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Mille splendidi fiori, storie di cura, coraggio e comunità tra Afghanistan e Alto Adige
Martedì 5 agosto 2025 alle ore 21:00 Pavillon di San Vigilio di Marebbe (Provincia autonoma di Bolzano, Alto Adige) Evento organizzato da Costa Family Foundation, Insieme si può, Rawa, Gea, Dolomites San Vigilio Una serata per ascoltare voci spesso invisibili: donne che resistono, custodiscono e si fidano. Dall’Afghanistan dell’Associazione RAWA, dove anche una tisana può diventare gesto politico, all’Alto Adige, dove la violenza di genere si nasconde dietro porte chiuse e silenzi troppo lunghi. Un dialogo aperto tra mondi apparentemente distanti – impresa e sociale, poesia e attivismo – uniti dalla stessa tensione verso la dignità e la trasformazione. Parole, musica, volti e storie si intrecciano in un racconto collettivo. A chiudere, un gesto semplice: una tisana condivisa. Perché far fiorire, in fondo, è un atto rivoluzionario.     Redazione Italia
Afghanistan. Come cambiare la percezione senza cambiare la sostanza
Siamo quasi all’anniversario della presa del potere dei talebani del 15 agosto 2021, che ha portato in Afghanistan a una precipitazione dei diritti delle donne e delle condizioni di democrazia e di vita per tutti per la svolta estremamente fondamentalista che l’interpretazione restrittiva della Sharia dei Talebani ha comportato. In questi giorni il poco interesse che i media esprimono per l’Afghanistan si concretizza in una notizia che rimbalza praticamente uguale in tutti i brevi articoli che la narrano: esiste una nuova possibilità per le donne afghane rappresentata dalla ripresa del turismo, poiché a Kabul si possono fare tour gestiti da donne e rivolti alle donne. In realtà si tratta di un’unica esperienza di questo genere  e riguarda la visita al museo di Kabul  guidata da una giovane donna e fruita da un piccolo gruppo di straniere, tutte con il velo in testa ma, sorprendentemente – e la cosa salta agli occhi nel grigio panorama delle strade frequentate soprattutto da uomini e da poche donne nascoste in lunghi vestiti neri – vestite con abiti colorati, come mostra un servizio di Rai News.it. Significa che sta cambiando qualcosa nel fondamentalista e repressivo Afghanistan dei Talebani? E’ proprio come la racconta il servizio di Rai News, che commenta il suo documentario con un giudizio positivo e quasi entusiasta sulla possibilità di “cambiare, un passo alla volta, la percezione del Paese”? In realtà, l’ingenuo commento non afferra il vero significato di questi tour, e cioè l’interesse dei Talebani di cambiare la percezione negativa che il mondo ha dell’Afghanistan senza cambiare la sostanza delle condizioni di segregazione e privazione dei più elementari diritti delle donne, che continua invece a essere raccontata da innumerevoli testimonianze e dalle più svariate fonti. Permettere a una manciata di donne di usare un briciolo di libertà serve ai Talebani per mostrare il presunto “volto umano” del loro governo, che invogli il resto del mondo al riconoscimento della “normalità” del loro sistema di governo, in realtà fondamentalista, violento, liberticida e di apartheid verso le donne. Non si tratta, quindi, di avere il coraggio di sfidare i divieti, ma invece di essere strumento, più o meno consapevole, di un’operazione pubblicitaria di camuffamento della realtà. Mentre si danno notizie di “novità” come questa, bisognerebbe sempre ricordare il contesto in cui avvengono, se si vuole davvero fare informazione.   CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Violenza di genere, un debito ancora da saldare
L’Honduras continua a essere uno dei paesi più violenti della regione, soprattutto nei confronti delle donne. È ciò che afferma il recente rapporto dell’Osservatorio sui diritti umani delle donne (Odhm, per la sua sigla in spagnolo) del Centro per i diritti delle donne (Cdm). Nel 2024, l’Osservatorio ha registrato 231 morti violente di donne, 156 delle quali sono femminicidi (67,5%). La maggior parte delle vittime (48%) erano donne adulte (di età compresa tra i 30 e i 59 anni) che lavoravano come domestiche. Il 26% erano giovani donne (di età compresa tra i 19 e i 29 anni) e il 13% erano minorenni, tra cui 5 bambine di età inferiore ai 9 anni. A questa violenza femminicida si aggiungono altri reati contro la vita delle donne, come i 158 casi di tentato omicidio e le 149 denunce di scomparsa. Parallelamente, il Ministero dell’Interno segnala 342 denunce di donne e ragazze scomparse, il 44,1% delle quali di età inferiore ai 18 anni. L’Osservatorio sulla parità di genere in America Latina e nei Caraibi, della Commissione economica per l’America Latina e i Caraibi (Cepal) avverte che nel 2023 l’Honduras continuava a essere in cima alla lista dei paesi della regione con il più alto tasso di femminicidio pro capite. Secondo la prima indagine nazionale specializzata sulla violenza contro le donne e le ragazze di età pari o superiore a 15 anni, condotta alla fine del 2022 dall’Istituto nazionale di statistica (Ine), 24 donne honduregne su 100 hanno subito violenza sessuale. Nel 2024, il Pubblico ministero ha segnalato 3.350 casi di denuncia per violenza sessuale contro le donne, il 62% delle vittime sono minorenni, per lo più studentesse e lavoratrici domestiche. “Le donne in Honduras sono esposte a subire un continuum di violenze, ovvero, nel corso della loro vita subiscono molteplici forme di violenza in diversi ambiti sociali”, sottolinea il rapporto dell’Osservatorio del CDM. Nel 2025 la situazione non sembra migliorare. Sono già 127 le donne uccise in modo violento nel primo semestre. Fino al 30 aprile, il Sistema Nazionale di Emergenza (SNE-911) ha registrato 13.034 denunce di violenza domestica e 15.647 di maltrattamenti familiari. Un’impunità infinita Secondo l’Osservatorio sulla violenza dell’IUDPAS-UNAH, negli ultimi due decenni (2005-2024) sono stati registrati almeno 7.736 casi di morti violente di donne e femminicidi, con una media annuale di 387 vittime. Di tutti questi casi, 904 sono stati portati in tribunale e solo 197 (21,7%) hanno ottenuto una condanna. Nel 2024, lo SNE-911 ha segnalato 37.879 chiamate per violenza domestica contro le donne e 50.757 per maltrattamenti familiari. Di questo totale, solo 12.673 segnalazioni si sono convertite in denunce formali. Per quanto riguarda i vari tipi di violenza sessuale, nel 2024 sono stati presentati ai tribunali 854 casi, ovvero il 25,4% di quelli segnalati al Pubblico Ministero. Di questi, solo 298 hanno ottenuto una sentenza di condanna (35%). “La grave carenza di risposta nei casi di femminicidio, violenza domestica e violenza sessuale ha un impatto diretto sulla vita delle vittime, dei sopravvissuti e dei loro familiari”, avverte l’Odhm. “Oltre all’aggressione subita”, continua il rapporto, “le vittime devono continuare a lottare per ottenere giustizia, riparazione e garanzia dei propri diritti. In questo percorso, devono affrontare molteplici ostacoli e violenza istituzionale. La mancanza di struttura nei diversi organismi pubblici e l’assenza di un coordinamento integrale generano burocrazia nei processi, rivittimizzazione e danni all’ambiente individuale, familiare e comunitario”. Fonte: Rel UITA (spagnolo) Giorgio Trucchi
I Talebani intensificano l’apartheid di genere: decine di donne arrestate per “violazione dell’hijab”
In questi giorni abbiamo ricevuto il racconto affranto delle donne appartenenti alle associazioni afghane che sosteniamo, le quali confermano le notizie allarmanti apprese da alcuni siti circa l’arresto arbitrario di decine di donne da parte della polizia morale, presumibilmente per “violazioni dell’hijab”, trattenute senza accesso a un legale, senza contatti con i familiari e senza assistenza medica. Ci hanno scritto: “Negli ultimi giorni, la situazione per donne e ragazze è tornata ad essere estremamente allarmante. La polizia morale pattuglia le strade, ferma i veicoli e trattiene le donne con la forza. Molte ragazze sono sotto shock e spaventate, hanno paura anche solo di uscire di casa. Secondo quanto riferito, dopo essere state rilasciate, alcune donne sono state rifiutate dalle loro famiglie, come se il peso dell’ingiustizia fosse ancora una volta posto sulle loro spalle. Una ragazza, che per paura aveva inizialmente negato di avere subito un arresto, quando ha compreso il nostro sostegno ha iniziato a piangere e ha detto: ‘Per Dio, ero completamente coperta: indossavo l’hijab, la maschera e il chapan, ma all’improvviso mi hanno circondata come animali selvatici, mi hanno insultata e colpita con una pistola”. Sono svenuta per la paura e il dolore. Quando ho ripreso conoscenza, mi trovavo in uno scantinato buio con decine di altre ragazze assetate e terrorizzate, senza alcun contatto con le nostre famiglie. Quello che abbiamo passato è stato peggio della morte…’.  Con voce tremante, ha aggiunto: ‘La libertà è stata l’inizio di un nuovo dolore. Il comportamento di tutti nei miei confronti è cambiato, come se avessi fatto qualcosa di sbagliato. Vorrei non essere mai uscita di casa’. Questa paura ha colpito profondamente anche le nostre studentesse. In molte, piangendo, hanno confermato quanto amano imparare, ma hanno chiesto di essere esentate dalla frequenza per qualche giorno, finché la situazione non si sarà calmata. Abbiamo deciso di sospendere le lezioni per due settimane. Anche oggi la polizia morale è passata diverse volte davanti al nostro centro e non possiamo mettere a repentaglio la sicurezza delle nostre studentesse. Sono giorni bui e pesanti, ma la vostra presenza e il vostro sostegno sono per noi una luce di speranza e conforto, la vostra solidarietà ci dà la forza per andare avanti”. Nel suo sito, RAWA NEWS informa: In un nuovo e più intenso attacco alle libertà delle donne, i Talebani hanno lanciato un’ondata di arresti arbitrari in tutto l’Afghanistan, prendendo di mira donne e ragazze accusate di aver violato l’interpretazione estremista che il gruppo dà delle regole sull’hijab. Solo nell’ultima settimana, decine di donne sono state arrestate a Kabul, Herat e Mazar-e-Sharif, applicando standard di “modestia” vaghi e mutevoli, senza alcun processo o giustificazione legale. Questi arresti avvengono in strade, centri commerciali, caffè e campus universitari, spazi pubblici dove le donne cercano semplicemente di condurre la propria vita quotidiana. A Kabul, nelle zone di Shahr-e-Naw, Dasht-e-Barchi e Qala-e-Fataullah, i testimoni hanno riferito che in alcuni casi le donne sono state aggredite fisicamente dagli agenti talebani prima di essere costrette a salire sui veicoli. Poi sono state trattenute nei cosiddetti “centri di moralità” – strutture gestite dal Ministero per la Promozione della Virtù e la Prevenzione del Vizio, un’istituzione temuta che ora opera come una forza di polizia religiosa – e rilasciate solo dopo che i loro tutori maschi avevano firmato garanzie scritte che avrebbero “corretto” il loro comportamento. Negli ultimi giorni a Herat sono state arrestate almeno 26 donne, molte delle quali giovani e alcune minorenni; a Mazar-e-Sharif una decina, sempre con l’accusa di non coprirsi completamente il volto. I funzionari talebani hanno confermato gli arresti, sostenendo che le donne erano state avvertite in precedenza. Secondo quanto riferito, le arrestate sono state trattenute senza poter usufruire di assistenza legale, contattare le proprie famiglie o ricevere cure mediche. Alcune famiglie hanno paura di far uscire di casa le proprie figlie, temendo che possano essere arrestate. Non per la religione, ma per il predominio Le Nazioni Unite e gli osservatori dei diritti umani hanno condannato questi arresti, ritenendoli delle gravi violazioni del diritto internazionale e un chiaro segno di apartheid di genere. Tuttavia, i Talebani non sembrano intenzionati a cedere. Anzi, i funzionari del ministero hanno raddoppiato le loro minacce, annunciando che qualsiasi donna trovata a indossare un “cattivo hijab” sarà punita immediatamente e senza preavviso. Queste azioni non riguardano la religione, ma il predominio: i Talebani usano l’imposizione del hijab come arma politica per mettere a tacere e cancellare le donne. Criminalizzando le normali scelte di abbigliamento, i Talebani inviano un messaggio agghiacciante: le donne non appartengono alla sfera pubblica e qualsiasi tentativo di affermare la propria presenza sarà represso con la forza. Si tratta di un’ulteriore fase del sistematico smantellamento dei diritti delle donne da parte dei Talebani, che include il divieto di istruzione per le ragazze oltre la prima media, il divieto per le donne di lavorare con le ONG e le organizzazioni internazionali e dure restrizioni nella possibilità di movimento  e nell’abbigliamento. Nonostante la crescente repressione, molte donne afghane resistono, rifiutandosi di scomparire, documentando gli abusi e parlando, anche a rischio della propria vita, ma le loro voci sono accolte con indifferenza dalla maggior parte della comunità internazionale. Il tempo delle condanne simboliche è finito. Le azioni dei Talebani equivalgono a una prolungata campagna di persecuzione di genere e devono essere trattate come tali. Senza una pressione internazionale concreta, il regime continuerà senza controllo la sua guerra contro le donne, incoraggiato dal silenzio di un mondo che un tempo aveva promesso di stare dalla parte del popolo afghano. Appello urgente: richiesta di aiuto per profughi afghani espulsi dall’Iran CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Sport femminile in Afghanistan: un altro diritto negato, un’altra resistenza
Difficilmente si sente parlare di Afghanistan senza che vengano citate le donne afghane, tirate in ballo da un lato dalla feroce ideologia patriarcale dei talebani, che con un tratto di gomma le cancella dalla vita sociale, e dall’altro dalla propaganda occidentale, del tutto strumentale alla legittimazione dell’intervento militare nel Paese del 2001, il quale avrebbe avuto tra i suoi fini la liberazione della donna dalla soggiogazione talebana. Delle donne afghane si parla quasi sempre sospinti da un istinto compassionevole che le getta con poca cura e attenzione in una categoria umana che potremmo definire come quella delle “poverine”. In questa considerazione però c’è tutta la forza negativa della rassegnazione, come se in fondo la loro condizione di oppressione fosse scritta nel loro destino. Tuttavia, la resistenza che le donne esercitano ci ammonisce perché la rassegnazione non porta a nulla di buono, anzi, lascia uno spazio vuoto che i talebani e altri sapranno come occupare. La lotta delle donne afghane per cambiare il loro Paese va avanti, faticosamente e lentamente, certo, ma senza sosta. Lo dimostrano le tante esperienze di clandestinità che le afghane vivono per far studiare le bambine e le ragazze affinché non rinuncino ai loro sogni e prendano coscienza della loro condizione e il coraggio di rivoluzionare la storia. Da quando i talebani sono tornati a comandare il 15 agosto 2021 i provvedimenti che hanno emanato e che colpiscono le donne sono più di cento. Minky Worden, Direttrice del Global Initiatives di Human Rights Watch, in una lettera del 3 febbraio 2025 indirizzata al Comitato Internazionale del Cricket (ICC) ha scritto che “dalla presa del potere nell’agosto del 2021, i talebani hanno imposto una crescente lista di regole e politiche sulle donne e sulle ragazze proibendo loro di frequentare le scuole secondarie e l’università e restringendo pesantemente l’accesso al lavoro, la libertà di espressione e di movimento, così come vietando lo sport e le altre attività all’aperto”. Infatti, non era ancora passato un mese dall’insediamento dei talebani che l’8 settembre del 2021 il Vice-presidente della Commissione culturale dei talebani, Ahmadullah Wasiq, aveva dichiarato che la pratica sportiva non era necessaria per le donne. Sollecitato proprio sulla questione relativa al cricket, sport che a livello internazionale deve sottostare a delle regole che prevedono la parità di diritti e opportunità tra i due sessi, obbligando ogni federazione nazionale per poter essere membro di quella internazionale ad avere tanto la squadra nazionale maschile quanto quella femminile, Ahmadullah Wasiq aveva risposto che le ragazze “potrebbero trovarsi nella situazione in cui la loro faccia e il loro corpo non siano coperti. L’islam non permette che le donne siano viste in questa maniera. È l’era dei media e ci sarebbero foto e video che potrebbero essere visti dalle persone. L’islam e l’Emirato islamico (Afghanistan) non consentono alle donne di giocare a cricket o di praticare quegli sport che le vedano esposte”. Da quel momento le atlete di ogni sport e le loro famiglie avevano iniziato a sbarazzarsi di tutto ciò che avrebbe potuto costituire una prova dell’attività sportiva praticata. Così le foto che ritraevano momenti sportivi erano state strappate e cancellate dai social mentre le medaglie vinte, le divise e le attrezzature erano state portate via dalle abitazioni. Nessuno osava più parlare di sport femminile fuori dalle mura domestiche. Alcune atlete, note per far parte della nazionale, si erano nascoste nell’attesa e nella speranza di poter lasciare il Paese e salvarsi dalla persecuzione che sarebbe caduta su di loro. Avevano fatto parlare di sé le giocatrici della nazionale di cricket, aiutate a fuggire in Australia grazie all’iniziativa di tre donne australiane, una di loro ex giocatrice della nazionale di cricket, Mel Jones, ma anche quelle della nazionale di calcio e di pallavolo che si erano nascoste, nell’attesa e nella speranza di riuscire a fuggire dal Paese. Molte di queste atlete ce l’hanno fatta a espatriare e hanno ripreso ad allenarsi su altri campi e in altre palestre, dovendo spesso lasciare tutta la propria famiglia in Afghanistan. Va detto però che durante il periodo dell’occupazione non era tutto rose e fiori, perché il governo non sempre permetteva alle squadre nazionali femminili di disputare le competizioni all’estero, motivando la decisione con minacce derivanti dai talebani. Ma c’era una tendenza dei politici che dirigevano il Paese a lasciare che la pratica sportiva si svolgesse perché, grazie alle innumerevoli Ong presenti sul territorio che investivano in progetti sportivi, i soldi provenienti dall’estero facevano gola. In occasione dei Giochi Olimpici di Parigi dell’anno scorso, l’ex judoka afghana Friba Rezayee, che aveva partecipato alle Olimpiadi del 2004, si era espressa in modo contrario alla partecipazione della squadra nazionale afghana, nonostante avesse una rappresentanza paritaria tra i due sessi, tre uomini e tre donne, quest’ultime però non riconosciute dal governo afghano. Il Comitato Olimpico Internazionale (CIO) aveva ammesso la squadra, ma negato gli inviti ai rappresentanti istituzionali dell’Afghanistan. Secondo Rezayee permettere al suo Paese di essere rappresentato con tanto di bandiera era un errore perché, sebbene involontariamente, finiva con il concedere legittimità a “un regime che punisce le donne per la partecipazione agli sport”. L’ex judoka offriva un’alternativa, ossia la partecipazione degli atleti e delle atlete afghane nella squadra Refugees team, composta da sole rifugiate e rifugiati politici (alle Olimpiadi di Parigi tre atleti afghani e un’atleta afghana hanno fatto parte del Refugees Team). La negazione del riconoscimento del governo talebano è il cuore della battaglia delle attiviste afghane perché è un passo obbligatorio se si vuole tentare di smantellare il sistema di “apartheid di genere” costruito dai talebani, così definito anche dal Segretario Generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres. Ma lo sport non è solo agonismo, è molto di più. La sua messa al bando ha avuto delle ricadute importanti sulla vita sociale e personale delle donne. La socializzazione nella società afghana, rimasta profondamente patriarcale persino durante il periodo dell’occupazione, era possibile anche attraverso la frequentazione dei centri sportivi dove, oltre a tentare di recuperare la linea dopo tante gravidanze (più di 5 figli per donna), si ricercava un benessere fisico e psicologico. Il castigo inflitto alle donne in quanto donne non ha soppresso definitivamente la loro voglia di riscatto e, sebbene sappiano di correre rischi serissimi, alcune di loro ancora oggi continuano a praticare lo sport in forma clandestina. I controlli da parte delle autorità sono però continui. A febbraio del 2023 i talebani hanno chiuso un altro centro sportivo, un club di karate femminile che era rimasto aperto, nonostante il divieto, nella provincia di Farah. Il diritto allo sport, dato il suo peso e la sua importanza, non ha nemmeno bisogno di ottenere un riconoscimento, sebbene vi siano trattati internazionali che lo esplicitino, perché è inalienabile e appartiene a ogni individuo in quanto essere umano. Non può essere negato. Le azioni politiche devono però creare le condizioni perché questo diritto possa essere esercitato, pertanto la scelta del Comitato Internazionale del Cricket di porre il vincolo alle federazioni nazionali di avere sia la squadra maschile sia quella femminile per poter partecipare alle competizioni internazionali dovrebbe essere un esempio per tutte le altre Federazioni sportive internazionali. Ma non basta, occorre cancellare dai Comitati quelle federazioni che non rispettano la disposizione. Questo è quello che le giocatrici di cricket afghane in esilio chiedono da tempo all’ICC, supportate in questa battaglia da Human Rights Watch, perché fino ad oggi la squadra di cricket maschile afghana continua ad essere membro del Comitato Internazionale nonostante il governo afghano si rifiuti di ricostituire quella femminile. Nell’estenuante attesa che la politica sportiva internazionale faccia la sua parte per sostenere le afghane nella battaglia per la realizzazione del diritto fondamentale delle donne alla pratica sportiva, migliaia di bambine, ragazze e donne in Afghanistan continuano a soffocare sotto il peso dei divieti e del controllo totale delle loro vite e sono costrette a decidere se rinunciare a praticare lo sport per non incorrere in punizioni severissime, oppure al contrario praticarlo clandestinamente e rischiare di pagare un caro prezzo. CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
Donne resistenti. La prima stella della sera, rassegna teatrale di Atir-Teatro ringhiera
È stata una bellissima serata quella trascorsa il 5 luglio al festival organizzato da Atir-Teatro ringhiera nel cortile della Chiesa di Santa Maria alla Fonte nel Parco Chiesa Rossa di Milano. In programma c’era la lettura di alcun brani tratti dal libro di Benedetta Tobagi La Resistenza delle donne, pubblicato da Einaudi nel 2022. La lettura è stata preceduta dall’intervento di tre donne appartenenti al gruppo informale di Milano “Silenzio per la pace” che dal marzo 2023 (poco dopo l’inizio della guerra fra Russia e Ucraina) si raduna ogni giovedì pomeriggio in via Mercanti, in pieno centro, a manifestare col silenzio il proprio desiderio di pace. Poi, fra parole a volte drammatiche a volte divertenti, alternando racconti di cronaca (Benedetta Tobagi) e testimonianze dirette delle ”resistenti” interpretate da Arianna Scommegna, quasi sempre nelle varie inflessioni dei dialetti piemontesi, si è svolta la preannunciata performance. La particolarità della Resistenza delle donne, ci spiega Benedetta Tobagi, è data dalla completa volontarietà della loro decisione: non vi si sentirono costrette per sfuggire all’arruolamento nell’esercito dei repubblichini di Salò o in quello nazista, ma lo fecero per scelta personale, a volte considerandola addirittura liberatoria per sganciarsi dalle costrizioni, dai lacci dei rigidi, soffocanti legami familiari. Questa scelta è andata perciò a far parte del lungo percorso sulla strada dell’emancipazione femminile, con i suoi progressi e i suoi arretramenti. Dopo questa commovente e appassionata lettura-interpretazione, era prevista la proiezione di No Other Land, l’ormai famoso documentario girato in uno dei villaggi del complesso di Masafer Yatta, nei Territori palestinesi occupati da Israele. Prima della proiezione erano previste due “cartoline” come le hanno chiamate le esponenti di Atir, ovvero brevi presentazioni del film elaborate da una scrittrice italo-palestinese, Sarah Mustafa, e da me, Susanna Sinigaglia, in rappresentanza della rete Maiindifferenti – Voci ebraiche per la pace. L’incontro era condotto da Pilar Perez, un’attrice di Atir, che ci ha rivolto alcune domande in relazione al nostro ruolo e al nostro sentire nei confronti degli eventi a Gaza e in West Bank, e in relazione al film. A me in particolare Pilar ha chiesto: ma dov’è andata a finire l’etica del governo israeliano? Questa domanda mi ha lasciato alquanto perplessa, dato che da tempo se ne sono perse le tracce… Così le ho risposto citando la nascita della nostra rete proprio per reazione a questa lunga mancanza, col primo appello pubblicato nel febbraio 2024 sulla base di un interrogativo intorno alla ricorrenza della Giornata della memoria: “A che cosa serve oggi la memoria della Shoà se non aiuta a fermare la produzione di morte in Palestina e, anzi, serve da alibi per giustificare le politiche del governo israeliano?” Pilar in seguito mi ha anche chiesto quali siano i nostri rapporti con i gruppi della resistenza israeliana e con la Comunità ebraica in Italia, quali le nostre iniziative. Ho citato in particolare l’ultima – all’Anteo –, insieme a L3a – Laboratorio ebraico antirazzista, con la proiezione di No Other Land preceduta da un incontro con varie figure del mondo ebraico e palestinese in Italia, alle quali abbiamo chiesto un commento su 5 brevi clip che mostrano alcuni momenti/passaggi significativi del film: 1. il calore umano degli abitanti del villaggio; 2. la violenza delle distruzioni operate dall’esercito e dai coloni israeliani; 3. l’impazienza dell’israeliano (il regista e interprete Yuval Abraham), frutto tipico dell’attuale civiltà occidentale, e la perseveranza del palestinese (il regista e interprete Basel Adra), abituato a resistere fin da bambino e ad allungare lo sguardo dal contingente a un futuro possibile. Per ulteriori informazioni sulle nostre iniziative, rimandiamo i lettori al sito www.maiindifferenti.it e alla pagina Facebook. A Sarah, Pilar ha domandato quale futuro sarà possibile per i bambini palestinesi che sopravvivranno. E Sarah ha semplicemente risposto proponendo al pubblico un paragone fra i traumi provati dai nostri piccoli, per i quali ci rivolgiamo allo psicologo, e quelli inimmaginabili subiti dai bambini palestinesi. Naturalmente la domanda è rimasta senza risposta. Sarah ha poi espresso la propria angoscia, guardando il film, nel vedere quanta violenza venga dispiegata contro il suo popolo ma anche l’apprezzamento per il coraggio dimostrato dagli abitanti del villaggio, per la loro resistenza. Inoltre ritiene che sia un documentario importante perché mostra al mondo che cosa succedesse in Palestina molto prima del fatidico 7 ottobre 2023. Quando, per esempio nel 2009, Tony Blair – come inviato speciale del Quartetto per il Medio Oriente formato da Onu, Stati Uniti, Unione Europea e Russia – in soli sette minuti di passeggiata nel villaggio, con giornalisti e televisioni internazionali al seguito, aveva ottenuto ciò che la resistenza non violenta dei palestinesi tentava da anni: bloccare la demolizione della scuola che purtroppo, come vedremo, avverrà invece nel corso delle riprese del film. Questo episodio è significativo di quanto l’assenza dell’Europa e di testimoni occidentali potenti lasci mano libera al governo israeliano… D’altra parte secondo Sarah, il docufilm lascia anche aperto uno spiraglio alla speranza di dialogo, che però ritiene possa avvenire solo ad alcune condizioni: il riconoscimento del dolore dell’altro, la fine dell’occupazione affinché il dialogo possa svolgersi alla pari, la garanzia dei diritti umani fondamentali come quello alla vita, all’istruzione, all’acqua; e ponendo un argine ben solido ai vari estremismi. Dopo i nostri interventi, abbiamo lasciato il pubblico alla proiezione del film mentre Sarah, io e le nostre ospiti abbiamo concluso l’incontro davanti a un panino, una birra e ancora tante considerazioni sugli eventi che agitano il nostro presente.   La Bottega del Barbieri
Online la Sezione Mali del sito Missing at the borders
Dopo la pubblicazione della Sezione Senegal nel febbraio scorso, anche la Sezione Mali del sito www.missingattheborders.org è online dopo sette mesi d’intenso lavoro! Sezione Mali e fotogallery: https://missingattheborders.org/mali Testimonianze delle famiglie: https://missingattheborders.org/testimonials Un altro importante traguardo reso possibile dal progetto “Dalla testimonianza al protagonismo: le madri dei migranti dispersi nel Mediterraneo promotrici di diritti e di attività generatrici di reddito in Mali e in Senegal”, promosso dalle associazioni Abarekà Nandree ODV, Todo Cambia e Énergie pour les Droits de l’Homme Sénégal e finanziato dall’Otto per Mille della Chiesa Valdese. Il progetto ha l’obiettivo di promuovere l’autonomia e la partecipazione democratica delle famiglie dei migranti dispersi, mediante attività generatrici di reddito portate avanti dalle donne appartenenti a queste famiglie e con il sostegno alla loro mobilitazione per perseguire verità e giustizia sulla sorte dei loro cari. La Sezione Mali del sito vuole dare voce a queste donne e dignità alle tragiche storie di migrazione dei loro parenti morti o dispersi nel tentativo di raggiungere l’Europa dal Mali, alla ricerca di una vita migliore per se stessi e per le loro famiglie. La sezione si compone, infatti, di 10 video-interviste ad alcune delle 42 donne parti attive del progetto e di una fotogallery che raccoglie le immagini dei loro parenti scomparsi, vittime delle frontiere. Mariam Kanta, Houlale Baniele, Sara Diabate, Aoua Sangare, Tah Coulibaly, Aminata Kone, Niele Samake, Fatoumata Aba Toure, Ami Konate e Kadia Cisse. Per noi, forse, sono solo dei nomi non sempre facili da pronunciare. Ascoltando le loro testimonianze e connettendoci emotivamente agli effetti che la tragica scomparsa dei loro cari ha avuto sulle loro famiglie – in termini psicologici, sociali ed economici – appare evidente che queste donne siano, invece, esempio di resilienza e di lotta quotidiana affinché la memoria dei loro parenti non si perda nell’indifferenza e nel cinismo dei governi europei e di quelli locali. La raccolta delle foto dei dispersi maliani che compongono la fotogallery e le 10 video-interviste della sezione sono frutto del prezioso lavoro di supporto svolto in Mali dai partner locali, GRAM (Groupe de Recherche et d’Actions sur les Migrations) e ADEM (Association pour la Défense des Emigrés Maliens) che da anni operano nel  Paese e in rete con altre associazioni europee, per la difesa dei diritti dei migranti e per denunciare la strage dei morti e dispersi alle frontiere. “I bianchi vanno e vengono dal nostro Paese a loro piacimento (e in sicurezza). Al contrario, quando i nostri parenti decidono di partire, li aspetta la morte. Mi piacerebbe vedere tutti trattati equamente!”, afferma con forza nella sua intervista Aminata Koné, che ha perso il marito nel disperato tentativo di arrivare in Europa. Alla sua voce si aggiunge quella di Sara Diabaté, che sa di aver perso la madre e la sorellina ingoiate dalle onde del Mar Mediterraneo: “Siamo stufe di vedere i nostri genitori, fratelli, sorelle che lasciano il Paese e muoiono. Vogliamo giustizia!”.   Questa sezione è un modo per dare voce alle migliaia di famiglie maliane rimaste in un limbo senza scadenza e per amplificare la loro richiesta di Verità, Giustizia e Dignità affinché superi il Mediterraneo e arrivi in Europa, restituendoci ciò che ormai facciamo fatica ricordare: i morti alle frontiere non sono numeri, ma vite umane! Infoline: info@abareka.org | tc@todocambia.net | edh.senegal@gmail.com In Mali, Paese dell’Africa subsahariana, il 43,6% della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà e migrare diventa una scelta quasi obbligata. Il Paese non è solo un luogo di partenze, ma anche di transito e destinazione per donne, giovani e bambini vittime della tratta di esseri umani. Oggi a fuggire sono soprattutto i più giovani: il 94,5% di chi emigra ha tra i 20 e i 39 anni. Tra questi, quasi la metà si trova nella fascia di età compresa tra i 25 e i 29 anni. Attualmente, il tasso di disoccupazione giovanile è quasi del 17% in tutto il Paese. Dietro la partenza di coloro che non arrivano a destinazione c’è una famiglia che sperimenta una perdita incompleta e ambigua, poiché la persona cara è psicologicamente presente, ma fisicamente assente (non c’è un corpo su cui piangere). A livello sociale, le famiglie delle persone disperse possono andare incontro all’emarginazione e allo stigma sociale e a livello economico all’assenza dell’unico sostentamento che la persona dispersa garantiva o avrebbe garantito. In particolare, sono le donne a pagare il prezzo più alto per questa perdita, poiché rimaste a dover assicurare un sostentamento e un futuro alla propria famiglia.       Redazione Italia
Non dimentichiamo le donne afghane. Stop all’Apartheid di genere!
Nella lotta contro l’Apartheid di Genere, in difesa dei diritti delle donne in Afghanistan e ovunque nel mondo siano in atto sistemi di governo o apparati che operano continuativamente la segregazione delle donne e la privazione dei loro diritti fondamentali, il CISDA (Coordinamento italiano sostegno donne afghane) ha un nuovo ulteriore alleato: la Commissione Pari Opportunità di Roma Capitale. Il 12 giugno, a seguito all’audizione del Cisda in merito, la commissione ha approvato all’unanimità il sostegno alle richieste contenute nella Campagna STOP APARTHEID DI GENERE – STOP FONDAMENTALISMI così espresso in una nota dalla presidente della commissione Michela Cicculli: … sono orgogliosa di registrare l’appoggio trasversale, emerso nella seduta odierna, all’attività del Cisda-Coordinamento italiano sostegno donne afghane impegnato nella campagna Stop Fondamentalismi per il riconoscimento come crimine contro l’umanità dell’apartheid di genere e il deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia internazionale e alla Corte penale internazionale. Un sostegno su cui lavoreremo nelle prossime settimane per contribuire come amministrazione e portare all’attenzione del Governo e della cittadinanza la gravità delle discriminazioni sistematiche compiute dal regime talebano nei confronti delle donne, ragazze e persone Lgbt nel Paese” perché “è importante che si continui a parlare di una situazione giunta all’apice della violazione dei diritti fondamentali sistematizzata e normalizzata a livello normativo e politico e si supporti l’attività svolta dal Cisda, dalle forze democratiche e associazioni che nel Paese, in maniera clandestina, portano avanti attività in ambito sanitario e di istruzione come pure lavorativo per aiutare chi viene discriminato”. Anche Marilena Grassadonia, Coordinatrice politiche diritti Lgbt+ di Roma Capitale, in una nota dichiara: “Accendere i riflettori su una questione che rischia di rimanere nell’ombra è compito delle istituzioni democratiche del nostro Paese. Grazie alla discussione di oggi in Commissione Pari opportunità, Roma Capitale non intende sottrarsi a questa responsabilità: sosterrà con una prossima iniziativa il lavoro del Cisda impegnato nella campagna ‘Stop Fondamentalismi, per il riconoscimento come crimine contro l’umanità dell’apartheid di genere e per il deferimento dell’Afghanistan alla Corte di Giustizia internazionale e alla Corte penale internazionale”. Il Cisda ringrazia e spera in una proficua collaborazione. Prossimo appuntamento a settembre! Beatrice Biliato     CISDA - Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane
A che punto è il riconoscimento “strisciante” dei Talebani da parte della comunità internazionale
A quasi un anno dalla Conferenza di Doha che avrebbe dovuto normalizzare i rapporti con il governo de facto dell’Afghanistan, si afferma un nuovo format portato avanti dalla Missione Unama e denominato “Piano Mosaico”. Meno “esposto” mediaticamente, non è meno deleterio per i diritti umani e per l’opposizione politica, come denunciano 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi di attiviste È passato quasi un anno dalla terza Conferenza di Doha organizzata dall’Onu nel giugno 2024 per normalizzare i rapporti della comunità internazionale con il governo de facto dell’Afghanistan e riaprire ufficialmente le relazioni economiche e politiche. Un evento che aveva registrato un’importante novità nelle relazioni diplomatiche: la partecipazione diretta dei rappresentanti del governo talebano, invitato per la prima volta a partecipare alla pari con i 25 Paesi che ne fanno parte nonostante la mancanza del riconoscimento ufficiale della sua legittimità. Una novità scandalosa, non solo perché questa “prima volta” aveva segnato un’accettazione di fatto del governo talebano come rappresentante del popolo afghano nonostante la sua presa del potere non sia avvenuta democraticamente, ma soprattutto perché questa presenza era accettata in cambio dell’estromissione delle donne afghane e dei loro diritti dai temi trattati nella Conferenza, per consentire al diktat dei Talebani che l’avevano posta come condizione per la loro partecipazione. Accettazione che era stata molto criticata non solo dalle donne e dai movimenti per i diritti umani di tutto il mondo, ma anche da alcuni esponenti delle stesse Nazioni Unite. La conferenza si era conclusa senza impegni precisi, ma aveva sancito la disponibilità dei negoziatori a proseguire con le discussioni sui temi economici in preparazione di altri appuntamenti e incontri. Che ne è stato di questi impegni, che seguito ha avuto la Conferenza di Doha? In questi mesi quasi nulla è apparso sui media per aggiornarci sulle trattative in corso tra Onu e governo talebano, sullo stato del processo di riconoscimento del loro governo e sull’avanzamento degli impegni presi. Questa assenza di notizie non è da imputare all’interruzione dei rapporti o alla mancanza di sviluppi nel dialogo, ma alla scelta di cambiare strategia: si è infatti deciso di togliere visibilità al processo di avvicinamento ai Talebani gestito dall’Onu e delegare invece alla Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Afghanistan (Unama) la conduzione dei colloqui e delle proposte di mediazione. Sono state forse le critiche delle associazioni per i diritti umani e delle donne o la refrattarietà dei Talebani ai cambiamenti a far cambiare strada all’Onu, forse per cercare modalità più coerenti di difesa dei diritti del popolo afghano? Purtroppo no, perché il nuovo format proposto e portato avanti dall’Unama, denominato “Piano Mosaico”, o Roadmap globale per l’Afghanistan, ha ancora una volta l’obiettivo dichiarato di normalizzare il più presto possibile le relazioni con l’Afghanistan, per riportarlo nella comunità internazionale sotto il controllo di “questi” Talebani e di “questo” governo. E per agevolare le trattative, propone un approccio non più finalizzato a condizionare i Talebani con preliminari tematiche di principio e richieste di aperture democratiche, ma invece scorpora i problemi per affrontarli uno alla volta – fin da subito quelli che interessano ai Talebani, in futuro quelli proposti dalla comunità internazionale – così che sia più facile, senza l’appesantimento di questioni scottanti e divisive, arrivare a stabilire degli accordi. Per ridurre il conflitto viene infatti proposta una strategia che separa i problemi “pratici”, come la lotta al narcotraffico, lo sviluppo del settore privato e la cooperazione economica – che piacciono ai Talebani –  da quelli “complessi”, come i diritti umani e delle donne e l’antiterrorismo. Cioè si lasciano le questioni che riguardano i diritti e la democrazia in una formulazione generica e ambigua, da affrontare con “gradualità”, nel futuro indefinito “del prima o poi” – tanto le donne afghane sono resilienti. Con questa strategia il coinvolgimento dei Talebani nel dialogo non punta più a un evento-manifesto che dia visibilità all’intervento conciliatore dell’Onu, ma preferisce un processo in sordina, strisciante, fatto di incontri bilaterali o poco più, che non dia nell’occhio, nella speranza che sia finalmente possibile accordarsi con i Talebani e fare affari con loro senza fastidiosi interventi critici, quegli affari che per ora sono solo nelle mani delle piccole e grandi potenze regionali che sgomitano per arrivare per prime. Nelle intenzioni l’obiettivo di questo processo dovrebbe essere “un Afghanistan in pace con sé stesso e con i suoi vicini, pienamente reintegrato nella comunità internazionale e in grado di rispettare gli obblighi internazionali”. Così si dice nel Piano, basato sulle raccomandazioni della valutazione indipendente di Feridun Sinirlioglu e in applicazione della Risoluzione 2721 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite del 2023. Le associazioni di donne e per i diritti umani hanno criticato questo nuovo piano. Sostengono che l’Unama sta di fatto facilitando la legittimazione dei Talebani anziché difendere i diritti del popolo afghano e che in questa roadmap non sarebbe stato previsto alcun ruolo per le donne, la società civile e le reali vittime del governo. In una dichiarazione congiunta, 54 organizzazioni sociali, associazioni e gruppi di attiviste hanno denunciato l’accettazione dei Talebani come principali interlocutori e avvertito che l’iniziativa garantisce al governo concessioni concrete mentre chiede in cambio poco più che vaghe e inattuabili promesse. Inoltre, dicono che l’Unama, rendendo i diritti umani un oggetto di contrattazione, ne compromette l’universalità e l’inviolabilità, venendo meno alla missione imparziale e umanitaria delle Nazioni Unite che le è propria. Le Nazioni Unite hanno sottolineato che il loro impegno con i Talebani non deve essere frainteso con un riconoscimento politico. L’Unama ha dichiarato che il piano è ancora in fase di revisione e di voler coinvolgere nella sua gestione tutte le parti interessate, dai Paesi che fanno parte del Processo di Doha alle altre componenti che giocano un ruolo chiave nella regione, come il G7, i governi che detengono risorse afghane, il team delle sanzioni dell’Onu e i cosiddetti gruppi “non talebani” menzionati vagamente alla fine del piano. Ma l’Unama ha rifiutato di specificare esattamente quali, al di fuori dei Talebani, siano state le parti finora coinvolte. Intanto i Talebani, ben felici di essere al centro dell’attenzione diplomatica, puntano in alto e rispondono alle aspettative del Piano chiedendo la revoca delle sanzioni Onu, attualmente imposte a oltre 130 membri del gruppo ed entità affiliate; il recupero dei beni congelati dagli Usa; l’assunzione della rappresentanza diplomatica all’estero, cioè il seggio all’Onu, attualmente in mano ai rappresentanti del governo della precedente Repubblica. Insomma, un vero e proprio riconoscimento di legittimità. In cambio il Piano chiede riforme globali, come la formazione di un governo inclusivo, il rispetto dei diritti umani e l’impegno nella lotta al terrorismo, ma, non prevedendo meccanismi di applicazione o inclusione, queste richieste rimangono generiche e vuote. Come osserva l’opposizione politica, “le richieste dei Talebani sono concrete e misurabili: vogliono legittimità diplomatica, accesso alle riserve estere e revoca delle sanzioni. Al contrario, le aspettative della comunità internazionale rimangono indefinite”. Il “Piano Mosaico” dichiara di puntare, per ottenere cambiamenti nella politica talebana, sulla reciproca fiducia e la dimostrazione dei vantaggi che la cooperazione può portare alla governance e al popolo afghano. Ma come può esserci collaborazione con un governo fondamentalista che ritiene che non sia sua responsabilità provvedere ai bisogni dei cittadini perché crede che il benessere e la sopravvivenza del popolo provengano direttamente da dio? Come si può avere fiducia in un regime che si preoccupa solo di ottenere con la violenza l’obbedienza a quella che pretende sia la vera religione? Il governo talebano non può essere un interlocutore credibile. Non vi è garanzia che il popolo afghano possa ottenere dai Talebani il rispetto dei suoi diritti umani, economici e sociali. Come hanno giustamente sostenuto le donne e le associazioni democratiche, “questo piano deve essere fermato, le nostre voci devono essere ascoltate”. Beatrice Biliato fa parte del Coordinamento italiano a sostegno delle donne afghane (Cisda) altreconomia
Il Caffè Sospeso dà voce alle donne afghane oppresse dai Talebani
A maggio comincia il tour italiano di Zainab Entezar, giovane regista di Kabul, rifugiata in Europa per sfuggire alla cattura da parte dei Talebani. E’ la testimone che il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli e la Rete del Caffè Sospeso hanno scelto per la sessione di lavoro del 2025, per rendere omaggio, anche per quest’anno, alla fermezza degli intellettuali e artisti che si oppongono ai regimi totalitari per difendere il diritto di espressione e di pensiero. Raccontare storie di resistenze alle violazioni dei diritti fondamentali è il compito del Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, ma per noi è importante che a parlare siano i testimoni diretti degli avvenimenti perché il nostro pubblico possa ascoltare, capire e chiedere a essi come si vive nei Paesi che negano la democrazia, l’uguaglianza delle persone e dei generi e perseguitano tutti coloro che vogliono vivere nella pienezza dei propri diritti. E’ il caso degli intellettuali che chiedono di esprimersi liberamente con la loro arte, di poter partecipare a pieno titolo al confronto delle idee, alla scelta dei propri rappresentanti, a costruire il futuro del loro popolo, a difendere la memoria collettiva e l’identità di persone e comunità. Se proviamo a far parlare le donne del mondo arabo, potremmo trovarci davanti a diseguaglianze ancora maggiori di quelle che ci riservano i Paesi occidentali che pure si professano “avanzati” e di fatto discriminano le donne nelle attività politiche o professionali. Il caso dell’Afghanistan è davvero singolare ed emblematico, anche per colpa del disastro provocato dalla guerra dei primi anni del XXI secolo, fortemente voluta dagli USA per punire i presunti responsabili dell’attentato alle Torri Gemelle, che ha stravolto i già fragili equilibri in cui convivono alcune differenti etnie, già duramente provate dall’invasione russa degli anni 70. Il fallimento della ventennale Operazione militare occidentale (Iraqi Freedom) , che ha visto anche l’Italia in prima fila a combattere i regimi di Saddam Hussein, di Daesh ed Al Qaeda, ha riconsegnato alle milizie degli integralisti islamici il governo dell’Afghanistan con il risultato che nel Paese, dopo la partenza dei contingenti militari occupanti, è scattata una feroce rappresaglia contro i collaborazionisti dell’esercito occupante, con stragi incontrollate e una diaspora continua a cui i governi occidentali hanno voltato le spalle. Oltre alle vittime della nuova persecuzione, a registrare la peggiore repressione di stampo religioso sono state le donne, a cui è stata impedita una vita sociale dignitosa e addirittura il diritto all’istruzione oltre i 12 anni, ma anche molte altre libertà, come quella di muoversi da sole oltre una distanza limite dalla propria abitazione ed altri diritti fondamentali, anche nel modo di vestirsi. Questo ha provocato la creazione di nuclei femminili di resistenza che stanno pagando un prezzo altissimo alla repressione che non ha esitato a imprigionare, torturare ed eliminare le figure di spicco della resistenza. Zainab Entezar è una scrittrice e regista afghana di 31 anni, rifugiata attualmente in Germania. Ha una laurea triennale in giornalismo e un master in pubblica amministrazione. Zainab ha pubblicato il suo primo libro, “A Man of the Gentle Kind of Father”, nel 2017, e il suo secondo libro, “Yusra”, nel 2020. Il terzo libro è stato pubblicato in Danimarca nel 2023. Nel 2025 è uscito in Italia “Fuorché il silenzio”, con 36 interviste ad altrettante donne afghane. Ha realizzato diversi cortometraggi e i suoi film sono stati proiettati in vari Paesi, tra cui Italia, Francia, Stati Uniti, Canada, India, Bulgaria e altri e ha anche vinto premi internazionali. Zainab Entezar ha realizzato il suo primo lungometraggio documentario, Against the Taleban, di fronte agli occhi dei talebani. Il suo documentario è stato proiettato per la prima volta all’IDFA Festival ad Amsterdam e ha attirato l’attenzione del pubblico. Il documentario è stato anche presentato in diversi altri Paesi e festival internazionali. Nel 2025 è in corso la presentazione del suo nuovo lungometraggio “Shot the voice of freedom” girato nel 2021 in Afghanistan. “I miei lavori hanno ottenuto riconoscimenti e sono stati selezionati ufficialmente in oltre 170 festival cinematografici internazionali, che includono Paesi come Germania, Spagna, Messico, Irlanda, Stati Uniti, Italia, India e altri. Sono onorata di aver ricevuto il premio Best Emerging Storyteller all’Imagine This Women’s Film Festival. Inoltre, sono stata riconosciuta con premi dal Best Short Film Golden Femi Film Festival, dall’UNDP Film Festival in Afghanistan e dal Political Film Festival per la migliore regia. Il mio film, “Maryam”, ha ricevuto una menzione d’onore all’InClucine Festival, mentre il mio film, “Bicycle”, è stato riconosciuto al Copper Flower Youth Film Festival. Inoltre, il mio film, “When God Takes Your Hand” ha ricevuto una menzione d’onore allo Student World Impact Film Festival. In particolare, “Bicycle” è stato premiato come miglior film sperimentale dal Political Film Festival. Il mio film, “Maryam”, ha vinto un premio dal SamhainBaucogna International Film Festival. Il mio film “House” ha ricevuto una menzione d’onore dal Beyond Border International Film Festival” racconta Zainab. Zeinab è stata invitata dal Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli e dalla Rete del Caffè Sospeso a partecipare a un tour italiano che partendo da Salerno e Napoli (19 e 20 maggio), toccherà Firenze, Roma, Ragusa, Comiso, Trieste, Ravenna e Forlì. L’obiettivo delle iniziative della Rete del Caffè Sospeso resta quello di sostenere a distanza il lavoro e l’opera di intellettuali e dissidenti che nel proprio Paese o nel Paese che li ha accolti rischiano il carcere, la tortura o la persecuzione per avere espresso idee diverse da quelle del governo. Sarà pertanto utile stabilire, in ogni città che ospiterà Zainab, un collegamento con la regista e continuare a comunicare con lei per dimostrarle solidarietà e apprezzamento per il suo coraggio, sostenerla nella distribuzione delle sue opere o invitarla nuovamente nel nostro Paese. La presenza di Zainab in Italia offrirà anche la possibilità di conoscere il lavoro del CISDA (Coordinamento Italiano per il Sostegno alle Donne Afghane) e le attività della numerosa comunità afghana in Italia. Di seguito l’agenda del mese di maggio del viaggio in Italia di Zainab Entezar.   DATA CITTA’ ATTIVITA’ LUOGO DOMENICA 18 SALERNO Arrivo all’aeroporto di Napoli e trasf. a Salerno LUNEDI 19 SALERNO Ore 10.30 – Incontro con studenti e docenti dell’Univ. di Salerno. Proiez. corti e presentazione libro Ore 18.00 Ist. Alfano I – Incontro con la Citta’ di Salerno – Proiez. “Shot the voice of freedom” e presentazione libro Università di Fisciano (SA) Via dei Mille, 41 – Salerno MARTEDI 20 NAPOLI/FIRENZE Ore 16.00 Incontro con studenti e docenti dell’Universita’ L’Orientale di Napoli Ore 18.40 trasf. in treno Napoli-Firenze Palazzo Corigliano –Piazza san Domenico Maggiore – Napoli MERCOLEDI 21 FIRENZE In serata – Casa Internazionale Delle Donne Via delle Vecchie Carceri, 8 – Firenze GIOVEDI 22 ROMA Mattina – trasf. in treno Firenze – Roma Ore 11.00 Museo Arti e Tradizioni Piazza G. Marconi, 8 – Roma EUR VENERDI 23 ROMA Ore 17.30 – Casa Internazionale Delle Donne via della Lungara, 19-Roma SABATO 24 ROMA Ore 10.30 –  Consulta Intercultura XV Municipio – Aula Polifunzionale, Area Mercato Ore 17.30 –– Galleria Delle Arti Via Riano – Roma Via dei Sabelli, 2 – Roma DOMENICA 25 COMISO Mattina – trasf. aereo da Roma a Catania Comiso (Ragusa) LUNEDI 26 MODICA 19.00 – Ente Liceo Convitto – proiez. 2 corti e presentazione libro Via Liceo Convitto – Modica (Ragusa) MARTEDI 27 TRIESTE Trasf. aereo da Catania a Trieste Ore 18.00 – Incontro con stampa locale Ore 21.00 – Teatro Miela Bonaventura Proiez. “Shot the voice of Freedom” Piazza Luigi Amedeo, 3 -Trieste MERCOLEDI 28 TRIESTE Ore 18.30 – Spazio Anarchico Germinal – presentazione libro Via del Bosco 52/A – Trieste GIOVEDI 29 FORLI Trasf. in treno da Trieste a Forli Ore 20.45 – EXATR – Proiez. “Shot the voice of Freedom” Via Ugo Bassi, 16 – Forli VENERDI 30 FORLI/RAVENNA Ore 10.30 – Ex Asilo Santarelli – Forli Festa provinciale dell’Arci – Ravenna Ore 18.30 – Presentazione libro Ore 20.00 – Proiez. “Shot the voice of freedom” Via Caterina Sforza,45 – Forli Villanova di Bagnacavallo (RA) Sala Azzurra Redazione Italia