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Molfetta, 24 luglio: corteo per liberazione del popolo palestinese, pace e giustizia in Medio Oriente
GIOVEDÌ, 24 LUGLIO 2025 – ORE 19:00 CORSO UMBERTO, ALTEZZA GALLERIA PATRIOTI MOLFETTESI Invitiamo tutte le associazioni, i collettivi, i comitati e le realtà politicamente attive nella città di Molfetta, nonché tutti i cittadini e le persone che vivono e attraversano la città, a partecipare ad un forte momento di mobilitazione a Molfetta contro il genocidio del popolo palestinese e per la pace e la giustizia nel mondo. Come ben noto a tutti e a tutte, dal 7 ottobre 2023 sono stati uccisi dall’esercito israeliano 62.614 palestinesi nella Striscia di Gaza. La Striscia di Gaza è completamente distrutta. Numerosissimi sono le donne e i bambini palestinesi uccisi. 28 mila donne e ragazze. Lo dice UN Women, che ha calcolato come, in media, da ottobre 2023 vengano uccise da raid israeliani due donne palestinesi ogni ora. Dal 7 ottobre 2023, gli attacchi israeliani hanno ucciso almeno 16.800 bambini, secondo i funzionari palestinesi. Alcuni investigatori della Commissione d’inchiesta delle Nazioni Unite sul territorio palestinese occupato hanno affermato che la violenza sessuale e di genere da parte delle forze di sicurezza israeliane contro i palestinesi, compresi i bambini, è stata sempre più utilizzata “come metodo di guerra” dopo gli attacchi del 7 ottobre 2023 che hanno aperto le porte al genocidio a Gaza. La popolazione della Striscia non ha accesso ad aiuti umanitari bloccati dal governo israeliano, il quale ha imposto la consegna di beni di prima necessità – in quantità e modalità ritenute completamente inadeguate dalle autorità delle Nazioni Unite – attraverso una propria ONG appena costituita, la Gaza Humanitarian Foundation, sbeffeggiando ogni norma internazionale. Si continuano a segnalare spari contro i palestinesi che cercano di accedere alle scorte di cibo a Gaza, con conseguenti vittime, e il blocco del carburante in corso sta mettendo a grave rischio i servizi di sostentamento vitale. Almeno 463 operatori umanitari sono stati uccisi a Gaza dall’ottobre 2023. Il numero dei giornalisti e dei reporter morti è tra i più alti di sempre; almeno 229 giornalisti palestinesi sono deceduti a Gaza. Secondo le organizzazioni per i diritti umani e i rapporti delle Nazioni Unite, le forze israeliane hanno deliberatamente preso di mira giornalisti e istituzioni mediatiche. Oltre 400 giornalisti sono rimasti feriti, decine sono stati arrestati e gli uffici della maggior parte delle testate giornalistiche locali e internazionali che operano nella Striscia sono stati distrutti. A Gaza è in atto un genocidio ormai da oltre un anno per mano del governo israeliano mentre in Cisgiordania continuano le violenze da parte dei coloni israeliani nei confronti della popolazione autoctona palestinese con l’obiettivo di colonizzare sempre più territorio. Il governo del presidente Benjamin Netanyahu, con la sua filosofia di matrice sionista, affligge il popolo palestinese e il suo diritto all’autodeterminazione, minato fin dalla Nakba – l’esodo forzato del 1948 – che ha privato più di 700 mila palestinesi della propria terra. Nonostante l’opposizione interna di pochi cittadini israeliani che rifiutano di prendere parte alla violenza del proprio esercito, e la grande mobilitazione di ebrei in tutto il mondo per lo stop al conflitto e al progetto coloniale di Israele, il governo di destra di Netanyahu rimane al potere, impunito, blandamente criticato o supportato da molti governi occidentali, tra cui quello italiano e quello europeo. I mandati d’arresto emessi dalla Corte Penale Internazionale nei confronti di Netanyahu e dell’ex ministro della difesa Yoav Gallant non hanno interrotto, come era doveroso che accadesse, i rapporti bilaterali tra Israele e i suoi storici alleati occidentali. Numerose aziende, prime tra tutte quelle dell’industria bellica e dell’intelligence, si sono arricchite e continuano a farlo in questi mesi sulla pelle dei palestinesi. In questo Paese che tentenna a prendere una posizione seria e forte nei confronti del genocidio in atto, in questa Europa che non vive all’altezza dei propri valori costitutivi, occorre unirsi in nome della pace e della giustizia, rigettando anti-semitismo e islamofobia, facendosi portavoce di lotta contro il razzismo, il sionismo e il colonialismo. É importante che la nostra città caratterizzata da una tradizione pacifista faccia sentire forte la propria voce a sostegno del popolo palestinese e contro la violenza nei confronti delle persone inermi da parte degli eserciti e dei gruppi armati di ogni colore politico. Non è più tempo di delegare, di lasciar correre. Mala tempora currunt e i nostri silenzi verranno giudicati complici dalla storia. La Palestina è molto più di un popolo. La Palestina è anche molto più della storia aberrante di un genocidio. La Palestina parla di noi occidentali, dei nostri governi complici, delle “nostre” aziende che fanno profitti, del nostro spirito colonialista che non siamo mai a riusciti a scalfire alla radice. Ciò che succede in Palestina ci riguarda tutti. Per questo, giovedì 24 luglio 2025, scendiamo tutt* in piazza! Per dire: SÌ ALLA PACE. NO AL RIARMO. STOP AL GENOCIDIO. Ore 19:00 → Incontro a Corso Umberto, altezza Galleria Patrioti Molfettesi Camminiamo insieme fino al Calvario e al monumento dedicato a Don Tonino Bello, a ridosso della Villa Comunale. Chiudiamo il corteo con ospiti e interventi a Piazza Municipio. NON MANCARE. FREE PALESTINE. Le adesioni per la partecipazione possono essere inviate al Coordinamento Molfetta per la Palestina tramite email: molfetta.palestina.coordinamento@gmail.com COMITATO PROMOTORE Coordinamento Molfetta per la Palestina  (Le Macerie Baracche Ribelli, Fa’ – Fiera delle Autoproduzioni, Partito della Rifondazione Comunista Molfetta) Amnesty International Molfetta ANPI – Associazione Nazionale Partigiani d’Italia Associazione di Promozione Sociale “Guglielmo Minervini” Azione Cattolica C.d.a.l. – Consulta Diocesana delle Aggregazioni Laicali Camera del lavoro CGIL di Molfetta Casa per la Pace A.P.S. Centro Antiviolenza Pandora Città dell’Uomo Cobas Scuola Molfetta Comitato Difesa Verde e Territorio Conte Rosso Social Club Legambiente LO STREGATTO-MOLFETTA associazione animalista/ambientalista Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università Presidio Libera di Molfetta “Gianni Carnicella” R.A.D.I.C.I. Aps Sportello Medico Popolare Molfetta odv TESSERE – Prospettive di città OdV
Il diritto e la giustizia, internazionali
Il diritto internazionale è sempre stato una terra ambigua, non a caso s’è sempre portato dietro una discussione secolare sulla sua stessa esistenza. Predica l’eguaglianza strutturale e formale degli stati e poi ne legittima in mille modi la gerarchia tra egemoni e canaglie. Mira alla repubblica mondiale contro la sovranità […] L'articolo Il diritto e la giustizia, internazionali su Contropiano.
Oltre la vendetta e verso la riconciliazione: un’utopia possibile
Cosa significa oggi superare la vendetta e il risentimento?   Come si traduce questa speranza nei diversi campi dell’esperienza sociale, dalla giustizia all’educazione, dal diritto internazionale alla quotidianità dei rapporti sociali?   È questa forse un’utopia in movimento?   Oggi come non mai nella storia, è divenuto urgente un passo consapevole in direzione di una riconciliazione sincera. Occorre un coraggioso atto di trasformazione personale e sociale.   Nell’ambito del Simposio Internazionale del Centro Mondiale di Studi Umanista dal titolo Utopie in movimento si svolgerà il 10 maggio 2025 al Parco di Studi e Riflessione di Attigliano (Terni) una giornata interamente dedicata al tema Oltre la vendetta, con la partecipazione di Gherardo Colombo, Luciano Eusebi, Stefano Tomelleri, Marcello Bortolato, Annabella Coiro, Loredana Cici e Vito Correddu. Per partecipare in presenza iscriversi su: https://www.csusalvatorepuledda.org/iscrizionesimposio Per seguire on line su piattaforma Zoom e ricevere le password di collegamento: https://2025.worldsymposium.org/it/registration La partecipazione è gratuita La vendetta oggi Quanto è lecito oggi chiedersi sulla vendetta, quando essa risulta per molte persone superata e archiviata dalla moderna giustizia? Ha senso approfondire questo meccanismo così antico, se esso sembra quasi essere “innato” nella specie umana e quindi parte della stessa “natura” umana? È la riconciliazione profonda, personale e sociale, il cammino da percorrere oggi per uscire dalla trappola del risentimento e della violenza? Senza volerci addentrare in uno studio esteso sulle origini e sullo sviluppo storico del meccanismo psicologico e sociale della vendetta, intendiamo soffermarci in questo breve articolo soprattutto su alcuni aspetti. Per poter comprendere quanto ancora oggi la vendetta sia presente nei rapporti interpersonali, sociali e istituzionali è necessario partire dal radicato meccanismo culturale “colpevole-punizione”. Secondo la definizione di Silo del 2008, la vendetta va intesa come “la credenza profonda di vedere una soluzione nel far patire all’altro quello […] che l’altro ha fatto patire a noi stessi o ad altre persone”, ma anche “la credenza per la quale far soffrire l’altro compensa quello squilibrio cosmico che si è prodotto per l’ingiustizia che l’altro ha commesso”. Ossia, nella punizione inclusa nella vendetta, si stabilisce un’equivalenza speculare in cui la violenza subita deve essere compensata e riequilibrata da altrettanta (se non maggiore) violenza, che possa “far patire all’altro” la stessa sofferenza provocata. Paradossalmente si crede che al male sia necessario contrapporre altro male. Si crede che per porre termine alla violenza sia necessario operare altra violenza. Posto in questi termini risulta evidente che tale meccanismo punitivo più che offrire una soluzione e rendere quindi possibile il superamento della sofferenza e della violenza, non faccia altro, nella pratica, che perpetuare la catena di violenza di cui osserviamo quotidianamente gli effetti. Nella vendetta e nella punizione risiede dunque una sostanziale forma di violenza, giacché queste non sono possibili senza che si cerchi e si punisca un colpevole. È proprio nella ricerca del colpevole che risiede la possibilità di vendicarsi o di punire. Si può affermare quindi che la stessa ricerca di un colpevole, in ottica punitiva o vendicativa, sia un atto violento, seppur considerato legittimo nella mentalità comune o perfino nei sistemi giudiziari. Quando si invoca “giustizia”, quindi, cosa si sta chiedendo veramente? Si sta chiedendo proprio che il colpevole paghi il suo debito con il gruppo sociale o con l’individuo danneggiato. Il colpevole, avendo rotto le regole, gli equilibri, non ha più diritto di essere parte di quel gruppo, di quella società. Il male viene inflitto al colpevole per riequilibrare il danno che ha arrecato. Ossia una vendetta mascherata, sofisticata, ma pur sempre una vendetta. Solo dopo aver pagato, il colpevole ha diritto a essere riammesso all’interno della società, senza mai sentirsi riabilitato del tutto. Certamente il meccanismo vendicativo non attraversa solo i codici e le leggi, ma si estende ai rapporti sociali, ai rapporti personali e in sintesi all’intera cultura. È sufficiente osservare quanto tale “sentimento” sia presente in modo massiccio nella produzione cinematografica. Moltissimi film e serie TV hanno come motore principale una vendetta, privata o pubblica, dal famosissimo Kill Bill di Tarantino, a Old Boy (parte di una trilogia sulla vendetta), a Revenant, ecc. Oltre alla produzione dedicata alla vendetta individuale, nella produzione cinematografica e televisiva c’è anche quella che si svolge all’interno delle aule di tribunale. Simbolo tra tutti è il film Il momento di uccidere di Schumacher del 1996, in cui addirittura il pregiudizio razziale (l’imputato è un nero) viene superato e integrato attraverso il riconoscimento dell’atto di vendetta che l’uomo compie. Il potere, inoltre, nel corso dei secoli, ha storicamente rafforzato questa dinamica, facendo della vendetta, come gestione delle modalità punitive, una forma di controllo sociale. Le gerarchie — religiose, politiche, familiari — hanno spesso istituzionalizzato la punizione come unica via per garantire l’ordine. La giustizia si è così trasformata in un meccanismo di restituzione violenta, perpetuando un ciclo che non risolve mai veramente il dolore originario, ma lo moltiplica, lo tramanda, lo tramuta in rancore e paura. Il meccanismo vendicativo-punitivo è così pervasivo nella cultura e nelle relazioni sociali da apparire oggi quasi come “innato”, qualcosa da cui non si è possibile assolutamente prescindere e dal quale sembra, a volte, dipendere la stessa esistenza di una civiltà. Al contrario la compensazione del danno subito con altro danno non è la sola risposta possibile di fronte a un evento violento che offende o arreca un danno. Esistono molti altri modi per tentare di riequilibrare la situazione, di lenire la sofferenza o di riconciliare le parti e sono numerosi quelli che darebbero la possibilità di uscire dalla logica colpevole-punizione, in cui invece le società sembrano ancora imprigionate. Se la vendetta è una costruzione culturale, allora questa può essere smontata e sostituita.  Avere come proposito di una società umana quello di conoscere la verità è auspicabile ed entusiasmante, ma se tale processo termina nello stabilire chi sono i colpevoli e quali i nemici da combattere, allora stiamo chiudendo l’orizzonte della stessa verità che volevamo trovare. La riconciliazione non è rassegnazione. Riconciliazione, al contrario, è ribellione contro l’ingiustizia e il risentimento. Riconciliazione significa vedere coraggiosamente la verità di ciò che è accaduto e spingere lo sguardo oltre la sofferenza e la violenza. Vediamo come oggi si moltiplicano le esperienze di giustizia riparativa o trasformativa, di educazione alla nonviolenza, di pratiche sociali e politiche che scelgono il dialogo e la riconciliazione al posto della logica del colpevole. Dalla Commissione per la Verità e la Riconciliazione in Sudafrica, al lavoro delle Comunità di Pace in America Latina, dai programmi scolastici basati sull’empatia fino ai movimenti che promuovono un’etica della compassione e della cura. L’utopia di un mondo senza vendetta non solo è desiderabile, ma è già in atto. In che modo l’essere umano vincerà la sua ombra? Forse fuggendola? Forse lottando incoerentemente contro di essa? Se il motore della storia è la ribellione contro la morte, ribellati, ora, contro la frustrazione e la vendetta.» (Silo, 1981) Fulvio De Vita
La fuga dei cerberi
 I cani da guardia dei potenti fuggono terrorizzati. È bastato che la Procura iniziasse gradualmente a far camminare la macchina della giustizia perché si sentissero privati delle abituali protezioni e sicurezze e si mettessero in fuga. Stiamo parlando di alcuni dei principali attori e continuatori del colpo di Stato civile-militare del 2009 in Honduras, che hanno approfittato delle cariche che ricoprivano in quegli anni per difendere e garantire gli interessi delle élite economiche nazionali, delle multinazionali che imperversano nel Paese, nonché i propri, a spese di una popolazione sempre più povera ed emarginata. Il generale in pensione Romeo Vásquez Velásquez, ex capo dello Stato Maggiore delle Forze Armate honduregne, ora camaleonte politico, è stato accusato, insieme ad altri due ex alti ufficiali militari, dell’omicidio di Isy Obed Murillo Mencías, il primo martire della resistenza contro il colpo di Stato. Sono anche accusati del reato di lesioni personali gravi nei confronti di Alex Roberto Zavala Licona. Secondo le indagini, le azioni dei militari “sono state brutalmente sproporzionate, in quanto hanno sparato indiscriminatamente con fucili di alta potenza e armi di grosso calibro contro cittadini che stavano esercitando il loro diritto a manifestare pacificamente”. “Queste azioni che hanno provocato morti e feriti gravi”, continua la Procura, “non sono stati atti isolati, ma crimini compiuti da elementi delle forze armate” su ordine diretto di Vásquez Velásquez, del direttore delle Operazioni Speciali e del suo vice. Per la Procura dei diritti umani, “la loro negligenza e inazione hanno costituito gravi violazioni dei diritti umani, lasciando i manifestanti alla mercé di una forza militare che ha agito con violenza disumana e sproporzionata”. Complottisti in fuga Prima incarcerato, poi sottoposto a misure alternative e infine con un nuovo mandato di arresto, il generale in pensione ha deciso di fuggire con destinazione sconosciuta, per apparire poche ore dopo in un video in cui inveiva contro il governo di Xiomara Castro, accusandolo di persecuzione politica. Un triste spettacolo in cui rivendica la legittimità del colpo di Stato in nome della difesa della democrazia contro l’espansione del comunismo in Honduras. Alcuni giorni dopo, un altro volto pubblico del golpe, l’ex presidente de facto Roberto Micheletti, ha dichiarato ai media nazionali che avrebbe abbandonato il Paese di fronte al possibile inizio di un’azione giudiziaria nei suoi confronti. “C’è un piano per presentare un’accusa contro di me e per umiliarmi come hanno fatto con Romeo Vásquez Velásquez. Non ho intenzione di dare loro questo piacere”, ha dichiarato. Ci sono anche ex funzionari del governo dell’ex presidente Juan Orlando Hernández, attualmente condannato negli Stati Uniti a 45 anni di carcere per reati di narcotraffico, che sono già fuggiti, come Ricardo Cardona e Ebal Díaz o come l’ex procuratore generale Óscar Fernando Chinchilla. Altri sono latitanti o già in carcere. C’è comunque ancora tanta strada da fare prima di potere dire che in Honduras la giustizia sta trionfando e il livello di impunità per i delitti commessi nei 12 anni post golpe è ancora molto, troppo, elevato. Nessuno dei mandanti del colpo di Stato, né dei principali beneficiari dei giganteschi atti di corruzione con i quali sono stati dati in concessione territori e beni comuni e sono state saccheggiate le casse dello Stato, è attualmente in carcere o sotto processo. La giustizia non è  persecuzione Tra il 2009 e il 2021, migliaia di honduregni sono stati perseguitati, repressi, imprigionati, assassinati e fatti sparire. Altri hanno dovuto andare in esilio e molti di loro non sono ancora riusciti a tornare. “Romeo Vásquez è un criminale. È in fuga a causa di un mandato di arresto per omicidio. La sua parola non ha valore. La giustizia deve agire ora e lui deve essere arrestato il prima possibile”, ha dichiarato l’attuale ministra della Difesa e candidata alla presidenza per il partito di governo Rixi Moncada. “La giustizia non è persecuzione politica. I maestri della persecuzione politica, Micheletti e Vásquez Velásquez, autori di violazioni della Costituzione e dei diritti umani (…) vogliono apparire come vittime, quando invece sono stati i carnefici”, ha detto il ministro degli Esteri Eduardo Enrique Reina. Fonte: Rel UITA (spagnolo) Giorgio Trucchi
FOCUS ON AFRICA. Alla conoscenza degli Yorùbá
La nostra rubrica sul continente africano si occupa oggi di questo vasto gruppo etno-linguistico presente nell’Africa occidentale e soprattutto in Nigeria, tra le voci principali nella lotta per la ristrutturazione nigeriana post-coloniale di Federica Iezzi Roma, 16 aprile 2022, Nena News - Gli Yorùbá sono stati parte integrante della politica in Nigeria a partire dal 1914, dalle vicissitudini della politica delle lotte nazionaliste contro l’imposizione coloniale, alla politica di indipendenza e di costruzione della nazione, i valori tradizionali fondamentali e la visione filosofica. La giustizia per la popolazione Yorùbá è al centro della vita sociale, non importa quanto comunalista o individualista. E la famiglia rappresenta l’unità di base della vita sociale. Nella società Yorùbá tradizionale, il marito è il capofamiglia riconosciuto. In quanto tale, ci si aspetta che sia leale nei rapporti con la moglie e i figli, per non danneggiare la coesione familiare. Questo livello di giustizia è direttamente proiettato sulla comunità e sulle relazioni gerarchiche. L’errata percezione della violazione gerarchica è stata al centro di vari disordini civili nello Yorùbáland pre-coloniale. Lottare è contro natura ed essere ostacolati da altri esseri umani è un ulteriore insulto che chiama la resistenza. Gli Yorùbá esprimono apertamente e coraggiosamente la loro opposizione a ciò che percepiscono come un’imposizione ingiusta di un dominio dagli strani costumi e convenzioni che calpestano di fatto la loro tradizionale vita sociale e politica. Prima dell’incursione britannica in Africa, furono combattute numerose guerre civili tra gli Yorùbá a causa della percezione dell’ingiustizia. Ògún, il dio della giustizia Yorùbá, è venerato per il suo approccio intransigente alla sua responsabilità. Una credenza comune è che Ògún punirà chiunque infranga un voto o una promessa. L’idea è che chiunque si appropria indebitamente di qualcosa non la farà franca. Oltre alle situazioni di conflitto, gli Yorùbá fanno appello alla giustizia nella valutazione di specifiche realtà, come l’assegnazione di beni e servizi o la corruzione pubblica. L’approccio tradizionale alla giustizia punitiva è al centro dell’attenzione. I valori morali tradizionali del popolo Yorùbá presuppongono una rete di relazioni tra individui concepite per essere metafisicamente eguali. Nonostante questa uguaglianza metafisica, è giustificato l’ordine gerarchico nella vita sociale, in risposta al bisogno sociale di stabilità e protezione comune.  Una delle basi per l’allontanamento di un capo è il tradimento della fiducia dei soggetti subalterni. La giustizia preserva il bene della vita sociale attraverso un sistema di aspettative reciproche: dalla società c’è l’aspettativa che ogni individuo contribuisca con i suoi sforzi alla stabilità e al progresso del gruppo. Dall’individuo, c’è l’aspettativa che i suoi bisogni vengano soddisfatti. Nei moderni contesti politici delle relazioni interetniche e delle implicite lotte per il potere, gli Yorùbá sono stati apparentemente guidati dai tradizionali appelli alla giustizia nel contesto delle relazioni sociali e politiche. Il dominio straniero si insinuò nello Yorùbáland nel 1861 con l’annessione di Lagos, che, un anno dopo, divenne una colonia formale della Gran Bretagna. Fu solo nel Nigerian Youth Movement (NYM) che il fascino yorùbá per la giustizia incontrò per la prima volta il Consiglio Legislativo nigeriano. Alle porte dell’indipendenza, la Nigeria era una federazione di tre regioni: nord, ovest ed est, ciascuna con una nazionalità etnica maggioritaria e una miriade di nazionalità minoritarie le cui culture e lingue erano a grave rischio di estinzione. Il nord era a maggioranza fulani. L’occidente aveva gli Yorùbá e l’oriente aveva gli Igbo. Era chiaro che, per una questione di equità e giustizia, se il Paese non sostituiva il colonialismo esterno con il colonialismo interno, il posto delle minoranze etniche nella democrazia nigeriana veniva perduto. Da un’onesta osservazione della politica della Nigeria dall’era coloniale è chiaro come l’acuto senso di giustizia che ha spinto gli Yorùbá a lottare contro l’imposizione coloniale, contro un traballante sistema federale, difendendo i diritti delle minoranze in tutto il Paese, ha invocato un vero sistema democratico. Che gli Yorùbá siano stati le voci principali nella lotta per la ristrutturazione nigeriana post-coloniale, è indubbio. È coerente con la loro avversione all’ingiustizia sociale e con la promozione dell’unità, evitando la marginalizzazione culturale ed economica. Nena News