Tag - Egitto

La solitudine dei palestinesi – di Ahmed Frenkel
L’attacco da parte dell’esercito israeliano deciso unilateralmente dal governo Netanyahu contro Gaza City assomiglia sempre più a una sorta soluzione finale di tragica memoria. Avviene nella totale complicità e indifferenza non solo del mondo occidentale (con sporadiche eccezioni, vedi Spagna e Irlanda) ma anche del mondo arabo. In questi giorni a Bruxelles si è [...]
Suliman e Fatima contano i morti e i torturati in famiglia
A casa di Suliman e Fatima al Cairo è arrivato un ragazzo: è spaventosamente magro e provato nel corpo e nello sguardo da vessazioni e torture. E’ il loro nipote Abdullah Abdel-Rahman, che racconta la sua storia: arrestato dalle Forze di Supporto Rapido a El Fashir insieme ad altri quattro giovani il giorno della caduta di Zamzam, è stato torturato insieme agli altri tre; gli altri sono morti per le sevizie e per la fame, mentre lui è stato gettato in una discarica vicino a Zamzam. Questo succedeva il 10 agosto, mentre infuriava la battaglia. Lì nella discarica è stato individuato e messo in salvo da uomini delle Forze Congiunte, che lo hanno caricato sui loro veicoli e trasportato fino ad Al-Judud; qui Abdullah è stato affidato ad alcuni sudanesi che si recavano nelle zone aurifere al confine tra Sudan ed Egitto (molto sudanesi cercano lavoro in quella zona: forse questa attività è uno dei pochi lavori possibili in questo momento). Nella dolorosa e tristissima vicenda di Abdullah ci sono stati anche tanti incontri positivi, con persone che lo hanno di fatto salvato: così è stato per i cercatori d’oro che gli hanno pagato il biglietto per arrivare ad Assuan e da lì al Cairo. “Oggi lo abbiamo ricoverato al Pronto Soccorso”: così termina il messaggio di Suliman. Le notizie continuano la sera: il nuovo messaggio dice che all’ospedale hanno deciso di fargli esami del sangue approfonditi, ecografie ed altro; il ragazzo soffre di rigidità allo stomaco perché per quattro mesi ha mangiato soltanto mangime per animali e pane secco. In un successivo messaggio vengo a sapere che la madre di Abdullah è la cugina di Suliman e che in questi giorni è lì a casa con lui e Fatima. Aggiunge che appena avranno i risultati delle varie analisi andranno dal medico, ma “le sue condizioni sono molto critiche”. Non mancano purtroppo i lutti in famiglia ed ecco che ricevo l’elenco: “Sei persone sono morte di fame nel campo profughi di Naivasha e nessuno ne ha saputo nulla”. Sembra che i vicini si siano accorti della loro morte soltanto pochi giorni dopo. Questa precisazione mi lascia di stucco: anche in un campo profughi, anche fra tenda e tenda può esserci così tanta distanza da ignorare l’agonia e la morte di sei persone? Forse non ho capito bene. Questa parte del messaggio si conclude con: “Che Dio abbia pietà di loro e li perdoni”. Segue l’elenco dei nomi che voglio qui riportare perché non è un numero a essere stato ucciso da questa insulsa e gravissima guerra di fazioni, ma sono persone specifiche, ognuna còlta a un certo stadio della vita – con il suo carattere, la sua voce, i suoi modi, i suoi pensieri, con i suoi sogni per un futuro che è svanito con violenza inenarrabile. Eccoli: Hajja Mariam Tandel Suleiman Hajja Saliha Suleiman Bedi Madre Amani Fath Al-Rahman Bambino Saber Salem Mustafa Bambino Saeed Salem Mustafa Bambino Sabry Salem Mustafa Ho fatto bene a scriverli anche perché scrivendoli me li sono immaginati: i loro nomi chiamati dalla mamma e loro, i bambini, che corrono. La comunicazione con il mio amico Suliman continua per Whatsapp. Due giorni dopo ricevo un articolo intitolato “Darfur e la sua reputazione offuscata a causa dei Janjaweed”. Mi sembra un pezzo importante perché ristabilisce la verità delle cose anche per tutti quelli che, poco informati, prendono con superficialità le notizie che arrivano (di rado, a dire il vero) dal Sudan. Soprattutto illumina il Darfur di una luce diversa da quella che implicitamente gli si dà sentendolo nominare solo per atti di brutalità, feroci assassini e stragi gratuite. “In tutto il Darfur non troverete mai una persona che uccida il proprio fratello per il suo bestiame, tranne i Janjaweed”. Se conflitti si sono verificati tra le varie tribù, movimenti e organizzazioni dei diversi Stati del Darfur – continua l’articolo – si è trattato di contrasti di tipo politico-sociale. Per il resto il Darfur era e rimane terra di diversità e convivenza e la sua gente sostiene i valori della generosità, del coraggio e della protezione dei propri ospiti; non certo dell’odio, del saccheggio e dell’omicidio, modalità che sono sempre e solo appartenute ai Janjaweed, con i vari nomi che negli anni questa milizia si è auto-attribuita: Guardie di Frontiera, Ambaga, Consiglio del Risveglio, Forze di Supporto Rapido. E dietro ci sono sempre loro, impegnati ad annientare le comunità, a impadronirsi delle terre e degli animali, a distruggere i villaggi e a uccidere i loro abitanti. E quello che nel 2023 hanno fatto nei vari Stati del Darfur oggi lo stanno ripetendo ancora in Darfur e purtroppo anche in tutto il Sudan, compresa la sua bella capitale Khartoum. La distruzione di un Paese. Il genocidio di un popolo. Ieri però è arrivato un nuovo messaggio in Whatsapp: Abdullah verrà dimesso dall’ospedale domenica prossima perché “le sue condizioni sono in continuo miglioramento”. Questa sì che è una bellissima notizia. Da una telefonata che infine riusciamo a fare vengo a sapere che Abdullah era arrivato a casa loro non camminando sulle sue gambe, ma accompagnato e sostenuto da altri ragazzi sudanesi, anche loro in fuga. Ora riesce a camminare e anche a “chiacchierare”. Circa il nutrimento, per il momento bisogna limitarsi a latte e succhi di frutta, oltre alle flebo. Suliman continua a ringraziare per una piccola somma che con una rapida colletta avevo inviato non appena saputa la notizia di questo arrivo inaspettato: senza quei soldi non avrebbe potuto pagare gli esami medici, le cure e la degenza ospedaliera. Perché è tutto a pagamento per gli stranieri. “Anche se devo parlare devo pagare soldi in Egitto” dice, con tono più amaro che ironico. Solo quando si ottiene l’asilo politico si può andare nell’ospedale dell’Onu o anche in un ospedale normale a carico (non intero) dell’Onu stessa. Gli chiedo del suo asilo politico, quanto manca per avere la convocazione: ancora quattro mesi, sarà a dicembre (dal dicembre scorso che ha presentato la domanda). E’ arrivato in questi giorni il suo amico italiano Domenico, già console (o qualcosa del genere) in Sudan e gli ha portato diverse scatole della sua medicina per la prostata. E anche questa è una buona notizia. Il figlio Ahmed, che lavora nelle zone aurifere del nord Sudan occupandosi della telefonia satellitare, gli invia tutti i mesi i soldi dell’affitto, e anche le figlie, una dagli Stati Uniti e l’altra dalla Germania si danno da fare come possono. Affetto e premure non mancano dalla famiglia stretta, ma oggi Suliman ha una voce diversa, quella di una persona sfinita, che ha completamente esaurito la sua “sabur” (pazienza, proverbiale in lui). Glielo dico. Mi risponde che i motivi sono il vivere fra persone malate – Abdullah, la moglie Fatima, lui stesso – e “la povertà”. Ma come si può non essere immensamente, eternamente tristi e pieni di dolore quando non ci sono più la tua casa, la tua città, il tuo Paese, la tua gente? Link agli articoli precedenti: https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/ https://www.pressenza.com/it/2025/01/la-mia-amica-fatima-che-resiste-come-al-fashir-in-darfur/ https://www.pressenza.com/it/2025/07/suliman-fatima-e-la-tenace-resistenza-di-al-fashir-in-darfur/         Francesca Cerocchi
Qatar: nessuna risposta israeliana alla proposta di cessate il fuoco per Gaza
Doha – MEMO.Il Qatar ha dichiarato martedì che Israele non ha ancora risposto a una recente proposta di cessate il fuoco per Gaza, secondo quanto riportato da Anadolu. “Siamo in contatto con tutte le parti per raggiungere un accordo di cessate il fuoco, ma non c’è ancora una risposta ufficiale da parte di Israele: né accettazione, né rifiuto, né la presentazione di una proposta alternativa”, ha dichiarato il portavoce del ministero degli esteri, Majed al-Ansari, in un commento trasmesso dalla televisione Al Jazeera. La scorsa settimana, il gruppo palestinese Hamas ha accettato una proposta di cessate il fuoco avanzata dai mediatori egiziani e qatarioti. Israele, tuttavia, non ha ancora risposto ufficialmente al piano. Ansari ha affermato che i mediatori di Gaza sono in contatto quotidiano per raggiungere un accordo di cessate il fuoco. “Sottolineiamo la necessità di sollecitare Israele a rispondere e impegnarsi seriamente”, ha affermato. “Siamo in attesa di una risposta ufficiale da parte di Israele alla proposta”. Pur ribadendo l’impegno a proseguire gli sforzi di mediazione, il Qatar ha invitato la comunità internazionale a fare pressione su Israele affinché raggiunga un accordo di cessate il fuoco per Gaza. “Non importa all’Egitto o al Qatar dove si terranno i negoziati”, ha affermato, dopo che i media israeliani hanno suggerito di spostare la sede dei negoziati in un altro Paese. “Ciò che Hamas ha accettato è identico a ciò che Israele aveva già concordato. La palla ora è nel campo di Israele, e sembra che Israele non voglia raggiungere un accordo o addirittura rispondere alla proposta”. Ansari ha avvertito che la crescente escalation israeliana sul campo “non porterà a risultati positivi”. Israele ha ucciso quasi 63.000 palestinesi a Gaza dall’ottobre 2023. La campagna militare ha devastato l’enclave, che sta affrontando la carestia. Lo scorso novembre, la Corte penale internazionale ha emesso mandati di arresto per il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu e il suo ex ministro della Difesa Yoav Gallant per crimini di guerra e crimini contro l’umanità a Gaza. Israele deve anche affrontare un caso di genocidio presso la Corte internazionale di giustizia per la sua guerra contro l’enclave. Traduzione per InfoPal di F.L.
Egitto: “Israele” ignora i mediatori e respinge la proposta di cessate il fuoco a Gaza
Il Cairo – Al-Mayadeen.net. Il ministero degli Esteri egiziano ha dichiarato che “Israele” ha ignorato gli sforzi dei mediatori e la proposta di accordo per il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. Parlando a RIA Novosti, giovedì, il consigliere del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, Dmitri Gendelman, ha affermato che questi aveva dato la sua approvazione al piano del comando militare per stabilire il controllo sulla città di  Gaza e, in ultima analisi, “sconfiggere” il movimento palestinese Hamas. “La Repubblica Araba d’Egitto segue con profonda preoccupazione l’ostinazione del governo israeliano nel procedere con l’attuazione di un piano di attacco da parte delle forze di occupazione israeliane volto a controllare le città della Striscia di Gaza, in un nuovo tentativo di consolidare la sua occupazione illegale dei Territori palestinesi”, ha dichiarato il ministero degli Esteri del Cairo. “Questa condotta dimostra il totale disprezzo di Israele per gli sforzi dei mediatori e per la proposta di accordo volta a raggiungere un cessate il fuoco, il rilascio di ostaggi e detenuti, e l’ingresso di aiuti umanitari, così come per le richieste internazionali di porre fine alla guerra”, ha aggiunto. Dopo essersi recato nella Striscia di Gaza il 21 agosto, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato di essere stato lì per approvare nuovi piani militari incentrati sull’occupazione della città di  Gaza  e sulla sconfitta del movimento di Resistenza palestinese. “Siamo nella fase decisionale. Oggi sono arrivato nella Striscia di Gaza per approvare i piani che mi sono stati presentati, insieme al ministro della Difesa, dalle Forze di Difesa Israeliane (IDF) per catturare la città di Gaza e sconfiggere Hamas”, ha dichiarato il premier israeliano. Sebbene Netanyahu abbia detto di aver ordinato l’avvio immediato dei negoziati per garantire il rilascio di tutti i prigionieri, ha insistito che qualsiasi fine della guerra debba avvenire a condizioni accettabili per “Israele”. Nonostante gli sforzi dei mediatori per portare avanti un accordo e dopo la recente approvazione di una proposta da parte di Hamas, Netanyahu ha deciso mercoledì di non rispondere, una posizione rispecchiata dall’inviato statunitense Steve Witkoff, che si è distanziato dalla formula che inizialmente aveva sostenuto, tra notizie secondo cui non si fiderebbe più dei mediatori. Traduzione per InfoPal di F.F.
Suliman, Fatima e la tenace resistenza di Al Fashir in Darfur
“Una parte di Al Fashir ancora resiste” mi dice Suliman. Resiste ai Janjaweed (Forze di Supporto Rapido). Poi nel séguito della telefonata mi precisa che è solo il 25% della città ad essere ancora sotto il controllo delle Forze Armate Sudanesi e delle Forze congiunte. Il resto del Darfur è ormai tutto in mano -ahimé- ai Janjaweed: si tratta del 75% della stessa Al Fashir (capitale del Darfur settentrionale), e interamente delle quattro capitali delle corrispondenti altre regioni del Darfur: Nyala (capitale del Darfur meridionale, la città di Suliman, dove ancora si trova il fratello maestro di scuola che avendo fatto partire moglie e figli non aveva abbastanza soldi per mettersi in viaggio, alias in fuga, lui stesso); Zalingei (Darfur Centrale); El Geneina (Darfur Orientale, quello confinante col Ciad dove hanno riparato parenti di Suliman); El Daein (capitale del Darfur Orientale). Nei bei palazzi costruiti dagli inglesi rimasti in piedi in queste città si sono sistemati gli odiosi Janjaweed, assassini seriali mai sazi del sangue dei cittadini africani che abitano la loro terra e vivono nelle loro case. O forse dovrei dire “abitavano” e “vivevano”. Ma quel pezzetto di Al Fashir che resiste, ormai da 225 giorni, è un simbolo per tutto il Darfur. Chiedo se oltre a chi combatte ci sono dentro la città ancora cittadini che non sono riusciti ad andare via. E sì, qualche famiglia c’è, ma pochissime, rimaste intrappolate. Per il resto, gli abitanti di Al Fashir, così come quelli di tanti villaggi dei dintorni erano tutti confluiti nei grandi campi profughi allestiti fuori della città, di cui il più grande era Zanzan. Parlo al passato perché ora quel campo con il suo milione e mezzo di persone non c’è più: “Tutti morti o andati via”. Quando i Janjaweed sono entrati, dopo averlo a lungo assediato, hanno trovato tanti bambini morti perché senza più cibo né acqua e senza più genitori. “Zanzan finito” dice laconicamente il mio amico per telefono. Gli chiedo del Kordofan: sentivo giorni fa al radiogiornale che ci sono state migliaia di morti. Sì, me lo conferma: da circa 20 giorni il Kordofan (una regione a sud-ovest di Khartoum) è assediato in tante delle sue città, con morti a non finire. E Khartoum? “Adesso non c’è guerra” – dice – “però… non lo so”- aggiunge in tono mesto. In circa il 30% delle case della capitale sono stati trovati corpi di cittadini morti (gli abitanti delle case stesse). “Mia casa non c’è corpi… solo c’è un bagno chiuso”. Quindi inaccessibile e non si sa cosa ci sia dentro. Le testimonianze sono del suo vicino di casa che per fortuna è riuscito a salvarsi. “Tua figlia?” domando. E mi riferisco alla sua prima figlia (nata da un precedente matrimonio) che abita a Melit, città a nord di Al Fashir, sulla via per la Libia; mi dice che è lì con quattro figli e con lei c’è la cognata con tre figli. I mariti sono andati probabilmente in Ciad a cercare lavoro e questo nucleo di donne e bambini si trova circondato dalla guerra, senza strade per fuggire. La guerra fa anche questo: distrugge le strade oltreché le case: non puoi abitare e non puoi andartene. Il figlio Ahmed sta ad Anzari, a nord del Sudan: è tornato lì dove si era fermato mesi fa ed aveva lavorato come tecnico dei telefoni satellitari; è ritornato a fare quel lavoro lasciando Il Cairo (dove era andato a raggiungere i genitori) verificata l’impossibilità di lavorare nella capitale egiziana. Questo ragazzo ormai forse 28 enne, il “piccolo” di Suliman e Fatima, è un “acrobata dei tetti”: a Khartoum si era specializzato frequentando un corso ed era stato chiamato -fra l’altro- dall’Ambasciata Italiana per installare la parabola del satellitare sopra al loro palazzo. Chiedo a Suliman se essendo così giovane e pericolosamente appetibile per questi delinquenti combattenti non sia per lui rischioso trovarsi in territorio sudanese, ma Suliman mi dice che i Janjaweed non arrivano così a nord, non osano avvicinarsi all’Egitto, e anche se fra Anzari ed Assuan, nel sud dell’Egitto, ci sono comunque più di 500 Km si tratta però di chilometri di puro deserto. Questa è la vita di un giovane sudanese, brillante studente di ingegneria che ha dovuto fermarsi al terzo anno perché all’Università di Khartoum non c’è il biennio di ingegneria. Sognava di completare gli studi in un’Università italiana (avevamo puntato e contattato Perugia), ma il suo sogno è stato brutalmente interrotto. Mi chiedo quanti altri e altre siano nella stessa situazione. Probabilmente tutti e tutte – mi rispondo: la guerra è particolarmente crudele con i giovani; è crudele con il futuro. Finalmente chiedo notizie di loro due – lui e sua moglie Fatima: “E voi come state?” “Siamo … così.” mi risponde, con un tono di triste accettazione. Fatima per la sua malattia auto-immune (il Lupus) deve andare ogni 14 giorni in un ospedale (privato) a farsi fare due iniezioni. L’ospedale sta appena fuori dalla città, in una parte moderna e non collegata con la metro; devono prendere il taxi. La visita non è particolarmente cara, ma le due punture sì: sono 100 dollari da sborsare ogni 14 giorni. Per fortuna in questo periodo stanno ricevendo qualche supporto economico dalle due figlie – una dalla Germania e l’altra dagli Stati Uniti (speriamo non diventi vittima delle nuove ‘politiche migratorie’ di Trump, che altro non sono se non deportazioni di massa). Ecco cosa significa la mancanza di ‘Stato sociale’ – dico fra me e me pensando al “Lupus” da curare privatamente: i cittadini indigenti che non hanno aiuti e supporti da altre persone possono tranquillamente crepare. Ecco il tipo di Stato verso cui noi italiani stiamo pericolosamente tornando, mentre riempiamo gli arsenali a dismisura perché così ci chiedono le lobbies delle armi. Suliman ricorda la guerra che i Janjaweed (finanziati dall’allora governo di Al Bashir) avevano scatenato in Darfur agli inizi di questo millennio: diversamente da venti anni fa, quando ad essere attaccato era solo il Darfur, oggi la guerra è in tutto il Paese: dei 18 stati che compongono il Sudan, solo 6 non sono sotto il controllo delle Forze di Supporto Rapido (alias i Janjaweed)e sono controllati dal governo sudanese. Si tratta degli Stati del Nilo Azzurro, di Kassala, di Gedaref, dello Stato del Nord, dello Stato del Nilo e di quello del Mar Rosso. Nella capitale di quest’ultimo, Port Sudan, sono stati trasferiti tutti gli uffici amministrativi e le ambasciate fin da quando, a pochi mesi dall’inizio della guerra, il governo decise di lasciare Khartoum che era entrata da subito nel pieno delle battaglie. E a Port Sudan erano dovuti andare Suliman e Fatima quando, lasciato il campo profughi dell’Etiopia (racconti da far inorridire), avevano deciso di dirigersi verso l’Egitto: la “nuova capitale” sudanese era tappa d’obbligo per mettere in regola i passaporti. Una città dal clima pessimo: molto calda e umidissima, 50 gradi, anche la notte. “Port Sudan: un forno” ricorda Suliman, mentre “Darfur adesso non caldo: pioggia. Sempre buon clima in Darfur”. Quei tre mesi del caldo -mi spiega- sono mitigati dalla pioggia. E Al Cairo per quanto riguarda il clima? “Normale. 40-45 gradi, qualche giorno 35”. Ma non c’è umidità (nonostante la presenza del Nilo che -se ho capito bene- ha poca acqua lì alla foce); è un caldo secco. La TV egiziana non parla di questa gravissima guerra che è scoppiata ai propri confini e di cui lo stesso Egitto risente fortemente per la grande quantità di profughi arrivati e in arrivo. Si parla invece della Palestina, dell’assedio di Gaza (chissà se usano la parola “genocidio” o se sono pavidi come i nostri governanti). Nomino Meloni; lì per lì Suliman non capisce; gli ricordo che è la nostra Presidente del Consiglio. E lui, avendola a quel punto messa a fuoco: “Ah, quella signora che io non piace!”. Rido e aggiungo: “Anche io non piace”. Vuole poi che gli ricordi il nome del partito di questa signora e saputolo commenta: “Non è Sorelle. Fratelli”. La ‘sorella’ -non d’Italia, ma del mondo- arriva poco dopo da me al telefono: è Fatima che mi saluta avviando il nostro stringatissimo dialogo con un “Come stai?” perfettamente pronunciato. Brava Fatima, bravo Suliman, resistenti ad oltranza, come quel 25% di Al Fashir. Link agli articoli precedenti: https://www.pressenza.com/it/2024/07/storia-di-suliman-e-fatima-in-fuga-da-sudan-ed-etiopia/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-e-fatima-di-nuovo-in-sudan-ma-solo-di-passaggio/ https://www.pressenza.com/it/2024/07/suliman-fatima-e-la-guerra-infinita-in-sudan/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-fatima-e-legitto-che-non-li-vuole/ https://www.pressenza.com/it/2024/08/suliman-e-fatima-in-attesa-della-risposta-dellegitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/09/suliman-fatima-e-i-certificati-medici-che-non-si-trovano/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-fatima-e-legitto-che-si-avvicina/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-da-un-port-sudan-di-tutti-matti-a-un-egitto-non-amato/ https://www.pressenza.com/it/2024/10/suliman-e-fatima-finalmente-in-egitto/ https://www.pressenza.com/it/2024/11/suliman-e-fatima-il-nilo-del-cairo-non-e-il-nilo-di-khartoum/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-i-janjaweed-fanno-tante-cose-non-bene/ https://www.pressenza.com/it/2024/12/suliman-e-fatima-in-egitto-ma-ancora-invisibili/ https://www.pressenza.com/it/2025/01/la-mia-amica-fatima-che-resiste-come-al-fashir-in-darfur/ Francesca Cerocchi
Notizie dal mondo arabo
Gaza È ancora in corso mentre scriviamo l’attacco militare contro Deir Balah, dove hanno sede le organizzazioni umanitarie internazionali. Caccia e artiglieria hanno colpito stamattina una moschea e un centro di sfollati. Il bombardamento è stato seguito dall’avanzata delle truppe con bulldozer, nel chiaro intento di proseguire l’opera di deportazione della popolazione privandola di ogni possibile riparo. Case diroccate e campi di tende di plastica vengono rase al suolo. Il rapporto del ministero della sanità ci informa che ieri fino a mezzogiorno sono morti per fame 86 persone: 76 bambini e 10 anziani. Stamattina il numero totale in 48 ore è salito a 171 morti per fame. Gli uccisi sotto le bombe e per le pallottole sono stati 130. I feriti 495. La gente muore per strada a causa della fame. Le grida di aiuto dei bambini, i proclami delle organizzazioni umanitarie, i rapporti dell’ONU e la disperazione dei team sanitari palestinesi non hanno scosso i militari e il governo israeliani e l’opinione pubblica israeliana che continua a parlare di altro. Scene terrificanti di persone svenute per strada dopo una settimana senza nulla sotto i denti. Le telecamere dei giornalisti palestinesi ci hanno consegnato le grida di bambini che dicono: “voglio mangiare. Ho fame”. Il rapporto del ministero della sanità ci informa di 171 morti per fame in 48 ore, tutti bambini e anziani. Le sirene delle ambulanze in tutta Gaza hanno suonato ieri alle ore 11:00 ora locale, ma le diplomazie complici non hanno sentito. I generali israeliani hanno ordinato l’evacuazione di Deir Balah e poi lo hanno bombardato. È il quartiere dove hanno sede le organizzazioni umanitarie internazionali. Cisgiordania L’esercito israeliano ha incendiato ieri un intero quartiere nel campo di Nour Shams a Tulkarem. Una sistematica opera di deportazione della popolazione nativa. Dal 21 gennaio scorso, in sei mesi di aggressione militare contro la città, sono stati deportati 42 mila persone. Un’azione sistematica per smantellare i capi profughi, annientare il ruolo dell’Unrwa e cancellare il diritto al ritorno. Lo stesso procedimento è stato praticato a Jenin e nel suo campo profughi. La demolizione delle case è stata lì particolarmente distruttiva: un terzo delle case è stato reso inservibile: demolito, incendiato o devastato. Le famiglie cacciate con la forza militare. Giornalisti nel mirino Il sindacato dei giornalisti palestinesi ha denunciato, nel suo rapporto semestrale presentato ieri a Ramallah, che durante l’anno corrente sono stati uccisi 33 giornalisti palestinesi e 43 di loro familiari. 66 i feriti. La repressione non riguarda soltanto la Striscia, ma anche la Cisgiordania e Gerusalemme est: 26 giornalisti arrestati e altri 228 casi di fermo, ferimenti per arma da fuoco e impedimenti a svolgere il proprio lavoro di informare. Handala La nave Handala è partita ieri dal porto di Gallipoli, dopo un breve ritardo sul piano di marcia. Una massa di sostenitori della causa palestinese ha salutato i volontari che si sono imbarcati, per tentare di portare aiuti umanitari ai bambini di Gaza. Ci sono parlamentari francesi, un sindacalista statunitense e giornalisti italiani e arabi. “Vogliamo portare cibo e giocattoli ai bambini di Gaza, le vittime numero 1 del genocidio in atto. Impedire la consegna di latte per bambini è un crimine contro l’umanità”, ha detto la parlamentare francese, Emma Forot, deputata di France Insoumise. “Rompere l’assedio illegale israeliano contro Gaza e denunciare la complicità delle diplomazie USA e europee”, ha detto uno dei partecipanti alla missione umanitaria. Il ritardo della partenza è stato causato da un criminale tentativo di sabotaggio, ha rivelato un membro dell’equipaggio ad Anbamed. “L’elica è stata trovata avvolta strettamente da un filo di ferro e nel serbatoio dell’acqua hanno versato del liquido corrosivo. Per fortuna nessuno si è fatto male”. Gli agenti criminali, che hanno compiuto del vero e proprio terrorismo, non ci fermeranno”, ha affermato. Siria Un primo giorno di calma a Suweidaa dopo il raggiungimento del cessate-il-fuoco. L’esercito mandato da Damasco è uscito fuori dall’abitato urbano e si è attestato sull’autostrada di collegamento con la capitale. Tutti i miliziani islamisti sono stati ritirati e l’accordo prevede la consegna da parte dei miliziani drusi delle armi pesanti. All’interno della città ci sono soltanto le forze di sicurezza statali formate da agenti drusi. La svolta nella crisi non soddisfa le mire israeliane di dominare lo scenario. Un elicottero dell’esercito di Tel Aviv ha scaricato in città un carico di armi destinato alla milizia drusa locale affiliata. Ci sono ancora in territorio siriano centinaia di soldati israeliani drusi, soprattutto nei villaggi a sud di Damasco, per tentare di creare momenti di destabilizzazione. La loro presenza viene presentata a Tel Aviv come spontanea ed individuale. Una versione poco credibile, visto che sono penetrati in Siria scortati dai reparti israeliani che occupano il sud siriano. Egitto Il ministero dell’interno egiziano ha comunicato che ieri domenica c’è stato uno scontro a fuoco tra le forze di sicurezza e un gruppo di “Hasm”, il movimento islamista terroristico legato alla Fratellanza Musulmana. Due islamisti ed un passante uccisi e due ufficiali delle forze di polizia feriti. Non viene fornita la località dove è avvenuta l’irruzione. “Il gruppo ha ottenuto addestramento in un paese confinante ed ha attraversato il confine desertico. L’inseguimento ha rivelato i loro appoggi interni in Egitto”. Il paese confinante – si deduce dalla descrizione – potrebbe essere Libia. Secondo la stampa online del Cairo ci sono stati arresti tra le file degli islamisti collegati alla cellula. Iran Secondo fonti iraniane, si terrà ad Istanbul un incontro con GB, Francia e Germania sul nucleare iraniano. La Tv di Stato ha affermato che la data dell’incontro sarà venerdì 25 luglio. Sarebbe il primo incontro con le diplomazie europee dopo gli attacchi israeliani e statunitensi sui siti iraniani. Teheran ha sospeso la collaborazione con l’Aiea per la mancata condanna degli attacchi subiti dall’Iran. Sciopero della fame a staffetta contro il genocidio L’iniziativa lanciata da Anbamed è entrata nel terzo mese. Oggi, lunedì 21 luglio, prosegue per la 67a giornata l’azione nonviolenta di sciopero della fame per 24 ore a staffetta. La solidarietà non dorme. Si mobilita anche in tempo di vacanze. Continueremo la campagna di sciopero della fame 24H a staffetta fino alla fine definitiva della guerra contro la popolazione di Gaza. ANBAMED
Global March to Gaza, dall’Egitto a Bruxelles con i palestinesi
Dopo l’Egitto la Global March to Gaza ha deciso di partecipare alla settimana di iniziative per la Palestina e contro il genocidio a Gaza che si stanno tenendo a Bruxelles nei luoghi simboli del potere dell’Unione Europea: la Borsa il Parlamento e le commissioni. Ieri è stata una giornata densa di flash mob e manifestazioni in diverse zone della città, in particolare quella serale davanti alla Borsa, dove è stata srotolata un’enorme bandiera palestinese e dove i militanti, soprattutto molti palestinesi e comunque cittadini stranieri hanno intonato canti e slogan e come “Tous le monde deteste les sionistes” o “Siamo tutte antifasciste”, e “So so so solidarité avec le peuple palestinien”. Dopo l’esperienza in Egitto chi è tornato e chi non ha potuto partire ha pensato di far rivivere il movimento straordinario della Global March to Gaza, che ci ha permesso di metterci in contatto in Italia con tutte le regioni. Quindi questi giorni a Bruxelles sono un’occasione per manifestare per la Palestina, ma anche un momento per incontrarsi fra i vari pezzi della Global March e ripensare una forma diversa di organizzazione, orizzontale e non verticistica, che abbia cura degli altri e delle loro ansie, che sia più chiara e meno opaca possibile nella comunicazione umana. Ieri è stata anche una giornata di arresti, perché gli attivisti di Stop Arming Israel hanno bloccato una fabbrica che produce sistemi per droni chiamata Syensqo e un sito di produzione militare a Tournée, sempre in Belgio; in centinaia, vestiti con le tute da lavoro bianche usate nelle centrali nucleari, hanno circondato la fabbrica, mentre alcuni entravano nei capannoni e con la vernice scrivevano su tutti i muri Save Gaza, Stop Genocide  e Viva Palestina. Ieri abbiamo fatto un presidio alla sede della polizia per chiedere la liberazione dei 500 attivisti arrestati e oggi mi sto recando a l’Eglise de Beguinage per incontrare gli attivisti e le attiviste che da un mese stanno facendo lo sciopero della fame. Foto di Manfredo Pavoni Gay Redazione Italia
Repressione in Egitto sulla Global March to Gaza. Il racconto del rappresentante dell’Osservatorio
Il nostro “rappresentante” al Cairo, referente per il folto gruppo laziale della Global March to Gaza, riepiloga qui di seguito sia l’organizzazione complessiva e l’unicità di questa iniziativa dal basso a livello mondiale sia la forte, ma non feroce, repressione del governo egiziano stretto tra due fuochi: il primo rappresentato dal legame indissolubile col Governo statunitense che, finanziando quello egiziano, tiene quest’ultimo in vita e sotto ricatto, il secondo da una popolazione ampiamente pro Palestina tragicamente povera e oggi impoverita dalla situazione economica generale e sempre pronta a sollevarsi. Proprio per questo la repressione poliziesca e militaresca portata avanti spesso da soldati-ragazzini non addestrati alla situazione da ordine pubblico, è gioco forza portata avanti anche per non indispettire troppo ampie fette di popolazione che non vedrebbero di buon occhio l’uomo bianco che viene a manifestare proprio a casa loro indisturbato. Proprio per questo motivo militari e poliziotti sono coadiuvati da gruppi speciali di giovani e giovanissimi presi dai bassifondi cui venne data una sorta di libertà a patto di seminare lo scompiglio tra i manifestanti e fornire in ogni situazione un casus belli per intervenire così come è avvenuto durante i fatti di Ismailia, in cui un folto gruppo di attivisti ha deciso di compiere almeno un passo anche se piccolo, ma altamente simbolico, verso la strada per Rafah. La Global March to Gaza, la convergenza pacifica di oltre cinquanta delegazioni di gruppi di persone da altrettanti paesi da tutto il mondo, per mettere pressione al governo sionista affinché apra il valico di Rafah agli aiuti umanitari, rappresenta un unicum nel suo genere. Un movimento genuinamente popolare, a-partitico che voleva avvicinarsi a quel valico che una volta aperto, potrebbe, già da domani, dare un po’ di respiro ai palestinesi, perseguitati e martoriati da oltre un anno e mezzo di massacri indiscriminati guidati da un unico obiettivo: la costituzione della “Grande Israele” un’idea nata verso la fine dell”800 in Europa all’interno del movimento nazionalista, ebreo ortodosso, che vide l’anomala convergenza di movimenti cristiano-evangelici che avevano tutto l’interesse a far convergere la diaspora su un territorio chiamato da secoli Palestina dove da sempre convivevano pacificamente popolazioni di religione ebraica e mussulmana ed altre comunità. Quello di fine ‘800 fu un periodo caratterizzato da un’impennata dell’antisemitismo in tutta Europa, dei movimenti nazionalisti, suprematisti bianchi e cristiani che portò ad una nuova fase dell’imperialismo occidentale e ad espansioni coloniali senza precedenti. Venne quindi “inventato” lo Stato di Israele, prima come forma di presidio imperialista dell’impero britannico, sulle ceneri del nemico turco sconfitto e poi, di quello nascente nordamericano. Questi interessi “occidentali” in Medioriente non sono finiti, tanto che quel lembo di terra con la sindrome, più che comprensibile, dell’accerchiamento, si sono palesati in modo violento, proprio contro il movimento popolare, inedito, chiamato Global March to Gaza che tra l’altro ha anche un’altra particolarità, di cui i governanti occidentali filo-israrliani e le lobby sioniste, in seno alle istituzioni europee, dovrebbero tener conto. Innanzitutto si tratta di una “triade”, via terra e via mare, composta dalla marcia stessa, promossa da diverse associazioni, collettivi, sanitari e medici palestinesi, alcuni dei quali reduci da esperienze sul posto a contatto col genocidio in corso, il convoglio Al-Soumud, una carovana di decine di mezzi, compresi pullman stracolmi di attivisti provenienti da Algeria, Tunisia e Libia e poi la Freedom Flottilla. Quest’ultima, dopo il quasi affondamento di fronte a Malta, della nave Conscience, battente bandiera (poi tolta su ordine di USA/ISRAELE) dell’isolotto di Palau, nel pacifico, ex colonia yankee nel bel mezzo Pacifico, è stata vittima di un’azione bellica gravissima: Barcarole, ribattezzata Madleen dalla Freedom Flottilla, un ketch a vela di 18 mt. è stata raggiunta, ad oltre 120 miglia dal porto israeliano più vicino, da quattro droni che hanno circondato ed irrorato con dei gas urticanti l’imbarcazione che poi è stata abbordata da militari israeliani che ne hanno sequestrato l’equipaggio e rimorchiato la barca, a tutta velocità, fino al porto di Ashdod: un autentico atto di guerra gravissimo in “territorio” inglese, non “apolide” come, appunto, la Conscience che non è stato stigmatizzato a dovere da nessun paese, a cominciare proprio dall’ ex-potenza mandataria di Palestina, il Regno Unito. D’altra parte, ottant’anni di vita militarizzata per chi si illudeva di recarsi, quale “popolo senza terra in una terra senza popolo”, col fucile in mano per imporre un colonialismo di insediamento feroce non sono trascorsi senza fratture interne: via terra, infatti, c’è anche la pressione di alcune minoranze dissidenti israeliane che da est si sono incamminate verso Gaza partendo appunto dal territorio dell'”invasore”. Questo clima militarizzato soffocante è stato mirabilmente descritto da un docufilm “scomodo” come Innocence, del regista ebreo-israeliano Guy Davidi, la cui proiezione è stata recentemente rifiutata da una nota sala “parrocchiale” di Roma a conferma di questa perdurante convergenza tra alcune “sensibilità” cristiane tendenzialmente sioniste, soprattutto in una città in cui la comunità ebraica, così come l’apparato del Vaticano, sono entrambe molto influenti. Nel lavoro di Davidi si trovano tutte le ragioni dei suicidi tra i disertori israeliani e dei sempre più numerosi rimpatri di ebrei da Israele, una sorta di nuova diaspora. Tornando alla “fastidiosa” Global March to Gaza, una serie di circostanze, tra le quali lo scoppio a poca distanza del conflitto armato con scambi reciproci di missili tra Iran e Israele, l’impetuoso avvicinarsi della carovana Sumoud composta da qualche migliaio di commoventi ma scalmanati algerini e tunisini ha fatto saltare i nervi al governo egiziano. Questo da anni si ritrova sempre in bilico tra rapporti di amicizia con gli USA e l’Europa e un rapporto con gli altri paesi arabi del nord Africa sempre molto articolato e complesso. Al-Sisi è al potere anche grazie ai fondi USA, ma tenere a bada una popolazione, ampiamente pro-Palestina sotto scacco di una dittatura che sempre meno è in grado di redistribuire adeguatamente le ricchezze, non è affatto facile: oltre 5mila persone da tutto il mondo e qualche migliaio da ovest via terra, in perfetta coincidenza coi primi missili che si incrociavano nelle vicinanze proprio del valico di Rafah, con accanto numerosi potenziali bersagli militari dell’Iran, hanno rappresentato una variabile semplicemente da accantonare, con le buone (poche) o con le cattive (molte). Ciò che rimane, però, è la consapevolezza di dover fare di più, anche e soprattutto con i propri corpi nei rispettivi paesi complici, per opporsi, proprio come hanno fatto, con i metodi della non violenza, gli oltre mille attivisti ad Ismailia: un passo, non una marcia ma pur sempre verso Gaza. Stefano Bertoldi, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Tornando dalla Global March to Gaza
Francesca Incardona racconta in modo semiserio le sue esperienze durante la Global March to Gaza. Come posso andarmene? Con la mia camicia di lino, il telefono con il piano tariffario migliore di tutti, l’unico sempre connesso. Io che non mi trovo completamente in nessun gruppo, né ebrea né no, sempre un po’ esclusa, qui c’ero tutta. Parole e immagini dell’ultima settimana mi si confondono nella mente nei corridoi dell’aeroporto. E’ sabato, sto tornando a Roma dopo tre, quattro, non so quanti giorni al Cairo, non ho dormito quasi mai, io c’ero sempre. Già da prima, alla riunione organizzativa pre-partenza: ”Mi dispiace, io sono così”, tutti i miei dubbi espressi liberamente con cattiveria senza filtri: non mi fido dell’organizzazione, sono degli incapaci, oppure non ci dicono la verità, come è possibile che due giorni prima di partire quella che doveva essere una prenotazione di albergo fake, perché ce n’era un altro segreto prenotato per tutti, diventa invece la nostra destinazione vera? Non c’è nessuna logistica al Cairo, e poi l’Egitto non darà mai l’autorizzazione alla marcia, siete tutti pazzi se non avete paura, nel Sinai ci sono bande e milizie, il controllo statale egiziano è durissimo e parziale, e poi c’è Israele che spara anche sui parlamentari europei, e sicuramente siamo infiltrati dai servizi italiani e da quelli egiziani e dal Mossad. Mi guardo intorno, chi sarà l’infiltratǝ? Vabbè, ma allora che ci vieni a fare qui, non è che così come se niente fosse puoi venire qui a rompere tutto. È il potere conoscitivo della paranoia, bello. È meglio essere preparati. E poi io sono così. Per la prima volta non me ne vergogno, io sono così e farò parte del gruppo. Giovedì 12 giugno. All’atterraggio il telefonino si riempie di messaggi terrorizzanti, attenta, hanno fermato, arrestato, rimpatriato centinaia di persone, di alcuni si sono perse le tracce, ti svuotano lo zaino, metti tutte le cose importanti in tasca. Mi viene il fiato corto: soldi, cellulare, passaporto, caricabatterie. Sul bus mi avvicino a due con lo zaino, guardando altrove gli bisbiglio le istruzioni; ci ho preso, sono della Marcia. Se li ho individuati io figuriamoci i servizi. Le indicazioni sono di andare a gruppetti di 2 o 3 per non dare nell’occhio e che siamo qui per turismo. Penso che sia una pessima idea, sicuramente ci conoscono uno per uno, la nostra forza è nell’essere tanti e sotto i riflettori, siamo migliaia e il mondo parla di noi, solo così possiamo salvarci, come Greta con la Freedom Flotilla che ha costretto Israele a mettersi in posa per la foto col tramezzino. Come i Sumoud, che attraversano in auto la Libia cantando e sventolando le bandiere della Palestina. Però queste sono le indicazioni, ci prepariamo. Claudia ha 27 anni, l’età di mia figlia e gli occhi troppo limpidi, a costo di farmi notare la seguo al controllo passaporti. Alla formazione ci hanno detto in caso di fermo di mandare rapidamente un messaggio al referente, ma se non fai in tempo? Lo spettro di Regeni aleggia sulle nostre teste. Ma in aeroporto no, non può succedere, al massimo un fermo, il rimpatrio. È il suo turno, l’impiegata le prende il documento e si allontana, mi accorgo che mi sto mangiando le unghie e ho un’aria innaturale, se qualcuno lo nota non le faccio un favore. L’impiegata torna, è tutto a posto. Del mio volo e dei successivi passiamo tutti. I rimpatri sono stati solo il giorno prima e la mattina, qualche centinaio. Abbastanza per scoraggiare il 10-15%. Ma non importa, siamo comunque tanti. Il Cairo pullula di persone con lo zaino, le scarpe da trekking e il cappello da sole, ci riconosciamo da lontano. Camilla è arrivata ieri sera, ha 21 anni, l’età di mio figlio, è bellissima, l’hanno fermata, interrogata, troppo bella, troppo giovane, il poliziotto sta per farla passare, solo un’ultima domanda: Dov’è Rafah? Lei sgrana gli occhi: Rafà? Cos’è? Va bene, vada. Molti sono stati presi in albergo, i nostri alberghi fake da 8 euro a notte, arriva la polizia, camionetta di fuori e porta via tutti. Questo è molto peggio che all’aeroporto. Si riaffaccia Regeni. Si sa qualcosa di quelli sul pullman? Qualcuno dice mandati in Turchia. In Turchia, com’è possibile? I telefoni non funzionano o non si possono sprecare dati, i referenti dicono solo restate in albergo. Usciamo per cena, le strade del Cairo rutilanti di gente, meravigliosi palazzi coloniali in rovina, l’aria è gialla di sabbia e di smog. Un maggiolino parcheggiato a lato di una piazza fa l’auto-caffè e un bambino porta i bicchieri alle persone sedute sulle panchine. Non dobbiamo farci notare, ma a cena ci raggiungono altri alla spicciolata. I camerieri contenti aggiungono sedie. Katz ha detto che se l’Egitto ci fa avvicinare a Rafah loro ci spareranno in Egitto, non ci sarà più linea rossa. È incredibile quanta impudenza, e come sempre l’Europa tace, nessuno dei nostri Paesi dice nulla. Certo, altrimenti non saremmo qui. Però abbiamo messo paura a Katz! Ridiamo. Non abbiamo nessuna speranza di ottenere il permesso per la Marcia. Se i nostri coordinatori ancora ci credono sono scemi. O pazzi. O ci stanno mentendo. Venerdì 13 giugno, giorno di preghiera. Nella notte Israele ha attaccato l’Iran. Cazzo. Questo cambia tutto. Un messaggio in inglese arriva su tutte le chat della Marcia: andiamo a Ismailia da turisti coi taxi in un ostello. Niente di illegale. Ma che gli diciamo al tassinaro? A Ismailia non c’è un cazzo da vedere. Contromessaggio, la voce affannata della nostra coordinatrice: Non andate, è pericoloso, non è una decisione corale della Marcia. Che facciamo? L’organizzazione è tutto, obbediamo. L’appuntamento è al bar Illy, davanti alla sinagoga, incastonati tra camionette della polizia. Pian piano arrivano messaggi e immagini, al checkpoint per Ismailia i manifestanti vengono fermati, picchiati, spinti sui bus. Almeno 2-300 persone. Ecco. Dovevamo andare anche noi, li abbiamo lasciati soli. Era quello il senso della Marcia, arrivare fin dove possibile pacificamente, in attesa di autorizzazione. Finirà su tutti i media del mondo, è la nostra Marcia, i nostri corpi inermi per attirare l’attenzione sul genocidio. Allora sei un facinoroso, dillo. Sbagli, è questo il pacifismo. Claudia è venuta col PC, 2 chili in più nello zaino per finire la sua tesi del master. Faccio la mamma e glielo ricordo, lasciatela in pace. Alle quattro andiamo a vedere il Nilo. Sosta in un parco per un succo di mango, c’è un mezzo busto di Gandhi, tocchiamo il bronzo commossi. Anche lui le ha prese. A sera arriva Lavinia fuori di sé, ha parlato con dei canadesi e dei francesi: ieri a Ismailia c’erano più di mille persone. I 2-300 dei messaggi di prima erano solo quelli del primo checkpoint, li hanno divisi. Al secondo checkpoint erano oltre 1.000, li hanno fermati e loro si sono seduti pacificamente per terra, hanno fatto riunioni e cantato e gridato Free Palestine, poi la polizia li ha circondati e gli ha detto di andarsene, c’erano dei pullman apposta. Una metà è andata, l’altra è rimasta seduta. Allora sono arrivati degli arabi col volto coperto e hanno fatto il lavoro sporco per la polizia, li hanno minacciati e picchiati, ma poco, non come se fossero stati egiziani; noi siamo europei, ci picchiano piano. Ci sono i filmati, impressionanti, girano su tutto il web. Ci abbracciamo. E’ chiaro, Israele ha attaccato l’Iran per non far parlare troppo della Marcia. Che sei scema? Dai, scherzavo. Sabato 14 giugno. Di nuovo al bar Illy. Fotografo la sinagoga e poi alzo le mani coi poliziotti che mi sgridano. Dentro c’è la solita penombra, i tavolini rossi, ormai siamo habitué. Ci hanno autorizzati. Cosa?? Un pullman scortato dall’esercito, forse più di un pullman, chiunque voglia venire, dobbiamo mandare i passaporti entro l’una. Evviva! Abbiamo vinto! I passaporti si accumulano sul tavolo. Ma così non è lo stesso, la Marcia, le migliaia di persone. Però è qualcosa, anzi è di più, è più di quello che avessi mai sperato. Io no, cos’è, vai fai un selfie e te ne torni. Ma ti rendi conto che stiamo lottando contro il Mossad, i servizi segreti nostri, quelli egiziani, Bruxelles? Nessuno la voleva questa marcia, dopo la minaccia di Katz è anche calato il silenzio stampa. Questa è la realtà, il nemico è più potente di noi e però abbiamo fatto Ismailia e ora arrivare a Rafah in qualunque modo è una vittoria enorme. Non lo so, questo è protagonismo, io non vado. Senti, fammi un favore, smettila. Io devo partire. Mi dispiace, ho paura, forse non ero davvero preparata ad attraversare il Sinai, e con una guerra mondiale sulla testa. Provo timidamente a dire a Claudia e Camilla di venir via anche loro, ma hanno deciso, hanno già mandato i passaporti. Abbraccio Ale, Stefi, Giulio, Giorgi, Marco. Cerco un taxi, penso al mondo salvato dai ragazzini, ai pazzi di Sumoud, alla carovana di farfalle spaventate che ha inondato di colori i checkpoint di Ismailia, agli FP, i felici pochi, i folli pazzi che cambieranno il mondo, all’Europa che guarda e non si muove. Il genocidio siamo noi, danno collaterale, la voracità distruttiva del potere. Il tassista tenta di insegnarmi i numeri in arabo: teleta, arbah. La prossima marcia la facciamo a Bruxelles.   Redazione Italia