
Cybertech 2025: la fiera delle vanità e il genocidio in Palestina
Pressenza - Tuesday, October 28, 2025Abbiamo intervistato Roberto Pozzi, vice-presidente dell’area sud-Europa dell’israeliana Check Point Software Technologies Ltd., quarta per performance tra le 106 aziende israeliane quotate nei mercati finanziari USA. La Check Point, impegnata sempre più anche sul versante della ricerca e sviluppo dei sistemi di Intelligenza Artificiale, è tra le numerose aziende informatiche collaboratrici dirette o indirette del governo d’Israele e del suo esercito e presenti a Roma il 21 e 22 ottobre alla fiera Cybertech Europe, fondata e promossa da Leonardo S.p.A. a sua volta colosso europeo e mondiale nella produzione di armi, partecipata al 30% dallo Stato Italiano.

Check Point Technologies Ltd. vende prodotti per la sicurezza informatica in rete in tutto il mondo, (anche, ovviamente) a istituzioni pubbliche “benefiche” come il National Health Service del Regno Unito; tuttavia, la terza più grande compagnia israeliana di I.T., come del resto la maggior parte delle industrie in quel Paese, è strettamente intrecciata anche con gli apparati militari e di sicurezza, oltre che con importanti centri di ricerca universitari locali ed esteri, dato il tacito patto di ferro, dal ’48 ad oggi, tra industria, ricerca e apparati militari. Molti dei top-manager di Check Point, infatti, come Nadav Zafrir, nominato a fine 2024 alla carica di amministratore delegato, hanno militato nella cyber-intelligence dell’esercito israeliano prima di iniziare la carriera nel settore privato.
Il Comando Cibernetico delle Forze di Difesa Israeliane fondato, appunto, da Zafrir e il comando dell’Unità d’élite 8200, dove lo stesso ha poi prestato servizio fino al grado di Generale di Brigata, a sua volta triangola con alcune delle più grandi aziende di armi israeliane, tra cui il produttore di droni Israel Aerospace Industries (IAI). Questo comando, peraltro, a dispetto, del nome che include, come nell’acronimo IDF (Israel Defence Forces) adottato a partire dal 1998 in funzione di “war-washing”, il concetto di “difesa”, agisce strutturalmente e parallelamente, accanto a quello di “offesa” in quanto: “al fine di assicurare il suo successo, la dottrina delle IDF a livello strategico è difensiva, mentre le sue tattiche sono offensive. Inoltre, data la mancanza di profondità territoriale del Paese, le IDF devono prendere l’iniziativa quando la cosa è ritenuta necessaria e, se attaccato, trasferire rapidamente il campo di battaglia sul territorio del nemico”.
Quest’ultima descrizione sembrerebbe tratta da un manuale di scuola di guerra israeliano e invece si scopre che è di uso comune, tanto che la si può leggere anche sul sito italiano, Italia Kosher, che si occupa di tutt’altro, ovvero di pubblicizzare la produzione vitivinicola israeliana in Italia. Ignaro di tutto ciò, il concetto di “difesa” è stato ribadito più volte proprio dall’alto dirigente della Check Point, il quale, dopo un primo tentennamento al solo sentire citare, all’interno della domanda che chiedeva conto di questi legami opachi, i termini genocidio e apartheid, decide di puntare verso i concetti più neutrali ed edulcorati, appunto, di “difesa/protezione dei dati”, svincolandosi dallo spinoso tema militare o del semprevivo concetto di “dual-use”.
“Siamo un’azienda globale” esordisce Pozzi “con, è vero, una sede anche in Israele (in realtà qui è nata e qui ha il suo quartier generale n.d.r.) e abbiamo un obiettivo unico, quello di difendere le aziende dagli attacchi informatici. Tutto ciò che è al di fuori di questo contesto mi è difficile contestualizzarlo o commentarlo. Non abbiamo nessuna velleità di passare sul lato opposto, verso un ruolo offensivo. Le persone che fanno questo lavoro in Israele lo fanno con la coscienza che il primo obiettivo è quello della difesa delle aziende”.
Cercando quindi di riportare il discorso sui legami tra la Check Point e l’apparato bellico-industriale, Pozzi prosegue così: “Sono italiano e quindi sono lontano da questi contesti. Posso assicurarle che a) in azienda non parliamo mai di contesti bellici b) il nostro focus è solo la difesa e la protezione dei dati aziendali. Poi certamente in questo contesto generale c’è un ambito bellico che si svolge in superficie, la guerra tradizionale e una guerra che si fronteggia invece con la protezione informatica”.
Insistendo, invece, sui sistemi di riconoscimento facciale con i quali grazie all’uso dell’A.I. “è possibile identificare una vasta gamma di comportamenti anomali, inclusi risse, cadute, mani alzate e la presenza di oggetti in mano” (descrizione presente proprio nel sito web di Check Point n.d.r.) oppure le profilazioni dei target militari, l’uso bellico dei data base e il loro supporto all’apparato bellico che proprio grazie all’AI possono colpire persone specifiche, Pozzi afferma: “lo posso smentire categoricamente, ma non ho altri elementi per giudicare questo contesto. Certamente attraverso la nostra struttura passa una grossa mole di dati, questo non posso nasconderlo, ma che poi noi li passiamo ad altri che hanno intenti bellicosi lo escludo a priori. L’esercito israeliano è un cliente come ce ne sono tanti in giro per il mondo. Ma, mi creda, Israele ha sempre dimostrato in tutti questi anni di essere sempre sul lato della difesa”.
L’intervista è durata poco più di quattro minuti e avremmo voluto ricordare più nel dettaglio il ruolo dell’attuale “capo” di Roberto Pozzi, per esempio proprio nell’Unità di Elite 8200 che a partire dalle clamorose operazioni militari del 2010 è arrivato ad un punto di avanzamento tecnologico tale da riuscire, tramite il software Stuxnet, a infliggere a diversi obiettivi dei danni anche fisici e materiali. Quindi ben al di là del “semplice” danno informatico, come è stato dimostrato nell’attacco rivolto ai sistemi di arricchimento dell’uranio su suolo iraniano a migliaia di chilometri di distanza. Sempre volendo spostare la foglia di fico del concetto di “difesa”, il sistema di attacco cibernetico israeliano è passato di recente dagli attacchi mirati a quelli “sistemici” su infrastrutture civili come ad esempio quello del 2021, rivolto addirittura contro 4.300 stazioni di servizio in Iran, messe fuori uso nell’elaborazione dei pagamenti: ciò dimostra ancora una volta le potenzialità e noi diremmo l’intenzionalità offensiva israeliana, in grado di avere conseguenze dirette non solo sulle infrastrutture, ma anche sui servizi ai cittadini, agli utenti finali.
Come altre parti del settore hi-tech israeliano, inoltre, come tutte quelle aziende che realizzano un profitto dall’industria dei droni di Israele, la Check Point trae profitto da quel tragico “incubatore” fornitogli da 80 anni di repressione dei palestinesi da parte dello Stato sionista. Le forze di sicurezza che hanno addestrato i direttori e amministratori delegati di Check Point sono complici della prigionia di massa e dell’assassinio di coloro che resistono alla colonizzazione e a un sistema di controllo sempre più sofisticato, che le aziende del settore non esitano, anche pubblicamente in occasione di fiere del settore per addetti ai lavori con un folto pelo sullo stomaco, a presentare come “testate sul campo”.
Attraverso il Checkpoint Institute for Information Security (CIIS) di Tel Aviv, l’azienda, anche attraverso un nuovo edificio per la facoltà, sostiene la ricerca sulla sicurezza informatica, dà spunti agli studenti laureati, fornisce borse di ricerca post-dottorato, organizza workshop e fondi per progetti di ricerca: questo è solo uno dei tanti esempi di porte girevoli per i quadri e dirigenti dell’esercito israeliano, per gli studenti e i docenti e di una commistione sistemica tra industria militare, ricerca e università. Proprio per questo motivo il movimento palestinese BDS ha chiesto il boicottaggio dell’Università di Tel Aviv affermando che: “Per decenni, le università israeliane hanno svolto un ruolo chiave nella pianificazione, nell’attuazione e nella giustificazione delle politiche di occupazione e apartheid di Israele, mantenendo un rapporto particolarmente stretto con l’esercito israeliano”.
L’Università di Tel Aviv ha inoltre sviluppato decine di sistemi d’arma, ma tornando sempre al concetto di “difesa” affermato con assoluta certezza da Roberto Pozzi della Check Point, l’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale (INSS) dell’università di Tel Aviv, si vanta di aver sviluppato la “dottrina Dahiya” (Torat Dahiya) che sostiene l’uso della forza “sproporzionata” da parte dell’esercito israeliano contro i civili palestinesi e libanesi. Oltre a cancellare le prove del genocidio, o meglio ritardando l’individuazione sul campo delle prove che lo dimostrino, la distruzione totale tramite i bulldozer militari delle infrastrutture abitative e logistiche a Gaza e in modo puntiforme anche in Cisgiordania, rivela plasticamente i presupposti di questo approccio militare, che spiega anche il motivo di tanta crudeltà disumana: per prevenire e scoraggiare attacchi futuri, Israele deve rispondere con una forza definita appunto sproporzionata, colpendo non solo i combattenti nemici, ma anche le infrastrutture civili che sostengono il nemico (logistica, comunicazioni, energia, quartieri di appoggio, ecc.). Il nome, infatti, deriva dal quartiere Dahiya di Beirut Sud, roccaforte di Hezbollah, che fu completamente distrutto dall’aviazione israeliana durante la guerra del Libano del 2006.
In sintesi questa teoria, peraltro funzionale al progetto della “Grande Israele”, prevede:
1. Deterrenza attraverso la devastazione: l’idea è che la distruzione massiccia crea una “memoria del dolore” nel nemico, rendendolo riluttante a ripetere l’aggressione.
2. Sproporzionalità deliberata: l’obiettivo non è solo neutralizzare la minaccia immediata, ma cambiare la logica del conflitto rendendo un futuro attacco inaccettabile per il nemico.
3. Colpire infrastrutture civili strategiche: perché nelle guerre moderne i confini tra civili e combattenti sono spesso sfumati (specialmente con milizie come Hezbollah o Hamas che operano da aree civili).
4. Risposta immediata e schiacciante: nessuna escalation graduale, si passa subito a un livello di forza superiore, per chiudere il conflitto rapidamente.
Sperimentata nel 2006 in Libano, la Dottrina Dahyia è stata poi applicata anche nell’operazione “Piombo Fuso” (2008-2009) ed è tuttora in uso a Gaza da ben due anni. Qui azioni distruttive si sono accompagnate ad azioni mirate, contro per esempio chi poteva raccontare sul terreno queste atrocità: parliamo dei circa 270 giornalisti uccisi proprio grazie alle applicazioni militari dell’A.I. che hanno guidato i droni perfino all’interno degli edifici, percorrendo scale e attraversando corridoi per colpire chirurgicamente o con “effetti collaterali” che Israele ha sempre definito come inevitabili o, comunque, accettabili.
Al Cybertech svoltosi a Roma parecchie centinaia di operatori del settore giravano senza sosta, spostandosi da una chiacchiera all’altra e da uno stand all’altro e facendo incetta dei soliti gadget da portare a casa a mogli e figli. E’ stato difficile scorgere nei loro volti auto-compiacenti e sorridenti, dietro le loro divise da manager alla moda, il profilo del “collaborazionista”, ma se questa fiera delle vanità ha in qualche modo rappresentato anche la banalità del male, quella che può nascondersi dietro una tastiera che fa sgorgare del sangue a distanza telematica, allora si può dire che l’impresa è riuscita. Fuori dalla nuvola di Fuksas, il panorama da day-after dell’immensa zona rossa imposta dalla Questura di Roma, dal laghetto dell’EUR fino all’obelisco e dintorni, testimoniava invece la bellezza di un mondo reale messo in pericolo dai costruttori del mondo virtuale.