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Siamo ancora qui
LA GRANDI E DIFFUSE AZIONI INIZIATIVE NELLE PIAZZE PER LA PALESTINA DI OTTOBRE E NOVEMBRE DIMOSTRANO CHE LA MOBILITAZIONE NON È PER NULLA FINITA CON LA FALSA “PACE” DI TRUMP E CHE IL GENOCIDIO DEL POPOLO PALESTINESE HA SVELATO LA “NUOVA” LOGICA DELL’ORDINE GLOBALE, RIORGANIZZATA SEMPRE PIÙ ATTORNO ALLA GUERRA. MA QUELLE PROTESTE DICONO ANCHE CHE COLORO CHE SONO IN BASSO SONO CAPACI DI INDIVIDUARE ALCUNI PUNTI DEBOLI DI QUELLA RIORGANIZZAZIONE CARICA DI MORTE, AD ESEMPIO IL FATTO CHE IL REGIME DI GUERRA NECESSITA DI UN APPARATO LOGISTICO PIENAMENTE FUNZIONANTE. I PORTI, IN QUESTO SENSO, HANNO UN RUOLO CENTRALE. QUELLI CHE SONO IN ALTO TEMONO MOLTO I BLOCCHI DEI PORTI, PARTITI DA GENOVA È DIFFUSI IN ALTRE CITTÀ EUROPEE Il 28 novembre è stato convocato uno sciopero generale dalla USB (Unione Sindacale di Base), il sindacato che è stato fortemente coinvolto in tutte le manifestazioni svoltesi durante il “bimestre d’oro italiano”, tra settembre e ottobre di quest’anno. La Palestina è rimasta il tema centrale della mobilitazione, che questa volta ha visto però una maggiore articolazione con altre questioni legate alle condizioni di vita e di lavoro in Italia – e non solo. A Genova, la città dove tutto è cominciato con il blocco delle navi effettuato dagli operatori portuali del CALP (Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali), più di 10.000 manifestanti hanno aderito allo sciopero, con una presenza elevatissima di studenti e giovani. Il giorno successivo si è tenuta una manifestazione nazionale a Roma, alla quale hanno partecipato circa 100.000 persone, convocata sempre dalla USB e da altre organizzazioni politiche e della società civile. Anche lì, quella presenza giovanile si è distinta come uno degli elementi caratterizzanti della moltitudine che ha riempito Piazza San Giovanni. In questi due giorni di mobilitazione generale, la parola d’orine è stata quella che Riccardo Rudino, portuale genovese, ha gridato al megafono davanti a 40.000 persone in una serata degli ultimi giorni di agosto: “Se loro [i militari israeliani] faranno qualcosa [all’equipaggio della Global Sumud Flotilla], dal porto di Genova non uscirà nemmeno un chiodo. Blocchiamo tutto!”. Una frase che ha fatto il giro del mondo, tradotta e gridata in molte lingue. Riccardo – che i suoi compagni del CALP chiamano affettuosamente “vecchio” – è diventato, suo malgrado, con il suo aspetto un po’ riservato, una delle figure più conosciute nei movimenti globali per la Palestina libera. Si vogliono qui sottolineare tre elementi che caratterizzano oggi il movimento che ha portato nelle piazze di quasi tutte le città italiane circa due milioni di persone dall’inizio di settembre. Ciò, al fine di intravedere le prospettive – se non garantite, certamente sperate – del movimento nel prossimo futuro. Il primo riguarda la persistenza stessa del movimento: contrariamente a quanto era stato frettolosamente previsto, la mobilitazione non è finita con la falsa “pace” di Trump in Palestina. La narrazione proposta dai media mainstream non è stata accolta favorevolmente da chi segue, attraverso altri mezzi, le esecuzioni a sangue freddo, gli abusi, la distruzione di case e terre perpetrati da coloni protetti dall’IDF – e dall’IDF stessa. Qualcosa si è sedimentato in quei due mesi, rimanendo vivo nella coscienza di molti: non c’è giustizia nella pace proclamata dagli assassini e dai loro sostenitori. Non si tratta di un elemento secondario. Segna, anzi il consolidamento di ciò che è stato descritto in queste stesse pagine come un atteggiamento etico, un orgoglio di essere lì, da parte di molti che non avevano mai partecipato a manifestazioni di piazza. L’etica è direttamente legata al politico, si sovrappongono in modi diversi. In questo caso, l’etica assume la funzione di un “dire la verità” nello spazio pubblico, che diventa subito un atto di critica. È lì, nelle piazze, nelle scuole e nelle università, nei luoghi di lavoro, nei quartieri, che quell’atto emerge come una forza capace di trasformare noi stessi. “Dire la verità” non significa solo proporre una lettura diversa dei fatti: è prendere una posizione che diviene subito un atto politico. È una posizione che travalica, pur utilizzandoli, i social network; si appropria di uno spazio pubblico, fa della visibilità il suo punto di forza. È lo stesso che sta accadendo in molti contesti in giro per il mondo. Le bandiere della pace, della Palestina, della USB, dei gruppi politici di sinistra sono accompagnate dalla bandiera del Jolly Roger di One Piece: teschio sorridente, ossa incrociate e cappello di paglia. Il secondo elemento riguarda la menzionata articolazione dei temi che sono entrati in questi due giorni di mobilitazione. La Palestina è una questione globale, perché la Palestina è la Palestina Globale. Ciò significa vedere nel genocidio del popolo palestinese l’aspetto più tragico di una logica che riorganizza l’ordine globale attorno alla guerra. La guerra permanente, dunque, come elemento non eccezionale della ristrutturazione del modello delle relazioni globali – politiche, economiche, energetiche, ambientali, razziali – che costituiscono un vero e proprio “regime di guerra globale”, come è stato definito da Sandro Mezzadra e Michael Hardt. Questa consapevolezza emerge chiaramente in ogni manifestazione, riunione, assemblea, nella misura in cui riconosce in tale regime il coinvolgimento dell’intera catena di produzione, sia di beni sia dell’ordine “poliziesco”. Inutile dire che al suo vertice si trovano le big tech statunitensi, come è stato descritto innumerevoli volte – e con grande chiarezza – in queste pagine. Allo stesso modo, sarebbe ridondante ricordare come i governi del mondo multipolare giochino – ciascuno in base ai propri interessi e alla propria capacità di influenza – il ruolo che più conviene loro. Una consapevolezza – infine – che non risparmia le scelte compiute dal governo italiano e dai centri di potere economico e finanziario (così come da altri paesi europei, con la Germania in testa alla lista dei peggiori), per quanto riguarda le priorità nella pianificazione finanziaria dello Stato. La relazione tra le misure adottate sul piano internazionale e quelle che hanno un impatto diretto sulla vita quotidiana delle persone non lascia dubbi a nessuno. Ecco allora la moltitudine che ha riempito le strade negli ultimi giorni di novembre vedere, come parte della stessa strategia tanatopolitica, i popoli vittime delle brutalità e del cinismo assassino, le famiglie che rinunciano a cure mediche e ospedaliere, che cambiano abitudini alimentari, che non riescono a pagare l’affitto della casa in cui vivono per mancanza di mezzi economici. Allo stesso modo, queste condizioni si legano a quelle di lavoro e di vita – e di morte – nei paesi del Sud Globale, i primi anelli della lunga catena di approvvigionamento del capitalismo bellicista delle piattaforme. Ma vi è anche un altro livello di consapevolezza, che costituisce il terzo elemento caratterizzante del movimento. Il regime di guerra, pluriforme nei suoi modi di agire, necessita di un apparato logistico pienamente funzionante. Guerra e logistica, com’è noto, vanno di pari passo da secoli. Non esiste guerra senza logistica, così come non esiste logistica senza un’organizzazione “militare” dei flussi di approvvigionamento lungo l’intera catena. La struttura che la logistica ha assunto nell’era dell’intermodalità presuppone un legame stretto tra le diverse fasi che la compongono. I porti, in questo senso, hanno svolto un ruolo centrale. Ciò, a partire dalla rivoluzione introdotta dal container negli anni Ottanta, come mezzo di stoccaggio, movimentazione e trasporto di quasi ogni tipo di merce. Il container ha trasformato il trasporto – prima frammentato – in una linea unica e ininterrotta, come scrive Andrea Bottalico nel suo saggio La logistica in Italia. Per farsi un’idea chiara dell’importanza del trasporto marittimo tramite container, basta ricordare i giorni in cui una nave in avaria bloccò il Canale di Suez nel marzo 2021. Si scatenò il panico generale, con i prezzi che minacciavano di schizzare alle stelle, a causa della scarsità di componenti essenziali per molti settori industriali. E tutto questo durò appena una settimana. Il porto, in sostanza, cessa di essere soltanto una tappa nella linea che conduce dallo smistamento delle materie prime alla consegna al cliente finale, per diventare il centro strategico delle operazioni logistiche. La privatizzazione dei porti – e Genova non fa eccezione – con l’affidamento delle operazioni sulle banchine agli operatori privati, è stata la svolta che ha sottolineato tale centralità. Di tutto ciò sono pienamente consapevoli i portuali del CALP – che organizzano il blocco delle navi con carichi di armi dal 2019 – così come tutti gli altri soggetti che hanno articolato le proprie lotte con quella dei portuali. “Articolare tra” è diverso da “convergere verso”. Una consapevolezza che ha contagiato i lavoratori di altri porti, sia in Italia sia in altri paesi europei (Grecia, Cipro, Francia, Spagna e, in una certa misura, Portogallo). Il “blocchiamo tutto” di Riccardo è diventato la parola d’ordine che ha accompagnato le mobilitazioni in molte città contro il regime di guerra nel quale vogliono trascinarci – o nel quale siamo già stati trascinati. Quale potrà essere il destino di questo movimento non è una questione facilmente prevedibile. Innumerevoli sono le variabili, di natura diversa, che potranno influenzarlo. Ciò che sembra non lasciare dubbi è la visione che dobbiamo rafforzare riguardo il contesto di riferimento della stessa lotta. Il compito di ciascuno di noi è lavorare per una sua crescente estensione e internazionalizzazione, come del resto sta già avvenendo. Ciò passa attraverso la costruzione di ulteriori articolazioni lungo l’intera catena di approvvigionamento, a monte e a valle, all’interno e all’esterno. Sarebbe fondamentale cercare alleanze con i lavoratori dell’industria siderurgica che stanno vivendo giorni drammatici, con quelli dell’“ultimo miglio”, dei magazzini delle grandi centrali di distribuzione, che hanno subito minacce, violenze, licenziamenti per aver organizzato scioperi o picchetti. Allo stesso modo, le forze della società civile stanno producendo contenuti che arricchiscono e spostano la lotta su altri livelli, come nel caso di Weapon Watch e di altre organizzazioni di volontariato. La forza del movimento sta nel suo divenire, nella sua capacità di cambiare i propri obiettivi, le proprie articolazioni, le proprie strategie ogni volta che si renda necessario. La logistica non rimarrà ferma a ciò che è oggi, neppure l’intero ciclo di valorizzazione di cui la logistica costituisce il centro nevralgico. Come è sempre accaduto nei momenti di alta conflittualità, gli avversari delle classi popolari troveranno le misure per cercare di fermare le mobilitazioni. Ciò avverrà tanto nei porti quanto negli altri luoghi di lavoro, nelle scuole e nelle università, così come in qualsiasi altra realtà in cui ci sia qualcuno disposto a bloccare tutto, in nome di un futuro che vogliamo cominciare a frequentare fin da ora. -------------------------------------------------------------------------------- *Stefano Rota è ricercatore indipendente. Gestisce il blog “Transglobal”. Le sue più recenti pubblicazioni collettive sono La fabbrica del soggetto. Ilva 1958-Amazon 2021 (Sensibili alle foglie, 2023) e in G. Ferraro (a cura di), Altraparola. La figura di sé (Efesto Edizioni, 2023). Collabora occasionalmente con riviste online italiane e lusofone. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Siamo ancora qui proviene da Comune-info.
Donne d’Eritrea al centro del cambiamento
Nei mercati di Asmara e nei villaggi rurali, le donne eritree reggono l’economia familiare tra agricoltura, artigianato e cura domestica. Un progetto di cooperazione internazionale offre formazione e strumenti per trasformare resilienza in autonomia, aprendo nuove opportunità di lavoro dignitoso, inclusione sociale ed empowerment femminile. In Eritrea il lavoro delle donne è molto più di una necessità economica: è un atto quotidiano di resilienza, di costruzione del futuro e di partecipazione silenziosa allo sviluppo del Paese. Nei mercati di Asmara, nei villaggi rurali del Gash Barka e nelle regioni montuose del nord, le donne sono protagoniste della sopravvivenza delle famiglie, combinando la cura dei figli e della casa, con il lavoro nei campi, le attività artigianali di piccolo commercio e l’allevamento di animali. Le testimonianze raccolte restituiscono un quadro complesso: da un lato la fierezza di contribuire al benessere della comunità, dall’altro la consapevolezza delle difficoltà legate alla mancanza di strumenti, di formazione e di accesso a opportunità lavorative, dignitose e stabili. La trasmissione di competenze e l’accesso a percorsi di formazione professionale diventano quindi leve fondamentali per garantire sicurezza alimentare e nuove prospettive occupazionali. Allo stesso tempo, la formazione diventa anche uno strumento di empowerment che rafforza la consapevolezza dei propri diritti e che favorisce una partecipazione più attiva e inclusiva ai processi di cambiamento. Questo concetto diventa ancora più fondamentale per le donne, maggiormente escluse dalle opportunità educative e formative e quindi dal mondo del lavoro, in particolare per coloro che fanno parte del 75% della popolazione del Paese che vive in zone rurali, lontane dalla capitale Asmara. È in questo contesto che si inserisce il progetto di cooperazione internazionale “Miglioramento della sicurezza alimentare e dell’accesso al mercato del lavoro in Eritrea”, promosso da Nexus Emilia Romagna ETS con l’obiettivo di migliorare le condizioni di inclusione socio-economica delle fasce di popolazione più vulnerabili. Attraverso interventi di formazione tecnico-professionale e dotazione di materiali, il progetto intende migliorare la sicurezza alimentare, la consapevolezza e la possibilità di lavoro dignitoso per le persone più vulnerabili e residenti nelle aree rurali del Paese, con un’attenzione particolare a donne, giovani e persone con disabilità. l progetto pone grande enfasi sulla parità di genere e sull’inclusione sociale. La maggioranza dei beneficiari dei corsi di formazione professionale sono donne, in particolare provenienti da piccoli villaggi rurali. Donne con voglia di apprendere e avere alternative per il futuro che non siano solo la cura dei figli e della casa: un desiderio di empowerment economico che va oltre al desiderio di inclusione sociale. Le attività formative pratiche e teoriche sono state pensate per creare prospettive professionali concrete per chi in genere è escluso da tali opportunità. I moduli proposti garantiscono loro l’acquisizione delle competenze necessarie per l’accesso al mondo del lavoro e per raggiungere un’autonomia economica. Una beneficiaria del progetto ha raccontato quanto sia difficile conciliare vita lavorativa e familiare in un contesto che richiede forza, sacrificio e una costante capacità di adattamento. Grazie al corso di formazione in cucina ha trovato lavoro in una mensa dotata di asilo, che le permette di lavorare e contemporaneamente accudire il figlio. Altre beneficiarie, impegnate in attività agricole informali, hanno sottolineato come spesso il loro contributo non venga riconosciuto come “lavoro vero e proprio”, pur rappresentando una parte essenziale del reddito familiare. Una giovane donna, che ha partecipato al corso di formazione in agricoltura, ha trasformato il suo campo in una fonte affidabile di cibo per la sua famiglia e riesce a vendere l’eccedenza al mercato locale; ha raccontato che questo nuovo lavoro le ha permesso non solo di guadagnare un reddito che prima non aveva, ma anche di rivendicare diritti e riconoscimento sociale. Inoltre, la partecipazione al corso le ha permesso di conoscere altre donne, confrontarsi e scambiare idee. Queste testimonianze mettono in luce il cuore della questione: in Eritrea, come in molti altri Paesi del mondo, il lavoro femminile è imprescindibile, ma resta ancora fragile e necessita tutele. Il progetto si inserisce nel percorso intrapreso dall’Eritrea nel 1995 con la ratifica della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) che, pur complesso, sta aprendo nuovi spazi di partecipazione femminile. Uno degli attori principali di questo processo, e partner del progetto, è NCEW (National Confederation of Eritrean Workers), l’organizzazione sindacale nata ufficialmente nel 1994, ma con radici che affondano nella lunga storia del movimento operaio eritreo. La parità di genere è uno degli ambiti fondamentali del lavoro sindacale: NCEW promuove momenti di formazione, sensibilizzazione e iniziative volte a prevenire discriminazioni, molestie e violenze. Attraverso corsi, seminari e programmi di empowerment, l’organizzazione fornisce strumenti concreti alle lavoratrici per accedere a differenti opportunità professionali e, quindi, contribuire attivamente alla vita sociale ed economica del Paese. La parità di genere – insieme ad altri temi cruciali, quali lavoro dignitoso, salute e sicurezza sul lavoro – è stata inoltre al centro della campagna di advocacy, promossa nell’ambito del progetto e portata avanti da NCEW, che ha raggiunto un ampio pubblico attraverso incontri e iniziative comunitarie. Una tematica trasversale a tutto il progetto è la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Tutte le attività formative prevedono infatti un modulo di base sugli aspetti principali in materia, tra cui la prevenzione di rischi e infortuni. Il progetto prevede inoltre la realizzazione di un percorso formativo specifico su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. La formazione è organizzata da esperti dei sindacati italiani ed è rivolta a persone appartenenti a unità sindacali di base; è prevista anche la distribuzione di dispositivi di protezione individuale e di toolkit di diversa natura per poter replicare la formazione a cascata nei luoghi di lavoro. L’attenzione alle questioni di genere, alle disabilità e alla sicurezza nei luoghi di lavoro dimostra come l’iniziativa stia andando oltre l’obiettivo immediato della sicurezza alimentare, ponendo le basi per un cambiamento strutturale, in grado di incidere nel lungo periodo sulle dinamiche del mercato del lavoro in Eritrea. In un Paese complesso come l’Eritrea, dove la memoria della lotta per la libertà si intreccia con le sfide dello sviluppo contemporaneo, il lavoro femminile e giovanile diventa non solo un mezzo di sostentamento, ma anche uno strumento di emancipazione e coesione sociale. E proprio qui, nelle storie delle donne e nella capacità di valorizzarne il contributo, si intravede la speranza di un futuro più giusto, stabile e sostenibile. Medeber, Asmara, Eritrea Lavoro, diritti e inclusione Il progetto “Miglioramento della sicurezza alimentare e dell’accesso al mercato del lavoro in Eritrea” (AID 012848/01/0)intende promuovere lo sviluppo sostenibile attraverso il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’integrazione socio-economica di gruppi vulnerabili, con un’attenzione particolare a donne, giovani e persone con disabilità. Finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) – sede di Addis Abeba, è realizzato da Nexus Emilia Romagna ETS con Progetto Sud ETS e ISCOS e il partner locale NCEW, in collaborazione con CGIL, CISL e UIL. Nexus Emilia Romagna ETS Per sostenere Nexus Emilia Romagna ETS Codice Fiscale: 92036270376 Via Marconi 69, 40122 Bologna Tel.: 051 294775 Sito: www.nexusemiliaromagna.org Email: er.nexus@er.cgil.it Iban: IT85 O053 8702 Africa Rivista
LA GIORNATA LAVORATIVA TROPPO LUNGA È CAUSA DI STROKE
Sul quotidiano on line degli infermieri, www.nurse24.it, è stato qualche anno fa pubblicato un articolo di Silvia Stabellini, infermiera, dal titolo “Rischio stroke correlato all’orario prolungato di lavoro”. L’autrice faceva riferimento a uno studio, pubblicato sull’American Heart Journal, il quale riportava che “l’attività lavorativa che supera le 10 ore al giorno condotta per almeno 50 giorni all’anno rappresenta un potenziale fattore di rischio per lo stroke”. Dai dati scientifici emergeva come la giornata lavorativa troppo lunga (Long Working Hours, LHW), possa essere causa di ictus. Infatti “Sono stati condotti altri studi sulla relazione diretta o indiretta delle condizioni di lavoro sull’aumento del rischio di stroke, aritmie cardiache o coagulopatie in soggetti in LWH e viene sottolineato che turni irregolari, lavoro notturno e lavori particolarmente stressanti (fisicamente e mentalmente) non sono condizioni lavorative salutari.” Nell’articolo Silvia Stabellini cita poi l’esempio della propria professione, spiegando che da CCNL per gli infermieri è prevista una giornata lavorativa lunga fino a 12 ore e 30 minuti, e già di per sé questo è un elemento gravoso, senza contare altri elementi di disagio quali i turni, il lavoro notturno e lo stress lavorativo. Le giuste osservazioni dell’autrice mi sembrano analogamente riferibili alle mansioni ferroviarie di macchinista, capotreno e TPT cargo i quali, da contratto, hanno prestazioni lavorative fino a 10 ore (11 per i macchinisti dei treni merci), alle quali si devono poi sommare, tanto per citare i principali fattori di gravosità, l’aciclicità dei turni, il lavoro notturno, il riposo di sole 7 ore in caso di servizi con RFR, la solitudine lavorativa da quando è stato introdotto l’agente solo alla guida. Su tutti questi fattori sarebbe necessario intervenire, per evitare che la pesantezza del lavoro vada ad intaccare la salute dei lavoratori, come invece sta purtroppo accadendo: lo dimostra la scia dei 175 macchinisti prematuramente scomparsi per malattie dal 2015 ad oggi. Fonte: https://www.nurse24.it/dossier/ictus/rischio-stroke-correlato-orario-prolungato-lavoro.html L'articolo LA GIORNATA LAVORATIVA TROPPO LUNGA È CAUSA DI STROKE proviene da Ancora in Marcia!.
SONNO E STANCHEZZA, FARE PREVENZIONE PRIMA CHE CAPITINO GLI INFORTUNI: Da un articolo sulla condizione dei turnisti svizzeri alcuni spunti di riflessione per la normativa di lavoro di noi macchinisti.
Sonno, stanchezza, salute e lavoro: quale correlazione c’è tra questi elementi e quale dovrebbe essere il corretto approccio del datore di lavoro? La Rivista svizzera della Commissione federale di coordinamento per la sicurezza sul lavoro (CFSL, www.prevenzione-in-ufficio.ch) ha affrontato questo argomento con un articolo di qualche anno fa (25 ottobre 2019) di Reto Etterli, psicologo del lavoro, dal titolo “Stanchezza: un rischio sottovalutato per la sicurezza, la salute e l’economia.” Il primo dato riportato è che “un adulto su tre in Svizzera soffre di disturbi del sonno.” Inoltre “gli infortuni e le assenze per malattia sono più frequenti per i collaboratori con deficit di sonno e anche il loro rendimento è inferiore. Chi lavora di notte o a turni è particolarmente svantaggiato.” L’articolista cita una ricerca scientifica del 2015 dalla quale è emerso che “per le persone che dormono male o poco, il rischio di infortunio sul lavoro e nel tempo libero è quasi due volte superiore al normale. Basti pensare che un infortunio professionale su cinque è dovuto a disturbi del sonno e si presume che la percentuale sia analoga per gli infortuni nel tempo libero.” Viene inoltre evidenziata un’analogia tra il dormire poco e l’essere sotto l’effetto di sostanza alcoliche, al punto che “La carenza di sonno … altera il nostro comportamento nelle situazioni di rischio al pari dell’alcol.” A questo punto viene naturale fare un collegamento con le norme del lavoro dei macchinisti italiani, che prevedono controlli periodici a sorpresa per verificare l’eventuale uso di alcool: perché non vengono effettuati controllo anche per vedere se c’è carenza di sonno, visto che, dati alla mano, gli effetti sono analoghi? Dormire poco non ha solo conseguenze sul come si lavora, ma a lungo termine anche sulla salute del lavoratore, in quanto “I disturbi cronici del sonno riducono l’aspettativa di vita”. Ma quale è l’approccio delle imprese al problema? Etterli osserva che “Tutti i datori di lavoro vorrebbero avere collaboratori attenti alla sicurezza, sani ed efficienti. Questo comporta, tra l’altro, che siano riposati. Conviene quindi investire nella loro salute, sensibilizzarli a una corretta igiene del sonno e creare condizioni di lavoro che non causino notti insonni.” L’articolo cita quindi l’esempio di alcune imprese “virtuose” che “hanno capito l’importanza di collaboratori riposati”, anche multinazionali, e mettono in atto iniziative conseguenti. Sarebbe una cosa buona se anche le imprese ferroviarie seguissero questi esempi positivi, anzi la condizione ottimale sarebbe che il ministero dei trasporti italiano e l’ANSFISA, al fine di garantire che la circolazione dei treni avvenga in sicurezza, intervenissero anche su queste tematiche. Sarebbe quindi opportuno istituire l’obbligatorietà, da parte di tutte le imprese ferroviarie operanti nel nostro Paese, di monitorare periodicamente lo stato di stanchezza ed eventuale carenza di sonno dei propri dipendenti impegnati in mansioni connesse con la sicurezza dell’esercizio. L'articolo SONNO E STANCHEZZA, FARE PREVENZIONE PRIMA CHE CAPITINO GLI INFORTUNI: Da un articolo sulla condizione dei turnisti svizzeri alcuni spunti di riflessione per la normativa di lavoro di noi macchinisti. proviene da Ancora in Marcia!.
Il mondo di Castel Volturno
-------------------------------------------------------------------------------- Un laboratorio presso la Casa del bambino, “centro educativo che costruisce la comunità nel territorio”, promosso dall’associazione Black&White dei missionari a Castel Volturno -------------------------------------------------------------------------------- Il treno regionale con provenienza Napoli Centrale e diretto a Roma Termini arriva puntuale nella stazione di Villa Literno. Non ricordavo che, il 25 agosto del 1989, in questa cittadina fu ucciso Jerry Essan Masslo, richiedente asilo e raccoglitore di pomodori. La sera prima Jerry, fuggito dall’aparteid in Sudafrica, dormiva con altri 28 migranti in un capannone. Aveva denunciato le condizioni di sfruttamento di cui erano oggetto i lavoratori migranti della zona. Un gruppo di quattro persone, coi volti coperti, fece irruzione con armi e spranghe esigendo i salari che erano stati distribuiti. Il rifiuto di sottostare alla domanda gli costò la vita. Poco dopo l’assassinio ebbe luogo a Roma la prima grande manifestazione antirazzista in Italia con la partecipazione di circa 200 mila persone. Per Jerry furono tributati i funerali di Stato perché più volte era stato uccisa la sua dignità. A Roma Termini si annuncia invece che il treno Intercity con destinazione Torino Porta Nuova arriverà in ritardo. A Castel Volturno, ospite per qualche giorno dei compagni di viaggio missionari comboniani, fu il 18 settembre del 2008 che vennero attaccati e uccisi sei migranti e ferito gravemente un settimo. Tutti di origine dell’Africa subsahariana e in particolare del Ghana, componevano la ricca varietà di migranti che caratterizza a tutt’oggi il paesaggio del tutto particolare di Castel Volturno. Il giorno dopo il massacro circa duecento migranti organizzano un corteo di solidarietà e bloccano per alcune ore la via Domiziana. Le indagini, facilitate dalla testimonianza dell’unico superstite, condussero all’arresto, al processo e, per la prima volta nel Paese, ad una condanna definitiva per una strage di camorra che riconosce l’aggravante di razzismo. Nel luogo stesso della sparatoria si trova come monumento due semplici ferri intrecciati a simbolo delle storie migranti che si “incrociano” ancora oggi. Sono otto le zone nelle quali è stato suddiviso Castel Volturno e colpisce, allo sguardo del viaggiatore di pochi giorni, la straordinaria differenza tra di esse. La parte turistica, abbiente e caratterizzata da molto cemento in poco spazio a quelle dove il degrado ambientale facilita anche quello umano. Centinaia di case abbandonate, fatiscenti, vuote o abitate, saltuariamente o con regolarità, da migranti, richiedenti asilo o stranieri senza un’identità affermata. Alcune case sono chiamate connection houses e diventano luoghi di incontro, scambio, convivialità e piacere prezzolato per chi cerca di ricostruire il pezzo d’Africa abbandonato per cercare fortuna altrove. C’è la violenza dello sfruttamento, l’economia sommersa del lavoro sottopagato e la mano non troppo invisibile della camorra. In alcune strade di periferia si possono osservare signore offerte come mercanzia per clienti occasionali. Il treno è annunciato in crescente ritardo. Non ricordavo affatto che la grande Miriam Makeba, militante e cantante originaria del Suadafrica era morta proprio a Castel Volturno. Ormai provata da un salute malferma si dedicò a un giro mondiale di addio allo spettacolo, cantando in tutti i Paesi che aveva visitato nella sua lunga carriera. Makeba morì la notte del 9 novembre del 2008, lo stesso anno e luogo dove erano stati uccisi i migranti di cui sopra. Fu a causa di una crisi cardiaca presso la clinica Pineta Grande di Castel Volturno durante il concerto che aveva confermato malgrado i forti dolori al petto che l’avevano accompagnata. Nel luogo del decesso è stata posta una targa metallica col suo nome e il titolo col quale era conosciuta e amata. Mama Africa e Miraiam Makeba si confondono nello stesso volto con la forma dell’Africa che arriva per tentare di liberare il continente che l’ha resa schiava. Intanto si informano i signori viaggiatori che l’Intercity arriverà in ritardo a destinazione. -------------------------------------------------------------------------------- [Articolo pubblicato su I blog del Fatto Quotidiano, qui con l’autorizzazione dell’autore] -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Il mondo di Castel Volturno proviene da Comune-info.
Solidarietà oltre i confini
Il presidente dello United Auto Workers, il sindacato più importante degli Stati uniti, spiega le sue idee per riscrivere le regole del mercato, far salire i salari e frenare la corsa a ribasso dai due lati della frontiera ABBONATI A JACOBIN ITALIA PER CONTINUARE A LEGGERE Attiva Accedi se sei già abbonato L'articolo Solidarietà oltre i confini proviene da Jacobin Italia.
LAVORO: UNA VITTIMA SU TRE E’ OVER 60. IL GOVERNO CERCA DI RIDIMENSIONARE L’ISPETTORATO SUL LAVORO
Una vittima su tre, di e sul lavoro, è over 60. Questo secondo i dati sia dell’Inail che dell’Osservatorio indipendente di Bologna. Nel 2025 sono 323 i decessi (su 962) di chi aveva oltre 60 anni. E ben 164 ne aveva oltre 70. Una strage nella strage dovuta soprattutto alle condizioni economiche di una popolazione costretta spesso a continuare a lavorare in condizioni di rischio moltiplicate dalla propria età. Costretti a lavorare per aver perso il lavoro, per avere pensioni che non permettono di vivere decentemente e che si sono decurtate in questi anni. Si muore da anziani in agricoltura, edilizia, autotrasporto, industria, taglio della legna. La Legge Fornero, il subappalto a cascata e l’innalzamento dell’età pensionabile hanno contribuito a una strage aumentata del 15% in tre anni. Carlo Soricelli dell’Osservatorio di Bologna morti sul lavoro. Ascolta o scarica Sempre per quanto riguarda la sicurezza sui posti di lavoro da ricordare il destino dell’Ispettorato nazionale del Lavoro, che rischia il ridimensionamento. A partire dal gennaio 2026, potrebbe avviarsi una riorganizzazione che prevede lo smantellamento dell’Agenzia e il suo accorpamento sotto il controllo diretto del Ministero del Lavoro. Secondo i sindacati, tale riforma “potrebbe indebolire la funzione di controllo e di tutela del lavoro svolta dall’Ispettorato”. Il commento di Stefano Pennacchietti del Coordinamento nazionale Ferrovie di Usb.  Ascolta o scarica
Licenziamento alla Scala | Quattro domande a Roberto D’Ambrosio, Gianni Giovannelli e Alessandro Villari – di Effimera
Effimera ha rivolto quattro domande al sindacalista della CUB Roberto d'Ambrosio e agli avvocati, Gianni Giovannelli e Alessandro Villari, che hanno rappresentato e difeso la lavoratrice de teatro milanese La Scala licenziata per aver gridato "Palestina libera". Il giudice ha annullato il licenziamento e stabilito che la giovane venga risarcita. Il fatto non ha [...]
Le priorità della lotta. Un mese di scioperi nella logistica
(archivio disegni napolimonitor) Genova, 21 ottobre. Le mobilitazioni che hanno attraversato il paese nelle ultime settimane, portando in piazza centinaia di migliaia di studenti e lavoratori, preparano il terreno a un grande sciopero contro la legge finanziaria del governo. Negli ambienti del sindacalismo di base si discute delle prossime iniziative, e a Genova, città portuale che ha contribuito significativamente a polarizzare durante l’inizio dell’autunno il fenomeno dei blocchi della produzione e delle arterie metropolitane, c’è agitazione nei magazzini della logistica. In arrivo ci sono il “black friday” e il picco natalizio. Un gruppo di lavoratori iscritti al Si Cobas si riunisce in assemblea. Nel magazzino di Cornigliano della Bartolini, periferia ovest del capoluogo ligure, lavorano circa duecento facchini assunti dalla Alba Srl, la metà dei quali sono attivi a livello sindacale. Nei periodi di incremento del lavoro, come quelli compresi tra novembre a gennaio, si registra un continuo ricambio della manodopera, con il via vai di lavoratori delle agenzie interinali. I diritti conquistati negli anni dagli operai attraverso gli accordi sindacali, a loro sembrano non spettare. Così, dopo lo sciopero, i lavoratori di Cornigliano chiedono che al tavolo di trattativa per il rinnovo del Premio di risultato annuale si discuta anche della stabilizzazione dei precari. Lo stato di agitazione sentenzia che qualsiasi accordo sul premio dovrà essere garantito “anche ai nuovi”. L’astensione dal lavoro inizia la notte tra il 4 e il 5 novembre, ma i lavoratori presidiano i cancelli di via Fratelli di Coronata fino al primo pomeriggio. All’alba dell’11 inizia un presidio che si protrarrà per venti ore. «In quel magazzino – spiegano i delegati sindacali – c’è un accordo firmato, che va rispettato. Chi si spacca la schiena scaricando camion per diciotto mesi ha diritto alla priorità di assunzione». Bartolini e la società in appalto però, in risposta al blocco, riorganizzano i volumi e firmano in gran segreto un accordo con Cgil, Cisl e Uil per il taglio al premio di duemila euro che era stato ottenuto proprio dal Si Cobas negli anni addietro. La merce viene intanto spostata verso altri hub nel milanese e nel torinese e così, a pochi giorni dalle festività natalizie, per i lavoratori interinali nella filiale “002” non c’è più lavoro. Per loro, e per altri quaranta operai del sindacato, viene stabilito un piano di ferie forzate. La serrata è alle porte. La lotta dei lavoratori per le nuove assunzioni, per l’aumento del premio natalizio correlato all’aumento del lavoro (e alla possibilità di fronteggiare le spese di fine anno con un aumento minimo in proporzione alla perdita del potere di acquisto delle famiglie), si appresta a trasformarsi in lotta per la difesa del posto di lavoro. La minaccia esplicita è quella della cassa integrazione. Milano, 28 novembre. Sono le sette del mattino. Al bancone del bar che chiude via Dante Alghieri, a Pioltello, si affollano decine di lavoratori dell’hinterland milanese per consumare la colazione al caldo, prima di immergersi nella nebbia fittissima che coprirà per tutta la mattina la visuale sull’arteria logistica più trafficata dell’area. A pochi passi ci sono gli uffici doganali e i terminal di DSV, a sinistra il magazzino di stoccaggio e scarico merci di Logtainer. Due grossi cancelli, a poche centinaia di metri di distanza uno dall’altro, segnalano l’entrata e l’uscita dei mezzi pesanti su gomma delle due società specializzate nel trasporto merci intermodale. Le bandiere in spalla agli operai del Si Cobas, e un grande vessillo che recita “Embargo, ora!”, sostenuto da un’attivista dei Giovani Palestinesi d’Italia, riempiono improvvisamente lo stradone. Mentre gli operai legano le bandiere, già posizionati al primo cancello, un addetto alla sicurezza, dal vetro del suo gabbiotto, fa un cenno all’agente della guardia di finanza addetto al controllo doganale. Prima che gli operai abbiano avuto il tempo di spegnere la sigaretta che segue al caffè, i due cancelli si chiudono. Inizia lo sciopero generale proclamato dai sindacati di base contro la Finanziaria 2026, contro il riarmo europeo e il cosiddetto “piano di pace” nella Striscia di Gaza. Il picchetto a Pioltello ha l’obiettivo di bloccare la logistica di guerra in uno snodo strategico della pianura padana: dai terminal dell’interporto milanese, la società DSV, tra le tre compagnie di spedizione più influenti al mondo, e la Logtainer, che nel 2025 ha puntato i suoi investimenti sul trasporto merci ferroviario, fanno partire ogni giorno centinaia di container targati Maersk verso i porti di Genova, La Spezia, Livorno, per gli interporti di Rubiera e Padova, e l’aeroporto di Milano Malpensa. Dalla fila di camion che si allunga fino allo svincolo dell’autostrada si nota che molti carichi su gomma arrivano dall’estero. Per gli organizzatori del picchetto, “sotto l’apparente routine della movimentazione ordinaria di merci, si nascondono i flussi di materiale bellico destinati all’industria militare”. A denunciare l’opposizione alla guerra ci sono decine di lavoratori dei magazzini di Sda e Poste italiane. Sono stati proprio loro, nell’ultima settimana, a siglare un accordo-quadro provinciale che in parte sopperisce alle problematiche legate ai picchi di lavoro intensivi. «A Milano ci sarà qualche piccolo nuovo impianto dove gestire il surplus della merce. Grazie a questo accordo qualcuno potrà decidere di lavorare lì, con un’indennità di dieci euro al giorno, anche se la distanza dal magazzino attuale è minima», spiega un driver. L’accordo prevede anche altri aumenti salariali che verranno effettuati con gradualità entro il febbraio 2026. I lavoratori rivendicano il risultato della loro lotta, soprattutto perché le nuove introduzioni salariali non saranno legate a maggiori e più dure prestazioni di lavoro. In contrasto con le rivendicazioni operaie, e con il tema della riduzione dell’orario di lavoro, si configura però la bozza di proposta di Legge di bilancio 2026, che assoggetta le agevolazioni fiscali per i lavoratori dipendenti a modelli di produttività più flessibili e intensi. In riferimento ai premi di risultato, la bozza di legge presume una riduzione delle tasse tra il cinque e l’uno per cento su un premio massimale di cinquemila euro annui. In cambio di prestazioni usuranti come lavoro notturno, festivo e straordinario, la tassazione verrà ridotta al quindici per cento sul massimale di mille e cinquecento euro annui, con un recupero del potere di acquisto di appena centoventi euro. Sono le tre del pomeriggio quando la nebbia lascia spazio a qualche raggio di sole che batte sull’asfalto. Qualcuno tra i camionisti in coda ha spento il motore, altri giurano di non stare trasportando “neanche un proiettile” e vengono invitati dai manifestanti a bere un caffè e a partecipare a un’assemblea sul posto. I lavoratori prendono la parola, si rivolgono a colleghi che non conoscono, provano a spiegare che lo sfruttamento nella logistica non è un ricordo del passato, ma uno spettro sempre in agguato, come testimoniano i fatti di Genova: «Quelli che fanno gli scioperi continuano a rischiare i licenziamenti, perché le condizioni stanno peggiorando e il tema della guerra c’entra molto con questo peggioramento. È con le nostre tasse che si possono comprare le armi, ma non è con qualche sconto che possono comprarsi il nostro sudore». Passano più o meno ventiquattr’ore e nel pomeriggio di domenica, sempre a Milano, sfila una grande manifestazione indetta dalle realtà palestinesi. I lavoratori della logistica sono presenti al concentramento di piazza 24 Maggio. Il corteo avanza verso piazza Fontana, dove prendono parola gli operai di Bartolini “002”, spiegando ai colleghi delle altre regioni e di altre filiere la propria preoccupazione. Dopo un’iniziativa al comune di Genova, le istituzioni e la dirigenza della Fedit, la Federazione italiana trasportatori, hanno promesso un incontro per risolvere la vertenza. «Rischiamo la cassa integrazione per aver scioperato, rivendicando l’assunzione dei nostri colleghi, ma in questo fine settimana abbiamo voluto comunque presidiare i cancelli della fabbrica. Siamo pronti a mettere le tende!», urla uno di loro tra gli applausi. La difficile lotta, tutta in salita, dei facchini del genovese, è in connessione non solo con le complicate vertenze in atto da Torino a Napoli, ma anche con le vittorie, come quella ottenuta dai lavoratori di Sda a Milano. Le radici dei conflitti, certo, sono diverse, ma a emergere è un obiettivo comune: superare le dinamiche di una stantia contrattazione sindacale, quella sui bonus di Natale, per mettere al centro i temi delle condizioni di lavoro, la necessità di nuove assunzioni, gli aumenti salariali per tutti. (alessandra mincone)
PORTOVESME: GLI OPERAI EUROALLUMINA SOSPENDONO LA PROTESTA DEL SILOS, IN ATTESA DEL 10 DICEMBRE
Hanno deciso di interrompere la protesta a 40 metri di altezza, che andava avanti dalla mattina di lunedì 17 novembre, e scendere dal silos i quattro operai dell’Eurallumina di Portovesme dopo che ieri hanno ricevuto la visita della Ministra del Lavoro, Marina Elvira Calderone. La decisione è stata presa questa mattina durante l’assemblea di lavoratori e sindacati proprio per fare il punto delle azioni di lotta all’indomani dell’incontro con la Ministra, che aveva dato rassicurazioni in vista del tavolo convocato per il 10 dicembre a Roma. Il commento di Franco Bardi, segretario generale della CGIL Sardegna Sud Occidentale. Ascolta o scarica