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Il destino della merce
(disegno di otarebill) Andrea Bottalico, La logistica in Italia. Merci, lavoro e conflitto, Carrocci, Roma, 2025, pagg.119, euro 14. Questo volume di Andrea Bottalico, ricercatore esperto del settore, propone una ricognizione esaustiva e politicamente stimolante sul tema “logistica”. Infatti, seguendo un metodo ormai consolidato della ricerca sociologica e storiografica (soprattutto di matrice operaista), l’autore intreccia in ogni capitolo la dimensione organizzativa del fenomeno e quella relativa al rapporto sociale sottostante: alle sue figure, alle sue contraddizioni, ai suoi conflitti. La conoscenza vera di un comparto del capitalismo industriale, si può praticare oggi solo in questo modo: indagando contemporaneamente la struttura e le movenze del soggetto sociale che la abita. L’analisi della “produzione di classe operaia” – cioè l’analisi dei soggetti reali che vivono il rapporto di capitale – diventa così inscindibile dallo studio dell’assetto organizzativo del settore. E il conflitto è la risultante della continua modificazione che tale rapporto subisce. Bottalico propone innanzitutto  una perimetrazione – non scontata né semplicissima – dell’oggetto della sua ricerca: “Oggi è possibile acquistare un qualsiasi prodotto on line che arriva a casa domani grazie a una cosa che non è affatto gratis. Questa cosa è il lavoro di uomini e donne quotidianamente impiegati e sfruttati nella catena logistica del trasporto merci. Senza i lavoratori e le lavoratrici, il flusso di beni e servizi da cui siamo dipendenti si fermerebbe. La logistica si presenta come un universo costituito da molteplici galassie. È una dimensione complessa da delimitare, così come lo sono le attività di trasporto, approvvigionamento, distribuzione a cui viene generalmente associata. Nel tempo la logistica si è trasformata in un termine chiave come una parola d’ordine, e non è un caso che il suono di questa parola, di origine greca, richiami qualcosa di militare. […] Oggi parlare di logistica significa ragionare sull’organizzazione di filiere che si sviluppano su una scala molto ampia, soprattutto in seguito ai cambiamenti tecnologici avvenuti nel corso degli ultimi decenni (flotte aeree moderne, containerizzazione, espansione del trasporto marittimo e su gomma, digitalizzazione). Mutamenti che hanno inciso sull’organizzazione della produzione facendo emergere colossi come Amazon, Walmart, Ups, FedEx, Dhl, Tnt, Gls, Msc”. (pag. 9) Partendo dalla definizione, difficile e non univoca, della categoria, si capisce quanto le  trasformazioni organizzative – in direzione della piena integrazione di diverse fasi un tempo separate, che oggi si presentano come “flusso” integrato e costante che avvolge il pianeta e la produzione – abbiano sostanziato la fase storica della globalizzazione. Quella stagione cruciale sarebbe semplicemente incomprensibile senza la conoscenza delle innovazioni tecnologiche e delle ricadute sociali, infrastrutturali e urbanistiche, che la logistica ha prodotto negli ultimi cinquant’anni. La tesi dell’autore è che la logistica italiana si pone come “anomalia”, rispetto ad analoghi processi europei. È un settore “usa e getta”, ad alta intensità di mano d’opera dequalificata e sottopagata, con un altissimo tasso di esternalizzazione delle attività di magazzinaggio e trasporto – ormai affidate quasi esclusivamente a soggetti esterni al rapporto tra produttore e clienti. Questa tendenza nazionale ha prodotto enormi sacche di illegalità, la costituzione di una autentica jungla di cooperative spurie delegate a coprire questo ambito essenziale del processo di produzione/circolazione delle merci. Tale è stata la pressione al ribasso sulla forza lavoro, che i bassi salari e la precarietà sono diventate la condizione sine qua non per la sopravvivenza di molte di queste imprese le quali, se poste nella condizione di legalizzare il loro profilo, vedrebbero il sostanziale azzeramento  del margine di profitto. “L’ipotesi che guida questo volume è che alcuni processi come l’esternalizzazione delle funzioni logistiche, la repressione dei diritti sindacali, la violenza sul posto di lavoro, l’illegalità strutturale e lo sfruttamento sistematico, l’assenza di tutele e il caporalato sono state le precondizioni per lo sviluppo della catena logistica del trasporto merci in Italia come settore dinamico e in continua crescita. Questi fenomeni non sono stati un effetto, ma una causa della traiettoria di sviluppo del modello logistico italiano. Si è trattato dunque di un modello emerso nel corso degli ultimi decenni. Un modello composto da elementi sempre più caratterizzanti il mondo del lavoro del nostro tempo, al quale le forme autonome del conflitto si sono opposte ereditando dal passato partiche ed esperienze di lotta”. (pag. 11) Bottalico individua, in tema di “movimentazione delle merci” tre precise fasi storiche della vicenda italiana, che caratterizzano rispettivamente: la ricostruzione post-bellica, il boom economico e la configurazione d’impresa nel mondo globalizzato. Sono le tre dimensioni fondate sullo sviluppo della rete ferroviaria, del trasporto marittimo tradizionale e infine della intermodalità integrata e verticale che caratterizza i flussi attuali. A queste tre fasi corrispondono tre dinamiche di protagonismo operaio: la storica figura sindacalizzata dei ferrovieri, ridimensionata dalla perdita di centralità dei binari rispetto al trasporto su gomma negli anni del boom; quella dei lavoratori portuali, che hanno subito i colpi della privatizzazione delle banchine negli anni 80/90; e infine il soggetto operaio della logistica moderna, che richiede una narrazione “in diretta” della sua composizione e dei suoi movimenti. Tre figure sociali profondamente diverse, che hanno conosciuto progressi e sconfitte, interagendo in modo conflittuale con la forma impresa che caratterizzava le diverse fasi storiche.  La composizione della forza lavoro del settore logistico – parliamo di professionalità, potere sulla prestazione, coscienza del proprio ruolo sociale – è ovviamente li prodotto delle enormi trasformazioni che il settore ha subito nei decenni. La containerizzazione e le tecnologie digitali azzerano la manipolazione dei carichi, con una progressiva estromissione della forza lavoro dai settori “centrali” della filiera – pensiamo ai porti iper-tecnologizzati in cui l’intervento umano si sposta “a latere” di ogni operazione – e un incremento esponenziale negli anelli terminali del ciclo, retroporti, hub e magazzini sui territori. “La diffusione del container favorisce l’emergere della logistica integrata. La storia della logistica in Italia, da questa prospettiva, coincide con la storia della intermodalità, una novità dirompente che consiste nella possibilità di usare in maniera integrata due o più modi di trasporto per consegnare la merce. In generale per intermodalità si intende una rete coordinata di vettori ed utenti che operano in concerto allo scopo di trasferire la merce attraverso modi e combinazioni di trasporto diverse e contigue. […] È dal trasporto intermodale che deriva il modello Door to Door, consistente in un singolo carico controllato da un singolo vettore e coperto da un singolo documento, laddove il cliente (o committente) tratta con il vettore esclusivamente il trasporto dall’origine alla destinazione. In questi anni avviene dunque una integrazione che finisce per investire la stessa concezione del trasporto, non considerato più come una somma di attività separate e autonome di singoli vettori interessati, ma come un’unica prestazione da origine a destino, in una visione globale del processo di trasferimento di una merce”. (pag. 10) L’autore nella sua ricerca ha giustamente focalizzato la sua attenzione sui fenomeni di esternalizzazione delle funzioni logistiche – il viaggio della merce dall’uscita dei luoghi di produzione verso la sua destinazione. Resta da indagare un altro grande filone di ricerca – comunemente inserito nella definizione di “logistica” – che è quello dei cosiddetti “appalti interni”: il processo che negli ultimi venti anni ha portato moltissime aziende industriali a isolare reparti e fasi del ciclo per affidarli in appalto a imprese (spesso cooperative, spesso in totale subordinazione organizzativa rispetto al committente) operanti all’interno dei perimetri aziendali. Una sorta di “delocalizzazione interna” che ha favorito uno spezzettamento delle condizioni contrattuali e un indebolimento complessivo dell’unità di classe, anche dentro i luoghi “centrali” del processo produttivo.  Sono molti gli spunti di analisi interessanti che questo libro propone, anche per i non addetti ai lavori. Soprattutto quelli relativi alla lettura della logistica italiana come “metafora” dello sviluppo distorto del capitalismo italiano nell’ultimo trentennio. Ciò che è accaduto in questo comparto produttivo – frammentazione organizzativa, deflazione salariale, precarietà, sfruttamento – è solo il riflesso, magari in forme esasperate, di ciò che ha riguardato tutto lo spettro del lavoro sociale. Così come l’acquiescenza del legislatore, che non ha governato la crescita malata e anomala del settore logistico, ma ne ha solo accompagnato l’espansione: con ricadute fondamentali anche nel ridisegno delle aree portuali, degli interporti, delle zone industriali, delle politiche urbanistiche e territoriali affidate come sempre alla commistione di interessi tra privati e ceto politico compiacente o succube. Solo gli scioperi hanno scoperchiato il pentolone del malaffare e indicato – anche ai ricercatori – la strada dell’analisi impietosa e della denuncia pubblica di queste degenerazioni. I facchini – organizzati dai sindacati di base, poveri, precari e sottopagati – sono stati capaci di scoperchiare un pentolone maleodorante che molti fingevano di non vedere. Non basterà il Decreto Sicurezza per ricondurre i lavoratori al silenzio e azzerare le conquiste di questi anni, strappate dalle lotte e pagate a caro prezzo, con morti nei picchetti, inchieste, arresti e licenziamenti. (giovanni iozzoli)  
Le interviste di Frittura mista alias radio fabbrica al festival alta felicità 2025@1
Nella giornata di domenica 28, come redazione di Frittura Mista alias Radio Fabbrica, abbiamo realizzato due approfondimenti all’interno del Festival Alta Felicità 2025, essendo stata Radio Blackout parte integrante di questa edizione del festival. La seconda intervista la abbiamo realizzata in compagnia di Dario Salvetti, del collettivo di fabbrica ex GKN, presente all’assemblea tenutasi venerdì […]
Le interviste di Frittura mista alias radio fabbrica al festival alta felicità 2025@0
Nella giornata di domenica 28, come redazione di Frittura Mista alias Radio Fabbrica, abbiamo realizzato due approfondimenti all’interno del Festival Alta Felicità 2025, essendo stata Radio Blackout parte integrante di questa edizione del festival. La seconda intervista la abbiamo realizzata in compagnia di Dario Salvetti, del collettivo di fabbrica ex GKN, presente all’assemblea tenutasi venerdì […]
PRATO: IN RISPOSTA ALL’AGGRESSIONE PADRONALE, OPERAI DELL’ALBA SRL E SUDD COBAS ANNUNCIANO UN CORTEO PER SABATO 20 SETTEMBRE
Dopo la violenza squadrista e padronale, martedì 16 settembre 2025 a Prato, contro gli operai in lotta e i sindacalisti Sudd Cobas fuori dalla stireria Alba srl, che lavora per conto di numerosi brand di alta moda del cosiddetto Made in Italy, lavoratori e sindacato hanno annunciato per sabato 20 settembre 2025 una manifestazione di piazza (appuntamento alle ore 15 in Porta del Serraglio, a Prato) dietro la parola d’ordine “Tocca uno, tocca tutti. Diritti e diginità nelle filiere del Made in Italy”. La decisione è stata presa durante una partecipata assemblea con lavoratori, sindacalisti e solidali. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto è intervenuto Arturo Gambassi, sindacalista del Sudd Cobas. Ascolta o scarica.
Perché la Silicon Valley sostiene Trump
-------------------------------------------------------------------------------- Apple park, Silicon Valley (California). Foto unsplash.com -------------------------------------------------------------------------------- Nei racconti della Silicon Valley scritti da sé medesima, tutti disponibili in rete o in libreria, si legge di un capitalismo eccezionale, guidato da uomini fuori dal comune. E di un ambiente di lavoro magnifico, dove l’alienazione è pregata di accomodarsi fuori della porta. Ma i volti sempre sorridenti, gli spazi condivisi e gli edifici a emissione zero nascondono due zone d’ombra. La prima è l’estrattivismo nei confronti di persone e territori. Nel 2023 in Kenya, per fare solo uno dei tanti esempi possibili, OpenAI fa ripulire i suoi modelli d’intelligenza artificiale a migliaia di “schiavi del clic”, impiegati in turni massacranti a meno di due dollari l’ora. L’estrazione forzosa di risorse opera anche sull’ambiente. Mentre enormi quantità d’acqua ed energia vengono consumate nei centri di calcolo necessari all’intelligenza artificiale, le cryptomonete, oggetto dell’amore maniacale dei tecno-capitalisti, bruciano nel solo 2023 tanta energia quanto l’intera Australia nello stesso periodo di tempo. La seconda zona oscura è la composizione demografica della dirigenza. Le donne rappresentano il 50,9% della popolazione totale degli Stati Uniti, gli ispanici il 19,5% e gli afroamericani il 13%. Nella Silicon Valley i tre gruppi occupano, rispettivamente, l’8,8%, l’1,6% e meno dell’1% di tutte le posizioni direttive. La Silicon Valley non è solo un posto dove persone, tecnologia e ricchezza sono straordinarie. È anche il luogo dove questa eccezionalità viene trasformata in buona novella. Peter Thiel, fondatore di PayPal e Palantir, è il tecno-capitalista più impegnato nel diffondere il Vangelo che sale dalla valle. Lo fa con esemplare chiarezza in un saggio del 2009, The Education of a Libertarian, in cui rivendica per sé, in quanto capitalista, una libertà assoluta. Essere liberi è la precondizione per raggiungere obiettivi più alti: sfuggire agli apparati fiscali, sconfiggere il collettivismo, battere l’ideologia dell’inevitabilità della morte. Ma Thiel aggiunge: “Non credo più che la libertà e la democrazia siano compatibili”. Non sopporta, in altri termini, che in democrazia esistano regole valide per tutti, poveri cristi o ricchi a palate che siano. L’ideologia della libertà assoluta del capitalista si accorda alla perfezione con il secondo punto dell’ideologia di Thiel, il capitalismo come sistema che non conosce limiti. Il nemico numero uno del capitale senza confini è l’ambientalismo, più pericoloso perfino della Sharia e del comunismo. Il simbolo di un possibile futuro autoritario diventa così Greta Thunberg, secondo Thiel l’Anticristo del nostro tempo. È l’idea stessa di bene comune, su cui si basa l’ambientalismo, a farne il primo nemico del capitalismo. Quest’ultimo non può tollerare l’esistenza di ricchezze che non appartengono agli individui ma alle comunità che vivono sui territori. Nel caso dell’aria che respiriamo e dell’acqua dei mari e dei fiumi, è la collettività di tutte e tutti noi abitanti della Terra ad esserne proprietaria. Nel suo odio per l’ambientalismo, Thiel si muove nel solco di Ayn Rand (1905-1982), teorica del capitalismo assoluto: il legame sociale è schiavitù perché l’unico rapporto possibile fra l’individuo e il mondo è la proprietà. Ma se possono esistere solo proprietari isolati, il principio dell’ambiente come casa comune, che nessun privato ha il diritto di possedere, non può che innervosire gli ideologi della libertà totale del capitalismo. Nel contesto appena delineato, la Silicon Valley fa propria l’auto-rappresentazione dei capitalisti come la migliore classe dirigente possibile, perché frutto di una selezione naturale. È un’idea con una tradizione lunga oltre un secolo. Andrew Carnegie, il più importante industriale dell’acciaio negli Stati Uniti di fine Ottocento, la spiega così: “Anche se la legge [della competizione] può a volte risultare dura per l’individuo, rappresenta la cosa migliore per la razza perché assicura la sopravvivenza dei migliori in ogni settore”. I dirigenti prodotti dal capitalismo sono i più capaci perché escono vincenti dalla corsa al possesso di beni e denaro: il migliore non è Van Gogh, ma il mercante che riesce a venderne i quadri. In quanto superiori a tutti nell’accumulare ricchezza, i capitalisti non ne sbagliano una. A sentire Alex Karp, amministratore delegato di Palantir, “Se qualcuno fa un sacco di soldi con qualcosa, allora deve aver ragione”. Posizioni come quelle appena descritte spiegano il sostegno a Donald Trump da parte di Silicon Valley in occasione delle elezioni presidenziali dello scorso novembre. Il passaggio al trumpismo dei tecno-capitalisti consente la pratica del capitalismo alla Thiel, libero da qualsiasi limite. Se la crescita del capitale oggi si scontra col riscaldamento del pianeta, Silicon Valley non può che riconoscersi con entusiasmo nel negazionismo climatico della presente amministrazione repubblicana. In secondo luogo, schierandosi con Trump, Silicon Valley salda il suo elitismo, fondato sul dominio della tecnologia, con quello basato sul genere e/o il colore della pelle, con il sessismo e il razzismo, in perfetta coerenza con la composizione demografica della sua dirigenza. Il tecno-capitalismo si arruola così nel conflitto del secolo, la guerra del Nord contro il Sud, combattuta nelle banlieux parigine come nei campi di concentramento per immigrati, nei quartieri ispanici delle metropoli statunitensi come nelle strade di Gaza. Un’oligarchia di ultraricchi cafoni, quella che noleggia Venezia per un matrimonio, pretende di dominare il mondo. Ma non può agire da classe dirigente perché è incapace di affrontare i problemi della collettività. Salta allora sul carro del fascismo. Starà alla nostra Resistenza impedire che il presente stato delle cose si cristallizzi in un mondo neofeudale, con un’aristocrazia di tecno-miliardari esenti dal fisco al comando, un clero di informatici a gestire il sapere e una massa di servi a tenere in piedi la baracca. -------------------------------------------------------------------------------- Originariamente pubblicato su Officina Primo Maggio -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Perché la Silicon Valley sostiene Trump proviene da Comune-info.
LAVORO: YOOX ANNUNCIA 211 LICENZIAMENTI IN ITALIA, MA I SINDACATI PROMETTONO BATTAGLIA
Yoox-Net-a-Porter – colosso dell’e-commerce per l’abbigliamento di lusso – ha avviato una procedura di licenziamento collettivo che riguarderà 211 lavoratori e lavoratrici impiegate delle sedi italiane. Si tratta di circa il 20% di tutta forza lavoro italiana dell’azienda, ma i posti a rischio sono concentrati soprattutto a Bologna  (160 dipendenti tra gli stabilimenti di Zola Predosa e Interporto) e Milano (51). Filcams, Fisascat e Uiltucs – i sindacati di categoria di Cgil, Cisl e Uil – annunciano “l’apertura di uno stato di agitazione con un pacchetto di 16 ore di sciopero, ancora da calendarizzare nelle assemblee sindacali che si terranno nei prossimi giorni”. L’azienda – fondata nel 2000 dall’imprenditore Federico Marchetti e poi passata al colosso svizzero Richemont – ha fatto sapere tramite un comunicato che “i licenziamenti si inseriscono in un più ampio piano di riduzione del personale che riguarderà anche la sede britannica e quella statunitense”, e che l’obiettivo è «riassicurare crescita e forza finanziaria dopo anni di declino”. Tuttavia non è stato dato alcun preavviso a lavoratrici e lavoratori che, da un giorno all’altro, si sono così trovati senza stipendio. Ai microfoni di Radio Onda d’Urto, Mariano Vendola, funzionario sindacale della Filcams-Cgil Bologna Ascolta o scarica
Se Israele blocca la Sumud, noi blocchiamo l’Europa – di Effimera
I portuali di Genova hanno capito tutto. E noi dovremmo seguirli, senza pensarci due volte, cogliendo lo spirito del tempo. I centri sociali del Nord Est hanno boicottato la Mostra del Cinema di Venezia, chiedendo l’esclusione dal programma di due star sioniste conclamate: il Lido è stato preso d’assalto da più di diecimila attivisti. [...]
I disertori dello smart-working
Articolo di Mara D’Ercole A partire dal marzo dello scorso anno le grandi aziende italiane hanno iniziato a ridurre, in modo graduale ma inesorabile, la possibilità di lavorare in smart-working, e la tendenza sembra quella di continuare a ridurre.  Lavoratrici e lavoratori proprio non l’hanno presa bene, e hanno scioperato contro la riduzione del lavoro agile in Capgemini, Dhl, Unipol, Panini, Eni, TinextaCyber, Fibercop  e Tim, e l’elenco non pretende di essere esaustivo. A un primo sguardo non si capisce perché le imprese insistano sul lavoro in presenza, tutto lascerebbe pensare che il lavoro da casa porti benefici a più livelli. L’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, ad esempio, continua a enumerare i vantaggi dello smart working per le aziende, per i lavoratori e per l’ambiente. Secondo il Rapporto 2024 dell’Osservatorio, con due giorni di lavoro da remoto a settimana la produttività di ciascun lavoratore aumenta dal 15 al 20% l’anno, e il costo della postazione di lavoro si abbassa di 200 euro; se, in aggiunta, si decide di ridurre gli spazi della sede aziendale, l’abbattimento dei costi può toccare i 2.500 euro l’anno per ciascun lavoratore impiegato con questa modalità.  Oltre ai vantaggi per l’azienda ci sono i vantaggi per i dipendenti. Nello stesso Rapporto si sostiene che con due giorni di smart working a settimana ciascun lavoratore risparmia, per i mancati spostamenti, una media di circa 80 ore l’anno, che gli permettono di bilanciare meglio vita privata e vita lavorativa e di migliorare notevolmente il proprio livello di benessere. Ovviamente il risparmio tocca anche il portafoglio: il gruzzolo medio stimato è di circa 900 euro l’anno per persona, non irrilevante in un paese in cui i salari non solo non aumentano ma, com’è noto, si riducono da 30 anni a questa parte. A tutto questo si sommerebbero i benefici per l’ambiente: i mancati spostamenti e il ridimensionamento delle sedi si tradurrebbero in una riduzione di 460 kg di emissioni di CO2 per ciascun lavoratore in smart working per due volte a settimana, numeri che, moltiplicati su scala nazionale, rappresenterebbero un beneficio ambientale notevole. Vantaggi importanti, dunque, che alimentano le proteste di chi in sede tutti i giorni proprio non ci vuole tornare. Ma la situazione di oggi si spiega solo tenendo conto del fatto che a questo punto ci siamo arrivati attraverso la pandemia di Covid 19, non possiamo sapere quanto lo smart working si sarebbe diffuso se le cose fossero andate diversamente. Nel 2020, in piena pandemia, lo smart working, che era stato introdotto dal Jobs Act e poi disciplinato dalla legge n.81 del 2017, è entrato di prepotenza nella vita dei lavoratori in lockdown quando il governo ha decretato l’accesso al lavoro agile senza necessità della stipula di un accordo individuale tra azienda e lavoratore nel settore privato, e l’attivazione dello smart-working come forma di lavoro ordinario nella Pubblica Amministrazione. Senza alcuna complicata trattativa con capi o gestori del personale per valutare se il lavoro potesse essere svolto da remoto oppure no, computer e cellulari aziendali sono arrivati ai lavoratori alla velocità della luce, nelle case grandi e in quelle piccine, e nessun top manager ha rilevato problemi o ha avuto qualcosa da ridire sull’engagement degli impiegati.  Ma quando la pandemia è stata contenuta e poi sconfitta, mentre in Italia la disciplina smart working creata durante il Covid veniva prorogata, iniziavano i mal di pancia dei sacerdoti della scienza manageriale. A maggio 2022  Elon Musk,  che ancora non era entrato ufficialmente in politica, scriveva agli impiegati di Tesla una mail imperiosa comunicando loro che «chi non vuole stare in ufficio almeno 40 ore a settimana dovrebbe andare a lavorare altrove». In un’intervista del 2023 alla Cnbc, poi, spiegava la sua contrarietà al lavoro da remoto affermando «non è giusto che chi lavora in ufficio stia a casa comodo mentre altri – operai, corrieri, cuochi – devono essere presenti fisicamente. È una questione morale»,  dichiarava un inedito Elon Musk contro i privilegi di classe.   Del resto il fatto che non tutti possano lavorare da remoto è incontestabile, solo il 30% dei lavoratori può farlo, diceva in un’intervista al il Manifesto nel 2020 Antonio Casilli, e nella stessa intervista esprimeva preoccupazione per le conseguenze della remotizzazione del lavoro: «Il lavoro da remoto potrebbe essere imposto e non scelto. In alcuni casi potrebbe essere il preludio al licenziamento, al part time involontario o al taglio del costo del lavoro». Oltre ai dubbi espressi da Casilli e legati alla stabilità del posto di lavoro, esiste il tema complesso e inquietante della sorveglianza dei lavoratori attraverso i loro stessi strumenti di lavoro, l’allarmante possibilità di intrufolarsi nella vita dei dipendenti attraverso le videocamere, o per misurare ogni clic, ogni movimento del mouse, ogni pausa, ogni singola attività svolta o non svolta, superando la legge e la fantasia e trasformandosi in bossware.  Ma se è vero che la produttività da remoto non si abbassa e anzi aumenta, se è vero che i controlli sono anche pervasivi, qual è il motivo reale che spinge le aziende a smantellare progressivamente lo smart-working e quale quello che spinge i lavoratori a protestare? Il panopticon digitale non è sufficiente? Il capitalismo di oggi, anche quello digitale, non può fare a meno dell’open-space? Cosa c’è di tanto essenziale al funzionamento dell’azienda dentro i nostri uffici?  Intanto i sistemi di monitoraggio dei dipendenti anche in presenza sono un vero e proprio bersaglio in movimento per la legislazione a protezione dei lavoratori. Pur nella vigenza di tutele dettate sia dalla legislazione europea che da quella italiana sulla videosorveglianza, la Internet of Things e i nuovi sistemi di monitoraggio sviluppati durante il Covid, combinati con l’intelligenza artificiale, permetterebbero tecniche di sorveglianza con cui la legislazione farebbe fatica a stare al passo.   Tuttavia ciò che deteriora il rapporto tra azienda e smart-working è il bisogno di controllo dei corpi, cui evidentemente la tecnologia non può supplire.  L’open space, che durante la pandemia si è trasformato in un luogo ancora più duro da vivere, dove la sorveglianza e la valutazione non passano solo attraverso badge e tornelli, codice di abbigliamento, inserimento nella gerarchia sociale aziendale, durata delle pause, prossemica nei corridoi e negli ascensori, ma attraverso un potente sistema di assoggettamento che solo il lavoro in presenza permette. Nell’open-space nessuno, tranne il manager, ha una parete dietro cui celarsi anche per poco, nessuno ha la propria scrivania, nessuno può personalizzarla con un qualsiasi oggetto, le riunioni in presenza sono rare, le si fa perlopiù online per parlare in cuffia semmai anche con il collega di fianco, convocato anch’egli nella stessa riunione, e tutto accade senza mai potersi sottrarre allo sguardo di tutti; i  corpi sono produttivi ma anche, e soprattutto, assoggettati. Nel lavoro da remoto questa dinamica si incrina, si apre una pericolosa piccola fenditura di libertà, di distanza psichica dal sistema azienda anche durante il tempo a essa dedicato. Il rischio da scongiurare è quindi che i «corpi docili», per citare Michel Foucault, si sentano distanti dallo sguardo del manager, e che l’enorme fatica impiegata a rappresentare come realtà psichica immersiva i modelli di management che regolano la rat race della vita in azienda assumano un’importanza relativa insopportabile per il sistema di comando dell’azienda.  L’aggrapparsi dei lavoratori al lavoro da remoto, il rifiuto di tornare in ufficio, appare una forma, seppur blanda, di diserzione dei dispositivi sistemici di comando dell’azienda, e l’organizzazione di scioperi e proteste come forma iniziale di politicizzazione di questo nuovo spazio.   *Mara D’Ercole, attivista, ha lavorato a tempo pieno in Cgil. Rientrata sul posto di lavoro ha continuato a scrivere di questioni lavorative su Sinistra sindacale. L'articolo I disertori dello smart-working proviene da Jacobin Italia.
Taranto, laboratorio di speculazione e rinvii infiniti – di Franco Oriolo
A Taranto nulla accade per caso. La vicenda della continuità produttiva di Acciaierie d’Italia (ex Ilva) è l’ennesima truffa orchestrata con cinismo: dietro le parole di “transizione” e “rilancio” si nasconde sempre lo stesso gioco sporco, che cambia interlocutori ma non sostanza. Le promesse di risanamento e lavoro sono vuote menzogne, consumate e gettate [...]