italia. Foto di Lorenzo Boffa L'articolo Gkn, la lotta che non possiamo perdere proviene da Jacobin Italia.
LAVORO: LA POLIZIA CARICA GLI OPERAI DI GRUPPO 8 (FO) IN SCIOPERO. TRE LAVORATORI IN OSPEDALE, MA LA RESISTENZA CONTINUA
Violente cariche di polizia ai cancelli della Gruppo 8 di Forlì, dove i lavoratori sono in sciopero e picchetto supportati dal sindacato di base Sudd Cobas. Da undici giorni lavoratori e sindacalisti presidiano i cancelli della fabbrica del Gruppo 8, azienda che produce divani di lusso che vengono venduti anche a 100mila euro l’uno. Difendono il loro posto e contratto di lavoro, “conquistato dopo anni di lotte”, sottolineano dal sindacato. Fino a dicembre, infatti, i lavoratori di questa azienda erano costretti a vivere dentro il capannone, dove cucinavano anche, con le bombole del gas e i cavi elettrici scoperti. Grazie alla lotta, hanno ottenuto condizioni di lavoro almeno dignitose. Per questo i padroni della multinazionale HTL, con sede a Singapore, ora vogliono chiudere lo stabilimento e delocalizzare la produzione in Cina, licenziando quindi gli operai. Oggi, lunedì 14 luglio 2025, la polizia ha attaccato il presidio permanente degli operai ai cancelli di Gruppo 8 con l’obiettivo di consentire all’azienda lo svuotamento del magazzino: un’operazione impedita finora dal blocco operaio. Il bilancio, al momento, è di almeno tre lavoratori feriti e portati in ospedale. Nonostante la violenza e le cariche, il picchetto continua a resistere. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto l’intervento di Arturo del sindacato di base Sudd Cobas. Ascolta o scarica.
CURAMI – PRIMA DI TUTTO LA SALUTE: “IL CALDO UCCIDE? INFORTUNI E MORTI SUL LAVORO NON SOLO PER IL CALDO”
Penultima puntata della seconda stagione, quella di sabato 12 luglio, intitolata “Il caldo uccide? Infortuni e morti sul lavoro non solo per il caldo”. Ospiti della trasmissione sono Tito Magni, senatore di Alleanza Verdi Sinistra ed Elisa Bianchini, delegata Cobas Lazio. Conduce la puntata Antonino Cimino. Curami è una trasmissione di Radio Onda d’Urto in onda il sabato mattina dalle 12.00 alle 12.30 di Donatella Albini, medica del centro studi e informazione sulla medicina di genere, già delegata alla sanità del Comune di Brescia, e di Antonino Cimino, medico e referente di Medicina Democratica – Movimento di lotta per la salute- di Brescia. La trasmissione viene replicata mercoledi prossimo alle 12.30. La puntata di sabato 12 luglio. Ascolta o scarica
I disoccupati organizzati e la trappola del click day. Corteo, scontri e arresti a Napoli
(disegno di escif) Da più di dieci anni uomini e donne organizzati nel Movimento Disoccupati 7 Novembre, a cui si sono poi uniti quelli del Cantiere 167 di Scampia, lottano a Napoli per una formazione qualificata e per un posto di lavoro stabile e dignitoso. Dopo tanto battagliare, e dopo una serie di rinvii, passi falsi e soluzioni fatte saltare dalle istituzioni all’ultimo momento, era previsto per stamattina l’avvio delle procedure – il cosiddetto “click day” – per l’assunzione delle platee di disoccupati storici nell’ambito di lavori di pubblica utilità. Il finanziamento dell’operazione era stato conquistato grazie a un lungo lavoro di pressione, fatto di manifestazioni, cortei e iniziative spesso conflittuali portate avanti dai disoccupati in questi anni, che hanno causato anche numerosi procedimenti giudiziari agli appartenenti ai due gruppi, talvolta fondati su bizzarre indagini come quella per associazione a delinquere: il tutto, per conquistarsi il diritto a partecipare a ottocento tirocini di un anno, pagati seicento euro al mese, che avrebbero dovuto poi comportare l’immissione in organico in aziende, anche private, che si occupano per conto del comune di Napoli di manutenzione e gestione del verde pubblico e di beni culturali. L’assegnazione di questi tirocini, però, non teneva conto dei lunghi e tortuosi percorsi svolti finora, né dei passaggi intermedi effettuati dalle centinaia di persone appartenenti ai due gruppi: corsi di formazione ministeriali nell’ambito del programma GOL (Garanzia di Occupabilità dei Lavoratori); altri programmi statali per gli over trentacinque; esperienza volontaria nell’ambito dei servizi pubblici, della pulizia delle spiagge, della manutenzione del verde. «Il vero punto – commenta uno dei disoccupati del Movimento 7 Novembre – è la mancata assunzione di una responsabilità politica da parte delle istituzioni, locali e nazionali, che con la scusa di una presunta trasparenza, che sembra una presa in giro quando ci sono centinaia di persone che per un proprio diritto hanno lottato più di dieci anni, non hanno voluto dare conclusione a un processo di emancipazione individuale e collettiva. Una scelta ancora più assurda se l’alternativa è passare attraverso uno strumento informatico farraginoso e di fatto inutilizzabile come il portale che è stato costruito». Stamattina, in effetti, il sistema informatico si è bloccato subito dopo l’avvio della piattaforma, rendendo per ore impossibile l’accesso, e lasciando poi fuori definitivamente una buona parte dei disoccupati organizzati (considerando anche il fatto che dopo un certo numero di tentativi il sistema Click Campania bloccava l’utente, il quale non riusciva ad accedere per colpe non proprie, ed era costretto a ricominciare la procedura partendo da un cambio di credenziali). Nulla di fatto, insomma, per le centinaia di persone che si erano date appuntamento all’esterno della prefettura per affrontare la procedura, e che altro non hanno potuto fare che prendere atto del fatto che l’ennesima possibilità stava rischiando di svanire: «Ci siamo organizzati per vederci fuori la prefettura – continua M. – per espletare tutti insieme, nella massima trasparenza, l’iter che dava il diritto di accedere a un progetto che ci eravamo conquistati con anni di dura lotta. Lo abbiamo fatto perché non ci fidavamo, viste le stranezze già registrate nel corso della notte sulla piattaforma, e alla luce di come è andata evidentemente non avevamo torto». Una volta chiuse le iscrizioni, quando anche chi era finalmente riuscito a completare il processo si ritrovava sul cellulare nulla più che una ricevuta con indicazioni poco chiare per il futuro, la frustrazione si è tramutata in rabbia. Un corteo improvvisato ha cominciato a muoversi per le strade del centro città, ma è stato caricato dalla polizia che ha arrestato tre manifestanti. Subiranno un processo per direttissima domani mattina, mentre un’altra decina di persone sono state ferite. Con una serie di comunicati diffusi in giornata, i disoccupati e le disoccupate dei 7 Novembre e del Cantiere 167 hanno chiesto ai media di raccontare questa assurda giornata, e di partecipare domani mattina alla manifestazione, con conferenza stampa finale, che si svolgerà partendo dalla questura centrale di via Medina alle nove e mezza. (redazione)
Rompere ghettizzazione e invisibilità
-------------------------------------------------------------------------------- -------------------------------------------------------------------------------- Il concorso della rassegna Fuori dal ghetto. Rosarno Filmfestival quest’anno avrà come tema centrale lo sfruttamento del lavoro. La sicurezza sul lavoro. Al centro dunque c’è il contrasto allo sfruttamento lavorativo che rappresenta una piaga diffusa su tutto il territorio nazionale, caratterizzato dalla violazione in materia di orario di lavoro, salari, contributi, diritti alle ferie, salute e sicurezza lavorativa. Dalla Piana di Gioia Tauro in Calabria a Saluzzo in Piemonte, a Nardò Puglia, a Latina nel Lazio, a Ragusa in Sicilia, lavoro nero, grigio e caporalato rimangono elementi strutturali sui quali intervenire. Non solo per i lavoratori stranieri ma per tutti i lavoratori e lavoratrici. L’agricoltura crea infatti posti di lavoro per i migranti ma il sistema non riesce a costruire processi di accoglienza degna in grado di interrompere i processi di ghettizzazione e invisibilità. Per questo la rassegna cerca di raccogliere soprattutto storie di vita: storie di accoglienza negata, storie di soprusi ma anche storie di riscatto nella quali la convivenza e lavoro regolare costruiscono economie in grado di rispondere a processi di spopolamento, di crescita collettiva. È importante testimoniare e documentare. Le opere potranno avere una durata massima di 20 minuti. Le opere possono essere inviate in formato con estensione Mpg4 con dimensione massima di 2 GB (si consiglia di inviare I film in formato 1920×1080 con wetransfer). La selezione delle opere è a cura e a giudizio insindacabile della direzione artistica. Al termine della pre-selezione gli autori verranno informati sul risultato telefonicamente o via email. Le opere andranno inviate all’indirizzo email fuoridalghetto2022@gmail.com entro e non oltre il 30 settembre 2025. Data la particolarità del concorso non ci saranno premi in denaro. I vincitori (primo e secondo) riceveranno un cesto di prodotti agricoli della Cooperativa Mani e Terra di Rosarno, inoltre le opere verranno proiettate in tutti gli spazi che organizzeranno eventi e aderiranno al Fuori dal Ghetto. “Il cinema non è solo una fabbrica di sogni – ha detto Ken Loach – È anche strumento di indagine sociale e di supporto alle pratiche sociali, di critica e denuncia delle tante forme di sfruttamento, strumento di raccordo conoscitivo tra culture diverse”. Spiega Ibrahim Diabate, ghanese, operatore di Mediterranean Hope: “Questo festival ci dà la possibilità di dialogare con il territorio e istituzioni. Essere considerati. Dieci anni fa non era possibile. Il nostro punto di vista non viene mai ascoltato. La giuria per il concorso sarà composta da lavoratori braccianti e studenti e cerca di sanare questa mancanza, questo collegamento con il territorio”. Fuori dal ghetto. Rosarno Filmfestival è promosso da Mediterranea Hope– Federazioni delle Chiese Evangeliche in Italia, Rete delle Comunità Solidali/Recosol, S.O.S Rosarno con l’adesione di Sea Watch, ResQ, Campagne Aperte, Impresa Sociale Sankara/Caulonia, Ass. Coopisa Cooperazione in Sanità/Reggio Calabria), Ass. Culturale Terra dei Morgeti/San Giorgio Morgeto, Ass. Santa Barbara/San Ferdinando, Equo Sud/eggio Calabria, La Coperta della Memoria Piana di Gioia Tauro, Faro Fabbrica dei Saperi Kiwi impresa sociale/Rosarno, Autogestione in movimento Fuorimercato/Milano, Acmos e Cascina Arzilla/Torino, ICS Consorzio Italiano Solidarietà/Trieste, RiMaflow/Milano, I.C S Trieste. E ancora: Comune-info, Confronti, Altreconomia, Volere la Luna, Pressenza stampa Internazionale, ZaLab laboratorio indipendente/Padova, Carovane Migranti/Torino. Bando GhettoDownload -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Rompere ghettizzazione e invisibilità proviene da Comune-info.