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Un “27 politico” in filosofia per i militari? No, grazie
L’esercito vuole studiare filosofia, e dio sa se non avrebbe bisogno. L’esempio del militare più alto in grado e funzione – l’Ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, presidente del comitato militare della Nato ed ex Capo di Stato maggiore – è quasi esemplare. Parlando della necessità di essere “proattivi” nella guerra ibrida […] L'articolo Un “27 politico” in filosofia per i militari? No, grazie su Contropiano.
Nessun accordo UniBo–Accademia militare di Modena!
Sono di qualche giorno fa le polemiche del capo di Stato Maggiore dell’Esercito Carmine Masiello, in occasione degli Stati Generali della Ripartenza a Bologna, sul rifiuto di attivare un corso di laurea in Filosofia, ad hoc ed esclusivo, per 10 ufficiali dell’Accademia militare di Modena, seguito dalle dichiarazioni sdegnate del […] L'articolo Nessun accordo UniBo–Accademia militare di Modena! su Contropiano.
Leva volontaria: Giovanni XXIII, vogliamo esercito di operatori di pace non armati
Leva volontaria: Comunità Giovanni XXIII, vogliamo esercito di operatori di pace non armati «Non siamo favorevoli alla reintroduzione della leva» «Vogliamo esercito di operatori di pace non armati e nonviolenti. La proposta di reintrodurre la leva militare è l’opposto di ciò di cui c’è bisogno per garantire pace e sicurezza. Ogni volta che uno Stato aumenta la propria potenza militare viene percepito da altri stati come una minaccia, per cui il rischio di guerra aumenta anziché diminuire». È quanto dichiara Matteo Fadda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, in merito alla proposta sulla leva volontaria in Italia proposta dal Ministro della Difesa, Guido Crosetto, in risposta al nuovo contesto di insicurezza internazionale. «L’Italia è stata protagonista fin dall’inizio della costruzione della pace tramite lo sviluppo dell’Unione Europea – continua Fadda –. Proponiamo che lo sia anche adesso in questo momento difficile a livello internazionale. Per questo non solo non siamo favorevoli alla reintroduzione della leva militare, ma invitiamo: a potenziare e valorizzare il Servizio civile universale come strumento di Difesa civile non armata e nonviolenta della Patria; a potenziare l’investimento già in essere per costituire e stabilizzare un Corpo di pace formato da civili che possa intervenire in contesti di conflitto sia a sostegno della popolazione civile, sia per favorire il dialogo tra le parti; ad istituire un Ministero della Pace che promuova un diverso paradigma di sicurezza con un dipartimento dedicato alla difesa nonviolenta, perché nelle democrazie mature la sicurezza nazionale non può più essere pensata come un sistema monolitico fondato esclusivamente sulle forze armate. Molti cittadini, anche oltre i limiti di età del Servizio civile e dei Corpi civili di pace, desiderano e sarebbero pronti a formarsi ed addestrarsi nella difesa non armata e nonviolenta». «Facciamo queste proposte – conclude Fadda – forti del cammino con più di 3 mila obiettori e volontari che hanno scelto il servizio civile con la nostra associazione dal 1975 ad oggi. E forti dell’esperienza di 33 anni di intervento nei conflitti con Operazione Colomba, il nostro corpo di pace formato da civili che vivono al fianco di coloro che le guerre non le hanno scelte e da cui non possono scappare, come anziani e disabili. Noi siamo disponibili a mettere a disposizione del ministro Crosetto la nostra esperienza che può essere replicata su larga scala. Infine, parleremo della possibilità della reintroduzione della leva militare obbligatoria a Rimini, il 12 e 13 dicembre, al convegno Inneschi – Scintille che generano la pace». Redazione Italia
Invadere il Venezuela non conviene, ma il pericolo resta altissimo
Un piccolo giro sui siti di analisti militari occidentali chiarisce che c’è qualche problema, per gli Stati Uniti, nell’attaccare il Venezuela. Quanto meno sul “come”. Il dispiegamento di una flotta militare importante, che comprende anche la portaerei Gerald Ford, ha fatto pensare a molti che l’invasione fosse vicina, anche se […] L'articolo Invadere il Venezuela non conviene, ma il pericolo resta altissimo su Contropiano.
Hasbara in crisi: Israele investe milioni per rilanciare la sua immagine
L’analista Munir Dahir, il mese scorso, su Yediot Ahronot ha tracciato un quadro a tinte fosche della hasbara, la diplomazia pubblica condotta dal governo e dalle istituzioni durante i due anni di offensiva israeliana a Gaza. Secondo Dahir, si sarebbe rivelata un fallimento totale la strategia di pubbliche relazioni e […] L'articolo Hasbara in crisi: Israele investe milioni per rilanciare la sua immagine su Contropiano.
Madagascar, anatomia di un (non) colpo di stato
Un nuovo presidente e un primo ministro tecnico guidano il Madagascar dopo le proteste giovanili. Tra speranze e dubbi, la Generazione Z teme che le promesse di cambiamento restino vuote.  Le prime reazioni della Generazione Z malgascia sono state tutt’altro che entusiaste. Dopo soli 20 giorni di proteste in piazza, il Madagascar ha un nuovo volto: alla presidenza c’è il colonnello Michael Randrianirina, figura descritta dai suoi pari come un militare rigoroso; al suo fianco, nel ruolo di primo ministro, è stato nominato Herintsalama Rajaonarivelo, economista e manager di lungo corso, collaboratore della Banca Mondiale e presidente del consiglio di amministrazione della Banca Nazionale dell’Industria. Per i ragazzi non è esattamente uno fuori dal coro. A distanza di poco più di quindici anni, il Madagascar ha vissuto un déjà vu politico. Già nel 2009, durante la rivolta contro Marc Ravalomanana, l’unità d’élite CAPSAT si rifiutò di reprimere i manifestanti e contribuì alla salita al potere di Andry Rajoelina. Oggi, la stessa unità ha nuovamente scelto di non sparare sulla folla, schierandosi con i giovani della Generazione Z: un gesto che ha preceduto la destituzione e la fuga all’estero dello stesso ex presidente Rajoelina. La scelta di un primo ministro stimato dalla comunità economica internazionale è volutamente una mossa volta a rassicurare, anche se è già scattata la condanna dell’ONU e dell’Unione Africana che ha sospeso il Madagascar dalle sue istituzioni. Nel frattempo il presidente ex colonnello ha dichiarato che il suo non è affatto un colpo di Stato e che “un colpo di Stato è quando si entra armati nel palazzo presidenziale e si versa sangue”, mentre in questo caso i militari avrebbero “deposto le armi per unirsi alle richieste popolari” e ha insistito sul fatto che la sua nomina è stata approvata dalla Corte Suprema e quindi “segue la procedura legale”. L’esercito malgascio storicamente ha sempre agito più come un catalizzatore sociale piuttosto che come un conquistatore del potere. Nel 1972, le proteste studentesche e contadine (le Rotaka) portarono alla fine del regime filo‑francese di Philibert Tsiranana. L’esercito, guidato dal generale Gabriel Ramanantsoa, si rifiutò di reprimere i manifestanti e convinse il presidente a farsi da parte, creando un governo di transizione militare‑civile che aveva la missione di ristabilire ordine e sovranità, senza instaurare una dittatura. Nel 2002, la crisi elettorale tra Didier Ratsiraka e Marc Ravalomanana paralizzò lo Stato. Solo dopo mesi di tensioni e morti, l’esercito intervenne per “ristabilire la legalità”, favorendo il passaggio dei poteri a Ravalomanana, riconosciuto come vincitore dal popolo. Nel 2009, la rivolta contro Ravalomanana vide un ruolo centrale dell’unità d’élite CAPSAT, che si rifiutò di sparare sui manifestanti pro‑Rajoelina. Dopo il massacro del 7 febbraio, il suo ammutinamento provocò la caduta del presidente. L’esercito, come nelle crisi precedenti, si presentò come salvatore della nazione e non come usurpatore, consegnando poi il potere a un civile, Rajoelina. Molti membri del movimento Generazione Z riconoscono al nuovo primo ministro competenza e profilo tecnico, ma lo percepiscono come parte dell’élite economica distaccata dai problemi dei giovani malgasci, che riguardano disoccupazione, precarietà e povertà diffusa. In molti chiedono che le promesse di trasparenza e partecipazione non restino solo promesse del momento. A due passi dal palazzo presidenziale, riferisce il mensile francese Jeune Afrique, una parte della Generazione Z avrebbe montato la propria sede al primo piano di una pizzeria. Una ventina di giovani cercano di trovare un portavoce del collettivo per poter parlare con una sola voce. Non sarà facile. “Siamo un’organizzazione giovane e orizzontale, di fronte a un’organizzazione militare verticale. Dobbiamo andare veloci” è uno dei commenti più seguiti nella chat di Discord. Ketakandriana Rafitoson, vicepresidente di Transparency International, che ha avuto un ruolo nell’organizzazione di alcune delle proteste iniziali, e lei stessa malgascia, ha detto all’agenzia Reuters che i colpi di Stato sono sempre indesiderabili per la democrazia, ma in questo caso c’era “un’apparente riluttanza dei leader politici ad affrontare le rimostranze, un’unità armata organizzata era in pratica l’unica istituzione in grado, rapidamente, di fermare lo spargimento di sangue e riaprire lo spazio civico”. Elliot Randriamandrato, attivista e intellettuale malgascio di 30 anni, è uno dei volti della Generazione Z in Madagascar: “Le ultime settimane sono una mezza vittoria, la vera lotta inizia ora: la nostra principale richiesta è un cambiamento all’attuale sistema politico” ha detto all’AFP. Diverse reti della Generazione Z hanno espresso frustrazione, accusando l’esercito di essersi “appropriato” dei risultati delle proteste popolari che hanno rovesciato l’ex presidente Andry Rajoelina. Molti attivisti parlano di un “tradimento della rivoluzione giovanile”, poiché la promessa di un dialogo inclusivo starebbe cedendo a una gestione verticale del potere. Nel frattempo Rajaonarivelo ha annunciato l’avvio di un piano nazionale per promuovere l’occupazione giovanile, articolato in incentivi alle microimprese, programmi di apprendistato e partenariati strategici con il settore privato. Il suo esecutivo sarà chiamato a coabitare con l’esercito per un periodo di circa due anni, durante il quale dovranno essere organizzate nuove elezioni generali. Durante il suo discorso inaugurale di questa settimana il presidente non ha mancato di rendere omaggio “alla gioventù malgascia vittima dell’ingiustizia”, ma – secondo il racconto dei presenti – i dieci posti riservati ad alcuni dei ragazzi protagonisti della rivolta erano tutti in piccionaia, nel bancone sul retro, in fondo alla sala. Un dettaglio che non è sfuggito alla Generazione Z. Africa Rivista
Fuori i militari dalle scuole
In questo periodo in cui il governo italiano parla di nazione e non di repubblica, di armi e di militari e non di pace e che sta cancellando l’articolo 11 della Costituzione; un governo che attacca i corsi di formazione per gli insegnanti che parlano liberamente di non far entrare i militari nelle scuole, cosa che invece sta ormai accadendo. Vorrei cercare di spiegare da insegnante e sociologo i possibili pericoli della presenza dei militari nelle scuole.  L’introduzione della cultura militare nei contesti scolastici (attraverso progetti di alternanza scuola-lavoro, conferenze di orientamento o programmi sulla “cultura della difesa”)  interferisce negativamente con questi processi: * Contrasto tra Obbedienza e Critica: Il modello militare è fondato sulla disciplina ferrea e sull’obbedienza immediata e incondizionata ai superiori, un principio che è antitetico allo sviluppo del pensiero critico e dell’autonomia decisionale che la scuola è chiamata a coltivare. L’umiliazione e la sottomissione (talvolta centrali nell’addestramento militare) sono in netto contrasto con il rispetto della dignità dello studente ed i principi del trattato sui diritti dell’uomo  delle Nazioni unite. * Promozione di una “Cultura di Guerra”: L’eccessiva vicinanza tra mondo militare e scuola è  una forma di propaganda o “pedagogia nera” che normalizza e legittima l’uso della forza, della gerarchia autoritaria e dell’aggressività. Questo distorce i valori pacifisti e democratici che la scuola dovrebbe trasmettere. * Militarizzazione dei Concetti (Sicurezza/Legalità): Quando temi come il bullismo, la legalità o la cittadinanza sono affrontati esclusivamente attraverso l’ottica e il personale delle forze armate, il rischio è che vengano trattati principalmente attraverso la lente del controllo e della sicurezza, instillando potenzialmente la paura e trascurando gli aspetti sociali, etici, psicologici e di prevenzione civile che necessitano di una trattazione più approfondita e complessa. * Orientamento Professionale e Reclutamento: Le iniziative di orientamento condotte dalle forze armate sono spesso percepite come reclutamento mascherato, soprattutto in aree con alta disoccupazione giovanile. Questo trasforma la scuola in un terreno di conquista per fini che sono esterni e funzionali a un’istituzione specifica (l’esercito) piuttosto che agli obiettivi formativi universali dell’istruzione pubblica. I militari portano in classe un paradigma formativo opposto a quello richiesto per la formazione democratica del cittadino: un modello verticistico, monologico e funzionale a un apparato, in contrasto con il modello orizzontale, dialogico e pluralista della scuola democratica. I modelli della guerra e delle armi, già paradigma universale nei film di vendetta e violenza americani e non solo, sono un facile specchietto per gli adolescenti ed i loro comportamenti sociali di cui ormai si evidenzia una correlazione ben definita sociologicamente.  Il linguaggio militare è altresì foriero di contrasti, divisioni tra giusto e sbagliato, e reazioni. E’ ormai evidente che il nostro paese sia in mano a dei politici che vedono nella forza, nella repressione del dissenso, nelle armi un modello di società autocratica, unidecisionale e fascista. Da qui il bisogno di indottrinare i giovani, affinché diventino esecutori acritici di ordini di violenza. Non dimentichiamolo, le armi sono fatte per uccidere e come diceva Nelson Mandela le parole fanno sempre paura ai dittatori.  Nelson N.d.R. chi ha scritto quest’articolo preferisce firmare con uno pseudonimo per motivi che si possono facilmente intuire. Olivier Turquet
La fine di Israele? Chris Hedges intervista Ilan Pappè
 Nonostante il dominio militare di Israele sui suoi nemici regionali, l’entità sionista si trova davvero nel momento più vulnerabile della sua storia? E, cosa ancora più importante, può sostenere il progetto dello Stato ebraico? Lo storico israeliano Ilan Pappè sostiene che Israele stia implodendo. Egli definisce l’attuale governo di estrema […] L'articolo La fine di Israele? Chris Hedges intervista Ilan Pappè su Contropiano.
Daniel Schultz, obiettrice di coscienza israeliana: “Rifiuto di arruolarmi perché è la cosa più umana da fare”
Mi chiamo Daniel Schultz, ho 19 anni e sono cresciuta in una famiglia liberale a Tel Aviv. Durante la maggior parte della mia adolescenza, la mia attività politica si è sviluppata nell’organizzazione giovanile Yesh Atid, dove ho adottato la convinzione fondamentale che l’IDF sia l’esercito più morale del mondo e che tutte le sue azioni siano giustificate. A 16 anni ho iniziato a studiare in una scuola mista israeliana e palestinese. L’oppressione subita dai miei compagni di classe palestinesi mi ha rivelato la falsità della visione del mondo in cui ero cresciuta e mi ha fatto capire che l’uniforme che credevo proteggesse tutti, dal fiume al mare, era in realtà la più grande minaccia per i miei compagni di classe e un simbolo della loro continua oppressione. Pertanto, ho deciso di rifiutare l’arruolamento. Il mio rifiuto non è un atto eroico. Non mi rifiuto perché credo che la mia azione individuale cambierà la realtà, e non penso che le mie scelte come israeliana meritino un’attenzione centrale nella discussione sulla liberazione palestinese. Mi rifiuto perché è la cosa più umana da fare. Di fronte a bambini morti di fame, interi villaggi sradicati con la violenza e civili mandati nei campi di tortura, non c’è altra scelta. La società israeliana nel suo complesso ha un ruolo nel plasmare l’orribile realtà del popolo palestinese. Non è “complicato”, non ci sono “eccezioni alla regola” e i discorsi sull’innocenza o la moralità degli individui in una società la cui essenza è lo spargimento di sangue e la supremazia razziale sono irrilevanti. Il discorso intra-israeliano ha sempre condizionato la libertà del popolo palestinese, persino il suo diritto all’esistenza, in base al suo effetto sulla sicurezza israeliana. La destra dichiara che solo l’occupazione e la costruzione di insediamenti garantiranno la sicurezza e la retorica della sinistra sionista proclama che “solo la pace porterà la sicurezza!” La resistenza dei palestinesi alla loro oppressione e al loro status di colonizzati è sempre vista come una sfida a tale sicurezza ed è seguita da atti di vendetta, commessi dallo Stato di Israele e sostenuti ciecamente dalla società israeliana. A Gaza, in Cisgiordania e nei 48 territori interni, lo Stato di Israele e i suoi cittadini impongono un regime da incubo al popolo palestinese, mentre l’opinione pubblica israeliana dominante ritiene che ogni misura di questo tipo sia una “necessità di sicurezza”. Un Paese la cui sicurezza richiede lo sterminio di un altro popolo non ha diritto alla sicurezza. Un popolo che decide di commettere un olocausto su un altro popolo non ha diritto all’autodeterminazione. Un collettivo politico che sceglie di cancellare un altro popolo non ha diritto di esistere. Gli israeliani che portano le armi non sono gli unici responsabili dell’oppressione del popolo palestinese. È vero, sono loro che massacrano, affamano, giustiziano, colonizzano, reprimono, ripuliscono e cancellano interi quartieri, città, popolazioni. È vero, senza di loro l’Olocausto di Gaza non sarebbe potuto accadere e sono direttamente colpevoli di crimini contro l’umanità. Ma quelli in uniforme non sarebbero in grado di commettere crimini così gravi senza il sostegno inequivocabile della società civile israeliana. Dopo 77 anni di occupazione e due anni di genocidio a Gaza, la società israeliana continua a incoronare i suoi soldati come eroi. Invece di ostracizzare gli assassini, li celebriamo, li salutiamo e diamo il via libera al loro ritorno alla vita come civili apparentemente normali. Il genocidio di Gaza ha avuto un impatto anche sulla società israeliana, ma invece di ribellarsi, le ONG civili hanno fatto di tutto per adattarsi alla situazione. Il sostegno alle famiglie dei riservisti, la ristrutturazione dei rifugi, le sale operatorie civili, tutto questo per ridurre al minimo il prezzo che gli israeliani pagano per il genocidio. Invece della disobbedienza civile, abbiamo creato un sostegno civile. Invece di resistere al genocidio, i critici del governo si lamentano dell’efficienza nella gestione della “guerra”. Invece di rifiutare l’arruolamento, competono nel numero di giorni di servizio da riservisti. L’opposizione e i gruppi di protesta dichiarano “non in nostro nome” e contemporaneamente salutano l’IDF e i suoi combattenti. Da quando è stato firmato l’accordo di cessate il fuoco, Israele lo ha violato decine di volte. Anche se la diminuzione delle uccisioni quotidiane mi dà un enorme sollievo, le immagini di bambini morti di fame, interi villaggi sradicati con la violenza e civili mandati nei campi di tortura non sono cessate. Lo stesso accordo, concepito fin dall’inizio per placare Israele e gli Stati Uniti – i diretti responsabili del genocidio – viene violato all’infinito. Questo accordo non aveva lo scopo di migliorare la situazione dei gazawi e nel suo nucleo ha un unico obiettivo: mantenere la superiorità di Israele al prezzo del sangue della Palestina. Una società capace di questi atti è malata. In tutto il mondo vediamo superpotenze che “difendono” i loro confini inventati con una forza sproporzionata ed eserciti assassini. Il militarismo e la normalizzazione dell’integrazione dell’esercito nella società civile rendono queste società più violente e causano danni irreparabili al loro tessuto umano. La loro nazionalità serve come scusa per opprimere e annientare altre nazioni e come causa di guerre sanguinose. Lo Stato di Israele e l’idea sionista alla sua base sono un esempio di quello stesso sadico sciovinismo nazionale. Tutte le sue istituzioni, dall’IDF all’Autorità per la natura e i parchi, sono afflitte da omicidi e sete di sangue. Questa piaga non deriva dal genocidio di Gaza, ma da 77 anni di occupazione e apartheid e dalla loro ideologia dominante. La società israeliana non ha alcuna possibilità di riabilitazione fintanto che il sionismo rimarrà il suo principio di base. Daniel Schultz si è presentata domenica mattina all’ufficio di reclutamento di Tel Hashomer e ha annunciato il suo rifiuto di prestare servizio nell’esercito per protestare contro il genocidio e l’occupazione. Ha agito legalmente ed è stata condannata a 20 giorni di prigione. Con una mossa insolita, dopo il processo, Schultz è stata mandata a casa in attesa della riunione del comitato che si occupa dell’obiezione di coscienza. Mesarvot