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Riflessioni, interrogativi, dubbi dopo il Festival Alta Felicità
La “convergenze” degli incontri e delle riflessioni dimostrano la capacità, la volontà, la testardaggine di chi vuole ancora spendersi per un mondo più giusto, per abbattere le diseguaglianze, per smettere di riarmarsi, per lottare contro le gradi devastazioni e rimettere la persona umana e la difesa del Creato al centro del dibattito pubblico e delle scelte politiche. Dobbiamo continuare a far finta di niente, a girare la testa dall’altra parte, a lasciare che scelte scellerate continuino a rovinare la vita delle persone e siano solamente occasioni di speculazioni finanziarie? Tra gli spunti di riflessione presentati al Festival Alta Felicità, mi pare importante dare risalto al primo appuntamento che ha aperto il Festival venerdi 25 luglio alle ore 10.00 con la presentazione del libro “Sotto il cielo di Gaza” di Don Nandino Capovilla e di Betta Tusset e con Enzo Infantino. Don Nandino è parroco di Marghera, Venezia, da anni impegnato in progetti di inclusione sociale per migranti e senza fissa dimora. Ha ricoperto il ruolo di coordinatore nazionale di Pax Christi Italia dal 2009 al 2013, ed è particolarmente noto per la campagna “ponti e non muri” sulla questione israelo‑palestinese. Betta Tusset, veneziana, consigliera nazionale di Pax Christi Italia, laureata in lettere moderne, è attiva nel mondo del volontariato sociale; dal 2018 al 2020 ha coordinato nella sua città un progetto di inclusione sociale, abitativa e lavorativa per persone migranti in situazioni di vulnerabilità. Enzo Infantino, cooperante calabrese e attivista per i diritti umani, è impegnato da oltre vent’anni nelle missioni di solidarietà e riflessione sui conflitti contemporanei. Originario di Palmi, in Calabria, ha lavorato in contesti difficili come i campi profughi in Grecia, Siria, Libano, Cisgiordania e Gaza. Enzo è stato protagonista di numerose missioni nei campi profughi di Grecia e Medio Oriente, compresi i campi di Idomeni, in Grecia al confine con la Macedonia, dove per mesi sono rimasti bloccati oltre sedicimila esseri umani. Il libro “Sotto il cielo di Gaza”, pubblicato l’11 marzo 2025 da Edizioni La Meridiana, è un libro-inchiesta realizzato attraverso una serie di conversazioni con Andrea De Domenico, funzionario dell’OCHA, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il Coordinamento degli Affari Umanitari, attivo nei territori palestinesi occupati e si presenta come “raccoglitore di storie, testimonianze e dati”, descrivendo il dramma vissuto quotidianamente a Gaza per il genocidio in corso: perdita della casa, della terra, della libertà di movimento, di pane, acqua, salute, istruzione con statistiche aggiornate all’inizio del 2025,  che riportano numeri drammatici: decine di migliaia di morti, la maggioranza donne e bambini, infrastrutture distrutte, tra cui scuole, case, strutture sanitarie; emergenza alimentare e malnutrizione diffusa tra la popolazione di Gaza. Il libro denuncia quella che Don Nandino definisce il genocidio del popolo palestinese come criminale e mette al centro la responsabilità internazionale di ridurre il massacro di civili inermi a soli dati numerici, dimenticandosi dei “volti e dei nomi” di ogni vittima, a cui è negata da decenni di occupazione militare ogni diritto. “Sotto il cielo di Gaza” è anche un libro di preghiera e di supplica, quelle che a partire dai testi biblici ha scritto Michel Sabbah, patriarca emerito di Gerusalemme, chiedendo al Signore di “fermare la morte e la guerra e di convertire all’umanità quelli che hanno piani di morte nei loro cuori”. L’incontro con Don Nandino, Betta ed Enzo ha rappresentato delle voci autentiche, radicate nei propri contesti di vita ma rivolte al mondo, dove ogni gesto quotidiano può essere seme di cambiamento e resistenza. Gli interrogativi nascono dagli altri dibattiti ed eventi culturali: il Festival ha presentato un’ampia proposta di incontri, presentazioni e confronti, dal tema dell’Intelligenza Artificiale alla precarietà e al lavoro in “zone di sacrificio” (Ilva Taranto e  GKN di Campi Bisenzio); dal dibattito “Liberi tuttu: rappresentazione, cura e diritti” su disabilità, autodeterminazione e resistenza, al focus su nucleare, agrivoltaico, riarmo, riconversione ambientale; dall’assemblea “Guerra alla guerra” contro riarmo europeo e genocidio in Palestina al dialogo tra Patrick Zaki e Ilaria Salis su democrazia, repressione e diritti. A tutte queste occasioni – alle quali si sono affiancate altre presentazioni di libri nell’area autogestita –  la partecipazione è stata massiccia con tantissimi giovani interessati ad approfondire i vari temi toccati, dimostrandosi giustamente preoccupati per il futuro loro e del pianeta. La “convergenze” degli incontri che, per chi vuole, sono tutti disponibili sul sito del festival , dimostrano la capacità, la volontà, la testardaggine di chi vuole ancora spendersi per un mondo più giusto, per abbattere le diseguaglianze, per smettere di riarmarsi, per lottare contro le gradi devastazioni e rimettere la persona umana e la difesa del Creato al centro del dibattito pubblico e delle scelte politiche. Dobbiamo continuare a far finta di niente, a girare la testa dall’altra parte, a lasciare che scelte scellerate continuino a rovinare la vita delle persone e siano solamente occasioni di speculazioni finanziarie? Così arriviamo ai dubbi: davvero l’incendio di alcune sterpaglie e di alcuni manufatti sono solo segno di violenza? Non possono essere considerati sabotaggi? Qualcuno ha scritto che in questo modo si passa dalla parte del torto, che così non si è ascoltati, che non si riesce a dialogare… Sono 30 anni che si cerca il dialogo nel merito dell’opera, non degli slogan, sono 30 anni che si prova in tutti i modi ad avere degli incontri con i tecnici di LTF prima e Telt adesso, non vi è MAI stata data un’occasione che sia una di confrontarsi. Ricordo solo due occasioni: “Ascoltateci” digiuno a staffetta nel 2012 in Piazza Castello a Torino e in Valle, che non ha prodotto alcun risultato; un incontro pubblico in una parrocchia a Torino presente Virano, all’epoca presidente dell’Osservatorio sul TAV, e quando abbiamo fatto alcune domande precise e puntuali, siamo stati gentilmente accompagnati fuori con la motivazione che quello non era né il luogo né il momento: eravamo solo in 2 mio marito ed io. E potrei andare avanti ancora a lungo con tanti e tanti esempi di come la voluta mancanza di confronto sia sempre stata da parte dei proponenti l’opera. Le nostre argomentazioni non sono mai state considerate, saliamo agli onori della cronaca solo quando avvengono fatti “violenti” come quelli di sabato a margine della manifestazione ma nessuno ha dato risalto al comunicato di Amnesty International: > ”La manifestazione del 26 luglio in Val di Susa, organizzata a margine del > festival dell’Alta Felicità dal movimento “No Tav”, è stata caratterizzata da > fasi del tutto pacifiche e da momenti di tensione. Gli osservatori di Amnesty > International Italia erano presenti alla manifestazione e hanno potuto > monitorare due delle azioni realizzate dal gruppo di manifestanti, presso il > cantiere di San Didero e Traduerivi. Nella zona da loro monitorata a San > Didero, gli osservatori hanno documentato un uso sproporzionato e > indiscriminato di gas lacrimogeni da parte delle forze di polizia: tra i 180 e > i 200 in poco più di un’ora contro circa 500 manifestanti, in risposta al > lancio di oggetti. Le forze di polizia hanno utilizzato i gas lacrimogeni > anche contro persone che si stavano allontanando e che non rappresentavano > alcuna minaccia per l’incolumità altrui. In diversi casi, anziché essere > diretti verso l’alto, le granate contenenti gas lacrimogeni sono state > lanciate ad altezza persona: ne è stato testimone diretto anche uno degli > osservatori di Amnesty International Italia, che nonostante indossasse la > pettorina, è stato colpito sulla schiena. Sono state ferite altre due persone, > rispettivamente alla nuca e alla fronte.  Come già emerso in precedenti > osservazioni in Val di Susa, anche quest’anno le forze di polizia hanno dunque > fatto un uso dei gas lacrimogeni non rispettoso degli standard internazionali > sui diritti umani. Amnesty International Italia ricorda che, secondo i > medesimi standard, una protesta pacifica, seppur attraversata da circoscritti > atti di violenza, resta pacifica e le forze di polizia devono garantire che > possa proseguire, tutelando le persone che vi stanno partecipando; la forza > dovrebbe essere utilizzata come ultima risorsa, solamente laddove non esistano > altri mezzi per raggiungere obiettivi legittimi e solo quando sia necessaria e > proporzionata alla situazione.” Da oltre trent’anni le ragioni di critica e di opposizione sono sempre le stesse: la Torino-Lione è inutile, è costosissima, è devastante per l’ambiente, è un’opera vecchia, superata dai tempi e dalla storia, la cantierizzazione produrrà polveri sottili e movimenterà sostanze potenzialmente inquinanti e insalubri. Soprattutto è certificata la sottrazione di enormi quantità di acqua dalla montagna ed all’ambiente naturale, spreco dimostrato fin dal 2008 dalle decine di litri al secondo drenate ogni giorno dalle gallerie di servizio già realizzate. Cosa altro dobbiamo inventarci per far comprendere queste ingiustizie trasportistiche, economiche, climatiche, ambientali e sociali e far sì che l’enorme inutile investimento economico sia dirottato verso settori più necessari, a partire dalla messa in sicurezza dei territori? Centro Sereno Regis
Conflitti globali e guerre in corso, un video
Il mondo sta affrontando un numero di conflitti che è il più alto dalla Seconda Guerra Mondiale, con 56 conflitti attivi che coinvolgono 92 Paesi. Solo nel 2024 si contano più di 233mila vittime e oltre 100 milioni di persone costrette a fuggire dalle proprie case. A commentare in studio il tema caldo del momento Jeff Hoffman de “La Casa del Sole TV”, la giornalista Margherita Furlan, Angelo d’Orsi, già ordinario di Storia delle Dottrine Politiche all’Università di Torino e Antonio Mazzeo, giornalista, docente e attivista dell’Osservatorio, reduce dall’espulsione ad opera del governo israeliano per avere cercato di portare aiuti umanitari a Gaza a bordo della nave Handala di Freedom Flotilla. Qui il video della trasmissione  SCACCO MATTO 01.08.2025 – Il mondo in guerra –  Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Guerra alla guerra: dal Festival dell’Alta Felicità in Val Susa il più deciso NO al riarmo e al Genocidio in Palestina
Tra i momenti più importanti all’interno del programma del Festival dell’Alta Felicità che si è concluso pochi giorni fa a Venaus, merita senz’altro una menzione speciale l’assemblea in tema di Guerra alla Guerra, Stop Riarmo, Stop Genocidio, bella e partecipata sotto il tendone-dibattiti di domenica 27 luglio. Guerra alla Guerra  sarebbe in realtà il titolo di un libro che un certo Ernest Friedrich – cittadino prussiano, anarco-pacifista, reduce da un buon numero di anni di prigione per essersi rifiutato di partecipare alla 1ma Guerra Mondiale – decise di pubblicare un centinaio di anni fa per documentare quegli orrori che lui era riuscito a schivare, ma non la maggior parte dei suoi coetanei: i corpi trucidati in trincea senza possibilità di soccorso, le amputazioni, la sofferenza inflitta alle popolazioni, impressionante raccolta di 180 immagini rintracciate in vari archivi militari, che rilegò e pubblicò a sue spese con il titolo appunto Krieg del Kriegel (Guerra alla Guerra),  Riferimento e titolo quanto mai perfetto, dunque, per questa assemblea che era stata per tempo convocata tra il maggior numero di realtà territoriali, in forma di appello “per tutt* coloro che sentono la necessità di sviluppare un percorso il più possibile largo e partecipato contro la guerra, contro il riarmo dell’Europa e per dire NO al genocidio in Palestina; tutt* coloro che già si mobilitano e vogliono condividere i loro percorsi, mettersi in dialogo e convergere, per curvare un destino che sembra ormai ineluttabile (…) confidando nella capacità di far confluire e moltiplicare le occasioni che si potranno aprire nell’accelerazione degli eventi.” Assemblea che si è aperta con il messaggio di solidarietà all’equipaggio della nave Handale della Freedom Flotilla, che solo la notte prima era stata arrestata dall’esercito israeliano, e con gli applausi per la liberazione dell’attivista libanese George Ibrahim Abdullah, dopo una detenzione di 40 anni nelle carceri francesi. Il microfono è passato poi a Nicoletta Dosio che rievocando alcuni momenti cruciali nella storia del Movimento Notav, ha sottolineato il valore della solidarietà e della resistenza “soprattutto nei momenti di sconforto: voglio qui esprimere la gioia di vedere tanti volti giovani, in questo luogo, la piana di Venaus, che è stato il teatro di quell’epica vittoria per il nostro Movimento all’interno di una lotta che all’inizio sembrava impossibile. Un percorso che, a partire dalla fine degli anni ’80, è stato lungo ma è stato soprattutto di crescita collettiva, mentre la guerra ci arrivava in casa, letteralmente. Con i militari reduci dalle guerre in Afghanistan, con i loro strumenti di morte, con i primi Lince che abbiamo visto in Clarea, le zone rosse a interdire il passaggio in territori che erano nostri. E questa è la grande lezione del Movimento No Tav: il territorio è una prima cellula di una realtà che si allarga, che abbraccia tanti problemi. Lo abbiamo detto tante volte. La nostra non è solo una lotta contro un treno, ma l’opposizione a tutto un sistema, che è lo stesso che vuole le guerre. E quindi l’unica possibile risposta a questa aggressione è la ricomposizione delle lotte: mettere insieme i temi del lavoro con le proteste per la casa, nelle università, nelle piazze, contro le solitudini. La lotta contro il Tav è andata avanti per tutti questi anni anche perché è stata una risposta alla sensazione di impotenza, se non di sconfitta, a quella ‘pigrizia del cuore’ che ci fa prende, a volte. (…) E noi dobbiamo imparare a resistere attingendo anche agli esempi del passato, non solo alla lotta partigiana, ma alla storia di continui scioperi dei ferrovieri, delle Officine Moncenisio che ebbe luogo non lontano da qui, nel comune di Condove, come rifiuto di tutti i lavoratori compati nei confronti di una produzione mortifera. La nostra è una Guerra alla Guerra perché come ben sappiamo quel treno è stato progettato come vettore di morte, lungo uno dei tanti corridoi militari che sono stati previsti da chi ci governa, precorrendo i tempi…” Dopo di lei è stata la volta di Marta Collot (Potere al Popolo) che ha ribadito la necessità di andare oiltre il No Rearm Europe: “dobbiamo dire con chiarezza che siamo contrari a qualsiasi progetto di riarmo europeo che ci venga proposto all’insegna della sicurezza, e la lotta alla NATO dovrà essere un elemento centrale della nostra opposizione alla guerra, non solo per la richiesta di aumento delle spese militari, che comporteranno un massacro sociale, ma perché le basi militari nei nostri territori rappresentano già un problema enorme per la sicurezza di tutti noi!”. Dal Movimento No Base di Pisa, da anni in lotta contro l’ennesima base militare, è arrivata una chiara consapevolezza circa l’irreversibilità del progetto “non perché debba considerarsi battaglia persa, ma perché qualunque sia l’opposizione la macchina sta andando avanti, ingenti investimenti sono stati fatti nella crescente cooptazione delle istituzioni comprese scuole e università, in un clima di segretezza che conferma quello che non è uno slogan ma una realtà: le guerre non scoppiano, piuttosto si preparano“. E tuttavia, anche in questo clima di crescente militarizzazione, ecco palesarsi delle opportunità: di reagire, organizzarci, darci degli obiettivi, mobilitarci insieme, nella sempre più capillare conoscenza delle problematiche che caratterizzano i nostri territori e dell’urgenza di costruire alleanze in grado di incidere. Per esempio recentemente abbiamo scoperto un accordo quadro da un miliardo di euro per la realizzazione di 29 infrastrutture militari !!! tra cui la nostra, oltre che in Piemonte, Puglia, Emilia Romagna, nei pressi di Bolzano… su questa traccia intendiamo lavorare, a più mani e a più voci.” Tantissimi gli interventi da parte delle realtà presenti, che per esigenze di spazio ci limiteremo ad elencare. Da Roma è intervenuto Quarticciolo Ribelle che ha ribadito l’importanza di dare voce alla società civile, intesa come realtà di collettivi e movimenti. Tra le realtà che in Italia si sono maggiormente impegnati per la Palestina, sono intervenuti i Giovani Palestinesi, Intifada studentesca, Udap. Per il movimento dei lavoratori portuali che concretamente si oppongono al transito di armi sono intervenuti i GAP di Livorno e i CALP di Genova. E poi le realtà transfemministe di Non Una di Meno, oltre a Extinction Rebellion, il Movimento Disoccupati 7 novembre  da Bagnoli e da Vincenza il movimento Notav e vari centri sociali dal Nord Est d’Italia. Della campagna Stop ReARM ha parlato la portavoce di Arci Nazionale che ha ribadito la necessità di una mobilitazione europea: Stop Rearm Europe! E poi ancora la Rete No DL Sicurezza che ha ricordato l’appuntamento del 21 settembre; Reset; gli operi della Tubiflex e di USB; i Movimenti di lotta per la casa di Roma, Militant… Una lunga, densa, ottimamente condotta e davvero importante assemblea che, ha posto le basi per un percorso collettivo che punti alla ricomposizione delle differenze e alla costruzione di un’unità il più possibile ampia e incisiva, con obiettivi condivisi, e in una prospettiva di lungo periodo. E “senz’altro tutti in convergenza” come ha concluso Dario Salvetti della GKN di Firenze, riprendendo il loro storico slogan. Prossimo appuntamento di mobilitazione nazionale: 8 novembre a Roma- E sarà un’ennesima data tra le tante già annunciate di questo molto prossimo autunno che, tra l’Altra Cernobbio (5-6 settembre), la Università Estiva di Attac (12-14 settembre) e vari altri appuntamenti andando verso la Marcia Perugia-Assisi (12 ottobre) si preannuncia bello caldo davvero. Centro Sereno Regis
Gaza: i bisogni sono enormi dopo 22 mesi di guerra e due mesi di blocco degli aiuti
Dichiarazione di Ted Chaiban, Vicedirettore generale UNICEF 2 agosto 2025 – “…Sono appena tornato da una missione di cinque giorni in Israele, Gaza e Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. I segni della profonda sofferenza e della fame erano visibili sui volti delle famiglie e dei bambini. Dall’inizio della guerra, a Gaza sono stati uccisi oltre 18.000 bambini. Si tratta di una media di 28 bambini al giorno, l’equivalente di una classe scolastica, che non ci sono più. I bambini hanno perso i loro cari, sono affamati e spaventati e traumatizzati. Gaza ora rischia seriamente la carestia. Si tratta di una situazione che si è andata aggravando, ma ora abbiamo due indicatori che hanno superato la soglia della carestia. Una persona su tre a Gaza passa giorni senza cibo e l’indicatore di malnutrizione ha superato la soglia della carestia, con la malnutrizione acuta che ora supera il 16,5% [nella città di Gaza]. Oggi, oltre 320.000 bambini piccoli sono a rischio di malnutrizione acuta. A Gaza ho incontrato le famiglie dei 10 bambini uccisi e dei 19 feriti da un attacco aereo israeliano mentre erano in fila con i loro genitori per ricevere cibo presso una clinica nutrizionale a Deir el-Balah sostenuta dall’UNICEF. Abbiamo incontrato Ahmed, che ha 10 anni, e suo padre. Quel giorno Ahmed era in fila con sua sorella Samah, di 13 anni. Lei è morta. Ho visto una foto in cui lui agitava furiosamente le braccia per fermare un carro trainato da un asino nel tentativo di salvarla e portarla in ospedale, ma non ci è riuscito. È profondamente traumatizzato e non sa cosa fare. Questo semplicemente non dovrebbe accadere. I bambini che ho incontrato non sono vittime di una catastrofe naturale. Sono affamati, bombardati e sfollati. In un centro di stabilizzazione nella città di Gaza ho incontrato bambini gravemente malnutriti, ridotti pelle e ossa. Le loro madri erano sedute lì vicino, disperate ed esauste. Una madre mi ha detto che non produce più latte materno perché lei stessa è troppo affamata. L’UNICEF sta facendo tutto il possibile per affrontare la situazione: sostiene l’allattamento al seno, fornisce latte artificiale e cura i bambini affetti da malnutrizione acuta grave. Ma i bisogni sono enormi dopo 22 mesi di guerra e due mesi di blocco, che ora è stato allentato ma continua ad avere un impatto, e gli aiuti non stanno arrivando abbastanza velocemente o nella misura necessaria. In mezzo a tutto questo, il nostro personale a Gaza, la maggior parte del quale ha subito perdite personali devastanti, continua a lavorare giorno e notte. L’UNICEF sta fornendo acqua potabile: 2,4 milioni di litri al giorno nella parte settentrionale di Gaza, raggiungendo 600.000 bambini. Si tratta di una media di 5-6 litri di acqua al giorno a persona – meglio di prima, ma ancora ben al di sotto della soglia di sopravvivenza. Abbiamo ricostruito la catena del freddo per i vaccini e continuiamo a vaccinare i bambini. Stiamo fornendo assistenza psicosociale ai bambini che sono stati terrorizzati da ciò che hanno vissuto. Stiamo salvando la vita ai neonati, aiutando a riunire le famiglie separate, sia all’interno della Striscia che, in alcuni casi, a livello internazionale, e fornendo latte artificiale ai bambini più vulnerabili, ma c’è ancora molto da fare. Dopo la tregua annunciata da Israele, l’accesso umanitario è stato in parte facilitato. Abbiamo oltre 1.500 camion carichi di forniture di prima necessità pronti nei corridoi tra Egitto, Giordania, Ashdod e Turchia. Alcuni hanno iniziato a muoversi e negli ultimi due giorni abbiamo consegnato 33 camion di latte in polvere salvavita, biscotti ad alto contenuto energetico e kit igienici. Ma questa è solo una minima parte di ciò che serve; quindi, gran parte della nostra missione è stata dedicata alla sensibilizzazione e al dialogo con le autorità israeliane a Gerusalemme e Tel Aviv. Abbiamo insistito affinché venissero riviste le loro regole militari di ingaggio per proteggere i civili e i bambini. I bambini non dovrebbero essere uccisi mentre aspettano in fila in un centro nutrizionale o mentre raccolgono l’acqua, e le persone non dovrebbero essere così disperate da dover assalire un convoglio. Abbiamo chiesto un aumento degli aiuti umanitari e del traffico commerciale – avvicinandoci a 500 camion al giorno – per stabilizzare la situazione e ridurre la disperazione della popolazione, nonché i saccheggi e quella che chiamiamo auto distribuzione, quando la popolazione insegue un convoglio, e anche i saccheggi, quando i gruppi armati lo inseguono perché il prezzo del cibo è così alto. Per affrontare questo problema, dobbiamo inondare la Striscia di rifornimenti utilizzando tutti i canali e tutti i valichi.   Questo non sarà possibile solo con gli aiuti umanitari, quindi abbiamo anche insistito affinché nella Striscia entrassero beni commerciali – uova, latte e altri beni di prima necessità che integrano ciò che la comunità umanitaria sta portando. Abbiamo insistito affinché fossero ammessi articoli “a duplice uso” e più carburante, in modo da poter riparare il sistema idrico: tubi, raccordi, generatori.  A Gaza fa molto caldo – 40 gradi – e l’acqua scarseggia, con il rischio di epidemie che incombe ovunque. Continueremo a impegnarci affinché le pause umanitarie non causino ulteriori sfollamenti, costringendo la popolazione in un’area sempre più ristretta. Anche in Cisgiordania i bambini sono in pericolo. Finora quest’anno sono stati uccisi 39 bambini palestinesi. Ho visitato una comunità beduina a est di Ramallah, che è stata costretta ad abbandonare le proprie case a causa delle violenze. Abbiamo anche incontrato bambini israeliani colpiti dalla guerra. Bambini che hanno subito paura, perdite e sfollamenti. I bambini non iniziano le guerre, ma sono loro a subirne le conseguenze Ci troviamo a un bivio. Le scelte che faremo ora determineranno la vita o la morte di decine di migliaia di bambini. Sappiamo cosa bisogna fare e cosa si può fare. L’ONU e le ONG che compongono la comunità umanitaria possono affrontare questo problema, insieme al traffico commerciale, se vengono messe in atto misure che consentano l’accesso e che alla fine garantiscano la disponibilità di beni sufficienti nella Striscia, in modo da attenuare alcuni dei problemi legati all’ordine pubblico. Sono necessari finanziamenti. L’appello dell’UNICEF per Gaza è gravemente sottofinanziato: solo il 30% delle esigenze sanitarie e nutrizionali è coperto. Dobbiamo ricordare che le pause umanitarie non sono un cessate il fuoco. Speriamo che le parti possano concordare un cessate il fuoco e il ritorno di tutti gli ostaggi rimasti nelle mani di Hamas e di altri gruppi armati. Questa situazione va avanti da troppo tempo. 22 mesi. Onestamente non mi sarei mai aspettato che saremmo arrivati a 22 mesi di guerra. Quello che sta accadendo sul campo è disumano. Ciò di cui hanno bisogno i bambini, i bambini di tutte le comunità, è un cessate il fuoco duraturo e una via d’uscita politica.” FOTO E VIDEO: https://weshare.unicef.org/Share/0e2ryciq0w65jai05u62f7q6078w2et4 UNICEF
Francesca Albanese: “La sopravvivenza della Palestina sarà la nostra riabilitazione”
Riprendiamo dal sito di Reti Solidali un articolo di Maurizio Ermisino su un incontro avvenuto a Roma con Francesca Albanese, ambasciatrice ONU in Palestina, per la presentazione del suo libro “Quando il mondo dorme” La solidarietà è la declinazione politica dell’amore, secondo la Relatrice Speciale dell’ONU per la Palestina. Per Albanese l’obbligo di prevenire il genocidio è scattato con l’istanza del Sudafrica alla Corte di Giustizia di gennaio 2024. Il sacrificio della Palestina deve essere un’occasione. Possiamo uscirne distrutti o migliori. Genocidio. Pulizia etnica. Apartheid. Le parole sono importanti. E usare le parole giuste per raccontare che cosa sta accadendo oggi in Palestina, nella Striscia di Gaza, è sempre più importante. L’incontro con Francesca Albanese, Relatrice Speciale dell’ONU per la Palestina, di ieri sera al MONK a Roma, per presentare il libro Quando il mondo dorme (Rizzoli, 2025), è stato in questo senso illuminante. In un giardino gremito di folla, con altrettante persone rimaste fuori, Francesca Albanese ha parlato a cuore aperto, con quella “dolorosa gioia”, come la definisce lei, che è  raccontare una situazione terribile con la consolazione della condivisione della denuncia.  Ogni volta è straziante, un dolore collettivo, ma c’è l’obbligo di non fermarsi e di riflettere per cambiare un sistema e di provare a costruire il domani che vogliamo. «Mi si chiedeva perché è così importante chiamare quello che sta accadendo a Gaza “genocidio” e perché dire che Israele sta commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità non è sufficiente» si è chiesta Francesca Albanese. «Se andate dal medico con il cancro e vi dice che avete la febbre, ha sbagliato la diagnosi. Se anche si dovesse condannare la leadership israeliana per crimini di guerra, si fallirebbe la soluzione del problema fondamentale. Non è solo lo Stato di Israele, ma il Sionismo come ideologia predicata sulla realizzazione di uno Stato di soli ebrei in Palestina, che vuol dire che non lo è per tutti gli altri popoli. Il genocidio è l’intenzione di distruggere un gruppo in quanto tale. Ed è quello che Israele sta facendo con atti di uccisione, con l’inflizione di condizioni di vita calcolate per distruggere: se togli l’acqua, il tetto sopra la testa, il cibo, il carburante, se distruggi tutti gli ospedali, se impedisci alle persone l’accesso a qualsiasi cosa per vivere, il risultato è questo. Ormai siamo al di là: nelle ultime settimane sono morte 147 persone, la maggior parte bambini, la maggior parte neonati, per mancanza di viveri. Se anche domani cessassero di piovere le bombe sui palestinesi rinchiusi in quel ghetto che Israele ha creato nel 1948, il genocidio c’è già stato. E chiamarlo genocidio ci dà la misura di quella che è stata la nostra responsabilità». «La cosa fondamentale della convenzione sul genocidio è la prevenzione» continua. «Abbiamo già fallito. L’obbligo di prevenire il genocidio è scattato quando la Corte di Giustizia internazionale ha ricevuto, nel gennaio del 2024, l’istanza del Sudafrica, a cui si sono uniti altri 14 Paesi». «Passo dopo passo facciamo la cosa giusta. Sicuramente non saremo peggio di come siamo adesso» FERMARE L’ECONOMIA DEL GENOCIDIO La grande ipocrisia è quella di tanti Paesi, tra cui l’Italia, che hanno continuato a intrattenere rapporti politici e commercial con Israele. «Un governo può rendersi complice» afferma Francesca Albanese. «Ma noi cittadini possiamo dire no, basta. Ai comuni che mi danno la cittadinanza onoraria io dico: se volete che l’accetti dovete bandire il Made in Israel. A chi è stressato per quanto zucchero ci sia nelle marmellate per i propri figli dico: usate lo stesso zelo per vedere quali prodotti vanno a finanziare direttamente l’economia dell’occupazione che si è trasformata in economia di genocidio. Tanti studenti hanno monitorato le relazioni dei loro atenei con Israele: vanno tagliate senza se e senza ma perché uno Stato accusato di apartheid, genocidio, crimini di guerra non è uno Stato con cui si possono avere relazioni. Fareste oggi una relazione con il Sudafrica al tempo dell’apartheid? La fiction per cui c’è un Israele buono ed uno cattivo deve finire. È Israele che è accusato di crimini: da oggi non si commercia più, non si trasferiscono armi né know-how, non si fa ricerca neutra con uno Stato accusato di crimini internazionali». FRANCESCA ALBANESE: NELLA SOPRAVVIVENZA DEI PALESTINESI CI SARÀ LA NOSTRA RIABILITAZIONE Queste richieste sono arrivate alla politica italiana, che non ha risposto. Cosa si può fare per sensibilizzarla? «Loro sono quello che sono. Nel 2027 dovrete valutare se questa gente merita di rimanere al potere oppure no» risponde, tra gli applausi, Francesca Albanese. «Credo molto nel valore della politica, per me è una parola con la P maiuscola. Capisco i giovani che fanno cittadinanza attiva. Questa deve essere la nuova declinazione della politica. Il sacrificio della Palestina ci deve dare questo: non usciremo da questa fase nello stesso modo in cui siamo entrati. Possiamo uscirne distrutti o uscirne migliori. Prendiamo il dolore di questo momento come quello di un parto: si soffre, si spinge per portare alla luce qualcosa di nuovo. Una frase che ho mutuato e che uso spesso è: la solidarietà è la declinazione politica dell’amore. Questo è un momento di solidarietà in cui ci si ritrova: so che l’amore per me è un amore di riflesso per il popolo palestinese. Che è un popolo dolce e buono. Se lavoriamo tutti insieme non solo il genocidio si fermerà. Non solo i palestinesi si ricostruiranno come fanno del 1948. Ma nella loro sopravvivenza ci sarà la nostra riabilitazione, quella dal peccato originale di noi occidentali, cioè 500 anni di colonizzazione. La declinazione politica dell’amore è questa: dobbiamo tornare ad essere buoni. Lo dobbiamo a noi stessi, alla società che vogliamo lasciare ai nostri figli e nipoti». IL MONDO NON SI CAMBIA A CEFFONI In questi anni Israele, con gli Stati complici, sta mettendo in atto un esercizio lucido della cattiveria. Nel senso di “captivus”, cioè “chiuso”, qualcuno che non è nemmeno in grado di vedere il male che sta facendo. In che modo oggi noi occidentali possiamo sensibilizzare e avere il coraggio e l’intelligenza di fare quel passo indietro rispetto al mondo? «Ci sono tante cose che dobbiamo imparare a fare, ma prima dobbiamo disimparare» risponde Francesca Albanese. «Dobbiamo dismettere certi automatismi. Abbiamo l’ansia da prestazione. Invece di saltare alle conclusioni, alle soluzioni, alla destinazione, dovremmo pensare al processo. E nel frattempo dobbiamo ascoltare. È fondamentale ascoltare perché ascoltare significa capire». Nel libro si legge un episodio particolare, un momento in cui anche Francesca Albanese ha provato un senso di vergogna. «Quando ero in Palestina, già 15 anni fa, Israele arrestava una media di 500-700 bambini all’anno, tra i cinque e i dodici anni e, se un adulto interveniva, ci stava che non tornasse a casa. Nel 2012 mi chiedevo: perché dobbiamo scrivere lettere ad Israele chiedendogli che si rispettino i diritti della convenzione del fanciullo quando arrestano i bambini e li portano nelle corti militari? Ma perché stiamo qui a normalizzare l’abominio? Con il tempo sono riuscita a staccarmi da quel processo di convenienza. Per me era insopportabile il peso della coscienza, sapere quello che potevo o non potevo fare da funzionario delle Nazioni Unite. Il mondo si cambia se si fa la cosa giusta ad ogni passo. Bisogna creare consapevolezza sulla Palestina, di cui si sa ancora troppo poco. Ho avuto un tremore quando un farmacista stava vendendo un prodotto Teva. Se mi dite “voglio fare qualcosa” cominciate a non venderli più. Ma, nei confronti degli ebrei, ammettiamo il garbo, la dolcezza, l’eleganza. Perché il mondo non si cambia a ceffoni». PALESTINA: IL BANCO DI PROVA DEL RISPETTO DELLA LEGALITÀ Cosa dovrebbero fare gli Stati? Come ha scritto ieri Francesca Albanese su X, non dovrebbero solo riconoscere lo Stato di Palestina, fare gesti simbolici, prendere le distanze da Israele. Dovrebbero sanzionare Israele, imporre un embargo totale alle armi, spezzare l’assedio inviando navi, sospendere tutti gli accordi commerciali, indagare e perseguire chi ha commesso crimini nei territori palestinesi occupati. La risposta è sempre: “ma siamo amici di Israele”. «Non si può vituperare la parola amicizia in questo modo» commenta Francesca Albanese. «Se hai un amico che sbaglia, gli dai uno scappellotto. Prendi delle misure perché la persona che ami non sbagli più. Qui si sta parlando di violenza estrema. Un popolo va immaginato come un corpo. Quante ferite si possono infliggere ad un corpo per decenni? E quanta comprensione si può chiedere a questo un corpo e all’anima che lo abita? Con il politico con cui ho parlato c’era proprio una posizione ideologica: “come ti aspetti che noi interrompiamo le relazioni con uno Stato come Israele?” Uno stato così indecente con un esercito così immorale io non me lo ricordo in un Paese che si dice democratico. Negli ultimi anni ho visto cose incredibili. E non è che i palestinesi prima se la passassero bene: già nel 2013 le Nazioni Unite denunciavano maltrattamenti, torture e stupri su minori nelle carceri israeliane. Dove eravamo noi? Dove eravamo nel 2022 quando i pogrom nei confronti dei villaggi palestinesi si moltiplicavano? Per quel viceministro degli affari esteri che mi diceva “non possiamo interrompere le relazioni con lo Stato di Israele” ho pensato: “o vi convinceremo noi o il vostro popolo, alle prossime elezioni voi non ci sarete”. La Palestina sta diventando il banco di prova del rispetto della legalità di cui abbiamo bisogno tutti quanti. Oggi non si può passare e stare in silenzio sul corpo di 20mila bambini». FERMARE IL TRAFFICO D’ARMI Dobbiamo fermare il traffico di armi, raccontare chi le fa. «Altra Economia ha fatto inchieste sulla Leonardo spa, partecipata dal 30% dello Stato italiano, che partecipa alla produzione degli F35 in modalità Beast Mode, in modo da portare una quantità di bombe in grado di distruggere un intero territorio, con il danno di 8 nucleari. Tutti abbiamo un potere e dobbiamo esercitarlo adesso. I portuali di Genova e di Ravenna sono stati i primi a dare l’allarme perché in questi porti si trasferivano armi verso Israele». BISOGNA CURARE L’ANIMA DI UNA TERRA Ci si chiede quale possa essere il processo di transizione verso un futuro che possa portare a una pacifica convivenza tra i due popoli. «Ci sono tanti strumenti per immaginare il futuro» riflette Francesca Albanese. «Possiamo vederlo come la destinazione di qualcosa che vogliamo costruire. C’è una parola che non compare nel vocabolario di noi occidentali: è “healing”, “cura”. Bisogna curare l’anima: c’è un trauma incredibile in quella terra». «Prima di tutto vanno portati i diritti» conclude. «Passo dopo so facciamo la cosa giusta. Sicuramente non saremo peggio di come siamo adesso». Redazione Italia
Da Leopoli a Kiev in treno
Sono arrivato ieri sera a Kyiv (Kiev) partendo da L’viv (Leopoli) in treno. Il treno è partito con un ritardo di oltre un’ora, ma ha recuperato ed è arrivato sostanzialmente puntuale. Ho viaggiato in uno scompartimento da sei persone come tempo fa c’erano anche in Italia, ma che da decenni non vedo più. Oltre a me ci sono tre donne sulla trentina, che con un Inglese n po’ stentato mi chiedono chi sono, da dove vengo, cosa sono venuto a fare e, come sempre mi capita, ogni risposta (Italiano, di Roma, maestro elementare e reporter volontario di una Agenzia di Stampa Internazionale indipendente e no profit) suscita sorpresa, rispetto e ammirazione. Le signore sono molto gentili, due non conoscevano la terza arrivata, ma hanno fatto presto amicizia grazie al cagnolino simpaticissimo ed affettuosissimo che “fa banco” per tutto il viaggio. Penso che la nuova disposizione delle poltrone, per la quale tutti si danno le spalle, ostacoli volutamente la socializzazione tra le persone. Ricordo i viaggi in treno da ragazzino, per andare a trovare a Bologna la nonna, gli zii e cugini paterni. Verso mezzogiorno nello scompartimento, famiglie di immigrati dal Sud, che tornavano per le ferie al loro paese, tiravano fuori da mangiare ogni ben di dio e insistevano per offrirci da mangiare. Era l’Italia dei primi anni Settanta e noi, “suprematisti lombardi”, gentilmente, ma con fermezza, declinavamo gli inviti di questi lavoratori che parlavano una lingua semi-incomprensibile. Ho imparato una quindicina di anni dopo quali genuine delizie mi sono perso. La capotreno, mi spiegano, vende il tè e alcune cose da mangiare. Vado a prendere il tè, che prepara lei, poi mi viene fame e prendo un paio di bustine: arachidi e bastoncini di “pane abbrustolito e aromatizzato alle erbe” e soprattutto una scatoletta con patate liofilizzate ed aromi a cui la capotreno aggiunge acqua bollente creando un ottimo purè di patate. Dal finestrino vedo soprattutto alberi, alberi ed alberi, una specie di brughiera. Si vede a occhio che la densità di popolazione, tra una grande città e un’altra è molto bassa. Finalmente arriviamo nella grande stazione di Kiev centrale, affollatissima di gente che va e che viene dalle ferie. Negozi di ogni tipo, uno vende solo cover per i cellulari. L’unico segno particolare è il metaldetector a cui i viaggiatori devono sottoporre se stessi ed i propri bagagli. La guerra non si vede né nella stazione né all’esterno di essa, dove imponenti palazzi e veri e propri grattacieli sorgono intatti. Stesso spettacolo per gli oltre tre km che percorro a piedi, fino al monohotel: si chiama così perché le camere sono sostanzialmente “loculi di 2mq” ipertecnologici, di plastica, uno sopra ad un altro per un totale di una ventina di posti, bagni e docce in comune. Zona delle più sicure perché il centro storico, oltre ai palazzi del potere ucraino, è formato da Basiliche splendide e da ambasciate e, finora, i Russi non lo hanno sfiorato. “Come fai a dormire lì dentro?” mi chiede un’amica. “Ma quando in campeggio dormivamo in una tendina canadese era forse meglio?” Ci sono notti a Kiev in cui non si dorme a causa del terrore, dentro casa o se possibile nei rifugi, per le esplosioni dovute all’attacco dei droni. L’altro ieri l’escalation ha fatto una vera strage di civili innocenti perché un missile russo ha colpito un palazzo. Kiev è immensa e non sarà facile trovarlo. Poi la gente… e soprattutto i tantissimi adolescenti e giovani che si incontrano per le strade e nelle piazze, con tanta voglia di vivere e di dimenticare… Se solo scendessero in piazza contro la guerra, per imporre un immediato cessate il fuoco, che garantisca il diritto alla vita e ad avere un loro futuro! Del resto lo hanno fatto in questi giorni di mobilitazione per la vera democrazia e hanno vinto contro le forze governative imponendo al presidente una precipitosa marcia indietro suggellata da un voto unanime del parlamento costretto a cancellare la legge “salva corrotti”… stazione di Leopoli il treno stazione di Kiev Kiev interno kiev interno kiev interno "monohotel" Mauro Carlo Zanella
Milano, presidio a piazza Duomo. Un incontro inquietante
  Da quando è iniziato, il 16 giugno scorso, vado quando posso all’azione per Gaza che sta compiendo un gruppo di cittadini e cittadine, in silenzio, per un’ora, a Milano in piazza Duomo, dalle 18.30 alle 19.30. (milano-continua-il-presidio-quotidiano-in-piazza-duomo) Domenica 27 giugno sono al mio posto, cartello al collo, bandiera in mano. Mi si avvicina un ragazzo molto giovane, mi dirà poi che ha 17 anni e fa la quarta superiore. Mi dice che viene da una città emiliana (anche se non ha alcun accento) e che il suo cognome è ebreo. Si è svolto tra noi un fitto dialogo di oltre trenta minuti. Ma più che un dialogo, direi un ping pong di domande. Vediamo com’è andata. Si avvicina e con grande garbo mi chiede se può farmi qualche domanda, certo, rispondo. Inizierà con una raffica di domande. Tanto che dopo alcune gli dico: “Facciamo così, una domanda per uno” È d’accordo.  Le sue prime domande vertono su: “Ma se venisse attaccata la sua città…” “Ma se Milano attaccasse Monza…” “Ma se …” Io rispondo con calma, è chiaro che mi vuole portare sul terreno per cui è giusto e legittimo difendersi con le armi. Cerco di portarlo su un terreno più realistico e sul fatto che ogni situazione sia specifica, non vi siano risposte assolute, ma che sicuramente, tendenzialmente, non sarei per prendere le armi, oggetti che non ho mai toccato in vita mia, e vorrei che mio figlio non lo facesse, anzi nessuno al mondo e che, a questo, si unisse la chiusura delle fabbriche di armi. Cerco di spostare il piano del discorso sulle ingiustizie crescenti nel mondo, sulle dinamiche oppresso-oppressore, sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sui ricchi sempre più ricchi e una popolazione che impoverisce, sul diritto di viaggiare nel mondo e sul non diritto a fare questo… Lui mi chiede se sono di destra o di sinistra. È una domanda che sopporto poco, sono sempre più stufo di etichette che lasciano il tempo che trovano, comunque, insiste e gli dico che sicuramente sono “storicamente” vicino alla sinistra. Cerco di declinare questo però: ovvero, da che parte sto nei conflitti, nelle lotte.  Mi chiede quindi cosa ne pensi del reddito di cittadinanza, gli dico che non è stata una battaglia che ho portato avanti, anzi, ma che credo molto di più nella riduzione di orario di lavoro drastica, per tutti e tutte, a parità di salario e comunque per una radicale redistribuzione della ricchezza. Mi dice subito: “Ma è la destra che è contro il reddito di cittadinanza? E allora come la mettiamo?” Dico che non è certo l’unica proposta del cosiddetto centro-sinistra che non condivido. Gli racconto che insegno italiano agli stranieri e che, cosa che forse molti non sanno, tanti di loro lavorano in nero in decine di ristoranti o bar vicini alla piazza dove ci troviamo. Lavorano anche 60 ore alla settimana, sottopagati. Gli chiedo se sa quanto si paga di affitto per una stanza a Milano. Mi risponde che lui sa che un monolocale o al massimo bilocale a Milano può costare anche 200mila euro. Gli chiedo: “Sì, ma un affitto?” Mi risponde: “Non lo so, io un appartamento lo comprerei, mi sembra buttar via i soldi con un affitto”. Certo gli dico: il problema è avere una bella base di soldi per comprarlo e tutte le condizioni per avere un mutuo. Lui dice: “I soldi si guadagnano, se uno ha bisogno lavora di più.” Gli dico che, se lavorano già 60 ore, come può pensare che abbiano la forza per fare un secondo lavoro? Lui mi dice che guadagnare soldi non è difficile, lui ha guadagnato ultimamente 50mila euro. Non approfondisco su come abbia fatto, ma, fosse anche vero, dubito che i miei studenti abbiano gli strumenti (criptovalute, investimenti, finanzia…) per guadagnare dei soldi così in fretta… sarebbero stupidi o masochisti a lavorare per pochi euro all’ora. Ma vabbè, andiamo avanti. Fra una domanda e l’altra gli ricordo che, se lui ha 17 anni io ne ho 60 e forse della vita ho visto qualcosa di più (mi rendo conto che è una frase da vecchio trombone), ma gli dico anche che lui mi dà l’impressione di due cose: essere “dentro” molto vecchio, ed essere parecchio presuntuoso. Glielo dico sorridendo, ma lo penso davvero. Mi chiede se so in che percentuale siano gli stranieri nelle carceri italiane: certo che lo so, vi ho lavorato dentro, ma so soprattutto quale è la percentuale di poveri e ricchi, e di uomini e donne. Mi chiede cosa ne pensi di Vannacci e poi nomina Berlusconi… Non so più cosa dirgli, comincio ad essere stufo… Parentesi importante: lui è stato per tutto il tempo con il medesimo tono, come una macchina, con lo sguardo fisso nei miei occhi, senza la minima espressione del volto, tanto meno un sorriso (tanto che quando gli scappa, rido e glielo faccio notare!). Quando guardo altrove, parlando, mi chiede perché non lo guardi negli occhi, “Non sono degno di ricevere il suo sguardo?” Gli dico che sinceramente guardo dove credo, io ho accettato di ricevere delle domande, e rispondo, ma posso guardare dove credo, anche per capire chi si muove nella piazza, cosa succede nel frattempo. Tra l’altro la persona di noi vicina a me, mi fa presente che è bene che lui non stia di fronte a me, ma di lato, in modo che il mio cartello si veda.  Mi dà per tutto il tempo del lei, in modo molto formale. Quando in un paio di occasioni, dico “Cazzo”, mi chiede di non usare questo tipo di termini. Sorrido. Tra le cose che dico c’è anche questa: “Credo che un’autocritica che possiamo farci è quella di sapere troppo poco di guerre e massacri che succedono altrove, sappiamo troppo poco di Sudan, Congo, per esempio. Di Gaza sappiamo moltissimo, ma è anche indubbio che quello che sta avvenendo lì abbia un significato e delle modalità che avranno ricadute a livello mondiale, su tutti noi. Ma -ripeto e lo credo- dovremmo sapere molto di più di quello che succede, soprattutto in Africa”. Nel nostro dialogo la questione palestinese è sempre sullo sfondo, tanto che ad un certo punto gli dico: “Guarda, se fossi vissuto 80 anni fa sarei stato (spero) dalla parte degli ebrei, di coloro che erano perseguitati, come rom e omosessuali e oppositori politici, tanto che in un campo di concentramento avrei potuto finirci anch’io. Ma aggiungo una cosa: se tra 80 anni fossi ancora vivo e un presunto governo di uno stato palestinese si comportasse come oggi si comporta il governo di Israele, sarei dalla parte degli oppressi e sarei durissimo con le azioni di quel governo palestinese”.  Ma torniamo al botta e risposta con il nostro giovane, ad un certo punto vado al sodo: “Ma tu saresti capace di sparare a dei bambini?” E qui basta l’attacco della sua risposta: “Se…” non riesco a sentire cosa dice dopo. Si fa molta fatica a dialogare con qualcuno con queste posizioni. Dentro di me vorrei piangere, sono inorridito, turbato… Non so se ricordo di aver mai parlato con qualcuno che sostenesse una possibilità di questo genere in vita mia. È un’esperienza nuova, qualcosa che non avrei mai voluto sentire da qualcuno davanti a me, così giovane poi… Ha sicuramente più futuro e vita lui, davanti, rispetto a me. Mi chiede se non credo che sia meglio guadagnare tanti soldi per poi usarli per le cause in cui si crede. Gli dico che, se vi  avessi dedicato tutto il tempo impegnato in lotte e volontariato, sarei pieno di soldi, ma soprattutto che non credo in una formula del genere. La giustizia, la conquista dei diritti, è un percorso collettivo, così deve essere, non è calata dall’alto. Le persone devono partecipare collettivamente, insieme, prendere coscienza, partecipare, crescere. Solo così i risultati “tengono”. Così si cambia la realtà, si modificano realmente le condizioni di vita, i rapporti di forza. Gli elenco le forme di lotta in cui credo, gli dico che non ho mai fatto parte di un partito e, a dir la verità, neanche di un sindacato. Gli dico che lotto da quando ero un ragazzo. Cerco di farlo. Alla fine, gli dico che io sarei perché tutti i soldati disertassero e lasciassero fare le guerre a chi le decide, da soli, che sono per l’abolizione di eserciti, fabbriche di armi e confini. Forse faccio l’errore di dirgli che, se proprio devo avvicinarmi ad un pensiero, sono vicino a quello anarchico, libertario. Apriti cielo, parte con una raffica di domande, stile interrogazione di liceo, (o forse interrogatorio) su quanto so sulla storia dell’anarchia, l’etimologia, le origini, le correnti, etc… Alla fine credo che raggiunga l’obiettivo: stanco, non rispondo ad una sua domanda. Perfetto, è soddisfatto, ringrazia, saluta, ci diamo la mano e dice che deve andar a prendere il treno (sarà vero? Boh…). Rimango a pensare parecchio a questo incontro. Mi ricorda quando ventenne all’università statale c’erano quelli che sulla porta di ingresso stavano lì e cercavano di fermarti per parlare, non ricordo se erano di Battaglia comunista, spartachisti, quarta internazionale… Fermarsi rischiava di essere uno stillicidio. Confesso che credo di essermi fermato un paio di volte, poi li salutavo cordialmente, ma tiravo dritto. In sostanza: questo giovane dava l’impressione di essere preparatissimo e formato nel cercare e sostenere questo tipo di dialoghi (ripeto, non so se un dialogo è fatto solo di domande, con tono inquisitorio). Comunque, il suo volto, il suo atteggiamento sembrava proprio studiato. In fondo, penso, un atteggiamento del genere, per quanto massimamente educato (nella forma), nella sostanza trasmette una grande aggressività, assomiglia di più ad interrogatorio, un cercare in tutti i modi di “far cadere” l’avversario. Una partita a scacchi, ma con del sadismo, molto nello sguardo, perché si vuole piegare chi si ha di fronte.  Anche questo incontro fa parte del nostro essere in piazza Duomo, ma, mi dico anche: in queste nuove generazioni c’è una discreta fetta che avanza e che punta (se non c’è già arrivata) a quell’egemonia culturale che prima pendeva dall’altra parte della bilancia. Rimane il fatto culminante: un giovane di 17 anni non esclude che sia giusto e necessario uccidere dei bambini.  Non c’è dubbio che il nostro essere in piazza comporta una fatica fisica, intellettuale ma anche, a volte, soprattutto emotiva. Coraggio e andiamo avanti. Andrea De Lotto
80 anni dai bombardamenti atomici: mobilitazione e appello ai Comuni
A distanza di ottant’anni dalla tragedia umanitaria senza precedenti che ha scosso le due città giapponesi, il ricordo delle vittime e la testimonianza diretta degli hibakusha (i sopravvissuti ai bombardamenti atomici) devono continuare a guidare le scelte politiche e morali della comunità internazionale verso la necessità urgente del disarmo nucleare. Le parole degli hibakusha, raccolte in questi anni da numerosi testimoni e associazioni tra cui Nihon Hidankyo (Premio Nobel per la Pace 2024), sono un patrimonio umano di valore incalcolabile. Le loro testimonianze, capaci di evocare speranza e determinazione pur partendo da un immenso dolore, continuano a parlare al mondo intero: ci ricordano che le armi nucleari non sono strumenti di sicurezza, ma di annientamento, e che nessun popolo dovrà mai più subire devastazione totale che ottanta anni fa ha colpito le loro città. La memoria degli hibakusha non può e non deve essere relegata alla storia: è una bussola etica per il nostro presente e ci chiama ad un impegno attivo per un futuro senza armi nucleari. In Italia la mobilitazione “Italia, ripensaci” – promossa da Rete Pace Disarmo e Senzatomica – continua a crescere e a diffondere consapevolezza sull’urgenza del disarmo nucleare. Oltre 120 Enti Locali hanno già aderito all’Appello delle Città per il TPNW (Trattato sulla Proibizione delle Armi Nucleari) promosso da ICAN, la Campagna Internazionale per l’Abolizione delle Armi Nucleari Premio Nobel per la Pace 2017. Un numero in costante aumento, che dimostra come i territori e le comunità locali siano sempre più consapevoli e attivi nel richiedere un cambiamento di rotta alla politica estera e di difesa del nostro Paese in ambito nucleare. “Oggi più che mai, in un mondo segnato da crisi ambientali, disuguaglianze crescenti e guerre che sembrano non finire mai, affermare con forza la dignità intrinseca di ogni vita è un atto rivoluzionario e necessario – afferma Alessja Trama della campagna “Senzatomica” – Per questo chiediamo un cambiamento radicale nel paradigma della sicurezza: non più fondato sulla paura e sull’equilibrio del terrore, ma sulla fiducia reciproca, la cooperazione e il dialogo. Con la campagna “Italia, ripensaci” chiediamo al nostro Paese di compiere un passo di civiltà e umanità: ratificare il Trattato sulla proibizione delle armi nucleari (TPNW). Non è un gesto simbolico, ma una scelta concreta per schierarsi dalla parte della vita e dei diritti umani. E facciamo appello a tutte le nazioni dotate di armi nucleari affinché adottino il principio del Non Primo Uso come misura immediata per ridurre il rischio di una catastrofe nucleare. Questo impegno rappresenta un primo passo verso una nuova era in cui la forza non sia mai più usata per dominare”. “Il disarmo nucleare è un atto di responsabilità collettiva: smilitarizzare le relazioni internazionali, a partire dal vertice del pensiero di oppressione e violenza rappresentato dalle armi di distruzione di massa, è urgente. Solo liberandoci dalla minaccia nucleare potremo costruire un mondo fondato sulla cooperazione, i diritti, la giustizia e la pace duratura” evidenzia Sergio Bassoli, coordinatore dell’Esecutivo di Rete Pace Disarmo. Nei giorni del 6 e 9 agosto 2025, in occasione delle ricorrenze di Hiroshima e Nagasaki, “Italia, ripensaci” – che ha recentemente inviato a molti Sindaci e Amministrazioni Comunali attive sul tema una lettera di stimolo alla mobilitazione – promuoverà e sosterrà numerose iniziative locali in tutta Italia: momenti pubblici di riflessione, commemorazioni civili, eventi culturali, presentazioni e incontri istituzionali. Da Brescia a Padova, da Aviano a Verona, da Cervia a Modena sono tanti i gruppi animati da cittadini, associazioni, Enti Locali che utilizzeranno la memoria della distruzione subita da Hiroshima e Nagasaki per rilanciare un’azione collettiva di Pace. Tali attività avranno anche lo scopo di sensibilizzare l’opinione pubblica e i decisori politici sul tema del “costo nascosto degli arsenali nucleari” tema affrontato in un Report, pubblicato oggi (qui il link per scaricarlo), che traduce in italiano i dati di ICAN relativi alle spese militari nucleari a livello globale. La ricerca evidenzia in particolare l’enorme impatto economico e sociale delle risorse pubbliche destinate alla produzione e manutenzione delle armi nucleari: una spesa eticamente ingiustificabile, ancor più in un contesto di crisi e disuguaglianze globali. La crescente mobilitazione degli Enti Locali fornisce poi un punto di partenza per uno stimolo verso le istituzioni nazionali, affinché il Governo scelga di iniziare ad avvicinarsi concretamente ai contenuti del Trattato TPNW. L’Italia, pur essendo membro della NATO, può e deve adottare una posizione responsabile e autonoma, in linea con i propri valori costituzionali e con la volontà della propria cittadinanza. I sondaggi condotti negli ultimi anni indicano, infatti, con chiarezza come la maggioranza dell’opinione pubblica italiana si favorevole al disarmo nucleare, alla riduzione della spesa militare in armamenti atomici e alla rimozione delle testate statunitensi presenti nel nostro Paese. Un orientamento netto, troppo spesso ignorato dal dibattito politico ufficiale, che merita di essere finalmente ascoltato e rappresentato, perché la distanza tra la volontà popolare e le scelte governative su questo tema continua a costituire un grave deficit democratico. A ottant’anni dalla tragedia atomica sulle città giapponesi la nostra responsabilità è duplice: custodire la memoria e trasformarla in azione politica. “Italia, ripensaci” invita tutte e tutti a mobilitarsi, a diffondere consapevolezza, a fare pressione sulle istituzioni. L’obiettivo è chiaro: costruire un mondo in cui Hiroshima e Nagasaki non siano solo il ricordo di una devastazione senza precedenti, ma un continuo monito alla necessitò di mettere le armi nucleari fuori dalla storia. Rete Italiana Pace e Disarmo
Con la Palestina contro ogni repressione
Quasi 200 persone al presidio indetto dalla Rete antifascista lecchese il 1° agosto a Como nei pressi dello stadio. L’iniziativa è stata animata per esprimere solidarietà alle cinque persone colpite da un provvedimento di Daspo per avere sventolato una bandiera della Palestina durante la partita Celtic-Ajax a Como il 24 luglio. Negli striscioni e negli interventi, partendo dagli episodi di criminalizzazione delle manifestazioni politiche a Como, a Bergamo e altrove, si è affermato il sostegno alla Resistenza palestinese la condanna dell’orrore del genocidio in atto, il rifiuto della repressione sempre più forte che attraverso decreti sicurezza e retoriche securitarie, restringe lo spazio pubblico, comprime le libertà individuali e collettive e mette a tacere ogni voce fuori dal coro. Free Palestine e Free Gaza certo, ma anche Stop Rearm Europe e la rivendicazione della legittimità di essere antisionisti senza per questo essere accusati di antisemitismo. Nei video gli interventi, aperti da Corrado Conti della Rete antifascista lecchese, della rete Stop al genocidio, dei Giovani palestinesi e in chiusura dell’avvocato Ugo Giannangeli, che ha chiarito l’incongruenza dei provvedimenti repressivi attuati chiarendo tra l’altro che nella legislazione italiana non esiste alcun divieto di sventolare bandiere di altri Paesi. Ecoinformazioni
Israele: le manganellate non fermano le iniziative del fronte pacifista
‘Massive’, ovvero ‘enorme’, partecipatissima, potente e affollata come non mai di cartelli e fotografie di corpicini gazawi scheletriti, oltre ai ritratti dei bambini morti a migliaia che da mesi riempiono ogni giovedì sera la grande piazza Habima di Tel Aviv. Questa la descrizione che ci arriva dalle varie pagine social del fronte pacifista Israelo-Palestinesi, nonostante le manganellate che hanno colpito alcuni manifestanti che si trovavano in pacifico sit-in ieri sera lungo King George Street. Nonostante tutto, dunque, la coalizione ‘It’s Time’ che si era fatta promotrice del Peace Summit dí Gerusalemme l’8/9 maggio scorso, non si ferma e annuncia una serie di iniziative proprio questo weekend. “E’ venuto il tempo, per tutti coloro che stanno resistendo contro queste crudeltà, di reagire con una voce collettiva contro la criminalità di chi ci governa. Reagiamo tutti insieme per mettere fine a questa sofferenza e per l’inizio della guarigione anche nostra. Basta con le uccisioni, basta con la fame, basta con l’occupazione!” A partire da domenica, dunque, che per Israele coinciderà con “Tisha B’Av” (‘festa’, per modo di dire, del digiuno, in effetti una della date più tristi del calendario giudaico insieme allo “Yom Kippur”) la convocazione sarà per tutti a Piazza Disengoff a Tel Aviv, per un digiuno congiunto tra tutti i movimenti che da tempo si muovono per la co-resistenza e per la pace. E per chi non potrà partecipare di persone, ecco un elenco continuamente aggiornato sui social, di situazioni alle quali dare sostegno: dal progetto “Gaza Soup Kitchen” a numerose altre iniziative promosse dal New Israel Fund, dai Combatants for Peace, da Standing Together… la Piazza insomma non si ferma. Pressenza IPA