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Gaza scompare dai titoli dei TG, ma le guerre di Israele continuano
Siria L’esercito israeliano è la nuova Gestapo. Le truppe di Tel Aviv sono penetrate in territorio siriano ed hanno ucciso 13 abitanti del villaggio Beit Jinn. Si tratta di un villaggio druso a nord di Quneitra e a 50 km a sud di Damasco. L’aeronautica ha bombardato e distrutto diversi palazzi nel villaggio druso. Israele “protegge” così i drusi. Bombardandoli. Ci sono anche 25 feriti. Tra i morti vi sono 2 bambini. I soldati israeliani spadroneggiano con scorrerie armate in tutto il sud siriano, compiendo incursioni e rastrellamenti. Prima sostenevano che le loro azioni erano mirate a proteggere i drusi, una comunità araba nativa del Libano e della Siria e con presenza anche in Israele. Ma dal momento che i drusi siriani rifiutano le umiliazioni degli occupanti, vengono bombardati. A Beit Jinn infatti l’aviazione e l’artiglieria israeliane non hanno esitato a bombardare il piccolo villaggio per vendicare la reazione sacrosanta della popolazione all’invasione. Tel Aviv ha anche pubblicato le immagini di questo bombardamento aereo, blaterando di un attacco a un “covo di terroristi”. Non è la prima aggressione israeliana su Beit Jinn. Il 12 giugno le forze israeliane hanno effettuato un raid notturno sulla città, che ha provocato la morte di un civile e la presa in ostaggio di 7 persone, delle quali non si sa nulla fino ad ora. L’11 agosto, un contingente di circa 100 soldati ha lanciato un’incursione a Beit Jann e nei suoi dintorni, con ostaggi e deportazioni. Questi raid israeliani rientrano in un quadro più ampio di violazioni in diverse aree, tra cui l’arresto di siriani del capoluogo, Quneitra, e il divieto per i residenti di accedere alle loro terre agricole. L’esercito IDF ha rapito finora dalla Siria circa 45 persone, la cui sorte è ancora sconosciuta. La stampa israeliana scrive: “I drusi siriani sono stati armati da noi e loro rivolgono le armi contro i nostri soldati”. Secondo un comunicato dell’esercito di occupazione ci sono 6 soldati israeliani feriti. Si chiama resistenza contro l’occupazione militare straniera. Gaza Stamattina, l’ospedale Nasser di Khan Younis ha informato che due minorenni sono stati assassinati da droni israeliani ad est della città. Per tutta la giornata di ieri e dall’alba di oggi i caccia israeliani hanno bombardato sulla linea di demarcazione, la cosiddetta linea gialla. Sono state colpite anche Rafah e Hay Tuffah a Gaza città. L’artiglieria israeliana ha lanciato obici contro Jebalia. Nella giornata di ieri, i corpi di palestinesi uccisi dall’esercito israeliano sono stati 9. Il numero delle vittime dall’entrata in vigore del falso cessate il fuoco è di oltre 400. Secondo l’Unicef, “la malnutrizione persistente con l’avvicinarsi dell’inverno minaccia la vita e la salute dei bambini nella Striscia di Gaza.  L’inverno aggrava la diffusione delle malattie e aumenta il rischio di morte tra i bambini più vulnerabili di Gaza”, annuncia un rapporto dell’organizzazione internazionale per l’infanzia. Il rapporto rileva che: “Le analisi nutrizionali hanno dimostrato che circa 9.300 bambini di età inferiore ai cinque anni a Gaza hanno sofferto di malnutrizione acuta durante il mese di ottobre”. L’Unicef esorta Israele ad aprire i valichi di frontiera verso la Striscia di Gaza per consentire il passaggio degli aiuti umanitari attraverso tutte le possibili vie di rifornimento. Cisgiordania Continua da una settimana l’incursione israeliana a Toubas. La cittadina è assediata, l’esercito ha imposto il coprifuoco e continua operazioni di rastrellamento e distruzioni. È la sorte quotidiana di molte città e villaggi palestinesi. A Jenin, l’esercito ha demolito ieri 40 case e edifici. A Tammoun sono stati presi in ostaggio 100 abitanti e 20 famiglie hanno ricevuto l’ordine di evacuazione delle proprie case, da trasformare in basi dell’esercito o da demolire, per allargare le strade e consentire il passaggio dei veicoli militari. Nella provincia di el-Khalil, l’esercito ha vietato ai contadini di Tarqumiyah di raggiungere i propri campi coltivati. Una manifestazione di protesta dei nativi è stata repressa nel sangue. Sono rimasti feriti anche tre giornalisti e due osservatori civili di pace internazionali. I coloni ebrei israeliani continuano in modo sistematico, con il supporto dell’esercito, a colpire le comunità di pastori palestinesi nella valle del Giordano, per impossessarsi delle terre e delle sorgenti di acqua e costringere così i nativi a rassegnarsi alla deportazione. Sono 40 le comunità di pastori costretti a traslocare nell’ultimo anno. Gli attacchi israeliani in Cisgiordania in due anni hanno causato l’uccisione di oltre 1.083 palestinesi, il ferimento di oltre 11.000 persone e l’arresto di oltre 20.500. Nel frattempo, in Libano, continuano le aggressioni, col pretesto di snidare i resistenti di Hezbollah. ANBAMED
MEDIO ORIENTE: ISRAELE BOMBARDA E UCCIDE IN SIRIA, LIBANO E PALESTINA (SIA A GAZA CHE IN CISGIORDANIA)
Medio Oriente. Partiamo dalla Siria: almeno 13 morti e 25 feriti in attacchi di artiglieria e missili israeliani sulla città di Beit Jinn, a sud-ovest della capitale siriana, Damasco, a poca distanza dalla zona che Tel Aviv occupa, illegalmente, da dicembre, con la caduta di Assad. Ci sarebbero alcuni feriti anche tra i soldati occupanti di Israele, che nelle scorse ore ha nuovamente bombardato il sud del Libano, a un anno ormai dal cessate il fuoco, violato almeno 10.000 volte da Tel Aviv. Palestina, con raid e bombe pure sulla Striscia di Gaza; l’esercito israeliano afferma di aver “rintracciato e ucciso” 9 combattenti palestinesi bloccati nei tunnel sotterranei nelle zone di Rafah orientale. Le ultime vittime portano a 30 il numero dei combattenti uccisi dopo essere rimasti intrappolati nei tunnel al di là della cosiddetta “Linea Gialla”.. Un altro morto, un civile, è stato ucciso in un attacco israeliano a Bani Suheila, vicino alla città di Khan Younis, dove decine di migliaia di persone restano al freddo, sottoposti a pioggia e maree, in tende e rifugi totalmente inadeguati di fronte alla stagione invernale, mentre Israele – come ogni venerdì – chiude i valichi di frontiera per…giorno festivo. Fuori, centinaia e centinaia di camion di aiuti, già normalmente fatti entrare a singhiozzo e con mille limitazioni, in particolare per i beni davvero essenziali per la popolazione, a partire dalle tende. Sempre più infiammata la situazione pure nella Cisgiordania Occupata. Le truppe di occupazione israeliane uccidono 2 palestinesi a Jenin durante un raid mentre si erano già arresi ai militari, come confermano alcune riprese video, con i due uomini che alzano le camicie, dimostrando di essere disarmati, ma nonostante questo vengono uccisi a colpi di pistola, giustiziati. Si tratta di Al-Muntasir Billah Abdullah, 26 anni, e del 37enne Youssef Asasa. Israele annuncia l’ennesima inchiesta militare interna, che come di consueto non porterà a nulla, mentre il ministro fascista Ben Gvir si è precipitato a esprimere solidarietà…ai soldati occupanti, che stamattina ha ferito in maniera seria 3 persone, nel governatorato di Tubas. Durante i rastrellamenti centinaia le persone rapite e sbattute in galera, dove ci sono in totale oltre 11mila palestinesi. Tra loro il più noto è il 66enne Marwan Barghouthi, popolarissimo leader palestinese di Fatah, tra i responsabili militari della Seconda Intifada, sepolto in carcere dal 2002. Domani, sabato 29 novembre, Giornata Internazionale di Solidarietà con il Popolo Palestinese, prende avvio anche in Italia la Campagna Internazionale per la Liberazione di Marwan Barghouti e di tutti i prigionieri palestinesi, con una raccolta firme in poche ore siglata da 20mila persone. 6 le richieste: liberazione dei prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, a partire da Barghouti; chiusura dei centri di tortura israeliani; tutela dei diritti umani dei detenuti; rispetto della Convenzione di Ginevra e del diritto umanitario; accesso della Croce Rossa alle carceri e ai detenuti. Attivata una raccolta firme online, dove si definisce “la liberazione di Barghouti e dei prigionieri palestinesi un passo essenziale verso un percorso di giustizia, pace e libertà”. Un mese fa, nella seconda metà di ottobre 2025, Barghouthi era stato pestato in carcere dagli agenti carcerieri israeliani, come denunciato da Arab Barghouti, figlio del leader palestinese, citando le testimonianze di altri prigionieri palestinesi, rilasciati ed esiliati in Egitto dopo l’ultimo cessate il fuoco; si tratta del quarto pestaggio accertato in due anni ai danni del leader nativo del governatorato di Ramallah. In questo caso,  Marwan Barghouti avrebbe perso conoscenza e riportato fratture alle costole. Un altro pestaggio, stavolta a novembre, è quello commesso ai danni di Ahmed Sa’adat, 72enne segretario generale dell’FPLP, Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, arrestato dall’ANP di Abu Mazen nel 2002 e poi “ceduto”, nel 2006, a Israele, quando si trovava nella prigione di Gerico, attraverso un accordo tra i servizi di sicurezza di Ramallah e Tel Aviv. A renderlo noto Samidoun, network palestinese dedicato a prigioniere e prigionieri politici palestinesi. Su questo la denuncia della Palestinian Prisoners’ Society, tradotta in italiano da Radio Onda d’Urto. Ascolta o scarica
Siria, nazionicidio senza soluzione di continuità. E le stelle stanno a guardare
di Fulvio Grimaldi per l’AntiDiplomatico Al momento di marciare molti non sanno che alla loro testa marcia il nemico. La voce che li comanda è la voce del loro nemico. E chi parla è lui stesso il nemico. (Berthold Brecht) Nell’aprile venne scatenata in Siria, la “primavera araba”, quella con cui le potenze avevano già sistemato quanto in Medioriente si opponeva alla ricolonizzazione e all’espansione del sionismo. Ero da quelle parti, richiamato in Siria da una semisecolare frequentazione e dalla consapevolezza di cosa avrebbe significato uccidere questa nazione. Uno Stato cuore della Storia, cultura, liberazione araba e protagonista, con l’Egitto, la Libia, lo Yemen, il Libano, Algeria e l’Iraq, delle sue prospettive di giustizia sociale e autodeterminazione, avrebbe subito l’intento con il quale l’imperialismo intendeva riprendersi quanto una grande rivoluzione aveva sottratto al suo millennario sistema di negazione e spoliazione. Nella primavera del 2011, in Libia si andava compiendo la distruzione del paese africano più prospero e socialmente equo, intollerabile modello politico-economico e promotore della sovranità e dell’autodeterminazione di tutto il continente. All’ufficio stampa del Ministero degli Esteri a Damasco, dove ero giunto ai primi clangori della locale “primavera araba”, mi mostrarono dei video di Deraa, dove, settimane prima, erano scoppiati tumulti contro l’aumento dei prezzi del carburante determinati da una prolungata siccità. Vi si vedevano scontri tra manifestanti disarmati e una polizia che si limitava a contenere la folla e non utilizzava strumenti di repressione. Tuttavia echeggiavano spari e le immagini mostravano cecchini appostati dietro mura e alberi. Le persone che cadevano, morivano o rimanevano ferite, si trovavano in entrambi gli schieramenti. Di sequenze di questo tipo ce n’erano a decine. Servivano a far dire ai compari lontani che “il regime ammazzava il suo popolo”. Come Gheddafi, come Milosevic. Primavera araba, o terrorista? Le autorità riferivano, credibilmente alla luce delle immagini e della prassi del regime change, di provocatori che si erano inseriti nelle manifestazioni, poi scoppiate anche a Damasco, Oms e Aleppo, per offrire agli interessati nei media e nelle cancellerie occidentali, il destro per parlare di una sanguinaria repressione del “dittatore Bashar el Assad”. Opportunità lungamente vagheggiata, preparata e qui immediatamente utilizzata, come di norma per tutte le “primavere arabe”, dalla Tunisia, dove prevalsero, alla Libia, dove ne impedì la disfatta l’intervento degli amici di Gheddafi da lui finanziati, Sarkozy e Berlusconi, all’Egitto, dove fallirono. Dissero nei nostri media che la dittatura non consentiva alla stampa estera di entrare nel paese e seguire gli eventi. Sentivo questo dalle tv straniere che a Damasco tutti potevano liberamente seguire, pure la RAI, sebbene esentati dal canone. Cosa di cui il corrispettivo era negato a casa nostra. Strano corto circuito della libera informazione nel mondo libero, riflettevo, mentre mi trovavo su un pullmino, accanto a un collega della Franklfurter Allgemeine e a una cinquantina di altri inviati di media internazionali. Eravamo diretti a OMS, nel cuore del paese. Lo strumento jhadista Al Sharaa da Al Jolani Ci riceve il governatore e ci spiega una situazione che, dopo una serie di episodi terroristici, con bande armate di jihadisti di Al Qaida che avevano fatto irruzione in città provenendo dalla vicina Turchia, era stata riportata dalle forze dello Stato alla normalità. Relativa, visto che, visitando poco dopo un ospedale in pieno centro, veniamo fatti bersaglio dalla strada di raffiche di mitra che, passate per le finestre, fanno buchi nelle pareti sopra le nostre teste. Evento ricorrente, commentano compassati i sanitari. In una grande palestra scolastica, scortato da ragazzi dell’organizzazione giovanile del partito Baath (Partito Arabo del Risorgimento Socialista), incontriamo una cinquantina di cittadini di Oms, donne, uomini, ragazzi. Ci raccontano ciò che, tradotto solo a sprazzi da un accompagnatore, si riferisce a una serie di episodi di violenza subiti da congiunti e amici. Le immagini video sono raccapriccianti: vi si vede di tutto, quanto a ferocia, brutalità, orrore. Persone impiccate, annegate in gabbie, bruciate vive, scuoiate, accecate, buttate nei fiumi, ammanettate e bendate, dall’alto del ponte, appese vive agli alberi e fatte segno di spari, soldati siriani prigionieri, stesi a terra, legati, poi fulminati a uno a uno con colpi in testa. Attorno alle vittime, festanti, gli esecutori con le bandiere nere di Al Qaida. La cosa più tremenda è come i video siano arrivati nelle mani di queste persone, madri, figli, amici. Glieli hanno spediti via cellulare gli stessi autori. Comprendendo nel bottino di Al Jolani-Al Sharaa anche qualche bomba e qualche sicario Nato, specie turco, stanno nel conto siriano di questo delegato di NATO e Israele 600.000 morti, 7 milioni di sfollati interni e 5 milioni di rifugiati in campi profughi in Turchia. Non tutti manodopera qualificata, sbolognata via Turchia nelle industrie tedesche. Il resto trattenuto a vegetare lì in cambio di 1 miliardo di euro dall’UE Quello che racconto è tutto in rete, scaricabile qui https://fulviogrimaldi.gumroad.com/l/iurxx  Da tagliagole a interlocutore istituzionale. Il loro capo aveva poi rinominata Al Nusra l’organizzazione storica e, infine, per togliersi ogni stigma terrorista, si era fatto leader dell’opposizione rispettabile, sotto la sigla di Hay’at Tahrir al-Sham, Tuttavia sempre con in testa la corona di 10 milioni di taglia con cui gli USA, assieme a Turchia, Israele e Arabia Saudita, facevano finta di disconoscerne la paternità. Si era dato il nome di battaglia di Abu Mohamed al Jolani. Oggi ha ricuperato il nome vero, Ahmed Al Sharaa. E’ presidente della Siria, almeno della capitale e dintorni, almeno di quanto basta per perpetuare gli stessi orrori dei 14 anni di guerra, oggi selezionando le componenti della popolazione non gradite al jihadismo: alauiti sciti, cristiani, drusi, curdi, altre minoranze più ridotte. A ottobre si contavano 9000 vittime, ora, a novembre, altre 180. Sgraditi sterminati dopo la presa del potere. Tuttora li prendono, uno per uno. Mentre Israele prosegue nelle sue annessioni a pezzi precedute da incursioni con stabilimenti di presidi militari e posti di blocco, 60 nelle ultime 10 sett6imane.  E le stelle stanno a guardare: la “nuova Siria” ricondotta nell’alveo democratico. Ormai privo di taglia, ma tuttora munito di scure, il tagliagole è stato riconosciuto e ricevuto con tutti gli onori, tappeti rossi e sorrisi, a Mosca e a Washington. Gli mancano Prevost, Mattarella e Meloni. Capiterà. Resta sul piedistallo eretto dalla massima virtù del nostro Zeitgeist, spirito del tempo: la realpolitik. Nel dicembre del 2024 la Siria soccombe. Per il suo presidente, Bashar el Assad, raccoglitore di vastissimi consensi in tutte le consultazioni elettorali, anche quelle in guerra riconosciute corrette dagli osservatori ONU, ho potuto constatare l’adesione e l’amore del popolo. Da quando, nel 2000, è succeduto al padre, Hafez, sono state innumerevoli le manifestazioni di sostegno, intensificate nei momenti di pressioni estere, che ho visto percorrere il paese nel corso di anni segnati da uno sviluppo impetuoso, non impedito dalle solite pesanti sanzioni. Non hanno lasciato traccia nella coscienza della popolazion le manipolazioni propagandistiche sciorinate da aggressori e complici che, peraltro, mai avrebbero notato qualcosa di anormale nella “democratica opposizione ad Assad”. Era destinata al pubblico occidentale la giustificazione di questa ennesima operazione coloniale, affidata al peggiore dei mercenariati imperiali, con l’invenzione di una successione di nefandezze: come i gas utilizzati contro oppositori a East Ghouta, mai poi riscontrati dalla relativa Agenzia ONU, o la testimonianza di un transfuga, “Caesar”, su esecuzioni di massa nelle carceri siriane (foto di cadaveri che poi risultarono di militari siriani caduti in battaglia). Bashar el Assad Non bastava la guerra Il nazionicidio della Siria si compie nell’inverno del 2024. Un paese, che, aggredito nel 2011, dal 2015 aveva potuto valersi del sostegno militare della Russia, si è ritrovato improvvisamente abbandonato, al colmo di una crisi economica resa catastrofica, più che dalle distruzioni belliche, dal sequestro che gli occupanti USA avevano imposto dei territori nel nord-est. Territori occupati dalle truppe americane anche grazie al sostegno di un collaborazionismo curdo, molto magnificato dalle sinistre in Occidente. Forze curde, di un enclave che pure aveva goduto, come ogni minoranza, degli stessi diritti di tutti i cittadini siriani, collegate al PKK in Turchia, approfittarono del loro sponsor a stelle e strisce per espandere la presa su terre e città arabe. Ne occuparono le strutture pubbliche, ne cacciarono gli abitanti. Il nord-est era la regione da cui provenivano il petrolio e i prodotti agricoli necessari alla vita della popolazione e al funzionamento dell’economia. Da lì il governo traeva i mezzi per mantenere in piedi l’esercito. Che, in assenza, privato della paga e di ogni sostentamento, senza più l’appoggio aereo di Mosca, provato e decimato da 14 anni di combattimenti, non poteva che sfaldarsi. A compiere l’opera di distruzione del paese venne, nel febbraio del 2023, un terremoto che devastò gran parte della regione centro-settentrionale. Una Siria che, nelle guerre arabo-israeliane, era stata l’avversario più combattivo e temuto dello Stato sionista, si ritrovava, già minata nella tenuta umana e nella funzionalità delle infrastrutture, dei trasporti, dei rifornimenti, saccheggiata dalle sanzioni USA e UE, impoverita dalla rapina delle sue materie prime. Il tutto aggravato dalla mancanza di soccorsi che di solito la “comunità internazionale” riserva alle vittime di simili tragedie. I governi europei e quello turco (salvo nelle zone sotto controllo suo e del terrorismo islamista) rifiutarono ogni aiuto. Se si tiene conto del quadro geopolitico segnato dal ritiro dei russi dalla contesa, e di chi costituiva il fronte avverso alla sopravvivenza della Siria, sulla quale la triplice Turchia-Israele-curdi nutriva annosi appetiti territoriali, o integralisti religiosi (wahabiti), l’esito, dopo 14 anni di resistenza, non poteva che essere scontato. Il terrorismo jihadista, guidato dai qaedisti Al Baghdadi e Al Jolani, finanziato da sauditi e qatarioti, addestrato in Giordania e Turchia dai marines, integrato da quadri militari turchi, si era insediato al confine con la Turchia, nella provincia di Idlib. Qui per anni aveva gestito, sotto supervisione politico-militare turca, una milizia fondamentalista islamica, governando tutte le funzioni e gli affari di un para-Stato a detrimento della popolazione siriana di oltre venti milioni, espropriata di diritti e attività. Comunità autoctona che ogni tanto si ribellava e veniva duramente repressa. L’operazione, parte il 24 novembre e si assicura la presa quasi immediata di Aleppo, prodigio archeologico e culturale del paese, da sempre sognata dai turchi capitale di una sua nuova regione. E’ coronata a Natale dall’insediamento a Damasco del nuovo potere battezzato nell’oceano di lacrime e sangue fatti versare a 20 milioni di siriani. Una successione quasi incredibile di eventi, ma la cui origine, causa e dinamica, sono spiegati dai vari interventi di attori esterni. Abbiamo già detto della continuità del terrorismo jihadista dal tempo dell’aggressione criminale NATO, da noi eufemizzata in “guerra civile”, a quello della “liberazione dalla dittatura di Assad” e dell’instaurazione della “democrazia”. Parola d’ordine, disunire ciò che unisce Il progetto, affidato alla brutalità di contractors subumani che conosce l’eguale storico soltanto in quanto oggi si va compiendo su Gaza, ha il compimento strategico, ma probabilmente non politico, né geografico, con la spartizione della Siria tra Israele, Turchia, curdi e un ridotto jihadista a Damasco, finora tollerato a fini di proiezione dell’illusione di uno Stato rimesso in sesto nominalmente democratico. Tanto per far capire che l’esito definitivo non è quello di un Israele che, fin da quando curava i jihadisti feriti nelle sue cliniche del Golan, considerava questo terrorismo il mezzo, non il fine. Il che spiega i suoi bombardamenti, “di avvertimento”, sui palazzi del neoregime a Damasco, l’avanzata delle truppe israeliane dalle falde del Golan, altura fondamentale per il controllo di Libano e Siria rubata alla Siria fin dal 1967, e l’occupazione della regione di Sweida, a sud. Il pretesto era quello della difesa dei drusi, alleati anche nella Palestina occupata, contro presunti abusi di beduini sunniti protetti dal nuovo regime. Dal versante nord, l’appropriazione della storicamente ambita Aleppo, gioiello di un passato arabo da turchizzare, e di tutta l’area fino al la centrale Oms, si inserisce in un neoimperialismo ottomano che si estende dall’Asia Centrale e Occidentale al Nordafrica e abbraccia tutto il Mediterraneo orientale. La convivenza di due poteri senza scrupoli di diritto internazionale e dell’altrui sovranità, espansioniste nella stessa area statale, succede alla connivenza e alla cointeressenza alla distruzione del caposaldo della forza e della dignità araba, ma resta fragile alla luce dei caratteri egemonici che caratterizzano le ambizioni delle due entità. La fetta curda  Area storica curda in Siria –  area appropriata oggi Al momento l’attrito maggiore, nella pausa dello scontro tra filo-israeliani e i gangster di Al Sharaa, è quello tra Damasco e la nuova realtà fattasi largo sotto protezione statunitense nel nord-est della Siria. I curdi, usciti grazie a quella tutela, interessata a minare alla base l’unità pluralista e inclusiva della Siria, dalla loro area nell’estremo nord-est, al confine con il Kurdistan iracheno, si sono appropriati di una vasta area comprendente le maggiori risorse minerarie e agricole siriane. La stessa che ospita le basi e 2.500 militari USA. Una regione che va da Afrin, sul confine turco, alla capitale Raqqa e a Deir Ezzor, già sottratte all’ISIS (più dai bombardamenti USA, per la verità, che dai combattenti delle sedicenti Forze Democratiche Siriane. In effetto integralmente curde). Manifestazione curda in Siria con bandiere israeliane Con riferimento all’annoso conflitto interno tra secessionisti (o autonomisti) curdi e Ankara, la presenza curda in larga parte della Siria risulta ad Ankara altrettanto intollerabile quanto quella su suolo turco. Intolleranza che si esprime in occasionali attacchi armati e bombardamenti turchi, ma che resta contenuta dalla protezione americana e israeliana di cui questa minoranza gode. La mia Siria Arrivai in Siria, subito dopo essere stato espulso da Israele, alla fine della Guerra dei Sei Giorni, giugno 1967. Con Iraq, Egitto di Nasser e. pro tempore, di Sadat, Libia, Libano, la Siria era l’insuperabile e, dal punto di vista israeliano, il più vicino e tosto, intralcio all’eliminazione della Palestina e alla espansione verso il Grande Israele. Era, questo, il cuore della grandezza storica e moderna araba. A partire da Palmira, il gioiello urbano dalla triplice tradizione, aramaica, fenicia, greca e romana, devastato dai mercenari NATO dell’ISIS nel solco della necessità imperiale di annientare qualsiasi segno di identità. Fu Al Jolani a fra trucidare Khaled al Asad, il direttore del sito, martire per non aver voluto rivelare dove erano stati custoditi i reperti più preziosi. Insieme a Omar al Khayyam, la grande moschea degli Omayyadi, il souq (mercato) di Al-Hamidiyah che al tempio conduce come una freccia, un lungo viale dai mille colori e suoni, costellato di botteghe che odorano di Medioevo. Vi ho comprato tutte le mie kefieh. E poi tante antiche città e castelli storici, come Bosra, Palmira, Aleppo, Krak des Chevaliers e Qal?at Salah al-Din, Patrimonio dell’Umanità per l’UNESCO. Il tutto popolato da una gente, in maggioranza giovane e istruita, consapevole della sua storia e identità nazionale e araba, formata da un’istruzione assicurata a tutti e garantita da una sanità di altissimo livello, pure gratuita. Giovani dei due generi che non differivano da quelli che potevi incontrare a Londra o Amsterdam, comprensivi di tutte le componenti confessionali ed etniche di un paese mosaico da millenni. Ebbi la fortuna di intervistare N?r al-D?n al-At?s?, da poco presidente della Siria, cui succedette nel 1970 Hafez el Assad, entrambi esponenti della rivoluzione nazionale e socialista del Baath, l’organizzazione fondata da Michel Aflak. Un intellettuale cristiano  che aveva studiato alla Sorbona e il cui partito divenne protagonista della liberazione dal dominio francese e della conquista dell’indipendenza nel 1946. Si fece poi  garante anche della libertà del Libano contro le incursioni israeliane e le rivendicazioni dell’antico padrone coloniale francese. La vendetta contro quella rivoluzione è stata perseguita incessantemente dai colonialismi europei, sionisti e statunitensi, fino all’epilogo consumatosi nell’inverno del 2024. Il racconto che al-At?s? mi fece della Siria e che cosa volesse che diventasse la sua società, una volta liberatasi dell’onere di dover contenere l’infezione neocoloniale e sionista, assomigliava a quanto da noi ci si riprometteva che fossimo al momento della liberazione dal nazifascismo.   LA SIRIA PRIMA DI AL SHARAA, PRIMA DELLA SHARÌA, PRIMA DEL VELO.  Siria e Israele destini paralleli e contrari Si potrà individuare un equilibrio tra passo e contrappasso, confrontando il suicidio israeliano con il nazionicidio della Siria. Da un lato l’avventura militare risoltasi in genocidio senza vittoria e con la perdita secca in termini umani (suicidi, diserzioni, rifiuti, migrazione al contrario), economici (i costi della guerra, la perdita di quadri professionali, la scomparsa di investimenti esteri), di credibilità e legittimazione. Ma è nel destino di uno Stato, nato, cresciuto e morituro fuorilegge, compiere la missione che s’è dato: oggi, avendoli definiti terroristi, lo Stato fuorilegge decreta che i suoi prigionieri, combattenti della libertà, attualmente 10mila nelle carceri della tortura verificata, debbano essere condannati a morte. Dopo Marzabotto, le Fosse Ardeatine. E in Cisgiordania il genocidio strisciante va assumendo i caratteri totali di Gaza. Uno Stato deciso a non morire da solo. E le stelle stanno a guardare. Dall’altro lato, l’annichilimento di una realtà identitaria, culturale, di comunità sovranazionale, di valore strategico regionale e ben oltre, segnata dal felice sposalizio di antico e moderno, laicità, pluralismo, fiducia nell’uomo. Chi ci rimette, ma in misura rimediabile, sono i giusti. Chi di più, gli ingiusti. Perché i giusti, come hanno sempre prevalso sull’oscurità, prevarranno anche stavolta. I fascismi, sotto qualsiasi forma si propongono, alla fine soccombono. Tempo al tempo. Ma la Storia sta dalla parte dell’umanità.   L'Antidiplomatico
Prospettive siriane. Uno sguardo sulla Siria contemporanea a partire dalla storica visita di Al Sharaa negli Usa
In questo approfondimento facciamo un punto su questioni aperte, problemi e prospettive della Siria contemporanea, a partire dalla visita del nuovo presidente Aḥmad al-Sharaʿ alla Casa Bianca il 9 novembre scorso, il primo incontro tra un presidente siriano e uno americano dall’indipendenza del paese dalla Francia, nel 1946. Abbiamo parlato con Hani El Debuch, Dottorando in Storie, Culture e Politiche del Globale (UniBo), direttore della Special Task Force on Syrian Heritage presso il Heritage International Institute e collaboratore di UNHCR in diversi scenari di crisi, di questa visita, della situazione politica generale del paese e del rapporto tra Siria ed Israele, che occupa le Alture del Golan dal 1967 e ha effettuato una serie di attacchi e di manovre strategiche a partire dalla caduta dell’ex presidente siriano Bashar Al-Assad
SIRIA: TRUMP ACCOGLIE AL-SHARAA ALLA CASA BIANCA. L'(EX?) JIHADISTA TRA INTERESSI DEL CAPITALISMO GLOBALE E TENSIONI INTERNE
Il presidente degli Stati Uniti d’America Donald Trump ha incontrato a Washington l’autoproclamato presidente siriano Ahmed Al Sharaa. È la prima volta, da quando la Siria è stata dichiarata stato indipendente nel 1946, che un leader siriano mette piede nello Studio ovale della Casa Bianca. Le questioni principali sul tavolo sono due: la surreale adesione della Siria – governata da personaggi, a partire dallo stesso Al Sharaa, che hanno militato in Daesh e/o in altre formazioni jihadiste fino a ieri – alla Coalizione internazionale anti-Isis a guida Usa; e la volontà degli Usa di stabilire una propria base militare nel sud del Paese, vicino Damasco. Ovviamente, il tema del confronto è molto più ampio e riguarda aspetti differenti, anche se connessi tra loro: tra questi la promessa di rimuovere Al Sharaa e altri esponenti del suo cosiddetto “governo di transizione” dalle liste nere Usa dei ricercati internazionali per terrorismo, l’impegno statunitense a rimuovere almeno alcune delle sanzioni che da decenni stritolano l’economia e la popolazione siriana, ora estremamente provata anche da 15 anni di guerra civile, l’adesione di Damasco agli Accordi di Abramo. Sullo sfondo ci sono gli interessi – spesso contrastanti – di diverse potenze capitaliste regionali e globali, dalla Turchia di Erdogan (principale sponsor del nuovo regime siriano) a Israele, dagli Usa alla Russia fino alle monarchie del Golfo. Il futuro della Siria, infatti, è centrale rispetto al processo di ridefinizione dei rapporti di forza nella regione che ha subito un’importante accelerazione dal 7 ottobre 2023, con la guerra portata da Israele in tutta l’area. Su Radio Onda d’Urto, abbiamo approfondito questi aspetti con il giornalista Alberto Negri, editorialista de Il Manifesto. Ascolta o scarica. Per delineare un quadro completo della situazione, però, è importante tenere in considerazione la situazione interna siriana, in particolare per quanto riguarda la società e le sue numerose componenti anche nazionali, religiose e linguistiche. Da questo punto di vista, Al Sharaa sta tentando di rafforzare la propria legittimità politica, al momento piuttosto debole. Il suo “governo di transizione” non può contare su un consenso ampio per diversi fattori. Il più importante riguarda proprio la composizione eterogenea della società siriana dal punto di vista delle differenze culturali e religiose. Diverse comunità non si sentono rappresentate da un governo che da un lato si dichiara protettore dei diritti delle minoranze, dall’altro è espressione diretta di gruppi salafiti e jihadisti. I massacri ai danni della popolazione alawita nelle regioni della costa occidentale e quelli contro i drusi nell’area meridionale di Sweida – compiuti da milizie islamiste inquadrate nell’attuale esercito governativo – hanno alimentato diffidenza, paura e malcontento nei confronti di Damasco. Nonostante avesse dichiarato l’intenzione di costruire una democrazia dopo oltre sessant’anni di regime degli Assad (incassando l’endorsement di tutte le cancellerie europee e occidentali), Al Sharaa ha organizzato elezioni che sono state più che altro una selezione diretta – da parte sua – di gran parte dei parlamentari e dalle quali sono state escluse Sweida, l’area a maggioranza drusa, e soprattutto i territori controllati dall’Amministrazione autonoma democratica del nord e dell’est e dalle Forze Siriane Democratiche a guida curda e araba. Non solo, dopo aver simulato un approccio democratico, aperto a tutte le religioni e culture, e aver promesso una costituzione che rappresentasse tutte le componenti siriane, il governo di transizione di Al Sharaa ha scritto da solo la propria Carta, senza alcun tipo di consultazione, e ha iniziato a disporre leggi di chiara impronta islamista. Di tutto questo abbiamo parlato con Tiziano Saccucci, dell’Ufficio di informazione del Kurdistan in Italia, con particolare attenzione alle trattative in corso tra Damasco e l’Amministrazione autonoma del confederalismo democratico, cioè l’autogoverno rivoluzionario e socialista del Rojava e del nord-est siriano (oltre un terzo del Paese). Ascolta o scarica.
MESOPOTAMIA: RESOCONTO CON COMPAGNE-I DI RIENTRO DAL ROJAVA, SIRIA DEL NORD E DELL’EST
Nuova puntata, su Radio Onda d’Urto, per Mesopotamia – Notizie dal Vicino Oriente, ogni quattro venerdì, alle ore 18.45, dentro il ciclo “Cassetta degli Attrezzi” (in replica il lunedì successivo, alle ore 6.30 del mattino) La puntata di venerdì 7 novembre 2025 è tutta dedicata a un resoconto con compagne e compagni appena rientrati dal Rojava, i territori dell’Amministrazione Autonoma della Siria del Nord e dell’Est. Tra loro anche inviate e inviati della Redazione di Radio Onda d’Urto, che nelle scorse settimane avevano già realizzato due reportage; * la prima corrispondenza, del 10 ottobre, relativa alle mobilitazioni del 8 ottobre in 15 città dell’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord e dell’Est per chiedere la liberazione di Abdullah Ocalan, al grido di “non puoi spegnere il nostro sole” e “non c’è vita senza leader”. *  la seconda corrispondenza, del 22 ottobre, era invece relativa agli “Stadi della Rivoluzione”. Nella conversazione in studio del 7 novembre, ci concentriamo invece su come si sta declinando in Siria del Nord e dell’Est il processo aperto dallo storico Appello di Ocalan del febbraio 2025, oltre alle relazioni tra movimento di liberazione curdo (ma non solo) e il neo”governo” al potere a Damasco, quello di Al Jolani. In chiusura, cerchiamo invece di fare il punto sulle conquiste già ottenute e sulle sfide ancora aperte per l’esperienza rivoluzionaria del Rojava, in corso dal 2012. Ascolta Mesopotamia – Notizie dal Vicino Oriente di venerdì 7 novembre 2025. Ascolta o scarica  
Un limbo giuridico: 250 siriani in Italia attendono ancora asilo dopo il cambio di potere nel paese
L’8 dicembre 2024 il popolo siriano ha celebrato la caduta del regime della famiglia Al-Assad. Il giorno successivo, diversi governi europei, tra cui quello italiano, hanno annunciato la sospensione a tempo indeterminato delle procedure di valutazione delle richieste d’asilo presentate da cittadini siriani. Da allora, 250 persone vivono in un limbo giuridico, in attesa che l’esecutivo decida di sbloccare la situazione. Fin da bambina, Fatima sognava di lavorare nel settore sanitario. Oggi, sette anni dopo il suo arrivo in Italia dalla Siria per studiare farmacia, vive in una condizione di incertezza: la sua domanda d’asilo, come quella di altre 249 persone siriane, è congelata dal dicembre 2024. «Quando sono arrivata in Italia, nel 2018, la situazione per la mia famiglia in Siria non era così grave. Negli ultimi anni, però, l’avanzata dei gruppi islamisti ha riportato paura e insicurezza», racconta Fatima al telefono da Milano. Originaria di Idlib, nel nord-ovest della Siria, la sua famiglia vive in una zona controllata dal gruppo islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS). L’8 dicembre 2024 l’HTS, guidato da Ahmed Al-Sharaa, ha rovesciato l’allora presidente Bashar al-Assad, ponendo fine a oltre sei decenni di dominio della famiglia Al-Assad. La crescente influenza dell’HTS e l’imposizione di norme religiose più rigide spinsero Fatima a chiedere asilo in Italia nel settembre 2022. «Come donna con studi universitari, avevo paura di tornare a casa: sapevo che non avrei potuto lavorare né vivere in modo indipendente», spiega. Dopo aver presentato la domanda, ottenne un permesso di soggiorno temporaneo e, nel 2023, iniziò a lavorare in una farmacia di Milano. Ma non conobbe mai l’esito definitivo della sua richiesta. LA SOSPENSIONE DELLE DOMANDE SIRIANE Il 9 dicembre 2024, un giorno dopo il cambio di potere a Damasco, il governo italiano ha emanato una circolare che annunciava la sospensione di tutte le pratiche di asilo relative a cittadini siriani. Da allora, Fatima e molte altre persone vivono in una situazione di incertezza legale. Per giustificare tale misura, l’esecutivo si è appellato alla direttiva 2013/32/UE e al decreto legislativo 25/2008, che consentono di rinviare le decisioni nei casi in cui esista una situazione di instabilità nel Paese d’origine o siano necessarie valutazioni complesse portando ad una sospensione che può durare fino a 21 mesi. Li dove tali circostanze dovessero verificarsi lo Stato è tenuto ad informare le persone interessate. Organismi come UNHCR Italia, Amnesty International e la Commissione Europea hanno definito la decisione «affrettata», sottolineando che la Siria non può essere ancora considerata un Paese sicuro. ITALIA, L’ECCEZIONE IN EUROPA Secondo i dati forniti da ACNUR aggiornati a Dicembre 2024 la popolazione siriana rifugiata in Europa è costituita da 1.2 milioni di persone, delle quali il 60% risiede in Germania. L’ Italia, invece, vive una situazione opposta accogliendo solo lo 0,5% di tale popolazione. Attualmente la comunità siriana rappresenta solo lo 0.13% del totale di stranieri presenti nel Paese. La maggior parte è arrivata attraverso corridoi umanitari gestiti da ONG come La Comunità di Sant’Egidio 1 e Operazione Colomba 2. Dal 2016, l’Italia ha accolto 8.344 persone tramite questi canali. Altri sono giunti attraverso rotte irregolari e sono stati «dublinati». Con tale termine ci si riferisce agli immigrati arrivati in Italia senza che le loro impronte fossero registrate. Successivamente gli stessi hanno abbandonato il Paese e sono stati identificati in un altro Stato dell’UE e, quindi, rimandati in Italia per presentare la domanda d’asilo. IL PESO DELL’INCERTEZZA Dalla sospensione, le 250 persone coinvolte vivono in una sorta di limbo burocratico 3. «Molti hanno un lavoro, un titolo di studio, parlano bene l’italiano e sono integrati. Tuttavia, si sentono abbandonati dallo Stato», afferma Marco Bruno, avvocato esperto in migrazioni. Ogni sei mesi devono rinnovare personalmente il permesso di soggiorno, una procedura nata per semplificare la burocrazia ma che, in questo caso, è diventata fonte di ansia costante. «Non ci fidiamo della burocrazia italiana. Anche sapendo di poter avviare un percorso per regolarizzare la nostra situazione, temiamo di restare senza documenti», racconta Ibrahim, residente a Milano. La paralisi delle pratiche ha creato tensioni anche tra gli stessi siriani in Italia. Alcuni, già stabilmente residenti e favorevoli al nuovo governo di Damasco, ritengono ormai inutile concedere asilo. «Per molti, chi ha chiesto asilo viene visto come un traditore del nuovo governo», lamenta Asmae, cittadina siriana residente a Bologna. «Questo ci porta ad allontanarci persino da altri connazionali, per paura di discriminazioni o ritorsioni». CRITICHE E RICHIESTE INTERNAZIONALI Sebbene né le Nazioni Unite né l’Unione Europea considerino la Siria un Paese sicuro, il governo italiano sostiene che il Paese si trovi “in una fase di transizione”. Una posizione che contraddice gli standard europei di protezione internazionale e, secondo diversi esperti, viola i diritti fondamentali. «La decisione ha un chiaro valore politico», spiegano i rappresentanti dell’associazione Lungo la Rotta Balcanica 4. Da un lato, l’Italia invia il messaggio che non è più una destinazione per i richiedenti siriani; dall’altro, rafforza tra i cittadini italiani l’idea di un inasprimento delle politiche migratorie. Diverse ONG e organismi internazionali chiedono che i Paesi dell’UE non applichino sospensioni collettive delle domande d’asilo basate sulla nazionalità o sul contesto politico. Ogni caso, sottolineano, deve essere valutato individualmente. Le autorità italiane vengono inoltre invitate a informare per iscritto e nei tempi previsti le persone interessate, garantendo canali di ricorso e sostegno psicologico. La trasparenza, osservano, è fondamentale per ridurre l’impatto emotivo dell’attesa. Parallelamente, si chiede al governo italiano di istituire un gruppo di esperti composto da ONG e organizzazioni civili per monitorare la situazione in Siria e gli effetti della sospensione in Italia. Nel frattempo, Fatima, come le altre persone coinvolte, continua con la propria vita. Dopo 14 anni di guerra civile e le prime elezioni celebrate nel Paese il 5 ottobre scorso, il futuro del popolo siriano resta un’incognita. > «Voglio solo vivere tranquilla, senza la paura di essere costretta a tornare > in un luogo dove la mia vita sarebbe in pericolo», afferma Fatima. Come lei, centinaia di siriani in Italia restano in attesa che il governo decida finalmente di sbloccare una situazione che li tiene intrappolati tra la speranza di un nuovo futuro e la rigidità di un sistema incapace di garantire i loro diritti fondamentali. I nomi di tutte le persone siriane intervistate sono stati modificati per garantire il loro anonimato. Questo articolo è stato realizzato nell’ambito del progetto “Strengthening the Capacities and Skills of Belarusian Journalists and Media Actors in Exile”, finanziato dal Consiglio d’Europa. 1. Qui il sito web ↩︎ 2. Per aggiornamenti clicca qui ↩︎ 3. Il destino sospeso dei rifugiati siriani dopo la caduta di Assad, Rossella Ferrara – Melting Pot (22 settembre 2025) ↩︎ 4. Qui il sito web ↩︎
Uccidere asini e bambini
“Uccidere anche bambini e asini”. È la parola d’ordine dei ministri israeliani durante la riunione del consiglio di guerra ristretto, secondo quanto è stato riferito da un canale della tv pubblica di Tel Aviv. Gaza Artiglieria e droni controllano cielo e terra. Per ordine degli Stati Uniti è stato vietato a Netanyahu di usare attacchi aerei con i caccia. La stampa israeliana si dice sorpresa delle notizie dell’uso di droni da parte delle truppe Usa, insediate in una base nel sud di Israele, per controllare la situazione a Gaza e monitorare eventuali violazioni. “L’alleato Usa non si fida più delle nostre versioni, dopo l’attacco su Rafah, dove l’esercito ha ucciso due nostri soldati e ha accusato Hamas di aver infranto la tregua”. Il cessate il fuoco in realtà non c’è. L’artiglieria, i droni e i cecchini hanno continuato ad uccidere impunemente. Le due città continuamente attaccate sono Gaza e Khan Younis. A Deir el-Balah, due ragazzi minorenni sono stati colpiti da un drone, che li ha uccisi. Nella giornata di venerdì, negli ospedali sono arrivati 14 civili uccisi dall’esercito israeliano in diversi attacchi. Il ministero della sanità ha messo in guardia i cittadini dal tentare di raccogliere metalli nei luoghi dai quali si è ritirato l’esercito israeliano. “Abbiamo registrato l’esplosione di oggetti sospetti mentre cittadini ignari li raccoglievano”, dice il comunicato, che raccomanda di allertare il numero della protezione civile, per disinnescare eventuali trappole esplosive”. Incontri del Cairo Le organizzazioni della resistenza palestinese si sono incontrate al Cairo ed hanno deciso di approvare la gestione amministrativa di Gaza da parte di un comitato di tecnocrati palestinesi gazzawi, per la gestione della seconda fase dell’accordo di cessate-il-fuoco. La riunione è stata caldeggiata fortemente dal governo egiziano che sta tentando una mediazione tra Fatah e Hamas, per mettere fine alla spaccatura politica e realizzare la riunificazione di tutti i movimenti all’interno dell’OLP. La strada dell’unificazione politica è in salita, malgrado la drammaticità della situazione. Il vice presidente dell’ANP, Sheikh si è incontrato con il negoziatore di Hamas, Al-Hayya, non in qualità di esponente di Fatah, ma in rappresentanza dell’ANP. La proposta araba per la seconda fase si discosta molto dai disegni di Stati Uniti e Israele. Palestinesi e arabi respingono un potere mandatario e la spartizione della Striscia, chiedono il ritiro israeliano e la ricostruzione di Gaza. Per allungare i tempi dell’occupazione, Netanyahu parla della necessità di distruzione di tutti i tunnel. “Ne abbiamo distrutti soltanto il 40% in due anni”, ha detto il ministro della guerra di Tel Aviv. Lo scenario che si prepara è simile alla condotta per i famigerati accordi di Oslo del 1993, quando ci si è persi nei particolari, svuotando gli impegni presi con azioni dilatorie. Cisgiordania Gli attacchi militari dell’esercito di occupazione sono stati nella prima metà di ottobre 1042, con una media di 69 al giorno. Nei pressi di Hawwara, i coloni ebrei israeliani hanno aggredito i contadini, distruggendo alberi e rubando il raccolto. Secondo il Comitato di resistenza alla colonizzazione, nel mese di ottobre, sono state 158 le incursioni dei coloni contro i raccoglitori di olive, con una media di 7 attacchi al giorno. Sono stati divelti oltre mille ulivi, bruciati o distrutti tredici campi e rubati i raccolti per centinaia di tonnellate. Libano Un drone israeliano ha lanciato un missile teleguidato che ha colpito e incendiato un’auto nella cittadina di Toll, nella provincia di Nabatie. Due persone uccise e due ferite. Un altro drone ha preso di mira un bulldozer della protezione civile libanese mentre si stavano compiendo dei lavori stradali, per l’apertura della viabilità nel Libano meridionale. Il giorno prima, giovedì, i caccia israeliani hanno ucciso 4 persone. Secondo i comunicati di Tel Aviv, ad essere presi di mira sono comandanti di Hezbollah, anche nel caso della signora anziana di 84 anni uccisa sotto i colpi dei missili israeliani! Siria L’esercito israeliano avanza in territorio siriano. Ha occupato l’autostrada Quneitra-Damasco, issando un posto di blocco a 40 km dalla capitale. Oltre a dominare i cieli siriani, Tel Aviv sta attuando una politica di pressioni militari per aumentare i territori da annettere. Giornata nazionale di digiuno x Gaza Sarà realizzata una giornata di digiuno nazionale il 22 novembre, all’avvio della settimana per la Giornata Mondiale di solidarietà con la Palestina indetta dall’ONU (29 novembre). In tale appuntamento del 22 novembre sarà organizzato un incontro online, aperto a tutti e tutte, con la partecipazione di esponenti palestinesi di Ramallah, Gaza e Gerusalemme est. Con traduzione consecutiva. ANBAMED
Notizie dal Libano alla Siria
In studio, con Elisa Gestri, giornalista free lance e fotoreporter, appena tornata da un viaggio in Libano e in Siria, riflettiamo innanzitutto sulle tregue insanguinate che sono state imposte sia in Libano che, più recentemente, a Gaza. In particolare, la tregua in Libano, garantita da Stati Uniti, Francia e Arabia Saudita, viene costantemente violata dagli attacchi e dai bombardamenti quotidiani dell'IDF, che hanno provocato in media una trentina di morti al mese a partire dal 27 novembre 2024. Attualmente, la popolazione libanese vive in una situazione di autentico terrore, che paralizza tutti i settori della società, mentre Tom Barrack, emissario di Trump per la Siria e il Libano, nonché ambasciatore USA in Turchia, continua a agitare la minaccia di una nuova aggressione militare israeliana in caso di mancato disarmo di Hezbollah da parte dell'esercito libanese. In sostanza, tanto la tregua in Libano, quanto quella a Gaza, sembrano funzionali a permettere a Israele di portare avanti una guerra a bassa intensità, finalizzata alla costruzione della "grande Israele".  In Siria, invece, l' "affare" della ricostruzione del paese sta suscitando interessi sempre più vasti, anche italiani, nel totale disinteresse del problema del rispetto dei diritti umani da parte del regime siriano; nel settore costiero del paese, in cui è stanziata un'importante comunità alawita, ad esempio, sono ancora in corso epurazioni con  sterminio di civili, soprattutto donne e bambini. Nel paese si respira, nel complesso, un clima di paura e diffidenza generalizzate.
CORRISPONDENZA DEL ROJAVA: GLI STADI…DELLA RIVOLUZIONE
Radio Onda d’Urto si trova in Rojava, nei territori del Nord e dell’Est della Siria controllati dall’Amministrazione autonoma democratica guidata dai principi del confederalismo democratico. La corrispondenza arrivata in Redazione il 22 ottobre 2025: “In uno stadio, il 12 marzo 2004, durante una partita di pallone, si accende una delle scintille che nei decenni hanno alimentato il fuoco della rivoluzione confederale diventata realtà nel luglio 2012 in Rojava. Allo stadio di Qamishlo, città a maggioranza curda, si disputava il match tra la squadra di casa e la squadra di Deir Ezzor, città a maggioranza araba. Durante la partita, i tifosi ospiti iniziarono a inneggiare a Saddam Hussein per i massacri che il suo regime aveva compiuto contro la popolazione curda del nord dell’Iraq. I tifosi del Qamishlo reagirono. La polizia del regime Baath siriano intervenne attaccando la tifoseria curda e uccise 9 persone. Al corteo funebre, la folla intonò slogan contro il regime di Bashar al Assad e la polizia aprì il fuoco uccidendo altre 23 persone. In seguito a questi fatti la rivolta divampò in tutte le città curde della Siria settentrionale. La rivolta di Qamishlo è considerata la prima sollevazione di massa in Rojava e uno dei semi della rivoluzione iniziata 8 anni più tardi. Oggi, sempre in uno stadio, dall’11 al 13 ottobre 2025, si sono celebrate le conquiste raggiunte dall’Amministrazione autonoma democratica della Siria del Nord e dell’Est. Il dialogo in corso tra lo stato turco e il movimento di liberazione curdo, insieme all’efficace autodifesa delle Forze Siriane Democratiche che ha permesso di raggiungere un fragile accordo di cessate il fuoco con l’autoproclamato governo di Damasco, permettono infatti al processo rivoluzionario di poter lavorare per sviluppare con maggior forza il modello del confederalismo democratico ispirato dalle idee socialiste di Abdullah Ocalan: la democrazia diretta delle comuni, il ruolo di avanguardia delle donne e della gioventù, l’ecologia sociale e l’economia comunale basata sulle cooperative. In questo contesto, la sesta edizione del Festival “Sheid Bawer Agir” ha visto l’inaugurazione del nuovo stadio di Kobane, città simbolo della rivoluzione per la sua resistenza all’assedio di Daesh più di dieci anni fa. “Gli stadi di Qamishlo, Kobane e Raqqa, in modi diversi, raccontano – spiegano inviate-i di Radio Onda d’Urto – la rivoluzione in Rojava: una rivoluzione della mentalità e della società. Una rivoluzione fiorita in 14 anni di guerra civile siriana, di bombardamenti e invasioni via terra dello stato turco, di guerra contro Daesh. Non bisogna dimenticare che tuttora, nonostante il teorico cessate il fuoco e le trattative in corso, 3 dei 7 cantoni che compongono l’Amministrazione autonoma democratica della Siria del nord e dell’est sono occupati da esercito turco e milizie jihadiste (Afrin, Serekaniye e Gire Spi). Inoltre, le milizie jihadiste ora inquadrate nell’esercito di Damasco e le numerose cellule dormienti di Daesh attaccano regolarmente le posizioni delle Forze Siriane Democratiche o delle forze di sicurezza interna dell’amministrazione, che finora hanno sempre respinto i tentativi di destabilizzazione o di avanzata sul terreno. Nonostante tutto questo, proprio come ha dimostrato la resistenza di Tishreen nei mesi scorsi, la società non ha mai perso la propria determinazione: anche sotto i peggiori attacchi, è visibile e tangibile la consapevolezza, di gran parte della società, del valore e dell’importanza dell’alternativa socialista e realmente democratica che qui si sta costruendo”. Attraverso la storia di alcuni degli stadi del Rojava – tra i quali anche lo “Stadio nero” di Raqqa, che fu utilizzato come prigione da Daesh – in questa corrispondenza inviate-i di Radio Onda d’Urto raccontano una parte della situazione attuale della regione e della rivoluzione confederale. Il servizio contiene anche un’intervista a Hewa Bekir, co-presidente del Ministero dello sport della gioventù dell’Amministrazione autonoma democratica della Siria del nord e dell’est, sull’importanza dello sport per la rivoluzione. Ascolta o scarica Di seguito, altri scatti arrivati a Radio Onda d’Urto dagli stadi del Rojava: