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Genocidio a Gaza e dintorni
Un fiume di fuoco su Gaza città. Bombe incendiarie sulle case e i ruderi abitati; robot esplosivi operano per cancellare ogni forma di vita. “Un inferno, ci ha raccontato ieri notte una volontaria di Al-Najdah, Israele vuol imporre la deportazione della popolazione con la forza militare”. L’esercito israeliano ha dichiarato Gaza città “zona militare pericolosa” ed ha annunciato l’interruzione delle cosiddette “pause umanitarie”, che in realtà non erano mai state rispettate. Ma servivano alla propaganda del criminale di guerra ricercato. Una buona parte del milione di abitanti di Gaza ha sfollato verso ovest, sulla spiaggia, ma l’affollamento è tale che non ci sono posti per stendere un lenzuolo e dormire. “Una situazione drammatica e anche qui ci raggiungono le bombe”, ha detto una donna scappata da Zaitoun con i suoi 5 figli. L’esercito occupante ha dichiarato di aver ritirato le truppe da Zeitoun e Sabra. La stampa israeliana scrive che un attacco della resistenza palestinese si è concluso con la cattura di 4 soldati. Il governo ha imposto la censura sull’accaduto. Si parla solo di 4 soldati dispersi. Non vengono forniti i nomi. Nessuna dichiarazione da parte di Hamas. L’opposizione politica in Israele sfrutta l’accaduto per accusare Netanyahu di aver fallito nel riportare gli ostaggi e di aver provocato la cattura di altri prigionieri di guerra israeliani. Il criminale di guerra si è nascosto dietro il segreto miliare. Il rapporto del ministero della sanità palestinese parla di 59 corpi di uccisi arrivati negli ospedali nella giornata di ieri e di 324  feriti. Il totale degli uccisi a Gaza sotto i bombardamenti israeliani indiscriminati ha superato i 63 mila. I feriti arrivati negli ospedali sono poco meno di 160 mila. A loro vanno aggiunti i dispersi sotto le macerie. L’Onu ha dichiarato che resterà a Gaza City nonostante le operazioni militari israeliane. “Noi e i nostri partner – ha detto il portavoce, Stephane Dujarric – restiamo a Gaza City per fornire supporto salvavita, con l’impegno di servire le persone ovunque esse si trovino. Ci aspettiamo che il nostro lavoro – ha aggiunto – sia pienamente facilitato dalla forza occupante e ricordiamo che i civili, compresi gli operatori umanitari, devono essere protetti in ogni momento. Le strutture umanitarie e le altre infrastrutture civili devono essere ugualmente salvaguardate”. Dujarric afferma che la decisione di Israele di interrompere le pause tattiche giornaliere a Gaza City, ora dichiarata “zona di combattimento pericolosa”, minaccia sia la vita delle persone che la capacità degli operatori umanitari di agire. I team delle Nazioni Unite hanno riferito che, sebbene le pause avessero lasciato spazio all’azione umanitaria, “sono stati comunque registrati bombardamenti nelle aree e nei momenti in cui tali pause erano state dichiarate”. L’Ufficio per il Coordinamento degli Affari Umanitari (OCHA) ha sottolineato che “le operazioni di soccorso salvavita devono essere rese possibili, non annullate”. Dujarric ha avvertito che costringere le persone a spostarsi più a sud rischia di essere “la ricetta per il disastro” ed equivale ad una deportazione forzata. Una casa vicina alla Guest House di Emergency è stata bombardata da Israele a Deir Balah. Sono state uccise 6 persone, un’intera famiglia con 4 bambini. Gli operatori internazionali sono salvi, ma la struttura ha subito danni. “Lo staff dell’ong sta provvedendo a rimuovere le macerie cadute durante il bombardamento nell’ingresso esterno della guest house, macerie che stanno bloccando l’uscita di veicoli e persone. Non abbiamo ricevuto dalle autorità israeliane nessun avviso dell’imminente attacco” – ha detto Francesco Sacchi, capo progetto di Emergency a Gaza, aggiungendo che “Nessuno è al sicuro all’interno della Striscia di Gaza. Come Ong continuiamo a chiedere il rispetto dei civili e un cessate il fuoco definitivo”. Intanto in Cisgiordania proseguono le violenze dei coloni insediatisi illegalmente, mentre truppe israeliane invadono diverse città palestinesi che ricadono sotto l’amministrazione dell’ANP. A el-Bira, el-Khalil, Jenin e Tulkarem i soldati israeliani hanno proceduto ad attività di devastazione delle infrastrutture urbane con bulldozer e dinamite, per poi passare a rastrellamenti per l’arresto di militanti e attivisti. L’esercito israeliano opera da padrone incontrastato del territorio anche a sud di Damasco, dove non ci sono truppe dell’esercito siriano. Il nuovo governo di Damasco continua a emettere proclami alla comunità internazionale, che guarda dall’altra parte. Il ministro della guerra di Tel Aviv insiste sulla necessità di una normalizzazione dei rapporti diplomatici con il riconoscimento da parte siriana dell’annessione del Golan occupato nel 1967 e la costituzione di una fascia smilitarizzata di sicurezza per Israele su tutta la zona a sud di Damasco. Un protettorato di fatto sulla Siria che garantirà ad Israele il dominio totale sulla regione, nella prospettiva del Grande Israele. Sanzioni turche contro Israele Il governo di Ankara ha deciso di interrompere le relazioni commerciali con Israele, vietare alle navi turche di attraccare nei porti israeliani e chiudere lo spazio aereo turco agli aerei di Tel Aviv. La decisione comunicata dal ministro degli Esteri turco, Hakan Fidan. Tra i due paesi gli scambi commerciali avevano fruttato nel 2023 un valore di 7 miliardi di dollari. Divieto USA: nessun palestinese all’ONU Il ministro degli esteri Usa, Rubio, ha annunciato che non saranno rilasciati visti per la delegazione palestinese in vista dell’Assemblea generale dell’Onu di settembre che ha all’ordine del giorno la discussione sul riconoscimento dello Stato di Palestina. Il diniego riguarderà anche il presidente Abbas. Una misura di prepotenza che viola gli accordi internazionali che regolano l’accesso ai lavori delle Nazioni Unite.   ANBAMED
150 attacchi DAESH a Deir Ez-zor negli ultimi 8 mesi
Abdulkerim Iweyid Fendi al-Iweyid, uno dei comandanti del consiglio militare di Deir Ez-zor, ha annunciato che dall’inizio dell’anno sono stati effettuati almeno 150 attacchi contro centri militari e di sicurezza. Al-Iweyid ha anche affermato che 6 dei suoi combattenti hanno perso la vita in questi attacchi. Parlando all’agenzia di stampa Hawar (ANHA), al-Iweyid ha dichiarato che le sue forze sono pronte a rispondere a tutte le minacce. Sottolineando che le cellule di DAESH hanno attaccato forze militari, forze di sicurezza, infrastrutture di servizio e civili con nuovi metodi fin dall’inizio, al-Iweyid ha dichiarato: “DAESH ha cambiato strategia e tattica dopo il caos causato dalla caduta del regime Baath. DAESH ha approfittato di questa situazione per riorganizzarsi e radunare nuove bande. Sta attaccando civili, istituzioni di servizio e forze militari”. Sottolineando che gli attacchi della Turchia svolgono un ruolo negativo nella lotta contro DAESH, ha dichiarato: “Grazie alla nostra lunga esperienza nella lotta al terrorismo, sappiamo che dietro la maggior parte degli attacchi ci sono cellule di DAESH. L’organizzazione terroristica DAESH ha approfittato della nostra resistenza agli attacchi dello Stato turco per reclutare nuove bande tra le sue fila. Tuttavia il loro obiettivo principale è minare la sicurezza della regione, spezzare e intimidire la volontà popolare e rilanciare il loro sogno di controllo della regione”. Al-Iweyid ha dichiarato che 15 attacchi del DAES sono stati organizzati contro le proprie forze solo nella regione di Deir Ez-zor. “Nell’ultimo mese, sono stati organizzati più di 10 attacchi contro le nostre forze militari e di sicurezza e 6 dei nostri combattenti sono stati uccisi”, ha aggiunto. Sottolineando che le sue forze sono pronte a qualsiasi minaccia ha concluso: “Le nostre operazioni hanno prodotto risultati. Di conseguenza, molte cellule attive sono state distrutte, riportando la pace nella regione. Il nostro obiettivo è proteggere i civili e non permettere al DAESH di approfittare della situazione e tornare.”   L'articolo 150 attacchi DAESH a Deir Ez-zor negli ultimi 8 mesi proviene da Retekurdistan.it.
Hevin Suleiman: il governo di transizione responsabile delle violazioni
Hevin Suleiman ha affermato che il governo di transizione siriano è responsabile delle violazioni e ha promesso di resistere per proteggere la dignità dei quartieri, se necessario. Le forze del governo di transizione siriano hanno sferrato un attacco nei quartieri Sheikh Maqsoud (Şêxmeqsûd) e Ashrafieh (Eşrefiye) di Aleppo, ferendo due membri delle Forze di sicurezza interna. Nel suo discorso sull’attacco, la co-presidente dell’Assemblea generale di Sheikh Maqsoud e Ashrafieh, Hevin Suleiman, ha dichiarato all’agenzia stampa ANHA: “Alcuni gruppi armati e soldati affiliati al Ministero della Difesa e al Ministero degli Interni del governo di transizione siriano non hanno ancora reciso i legami con lo Stato turco occupante; al contrario, stanno eseguendo direttamente gli ordini provenienti dalla Turchia contro la nostra regione”. Hevin ha osservato che la scorsa settimana, gruppi armati del governo di transizione hanno dispiegato droni armati su entrambi i quartieri. Ha affermato: “Questi attacchi contro i nostri quartieri sono provocazioni illegittime. Il governo di transizione è responsabile di queste violazioni. Se necessario, difenderemo i nostri quartieri e la nostra dignità senza esitazione”. Abbiamo un’esperienza di difesa efficace Hevin ha inoltre affermato che qualsiasi potenziale conflitto non servirebbe gli interessi di nessuna parte e ha sottolineato che gli abitanti di entrambi i quartieri possiedono un’esperienza concreta maturata sin dai tempi della guerra popolare rivoluzionaria e non esiteranno a difendersi da qualsiasi attacco si trovino ad affrontare. L’accordo del 1° aprile resta in vigore Hevin Suleiman ha sottolineato che entrambi i quartieri fanno parte di Aleppo e che arabi, curdi, siriaci, turkmeni e altri gruppi etnici convivono sulla base della fratellanza dei popoli. Ha sottolineato che l’accordo resta in vigore e che le Forze di sicurezza generale del governo provvisorio siriano e le Forze di sicurezza interna continuano a svolgere i loro compiti presso posti di blocco congiunti per proteggere i residenti di entrambi i quartieri, in base all’accordo firmato il 1° aprile. Ha espresso la speranza che si raggiunga la pace in tutta la Siria e ha concluso: “Siamo favorevoli alla risoluzione di tutti i problemi attraverso il dialogo”. The post Hevin Suleiman: il governo di transizione responsabile delle violazioni first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo Hevin Suleiman: il governo di transizione responsabile delle violazioni proviene da Retekurdistan.it.
Ilham Ehmed: Non accettiamo un ritorno al vecchio sistema baathista
Ilham Ehmed ha dichiarato: “Non accettiamo un ritorno al vecchio sistema baathista. Non possono aggrapparsi alla centralizzazione e alla tirannia. La costruzione di una nuova Siria può essere realizzata solo attraverso il riconoscimento dell’identità di tutte le componenti”. Ilham Ehmed, co-presidente del Dipartimento per le relazioni estere dell’Amministrazione autonoma democratica della Siria settentrionale e orientale (DAANES), ha sottolineato l’importanza della riconciliazione e dei negoziati per risolvere la crisi siriana. Intervenendo al seminario intitolato “Il ritorno è un diritto… Né dimenticato né abbandonato” tenutosi a Raqqa, Ilham Ehmed ha affermato che l’unica via per giungere a una soluzione è attraverso la riconciliazione nazionale e i negoziati: “Una soluzione politica e una riconciliazione generale con il sostegno internazionale sono importanti”. “È necessario attivare il lavoro sociale. Il caos attuale non è nell’interesse di nessuno. L’Amministrazione autonoma è pronta a garantire la sicurezza e farà tutto il necessario. Il Governo di transizione siriano deve assumersi le proprie responsabilità nel contesto della costruzione di una nuova Siria”, ha aggiunto. Sottolineando l’importanza del lavoro politico con la partecipazione di tutte le parti sotto la supervisione internazionale ha proseguito: “Altrimenti la giustizia politica non sarà raggiunta e la guerra non finirà. Non accettiamo un ritorno al vecchio sistema baathista. Non possono aggrapparsi alla centralizzazione e alla tirannia. La costruzione di una nuova Siria può essere realizzata solo attraverso il riconoscimento dell’identità di tutte le componenti. Un congresso nazionale deve essere tenuto con la partecipazione di tutte le parti. Un accordo politico sotto l’egida della Costituzione garantirà il futuro comune di tutto il popolo siriano”. Respingendo le affermazioni secondo cui l’Amministrazione autonoma vuole dividere la Siria, Ilham Ehmed ha affermato che la decentralizzazione è necessaria per proteggere la diversità e la partecipazione di tutte le componenti. “Questo garantisce anche la partecipazione delle donne. Non faremo mai marcia indietro di fronte a queste richieste”, ha sottolineato. Riferendosi ai punti concordati con il governo di transizione,Ilham Ehmed ha osservato che il comitato per il rimpatrio dei migranti non ha ancora tenuto una sola riunione. “Nonostante le promesse fatte da Ahmed al-Sharaa, Presidente del Governo di Transizione siriano, il comitato non si è ancora riunito. Ciò dimostra una posizione contraria alle disposizioni dell’accordo del 10 marzo. Questa linea d’azione ostacola il processo di transizione. Pertanto, questa situazione rappresenta una minaccia per il processo di transizione e accresce il rischio che il Paese scivoli nella guerra civile” ha concluso. The post Ilham Ehmed: Non accettiamo un ritorno al vecchio sistema baathista first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo Ilham Ehmed: Non accettiamo un ritorno al vecchio sistema baathista proviene da Retekurdistan.it.
Abbandonare l’autodifesa nel Rojava esporrebbe i curdi al massacro
La strategia guidata da Parigi mira a lasciare i curdi senza uno status, rendendo essenziali l’autodifesa e la diplomazia. Insigniti del Premio Nobel per l’Economia 2024 per il loro lavoro sulla formazione delle istituzioni e il loro impatto sulla prosperità, Daron Acemoglu e James A. Robinson esplorano il futuro degli stati, delle società e della libertà nel loro libro a quattro mani “Lo stretto corridoio”. La prefazione è dedicata a quello che descrivono come uno dei più grandi disastri umanitari del nostro tempo: la crisi siriana. Nella sezione intitolata scrivono: “Affinché la libertà emerga e prosperi, sia lo Stato che la società devono essere forti. Uno stato forte è necessario per prevenire la violenza, far rispettare le leggi e fornire servizi pubblici essenziali che consentano alle persone di fare le proprie scelte. Ma deve anche esserci una società forte e attiva, in grado di monitorare e limitare lo stato…” Queste frasi indicano una verità universale che trascende il dibattito ideologico. Lo stretto corridoio tra il caos dell’apolidia e la tirannia di un potere incontrollato definisce ora l’equazione più critica che plasma il destino della Siria e, più specificamente, del Rojava. Chiunque segua da vicino la crisi siriana può constatare che la guerra è entrata in una nuova fase. I massacri compiuti da Hayat Tahrir al-Sham (HTS) nei villaggi drusi e alawiti, gli attacchi di massa a Suwayda (Sweida) e lo sfollamento forzato di civili rivelano che la guerra civile è tutt’altro che finita e comporta un rischio sempre maggiore di aggravarsi ulteriormente. Nel suo articolo intitolato “Cosa vuole ogni attore in Siria?”, pubblicato da ANF il 30 luglio 2025, Zeki Bedran descrive la situazione in modo crudo: “La mentalità di HTS rimane immutata, non importa quanto venga affinata. Scatenano squadre di decapitatori contro la popolazione”. Questa realtà e questo rischio, sui quali esiste un ampio consenso, riflettono anche un notevole livello di maturità politica da parte della leadership politica del Rojava, dimostrando che non si sbaglia né si accontenta delle proprie valutazioni. Gli attacchi a Suwayda e nelle aree circostanti, seguiti alla formazione di un governo provvisorio allineato con HTS, non sono semplici atti di terrorismo. Fanno parte di una strategia deliberata volta a sottomettere la popolazione drusa e a modificare la demografia della regione attraverso la paura e la violenza. Mentre questi massacri hanno suscitato la condanna degli Stati Uniti e dell’Europa e hanno spinto Israele a intervenire direttamente, gli sforzi della Turchia per legittimare HTS e il suo rifiuto di denunciare le atrocità si distinguono come un chiaro riflesso di una mentalità condivisa. Tutto ciò indica un’unica, cruda verità: se i curdi del Rojava abbandonano l’autodifesa, saranno esposti direttamente al massacro. Anche la sola discussione sull’indebolimento dei parametri di autodifesa in termini tecnici, o sullo scioglimento delle Forze Democratiche Siriane (SDF) con il pretesto dell'”integrazione”, rappresenta un rischio serio. Potrebbe benissimo segnare l’inizio della fine. Per questo motivo, la diplomazia curda deve affrontare questa nuova fase con coraggio e determinazione. Allo stesso tempo, la comunità curda deve essere chiamata a rimanere vigile. Tutti gli attori politici in Turchia e nel Kurdistan settentrionale (Bakur) devono comprendere chiaramente che qualsiasi passo che indebolisca la difesa del Rojava equivale a un atto storico di autodistruzione. Il fatto che gli sviluppi politici in Turchia e nel Kurdistan settentrionale siano paralleli a quelli in Rojava non è una coincidenza. Il Rojava deve rimanere la massima priorità, perché il futuro del Rojava è, in senso più ampio, il futuro del Kurdistan nel suo complesso. In effetti l’unica priorità geopolitica della Turchia è quella di lasciare i curdi del Rojava senza alcuno status politico. La politica di Ankara sulla Siria è diventata inequivocabilmente chiara: 1. Privare i curdi dello status politico 2. Smantellare l’Amministrazione Autonoma 3. Eliminare le SDF Per raggiungere questo obiettivo, Ankara continua sia con le sue occupazioni militari sul terreno, sia con la sua pressione diplomatica al tavolo dei negoziati. Utilizza la sua appartenenza alla NATO come leva, ponendo le conquiste del popolo curdo sul tavolo delle trattative con gli Stati Uniti e l’Europa. Eppure la popolazione del Rojava si governa da sola da oltre un decennio. Sulla base delle leadership femminile e organizzata attraverso comuni e consigli, questo sistema non mira a creare uno Stato separato. Piuttosto propone un modello democratico e decentralizzato per la Siria. Gli osservatori che hanno familiarità con il Medio Oriente riconoscono ampiamente l’Amministrazione Autonoma della Siria settentrionale e orientale come un modello praticabile e costruttivo. Il disarmo imposto dalla Turchia non è solo un invito all’indebolimento militare, ma un tentativo di smantellare completamente quel modello. Oggi l’asse diplomatico più critico per il futuro della Siria è incentrato su Parigi. La Francia non è coinvolta solo dal punto di vista umanitario, ma svolge anche un ruolo attivo nella sicurezza del Mediterraneo, nella politica migratoria e nelle rotte energetiche strategiche di quello che storicamente viene definito “Le Levant”, che comprende Siria, Libano, Giordania, Israele, Palestina e in parte la regione di Hatay. I previsti colloqui di Parigi tra Damasco e le SDF-Amministrazione Autonoma sono stati rinviati a causa delle pressioni della Turchia. Per la diplomazia curda, Parigi rappresenta ora sia un’opportunità vitale che una corsa contro il tempo. Nel corso della storia recente e remota, la Francia ha svolto un ruolo duraturo, a volte di supporto, altre volte dannoso, in tutte le parti del Kurdistan. Dall’inizio della crisi siriana la Francia ha nuovamente assunto questo ruolo in modo serio e attivo. In questo momento storico critico vale la pena ricordare come la diplomazia curda, plasmata da cuori giovani e determinati sia emersa in particolare durante e dopo la resistenza di Kobane, attraverso il suo impatto sull’opinione pubblica e lo sviluppo delle relazioni politiche. Il risultato più chiaro dei negoziati che si stanno svolgendo all’ombra di Parigi è questo: c’è uno sforzo concertato per lasciare i curdi senza uno status politico. L’unico modo per contrastare questa strategia è mantenere l’autodifesa e intensificare la pressione diplomatica. Oggi, Parigi si distingue come un centro chiave sia per il Rojava che per il Kurdistan meridionale (Başur); è lì che devono essere concentrati particolare attenzione e sforzi. In un momento in cui i massacri contro le comunità druse e alawite sono sotto gli occhi di tutti, qualsiasi disarmo dei curdi equivarrebbe a un suicidio storico. Abbandonare l’autodifesa non farebbe altro che innescare una nuova ondata di massacri. Affidarsi agli equilibri temporanei delle potenze internazionali ha portato, in passato, a disastri, come si è visto ad Halabja e Shengal. Lo stesso rischio persiste oggi. Oggi in Siria i curdi costituiscono non solo la spina dorsale della resistenza in difesa del proprio popolo, ma anche uno scudo protettivo per le minoranze che vanno dai drusi ai siriaci. Se questa spina dorsale venisse spezzata, la Siria precipiterebbe in una nuova oscurità. In definitiva, se il processo in atto in Turchia e nel Kurdistan settentrionale non diventi eccessivamente interventista, l’Amministrazione autonoma della Siria settentrionale e orientale ha un forte potenziale per emergere come modello per tutta la Siria. Il popolo del Rojava, con oltre un decennio di autogoverno, ha costruito più di una semplice linea di difesa: rappresenta lo stretto corridoio verso la pace e la democratizzazione in Medio Oriente. Per i curdi, le richieste di disarmo non riflettono la realtà sul campo, anzi, rischiano di diventare il preludio di una nuova catastrofe. The post Abbandonare l’autodifesa nel Rojava esporrebbe i curdi al massacro first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo Abbandonare l’autodifesa nel Rojava esporrebbe i curdi al massacro proviene da Retekurdistan.it.
Quell’eco femminista del Rojava
CURA DELLA TERRA E AUTODETERMINAZIONE Nel nord-est della Siria, devastato da occupazione e cambiamento climatico, le donne sono al centro della rivoluzione ecologista Nel contesto del nord-est della Siria, segnato da anni di conflitto armato, da un regime di sanzioni internazionali e dalla costante pressione esercitata da confini ostili, ha preso forma un esperimento politico e sociale di democrazia innovativa. Siamo nel Kurdistan siriano, il Rojava, e qui L’Amministrazione Autonoma Democratica della Siria del Nord e dell’Est (Daanes), sorta in risposta al vuoto istituzionale generato dalla guerra civile siriana e alimentata da un lungo percorso di elaborazione teorica, si configura come un laboratorio di autogoverno fondato sulla ridefinizione del rapporto tra società, genere e ambiente. Nella riflessione politica di Abdullah Öcalan – teorico della rivoluzione confederalista – la subordinazione della natura e l’oppressione delle donne sono letti come manifestazioni interconnesse di un medesimo sistema di dominio, dove liberazione femminile e tutela degli ecosistemi sono elementi dello stesso processo di emancipazione. «SONO I PILASTRI fondanti della Daanes su cui abbiamo costruito le nostre istituzioni – spiega al manifesto Berivan Omar, la co-presidente della municipalità di Qamishlo – A partire dal sistema elettorale e rappresentativo: tutte le cariche istituzionali hanno la co-presidenza di un uomo e una donna». Inoltre «ogni ente della Daanes dedica il 10% dell’introito a progetti per l’emancipazione femminile – continua – Sono state istituite commissioni delle donne in ogni cantone, con sezioni autonome e piena autonomia decisionale sulle questioni che le riguardano». Lo stesso vale per le politiche di impronta ecologista: «La Commissione per l’Ecologia è presente in tutti i cantoni ed è trainata da un coordinamento delle donne che ha l’obiettivo di contrastare il capitalismo estrattivo che sfrutta le risorse naturali, noncurante delle conseguenze sociali e ambientali – spiega Virona, co-presidente dell’Accademia dell’Ecologia di Amuda – Promuoviamo iniziative per costruire un modello economico che antepone la giustizia sociale al profitto». GULISTAN ISSA, project manager di Un Ponte Per, racconta: «Nel nord-est della Siria abbiamo avviato il primo programma di compostaggio, trasformando i rifiuti organici domestici e di mercato in compost di qualità. Il progetto è un esempio concreto di economia circolare e partecipazione comunitaria. Il compost contribuisce alla salute del suolo e riduce l’uso di fertilizzanti chimici». Parallelamente, l’organizzazione promuove campagne di sensibilizzazione per incoraggiare la separazione dei rifiuti e migliorare le pratiche di riciclo. «Abbiamo realizzato una piccola stazione di raccolta a Heseke – spiega Gulistan – creando opportunità di lavoro per chi si occupa della raccolta e della selezione dei rifiuti. Il nostro compost ha migliorato la qualità del suolo, mentre la sensibilizzazione ha portato a un cambiamento concreto nelle abitudini delle famiglie». Issa racconta inoltre come, per affrontare la crescente insicurezza energetica, Un Ponte Per abbia avviato una collaborazione con le istituzioni locali per promuovere le fonti rinnovabili, in particolare attraverso l’installazione di pannelli solari. L’obiettivo è ridurre la dipendenza da un sistema elettrico instabile e garantire un accesso continuo all’energia, soprattutto in ambiti essenziali: «In questo quadro, il progetto EcoEnergy, avviato nel 2024, ha portato impianti solari in strutture sanitarie strategiche, assicurando la corretta conservazione di medicinali e vaccini, il funzionamento di laboratori e farmacie e la continuità dei servizi sanitari di base». Dal punto di vista socio-economico, nel nord-est della Siria prevale il modello delle cooperative: eco-comunità decentralizzate e autogestite. «Il nostro modello economico – spiega Berivan Omar – si basa su cooperative locali attive in agricoltura, allevamento e artigianato, con l’obiettivo di garantire l’autosufficienza della regione. Sono monitorate per rispondere ai bisogni della popolazione e tutelare l’ambiente». LE DONNE HANNO assunto un ruolo centrale, puntando all’autonomia economica e alla cura del territorio. Ma esistono altri esempi comunitari completamente gestiti da donne: comuni eco-femministe, molte delle quali abitate solo da donne e bambini. Il villaggio di Jinwar è la prima esperienza ad aver tracciato questo modello negli ultimi anni. Si raggiunge in un’ora e mezza di auto dalla città di Heseke, in una delle zone più rigogliose dell’area. «Jinwar è l’esempio vivente della pratica eco-femminista, dove una gestione della terra comunitaria e ecologista si unisce all’indipendenza economica e culturale da un modello sociale patriarcale», spiega Virona. L’idea fondante del villaggio di Jinwar consiste nel dare un posto sicuro alle donne che vogliono rendersi autonome, imparare a lavorare la terra, gestire una cooperativa o costruire una casa per essere psicologicamente e materialmente più autonome una volta rientrate in società. «Le donne rimangono uno, due o tre anni per poi costruirsi una nuova vita – racconta al manifesto Shilan, una delle donne che abita nel villaggio – Il nostro obiettivo è quello di recuperare l’indipendenza originaria delle donne, a partire dalla terra che coltivano. Oltre all’agricoltura studiamo la Jineoloji (la scienza sociale che mette al centro la donna come chiave per comprendere e trasformare la società), ci dedichiamo a istruire i figli del villaggio e ad attività come la farmacia naturale». «DA QUANDO ESISTE il villaggio, questo territorio è sempre stato in guerra. Adesso le cose potrebbero cambiare, ma è difficile fidarsi dei turchi», riprende. L’elemento ambientale nella strategia militare turca ha nel tempo assunto una centralità crescente, configurandosi come uno strumento di pressione sistemica nei confronti della Daanes. Il controllo delle acque dell’Eufrate e i bombardamenti mirati contro infrastrutture idriche ed elettriche rappresentano una vera e propria guerra ecologica, con gravi ricadute sulla popolazione civile. «Gli attacchi a Serekaniye, Girespi e Efrin – dice Berivan Omar – hanno colpito duramente l’approvvigionamento idrico, in particolare a Heseke, dove la popolazione è rimasta a lungo senz’acqua e ha dovuto dipendere da fonti esterne». LE CONSEGUENZE ambientali della guerra e dell’occupazione si manifestano in maniera profonda e trasversale, colpendo tanto gli ecosistemi quanto le strutture sociali della zona, la qualità dei terreni e intaccando il sistema di smaltimento dei rifiuti. In questo contesto, la resistenza ecologica si configura come una dimensione costitutiva del processo di autodeterminazione. «Qui le donne non solo partecipano alla formazione tecnica e alla gestione dell’acqua e dell’energia solare nelle abitazioni, ma si assumono la responsabilità quotidiana delle soluzioni ecologiche introdotte», racconta Gulistan Issa. «Stiamo lavorando a leggi regionali per riportare la società verso uno stile di vita armonico con la natura, ancora praticato in molti villaggi», conclude Berivan Omar. In Rojava, un territorio devastato dall’occupazione e dal cambiamento climatico, la rinascita passa dalla connessione tra donne, terra e autogoverno.   https://ilmanifesto.it/quelleco-femminista-del-rojava?t=NFoYPZ6ceyZ2uoHKj50Os The post Quell’eco femminista del Rojava first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo Quell’eco femminista del Rojava proviene da Retekurdistan.it.
YPJ: Continueremo a lottare per la libertà delle donne yazide
In una dichiarazione rilasciata in occasione dell’anniversario del massacro commesso dall’ISIS contro gli yazidi a Shengal il 3 agosto 2014, l’YPJ ha affermato che le atrocità non sono state dimenticate e che la lotta per la libertà delle donne yazide continua. Il Comando generale delle Unità di Protezione delle Donne (YPJ) ha commemorato le martiri in una dichiarazione scritta in occasione dell’undicesimo anniversario del genocidio di Shengal. La dichiarazione ha descritto l’attacco del 3 agosto 2014 come un nuovo genocidio contro il popolo yazida, affermando che questo genocidio dell’ISIS è stato l’ennesimo massacro commesso contro la comunità yazida e che lo Stato iracheno e l’amministrazione della regione del Kurdistan sono rimasti in silenzio e non hanno agito per difendersi. La dichiarazione ha ricordato che la prima risposta agli attacchi dell’ISIS è arrivata dai combattenti curdi per la libertà, aggiungendo che le forze YPJ e YPG hanno svolto un ruolo chiave nell’apertura di un corridoio umanitario tra Shengal e il Rojava, contribuendo a salvare migliaia di vite. Centinaia di combattenti YPJ e YPG si sono opposti alla mentalità dell’ISIS. Shengal e la comunità yazida sono state protette. Molti compagni sono caduti come martiri nella liberazione di Shengal. Le YPJ hanno definito gli attacchi dell’ISIS contro le donne come una guerra globale con dimensioni ideologiche e politiche, affermando che la mentalità jihadista e fascista dell’ISIS prende di mira la società e i valori della vita attraverso le donne; le uccide, le rapisce, le vende e le riduce in schiavitù in nome del califfato. Questo è un attacco diretto contro l’ideologia della liberazione delle donne. La dichiarazione ha sottolineato che la resistenza guidata dalle donne yazide si è trasformata in una lotta per la dignità. Ha sottolineato che in questo secolo nessuna società può sopravvivere o preservare la propria cultura senza autodifesa. La lotta per il riconoscimento dell’identità e dello status del popolo yazida continua, e per l’istituzione di un’amministrazione autonoma. Le YPJ hanno ricordato di aver liberato molte donne e giovani yazidi dalla prigionia dell’ISIS, affermando di considerarsi responsabili della liberazione di tutte le donne yazide. Nella dichiarazione si afferma che la popolazione di Shengal ha garantito la propria sicurezza attraverso un’amministrazione autonoma basata sul paradigma della società democratica del leader Apo (Abdullah Öcalan) e che la cultura dell’autodifesa, guidata dalle donne, è ormai saldamente consolidata. In conclusione, le YPJ hanno dichiarato che la lotta per la liberazione delle donne di Shengal sarà la loro missione fondamentale e che saranno presenti al fianco della comunità yazida in ogni momento della lotta. Su questa base, hanno promesso ancora una volta una patria libera alle martiri della libertà, alle madri delle martiri, a tutte le donne yazide che hanno perso la vita in servizio e alla comunità yazida, affermando che la loro promessa sarà la loro lotta. The post YPJ: Continueremo a lottare per la libertà delle donne yazide first appeared on Retekurdistan.it. L'articolo YPJ: Continueremo a lottare per la libertà delle donne yazide proviene da Retekurdistan.it.
Siria: le elezioni dell’Assemblea Popolare si svolgeranno tra il 15 e il 20 Settembre
In una intervista rilasciata all’agenzia statale siriana SANA il Il presidente del Comitato superiore per le elezioni dell’Assemblea popolare, Mohammed Taha al-Ahmad ha annunciato che le prime elezioni dell’epoca post Assad si svolgeranno 15 e il 20 Settembre e che il sistema elettorale è frutto di un ampio dibattito tra tutte le componenti della società civile siriana e che ha visto un’importante partecipazione delle donne a cui il sistema riserva come minimo il 20% delle candidature. L’annuncio sembra voler tranquillizzare la comunità internazionale allarmata da dichiarazioni di esponenti del governo provvisorio che parlavano di tempi molto più lunghi. Nell’intervista si sottolinea anche la necessità che le elezioni si svolgano in tutti i territori della Siria e che escludano “coloro che sostengono criminali o incitano al settarismo, alla divisione e al fanatismo”; quest’affermazione viene interpretata come un primo passo di esclusione di quelle forze politiche e militari che occupano varie regioni del Paese e che non riconoscono l’autorità dell’attuale governo. Pressenza IPA
Siria: rapimenti delle donne alauite
Amnesty International ha sollecitato il governo siriano ad agire con urgenza per prevenire la violenza di genere, ad avviare indagini rapide, approfondite e imparziali sui rapimenti di donne e ragazze alauite e ad accertarne e punirne i responsabili. Da febbraio Amnesty International ha ricevuto informazioni attendibili su almeno 36 rapimenti di alauite di età compresa tra i tre e i 40 anni, avvenuti nelle province di Latakia, Tartus, Homs e Hama ad opera di individui non identificati. Di questi casi, Amnesty International ha documentato i rapimenti, avvenuti in pieno giorno, di cinque donne adulte e di tre minorenni. Salvo in un caso, le autorità di polizia e la Sicurezza generale (i servizi di sicurezza) non hanno svolto indagini efficaci per accertare la sorte e il luogo in cui si trovano le persone rapite. Il 22 luglio il comitato d’inchiesta istituito dal presidente al-Sharaa per indagare sulle uccisioni avvenute lungo la costa siriana ha dichiarato di non aver ricevuto alcuna segnalazione di rapimenti di donne o ragazze. “Le autorità siriane affermano da tempo di voler costruire una Siria per tutte e tutti ma continuano a non intervenire per fermare i rapimenti di donne e ragazze, prevenire violenze e matrimoni forzati, contrastare la probabile tratta di esseri umani, indagare e perseguire i responsabili. La comunità alauita, già colpita da precedenti massacri, è stata profondamente scossa da questa ondata di rapimenti. Le donne e le ragazze hanno paura di uscire di casa o di camminare da sole”, ha dichiarato Agnès Callamard, segretaria generale di Amnesty International. In tutti gli otto casi documentati da Amnesty International le famiglie hanno denunciato il rapimento delle proprie parenti alla polizia o alla Sicurezza generale. In quattro casi, nuove prove fornite dalle famiglie sono state respinge o mai prese in considerazione. In nessuno degli otto casi le famiglie hanno ricevuto aggiornamenti sullo stato delle indagini. In due casi la responsabilità del rapimento è stata addossata alla famiglia stessa. In un caso il sequestratore ha inviato alla famiglia una foto della persona rapita, visibilmente percossa. In due casi i sequestratori hanno chiesto, direttamente o tramite intermediari, riscatti compreso tra i 9000 e i 13.000 euro. Solo una delle famiglie è riuscita a pagare ma la donna non è stata liberata. In almeno tre casi, uno dei quali riguarda una minorenne, la rapita è stata probabilmente costretta a un matrimonio forzato. Molte delle persone intervistate da Amnesty International hanno riferito che le donne e le ragazze, soprattutto della comunità alauita, ma anche di altri gruppi residenti nelle province interessate dal fenomeno, ora evitano o affrontano con estrema cautela ogni spostamento, come ad esempio per andare a scuola, all’università o al lavoro. Un’attivista della società civile, che ha recentemente visitato la regione costiera della Siria, ha raccontato: “Tutte le donne sono in stato d’allerta. Non possiamo prendere un taxi da sole, camminare da sole, fare nulla senza provare paura. Anche se non sono alauita e se inizialmente la mia famiglia era scettica rispetto ai rapimenti, mi hanno comunque chiesto di non uscire da sola e di fare molta attenzione”. “Chiediamo alle autorità siriane di agire con rapidità e trasparenza per localizzare le donne e le ragazze scomparse, portare i responsabili davanti alla giustizia e fornire alle famiglie coinvolte informazioni credibili e tempestive, basate su una prospettiva di genere, oltre al necessario sostegno”, ha aggiunto Callamard. Amnesty International
“SIRIA DIVISA, VERITÀ OSCURATE: SUWAYDA E IL RITORNO DEI MASSACRI”: IL PUNTO DELLA SITUAZIONE NEL PAESE CON DAVIDE GRASSO
Per commentare i fatti recenti che riguardano la Siria e il Medio oriente abbiamo intervistato Davide Grasso, ricercatore in Sociologia politica al dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino e nostro collaboratore. Nei giorni scorsi, ha pubblicato un articolo su MicroMega a commento degli scontri e dei massacri a Suwayda, città a maggioranza drusa nel sud della Siria, e dei bombardamenti israeliani che hanno colpito a due passi dai palazzi governativi a Damasco. “I fatti di Suwayda – scrive Davide Grasso – sono tanto più gravi, se osservati da occidente, poiché si inseriscono in un contesto di piena legittimazione statunitense ed europea alle forze che continuano a commettere questi crimini in Siria. Rappresentano l’ennesimo monito ai mezzi d’informazione e al pubblico italiani a non occuparsi di Siria unicamente in presenza di episodi di violenza, poiché questi ultimi risultano incomprensibili se l’informazione non segue l’evoluzione del paese in modo costante”. Proprio per questo gli abbiamo chiesto innanzitutto di inquadrare la situazione generale attuale nel Paese, prima di addentrarci in diverse questioni particolari. Tra le questioni specifiche che abbiamo approfondito insieme al nostro collaboratore, siamo partiti dalle divisioni interne all’arcipelago islamista di cui fa parte Hayat Tahrir al Sham, il gruppo guidato da colui che a dicembre 2024 si è proclamato presidente, Ahmad Al-Sharaa. All’interno del fronte jihadista ci sono visioni diverse sulla Siria che verrà. Al-Sharaa ha dato dei segnali piuttosto chiari su quale sia la sua: Davide Grasso, nell’articolo e nell’intervista su Radio Onda d’Urto, ricorda la partecipazione di Al Sharaa al World Economic Forum di Davos, gli accordi per la ricostruzione o la costruzione di infrastrutture già siglati con diverse imprese turche, del Golfo, europee e statunitensi, la stretta di mano con Donald Trump. Una parte dei militanti jihadisti di Hts ha già dato vita a una scissione, passando all’opposizione. Anche in questo contesto si sono sviluppati gli scontri e i massacri sulla costa siriana a dicembre e in primavera, nelle aree popolate dalla popolazione alawita, e nel sud, nella città drusa di Suwayda, in queste settimane. Durante gli scontri e le violenze a Suwayda, l’esercito israeliano ha bombardato la stessa città a maggioranza drusa, la città di Dar’a e il cuore della capitale siriana Damasco. In contemporanea, a Baku, Azerbaigian, si stavano però tenendo colloqui tra il governo siriano e quello israeliano. Usa, Turchia e monarchie del Golfo, Arabia Saudita in particolare, cercano una mediazione che – di fatto – porti anche la “nuova Siria” nell’orbita degli “accordi di Abramo”. A Davide Grasso abbiamo chiesto perché – a suo avviso – Israele bombarda la Siria mentre sta discutendo con Damasco di questa “normalizzazione” dei rapporti. Nell’intervista, guardiamo infine all’altra sponda dell’Eufrate: l’Amministrazione autonoma democratica della Siria del nord e dell’est ha celebrato nei giorni scorsi, il 19 luglio, il 13esimo anniversario della rivoluzione e l’inizio dell’autogoverno secondo il modello del confederalismo democratico. In questa fase sembra godere di una certa stabilità interna e soltanto pochi mesi fa ha dato prova della propria capacità di autodifesa, di difendersi dagli attacchi e tentativi di invasione, con la resistenza alla Diga di Tishreen, vicino Kobane. Anche l’Amministrazione autonoma, così come le altre organizzazioni che fanno riferimento alle idee del leader del Pkk Abdullah Ocalan, ha deciso di aderire all’Appello per la pace e la società democratica e relativo processo di pace. Lo scorso marzo, ha firmato un cessate il fuoco con Damasco, un memorandum d’intesa in diversi punti sui quali trovare un accordo tramite il negoziato tuttora in corso. Nelle ultime settimane ci sono stati diversi incontri, con la mediazione in particolare di inviati statunitensi e francesi. La nostra intervista a Davide Grasso, ricercatore in Sociologia politica al dipartimento di Culture, politica e società dell’Università di Torino e nostro collaboratore. Ascolta o scarica.