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Antonio La Piccirella, attivista della Freedom Flotilla: “Denunciamo Israele per averci sequestrato”
Il silenzio omertoso e complice sul genocidio dei palestinesi deve essere sconfitto con parole di verità, ma anche con il coraggio di un gesto nonviolento, come ha fatto Antonio La Piccirella imbarcandosi sulla nave Handala della Freedom Flotilla per rompere il muro dell’indifferenza e il blocco agli aiuti umanitari. I 21 attivisti che erano a bordo della nave Handala sono finalmente liberi. Israele non aveva nessun motivo legale per detenere l’equipaggio internazionale dell’Handala, come ha dichiarato Ann Wright, membro del comitato direttivo della Freedom Flotilla: “Non si tratta di una questione di giurisdizione interna israeliana. Si tratta di cittadini stranieri che operano secondo il diritto internazionale in acque internazionali. La loro detenzione è stata arbitraria, illegale”. Lo scopo della Freedom Flotilla è quello di rompere il blocco illegale agli aiuti umanitari, ma soprattutto quello di aprire una breccia nel muro spietato dell’indifferenza e offrire uno spiraglio di speranza contro il genocidio. Antonio La Piccirella è tornato a casa dopo una breve detenzione in Israele e gli ho fatto alcune domande. In sintesi mi ha detto: Israele sta sterminando il popolo palestinese e nessun governo ha fatto abbastanza. Purtroppo molti non fanno niente, ma altri, come l’Italia sono complici. L’1% delle armi usate dagli israeliani per reprimere e massacrare i palestinesi è di origine italiana, prodotto e venduto da Leonardo S.p.A. Questo è uno dei motivi che mi ha spinto a imbarcarmi sull’Handala: volevo scrollarmi di dosso un poco di questa vergogna che sento sulla mia pelle come italiano. Inoltre la frammentazione sociale, l’isolamento, il modo individuale di assorbire tutte le informazioni che ci piovono addosso senza una dimensione collettiva e comunitaria e tanti altri fattori ci fanno sentire degli spettatori impotenti e passivi. Questa percezione di isolamento non è casuale, ma deriva da un sistema tecnologico che, tramite i social e i media, la favorisce e la alimenta. La nostra azione di resistenza civile nonviolenta rompe questa sensazione di impotenza e di isolamento contro i governi complici o indifferenti. Siamo in grado di agire di fronte alle forze della repressione. Partecipando alla missione della Freedom Flotilla mi sono sentito liberato da questa prigione virtuale e in linea con mente, cuore e corpo. Abbiamo fatto un’azione contro tutti i governi che ormai seguono solo logiche disumane in nome del profitto. Abbiamo provato a restituire dignità e coraggio a tante persone. Io mi sono sentito padrone della mia vita. Ci dobbiamo mobilitare per riconquistare la nostra umanità. Ci hanno attaccato di notte in acque internazionali come pirati. La navigazione in mare aperto è un diritto inalienabile. Erano venti militari israeliani armati di mitra con due imbarcazioni. Agiscono nell’oscurità per nascondersi meglio. Hanno distrutto i nostri dispositivi e ci hanno registrato per far vedere che ci offrivano cibo, mentre affamano a morte un popolo intero, ma noi avevamo già iniziato lo sciopero della fame e ci siamo rifiutati di accettare qualsiasi cosa. Durante tutto il tragitto ci hanno costretti a rimanere sdraiati in coperta, sotto la minaccia delle armi. L’ipocrisia si manifesta nel modo più orrendo, ed io l’ho vista da vicino. In Palestina massacrano i giornalisti, perché non tollerano narrazioni diverse dalla loro unica verità. L’Occidente è complice.  Secondo un comunicato di Freedom Flotilla Italia, al momento del rapimento da parte dell’IDF, Christian Smalls, cittadino statunitense e noto attivista sindacale contro Amazon, è stato immobilizzato con la forza e malmenato. Così pure durante gli interrogatori: è stato uno di quelli sottoposti alle peggiori angherie. Tali atti costituiscono un trattamento inumano e degradante, vietato dalla Convenzione ONU contro la tortura (1984). Tutto questo è avvenuto anche grazie al fatto che ambasciata e consolato USA non hanno visitato in carcere i loro connazionali, non li hanno assistiti durante i processi, non li hanno accolti e supportati per il viaggio di ritorno. Numerosi giuristi e organizzazioni per i diritti umani, come Adalah e Al Mezan, hanno già segnalato come l’attacco alla nave Handala si inserisca in un più ampio quadro di impunità e aggressione sistematica nei confronti di iniziative civili e umanitarie che cercano di rompere il blocco su Gaza – un blocco che le Nazioni Unite hanno definito “punizione collettiva” e dunque illegale ai sensi del diritto umanitario internazionale. L’abbordaggio della nave Handala, avvenuto in acque internazionali nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2025, costituisce una violazione dell’articolo 87 della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS), che garantisce la libertà di navigazione, e può configurarsi come atto di pirateria ai sensi dell’articolo 101 della stessa convenzione, nonché come violazione del principio di non-intervento. Inoltre, la detenzione forzata degli attivisti – prelevati contro la loro volontà da acque internazionali, trascinati contro la loro volontà in Israele e trattenuti con una falsa accusa di “immigrazione clandestina” – viola il Patto internazionale sui diritti civili e politici (ICCPR, art. 9), che sancisce il diritto alla libertà personale. Le denunce di Mazzeo e La Piccirella potrebbero aprire un precedente importante: azioni giudiziarie internazionali volte a far riconoscere che le azioni dell’esercito israeliano contro attivisti pacifisti costituiscono violazioni gravi del diritto internazionale dei diritti umani, del diritto del mare e delle convenzioni sui trattamenti dei civili anche in tempo di conflitto. Rayman
Conflitti globali in corso, interviste de La Casa del Sole TV
Il mondo sta affrontando un numero di conflitti che è il più alto dalla Seconda Guerra Mondiale, con 56 conflitti attivi che coinvolgono 92 Paesi. Solo nel 2024 si contano più di 233mila vittime e oltre 100 milioni di persone costrette a fuggire dalle proprie case. A commentare in studio il tema caldo del momento Jeff Hoffman de “La Casa del Sole TV, la giornalista Margherita Furlan, Angelo d’Orsi, già ordinario di Storia delle Dottrine Politiche all’Università di Torino e Antonio Mazzeo, giornalista, docente e attivista dell’Osservatorio, reduce dall’espulsione ad opera del governo israeliano per avere cercato di portare aiuti umanitari a Gaza a bordo della nave Handala di Freedom Flotilla. Qui il video della trasmissione
L’Africa deve guardarsi dentro, non indietro
SOUMAILA DIAWARA, RIFUGIATO MALIANO E ATTIVISTA POLITICO, RACCONTA IL SUO DRAMMATICO VIAGGIO VERSO L’EUROPA E ANALIZZA LE FERITE ANCORA APERTE DEL COLONIALISMO E LE NUOVE FORME DI DOMINIO CHE OPPRIMONO L’AFRICA. NEL SUO NUOVO LIBRO L’AFRICA MARTORIATA, DENUNCIA LE RESPONSABILITÀ ESTERNE MA ANCHE QUELLE INTERNE, INVITANDO A UN RISVEGLIO POLITICO E CULTURALE AFRICANO. A cura di Marco Trovato Soumaila Diawara, originario del Mali, è scrittore, attivista politico e rifugiato. Cresciuto a Bamako, si è formato nei movimenti studenteschi dell’opposizione democratica. Dopo il golpe militare del 2012 è stato costretto a fuggire. Ha attraversato il deserto e il Mediterraneo, arrivando in Italia nel 2014. Un viaggio, a tratti drammatico: «Una notte il nostro gommone è naufragato. Eravamo in 120, solo in 30 ci siamo salvati. Io sono rimasto in mare per più di un’ora prima di raggiungere la costa. Ho visto persone morire, essere uccise, ho vissuto l’inferno dei centri di detenzione in Libia». Dopo il memoir Le cicatrici del porto sicuro, firma ora un nuovo libro: L’Africa martoriata (Abra Books 2025, 318 pp. 20 €), un saggio appassionato e rigoroso sulle ferite del colonialismo europeo e sulle nuove forme di dominio che ancora gravano sul continente africano. Il suo libro parte da una riflessione storica: perché è così importante guardare al passato per capire l’Africa di oggi? È fondamentale perché non si può costruire un futuro solido senza analizzare a fondo gli errori del passato, non solo quelli dei colonizzatori, ma anche quelli compiuti dagli africani stessi. La politica africana spesso continua a essere ostaggio di logiche neocoloniali, talvolta rafforzate proprio da leader locali corrotti, che restano tra i principali responsabili del mancato progresso. Serve una vera assunzione di responsabilità da parte di tutti, africani in primis, per costruire una politica più libera, democratica e rivolta ai bisogni reali delle persone. E una maggiore stabilità in Africa non è solo nell’interesse degli africani: è un vantaggio per il mondo intero. Quali sono le eredità più gravi che il colonialismo ha lasciato in Africa? Le più evidenti sono le strutture di potere autoritarie che persistono in molti Paesi. In Togo, per esempio, la stessa famiglia è al potere da decenni. In Gabon i Bongo si sono tramandati il governo per tre generazioni. Ma ci sono anche eredità economiche pesanti, come i debiti contratti durante l’epoca coloniale che ancora oggi strangolano gli Stati africani. Si tratta di debiti imposti da potenze europee, spesso tra governi e banche dello stesso Paese colonizzatore, e che oggi ostacolano seriamente lo sviluppo africano.  Lei analizza i diversi modelli di colonialismo: chi si è macchiato delle responsabilità più gravi? Il Belgio, senza dubbio. È assurdo pensare che un Paese così piccolo, che all’epoca della Conferenza di Berlino nemmeno era una grande potenza, abbia potuto compiere atrocità tanto gravi nel solo Congo. Parliamo di oltre 10 milioni di morti – forse anche 20 secondo alcuni storici – e di mutilazioni inflitte ai bambini per punire i genitori che non raccoglievano abbastanza caucciù. Poi ci sono le violenze italiane in Etiopia, come l’uso di gas contro i civili; l’Italia ha avuto una parte oscura e violenta nel suo colonialismo, e minimizzarla è un errore storico e morale. Senza dimenticare il genocidio dei Nama e Herero in Namibia da parte dei tedeschi. Storie spesso ignorate, ma che parlano chiaro. Dopo oltre 60 anni dalle indipendenze, non è comodo per alcuni governi africani continuare a dare la colpa al colonialismo per i problemi attuali? Concordo. Alcuni regimi, al potere da decenni, continuano a usare il colonialismo come scusa per giustificare il proprio fallimento. Ma se la Francia, ad esempio, non è più presente in Mali e i problemi restano, significa che dobbiamo guardarci dentro. Non si può denunciare l’imperialismo occidentale e poi sottomettersi a quello di altre potenze come la Russia o la Cina. L’Africa deve uscire da questa logica di dipendenza, smettere di aggrapparsi al vittimismo e avviare una profonda pulizia interna. Solo così potremo costruire un’autentica sovranità africana. Lei parla anche delle nuove forme di dominio economico: cosa pensa del ruolo di Cina e Russia nel continente africano? La forma è cambiata, ma la sostanza resta. Il neocolonialismo oggi si presenta in modo più subdolo. La Cina costruisce strade, scuole, ospedali… ma spesso si tratta di infrastrutture pensate solo per collegare le miniere ai porti, non per migliorare la vita delle persone. La Russia, invece, funge da braccio armato, in Mali o nella Repubblica Centrafricana. Si parla tanto di cacciare i francesi, ma domani potremmo fare lo stesso con i russi? Dubito. Le nuove potenze fanno i propri interessi. L’Africa deve imparare a scegliere i partner in base al rispetto e alla reciprocità, non all’ideologia o alla convenienza del momento. Chi sono, oggi, i leader africani più credibili nella lotta per l’indipendenza economica e politica del continente? Purtroppo sono pochi. Spesso ci si illude su certe figure: il ruandese Kagame, per esempio, è visto come un panafricanista, ma in realtà destabilizza il Congo e ne sfrutta le risorse. Uno dei pochi che mi sembra stia davvero tentando di cambiare le cose, nel rispetto dei diritti umani, è Bassirou Diomaye Faye in Senegal. Ha condannato le repressioni e tende la mano ai giovani. Si può rompere con il colonialismo senza chiudere ogni dialogo con l’Europa. Serve equilibrio, non populismo. In Mali oggi governa una giunta militare. È una risposta alla corruzione dei governi precedenti o un nuovo problema? È un problema peggiore. I militari al potere hanno favorito una nuova élite, fatta di giovani legati alla giunta che improvvisamente sono diventati miliardari. È la fotocopia del regime di Moussa Traoré. Chiunque osi criticare viene messo a tacere, arrestato, perseguitato. I veri opinion leader sono spariti dalla scena pubblica. È un sistema autoritario, senza trasparenza né libertà. Cosa pensa del Piano Mattei promosso dal governo italiano? L’idea originale di Enrico Mattei negli anni ’50 era interessante, ma oggi quel piano non è più attuale. L’Africa non è quella degli anni ’50, la popolazione è triplicata, le sfide sono nuove. Parlare di sviluppo con 5 o 10 miliardi è pura propaganda. È un piano pensato più per garantire accesso alle risorse africane che per creare un vero partenariato. Servirebbe qualcosa di profondamente diverso. In Italia si parla spesso dell’Africa come minaccia, come origine di un’invasione migratoria. Cosa pensa quando sente queste narrazioni? Mi indigno. Sono narrazioni costruite ad arte per seminare paura. Gli africani in Italia sono una minima parte della popolazione migrante. Parlare di invasione è falso. Inoltre, lo stesso governo che si lamenta della migrazione irregolare chiede 500.000 lavoratori africani regolari. Allora perché non partire da chi è già qui? Regolarizzarli, formarli, insegnare loro la lingua, integrarli? È assurdo giocare sulla pelle delle persone solo per qualche voto in più. Lei è passato anche dalla Libia. Cosa ha pensato della liberazione del generale Osama al-Masri? Una vergogna. Quest’uomo è responsabile di stupri, torture, schiavitù. Ha fatto costruire un aeroporto privato con la manodopera dei migranti che lui chiamava “i suoi schiavi”. Il governo italiano lo ha accolto con onori, perdendo un’occasione storica per affermare i valori del diritto internazionale. È una sconfitta morale, oltre che politica. In molti Paesi africani stanno nascendo movimenti giovanili che protestano. Cosa chiedono? Ce la faranno a cambiare davvero le cose? Chiedono diritti, istruzione accessibile, lavoro, trasparenza. Vogliono concorsi pubblici senza raccomandazioni, tasse universitarie più basse, meno corruzione. Forse non ce la faranno subito, ma stanno già muovendo le coscienze. I governi non possono arrestarli tutti. E anche l’Occidente dovrebbe capire con chi collaborare: con i popoli, non con chi li opprime.  Spesso si dice che l’Africa non ha futuro. Lei cosa risponde? L’Africa sorprenderà ancora. La sua forza viene dalla sofferenza, ma anche da una nuova consapevolezza. I giovani sanno che il cambiamento non verrà da fuori. Hanno le capacità, la volontà e la forza per costruirsi un futuro. Non bisogna più guardare agli africani come a soggetti passivi. Chi lo fa alimenta il pensiero neocoloniale. Guardiamo a Ghana, Botswana, Sudafrica: l’Africa può farcela, e il suo riscatto sarà anche una chance per l’Europa.   Africa Rivista
Freedom Flotilla Coalition, intervista ad Antonio Mazzeo
Freedom Flotilla, la coalizione internazionale che associa cittadini comuni, attivisti e operatori umanitari, ha lo scopo di fare pressione sul governo israeliano affinché cessi l’assedio che dal ’48 perpetra ai danni del popolo palestinese, con alterne accelerazione dei soprusi nei loro confronti, sfociato nella creazione di Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo. Con la decisa sterzata a destra dell’ultimo ventennio, fino all’attuale coalizione governativa, ostaggio delle fazioni più oltranziste, conservatrici e islamofobe, l’assedio, frutto marcio di un colonialismo di insediamento, così come viene sistematizzato ed applicato al popolo palestinese secondo lo storico israeliano Ilan Pappé, si è addirittura trasformato in genocidio: uno sterminio in mondovisione dove le immagini e le cifre si rincorrono a suon di fake-news che negano la realtà dei fatti. Tornando alla Freedom Flotilla e al caso della nave Handala, l’obiettivo è quello di rompere il blocco illegale agli aiuti umanitari, entrando nell’unico corridoio, il porto di Gaza, che in teoria non richiederebbe il “permesso” del governo sionista perché, appunto, è territorio palestinese. Lo scopo più importante però è quello di aprire una breccia nel muro spietato dell’indifferenza, uno spiraglio di speranza contro il genocidio e su questo, come sempre, ci sono venuti in aiuto i bambini e le bambine della Sicilia e della Puglia con i loro giocattoli da consegnare ai loro fratellini gazawi. Pur non avendo l’autorità legale per assaltare la nave, rapirne l’equipaggio e poi detenerlo e deportarlo nel proprio territorio, Israele lo ha fatto compiendo un gesto terroristico, nonché un atto di guerra non dichiarato preventivamente: un attacco non provocato infatti  è considerato “crimine di guerra” (Art. 8 dello Statuto di Roma della Corte Penale Internazionale. Come ha dichiarato Ann Wright, membro del comitato direttivo della Freedom Flotilla, “non si tratta di una questione di giurisdizione interna israeliana. Si tratta di cittadini stranieri che operano secondo il diritto internazionale in acque internazionali. La loro detenzione è arbitraria, illegale e deve cessare”. L’assalto dei militari israeliani è avvenuto in acque internazionali a 40 miglia nautiche dalle coste di Gaza nella notte tra il 25 e il 26 luglio 2025, quindi si configura come l’ennesimo crimine commesso da Israele nel totale disprezzo del diritto internazionale. I 21 membri della Freedom Flottilla sono stati rapiti e incarcerati. Gli è stata data la possibilità di essere rimpatriati subito firmando un documento precompilato, ma alcuni di loro non hanno accettato e sono ancora detenuti in attesa di processo per l’espulsione forzata, in teoria dopo 72 ore e dopo avere subito un processo per direttissima con l’accusa paradossale di “immigrazione clandestina”: sulla base di questa accusa fantasiosa lo Stato d’Israele non sarebbe mai dovuto nascere! Antonio Mazzeo, uno dei due italiani che ha scelto di tornare immediatamente in Italia, dopo aver risposto alle domande tipiche dei media mainstream (“Come ti hanno trattato?”, “Dove stanno gli altri membri dell’equipaggio?”, oppure “Quando verranno rilasciati?”, ecc. ecc.) tentando ogni volta di riportare il discorso sulla situazione tragica di Gaza, sui massacri, sul genocidio e sulle complicità dei governi “occidentali”, primo fra tutti quello più fedele a asservito alla coppia USA-Israele, l’Italia, si è soffermato su uno degli aspetti più emozionanti che aveva in serbo la missione. Antonio, parlaci dei giocattoli e dell’obiettivo di portare questi regali, simbolo di unione tra i bambini di Siracusa e Gallipoli (l’ultima tappa prima di prendere il largo verso le coste palestinesi) e i loro fratelli, ancora oggi sotto le bombe a Gaza Il fatto stesso che la nave si chiamasse Handala, un personaggio dei fumetti con cui sono cresciute intere generazioni di giovani palestinesi, conteneva un messaggio particolare. Non eravamo una delle tante navi umanitarie che hanno tentato di forzare il blocco, ma una nave pensata principalmente per il suo rapporto con i bambini. La nave si è “arricchita”, a dimostrazione di quanto fosse stato colto questo segnale, nelle due soste a Siracusa e a Gallipoli, dove è stata visitata da centinaia di bambini e bambine. Volevano vedere proprio la nave Handala, quella che portava gli aiuti ai loro amichetti di Gaza! Tutti sentivano il bisogno di portare qualcosa, in questo caso bambolotti, peluche e giocattoli. La cosa più bella e commovente è avvenuta la mattina dell’arrivo ad Ashdod. Stava albeggiando, eravamo tutti sdraiati sul ponte e mi sono accorto che ognuno di noi dormiva abbracciato a uno dei peluche con cui avevamo navigato in quegli ultimi 10 giorni. Eppure stiamo parlando di persone dai 70 anni e più, sino ai 25! Anch’io ho portato con me un souvenir dall’Handala, uno di quei bambolotti. Ecco, forse questa è la cosa più bella, il segnale più bello, perché probabilmente tra i bambini del mondo, ma anche tra quei bambini a cui l’umanità viene negata, i bambini di Gaza, il luogo più disumanizzato e più disumanizzante che esista, c’è ancora lo stesso bisogno di protezione e di dolcezza. I bambini avrebbero potuto vedere una nave che portava degli aiuti, ma soprattutto i regalini dei loro cuginetti dall’altra parte del Mediterraneo. Allora, questo sì che è un segno di speranza anche per le nostre giovani generazioni. Questa situazione, la strage per fame e oggi il genocidio per fame a Gaza, mi fa venire in mente soltanto un’altra vicenda storica, dei primi anni ’60, dopo l’indipendenza della Nigeria: in quegli anni in Biafra morivano migliaia e migliaia di bambini, come oggi, ma con la differenza che sono passati 60 anni e questi fatti si ripetono ancora. Inoltre all’epoca si trattava di una sorta di guerra civile tutta svolta all’interno di uno Stato, mentre oggi assistiamo a uno Stato che sta occupando e facendo morire di malnutrizione i cittadini di un altro Stato. Antonio, ti porto i ringraziamenti di Nancy Hamad*, la studentessa laureanda in economia con cui sono in contatto direttamente da Gaza. Quando le ho raccontato di questa iniziativa mi ha chiesto di dirti quanto questo supporto morale sia fondamentale per loro. Grazie a voi! * Per leggere le corrispondenze e conoscere la vicenda di Nancy Hamad di Gaza, vai ai nostri articoli pubblicati su Pressenza: articolo1 – articolo2 – articolo3 Stefano Bertoldi
Freedom Flotilla: Radio Onda D’Urto intervista Antonio Mazzeo a Fiumicino
Antonio Mazzeo, uno due attivisti italiani sequestrati dall’Idf sulla nave Handala della Freedom Flotilla Coalition, è atterrato intorno alle 12 all’aeroporto di Fiumicino a Roma. A raccogliere le sue prime parole l’inviato di Radio Onda D’Urto, Stefano Bertoldi Qui la registrazione.
“Gli Orti di Ome in provincia di Brescia, sono laboratorio a cielo aperto di biodiversità e salute”
Intervista al professor Andrea Mastinu, botanico – Università degli Studi di Brescia – Dipartimento di Medicina Molecolare e Traslazionale, Divisione di Farmacologia. Nel cuore verde della Franciacorta, gli Orti Botanici di Ome custodiscono specie arboree rare e in via di estinzione, attirando l’interesse crescente del mondo scientifico. Il professor Andrea Mastinu, docente e ricercatore presso l’Università degli Studi di Brescia, è uno dei protagonisti del progetto di studio su queste preziose aree verdi. Con lui abbiamo approfondito la valenza scientifica, ambientale e sociale degli Orti, e le potenzialità che riservano per il futuro della ricerca farmaceutica. Professore, come è venuto a conoscenza degli Orti di Ome e cosa l’ha affascinata al punto da farne oggetto di studio scientifico? La scoperta degli Orti di Ome è stata resa possibile grazie alla lungimiranza dell’Università degli Studi di Brescia, che ha stipulato una convenzione a fini didattici e di ricerca con gli Orti stessi. È stato un punto di partenza decisivo, poiché la nostra Università non possiede un orto botanico “ufficiale”. La possibilità di accedere a una realtà così ricca di biodiversità ci ha consentito di portare gli studenti del corso di laurea in Farmacia direttamente sul campo, per osservare da vicino le varietà di querce e conifere che il botanico Antonio De Matola cura con passione e rigore. Da qui è nata la volontà di approfondire scientificamente le specie presenti, in particolare quelle in via di estinzione. Le mie ricerche si sono concentrate sulla caratterizzazione botanica e fitochimica di queste piante e hanno già portato alla realizzazione di due tesi di laurea, una in biotecnologie e una in farmacia. Che tipo di rapporto si è creato tra lei e Antonio De Matola, curatore degli Orti? E questo quanto ha contribuito a tener vivo l’interesse? Antonio è una risorsa preziosa, non solo per la sua profonda conoscenza del mondo vegetale, ma anche per la sua straordinaria umanità. È una persona che ha saputo trasmettermi, e trasmettere agli studenti, una passione sincera e contagiosa per le specie arboree che coltiva. Nei due orti che cura, Antonio ha messo a dimora querce e conifere rare, monitorandone l’adattamento, la crescita, le criticità. Oltre agli aspetti tecnici, mi ha aiutato ad ampliare la mia visione, spingendomi a osservare la resilienza delle piante, ma anche la loro fragilità. È riuscito a farmi vedere la botanica da un’altra prospettiva, più ampia, più interconnessa. In questo senso, è stato un incontro fondamentale. Qual è il valore di questi Orti da un punto di vista scientifico, sociale e ambientale? Gli Orti di Ome sono un patrimonio per l’umanità. Dal punto di vista scientifico, rappresentano una riserva vivente di specie di altissimo interesse botanico e farmacologico. Le querce e le conifere che vi crescono sono spesso minacciate nei loro ambienti originari, ma qui trovano una seconda possibilità. Nel mio laboratorio, con l’aiuto dei colleghi, stiamo studiando gli estratti vegetali di queste piante per valutarne il contenuto di metaboliti e molecole potenzialmente utili in ambito terapeutico. Le potenzialità di molte di queste specie sono ancora largamente sconosciute: è nostro compito esplorarle, valorizzarle e, soprattutto, proteggerle. A livello ambientale, gli Orti ospitano una ricca biodiversità vegetale e animale. Sono frequentati da numerosi impollinatori e uccelli selvatici, e rappresentano un ecosistema equilibrato, capace di sostenere forme di vita interdipendenti. Infine, c’è l’aspetto sociale. Gli Orti di Ome sono sempre aperti al pubblico. È importante ricordare che il “verde” può offrire benefici anche psicologici e fisiologici: la presenza della natura può migliorare l’umore, abbassare i livelli di stress e promuovere un senso di benessere. Anche questo è scienza. Campionamenti agli Orti botanici di Ome (BS) da parte degli studenti di Unibs Da quanti anni lavora in questo contesto e con chi ha collaborato? Qual è lo studio più interessante finora? Mi occupo di piante da circa dieci anni. La collaborazione con gli Orti di Ome è attiva da circa cinque anni. Un compagno costante di lavoro è stato Vlad Sebastian Popescu, prima come studente in Biotecnologie e oggi dottorando. Con lui abbiamo effettuato il campionamento delle parti aeree delle piante e condotto le prime analisi fitochimiche. L’analisi avanzata dei composti chimici è stata condotta dal professor Gregorio Peron, un chimico dell’Università di Brescia, mentre la mia dottoranda Eileen Mac Sweeney si è occupata di valutare le potenzialità terapeutiche degli estratti. Uno studio particolarmente significativo è quello condotto sull’Abies nebrodensis, una rara conifera siciliana donata dal Parco dei Nebrodi. Le nostre analisi hanno evidenziato una ricchezza di metaboliti antiossidanti nelle foglie, e stiamo attualmente esplorando le possibili applicazioni terapeutiche di questi composti.   Quando ha deciso di studiare gli Orti come “caso scientifico”? Quali sono gli elementi che più l’hanno colpita? Il lavoro sul campo mi ha sempre appassionato, e gli Orti di Ome rappresentano un’opportunità unica: ci permettono di studiare in loco specie che altrove sono distribuite in aree molto lontane o difficilmente accessibili. Uno degli elementi più affascinanti è proprio la possibilità di confrontare i nostri dati con quelli raccolti da ricercatori in tutto il mondo che studiano le medesime specie in condizioni diverse. C’è anche un aspetto simbolico importante: l’Orto delle Querce si sviluppa proprio accanto all’ospedale. In un luogo di sofferenza e cura, la presenza di un ecosistema vegetale complesso e vitale può rappresentare un sostegno invisibile ma potente. Le terapie, dopotutto, nascono dalla natura. È un messaggio che non dobbiamo dimenticare. Cosa servirebbe, secondo lei, per far compiere agli Orti un salto di qualità e renderli una risorsa ancora più utile alla scienza? Gli Orti di Ome sono già una realtà straordinaria, ma hanno bisogno di un riconoscimento istituzionale adeguato. Sarebbe importante che le istituzioni locali e regionali li sostenessero maggiormente, sia dal punto di vista economico che infrastrutturale. Un primo passo sarebbe la creazione di laboratori in loco, per poter effettuare analisi direttamente sul campo senza dover trasportare i campioni. Inoltre, l’installazione di sensori ambientali (per temperatura, umidità, suolo, presenza di insetti, stress idrici) permetterebbe di raccogliere dati in tempo reale, fondamentali per studi sull’adattamento climatico e sull’agricoltura sostenibile. Infine, servirebbero spazi dedicati alla divulgazione scientifica e alla formazione: workshop, percorsi educativi, eventi aperti alla cittadinanza. Solo così la conoscenza generata può diventare patrimonio condiviso. Orti botanici delle conifere Quali alberi ritiene oggi più promettenti per il futuro della medicina? Le conifere. Sono una famiglia vegetale che sta vivendo da milioni di anni una crisi evolutiva, complici i cambiamenti ambientali e la diffusione delle angiosperme. Tuttavia, il loro potenziale terapeutico resta largamente inesplorato. Abbiamo già rilevato in alcune specie una forte presenza di metaboliti bioattivi, ma siamo solo all’inizio. Serve più attenzione da parte della comunità scientifica, e politiche di tutela ambientale che ne garantiscano la sopravvivenza. Quale futuro immagina per gli Orti di Ome? Li immagino come un centro di riferimento internazionale per lo studio delle piante officinali e degli alberi ad alto valore terapeutico. Un luogo dove si intrecciano natura, cultura, benessere e ricerca. Non solo un orto, ma un laboratorio a cielo aperto dove si coltiva conoscenza, salute e consapevolezza ambientale. Sarebbe straordinario vederli evolvere in un punto di incontro tra tradizione contadina e innovazione scientifica, aperto a studenti, professionisti, cittadini. Una sua riflessione finale? Antonio De Matola ha avviato un progetto straordinario con dedizione e lungimiranza. Non possiamo permetterci di ignorare o disperdere una risorsa di questo tipo. Dobbiamo valorizzarla e difenderla, per il bene della scienza, dell’ambiente e della società. La salvaguardia delle piante è la salvaguardia del nostro futuro. Ogni specie che studiamo, proteggiamo o semplicemente impariamo a conoscere meglio, è un tassello fondamentale per la comprensione della vita e per lo sviluppo di soluzioni sostenibili ai grandi problemi della nostra epoca: dalla crisi climatica alla salute umana. Gli Orti di Ome, in questo senso, sono molto più di un insieme di alberi: sono un presidio di biodiversità, un luogo di cura e un motore di conoscenza. Sta a noi, come comunità scientifica e come cittadini, riconoscerne il valore e investire nel loro futuro. Perché proteggere questi luoghi significa investire nella scienza, nell’ambiente e in un modello di società più consapevole e resiliente.   Simona Duci
Zübeyir Aydar: lo status quo di Losanna è finito, chiediamo un nuovo trattato
Zübeyir Aydar ha affermato che il Trattato di Losanna ha perso il suo significato e ha invitato tutte le forze curde a unirsi alla marcia del 26 luglio a Losanna. Il 24 luglio 1923, un trattato firmato al Palazzo Rumine di Losanna tra Turchia, Regno Unito, Francia e i loro alleati sarebbe passato alla storia internazionale come Trattato di Losanna. Eppure, con la sua attuazione, segnò l’inizio di un’era tragica per il popolo curdo e il popolo del Kurdistan, segnando l’inizio di un genocidio sia culturale che fisico. E così è accaduto. Questo trattato, che legittimava la spartizione del Kurdistan in quattro parti da parte delle potenze coloniali, ha lasciato il futuro del popolo curdo in balia della dominazione araba, persiana e turca. Centodue anni dopo, questo accordo rimane una profonda ferita nella storia del popolo curdo e rappresenta un simbolo di un’ingiustizia persistente. Per questo motivo, la rabbia e la resistenza del popolo curdo nei confronti di questo trattato non si sono mai placate; al contrario, sono cresciute di generazione in generazione fino ai giorni nostri. La Svizzera e Losanna in particolare, che ospitò le potenze coloniali al tavolo delle trattative nel 1923, quest’anno, come ogni anno, assisteranno nuovamente a un momento di resa dei conti storico in occasione dell’anniversario del trattato. Nel 102° anniversario del Trattato di Losanna, i figli del popolo curdo, coloro che furono esclusi dal tavolo e lasciati in balia del colonialismo per un secolo, scenderanno in piazza a Losanna per esprimere la loro rabbia e il loro rifiuto. In occasione del 102° anniversario del Trattato di Losanna, sabato 26 luglio si terranno a Losanna una manifestazione e un raduno. Zübeyir Aydar, membro del Consiglio esecutivo dell’Unione delle comunità del Kurdistan (Koma Civakên Kurdistan – KCK), ha parlato con l’agenzia stampa Firat News. Ha discusso del significato di questa marcia e di cosa rappresenti oggi il Trattato di Losanna alla luce degli attuali sviluppi nella regione. Sabato 26 luglio organizzerete una grande marcia a Losanna per celebrare il 102° anniversario del Trattato di Losanna. Considerando gli attuali sviluppi nella regione, quale sarà il messaggio principale e lo scopo di questa marcia? In che modo l’evento di quest’anno si differenzia dagli anni precedenti? Il Trattato di Losanna è da tempo all’ordine del giorno per noi, all’ordine del giorno per tutti i curdi. Perché con questo trattato, i vincitori della prima guerra mondiale si sono uniti un secolo fa e hanno diviso la nostra patria, ponendola sotto il controllo di diversi stati, senza nemmeno menzionare il nome dei curdi. Per noi, questo trattato è un trauma profondo. Ancora oggi continuiamo a provare il dolore causato dalle sue conseguenze. Dal nostro punto di vista, questo trattato segna l’inizio di un genocidio, un processo di annientamento, una catena di massacri. Le conseguenze storiche del Trattato di Losanna sono ancora in vigore. Ecco perché rimane al centro della nostra agenda. Fin dai primi giorni dell’organizzazione curda in Europa, si sono tenuti eventi in occasione di ogni anniversario del trattato. Sono state organizzate anche conferenze in occasione di anniversari significativi. In occasione del 75° anniversario, ad esempio, si è tenuta una conferenza. Un messaggio del Presidente Öcalan è stato trasmesso a quella conferenza. Quell’evento in particolare è stato organizzato principalmente da gruppi vicini al nostro movimento. Più recentemente, in occasione del centenario, si è tenuta a Losanna un’importante conferenza con la partecipazione di diverse forze curde. Lì sono state prese alcune decisioni importanti e ora abbiamo raggiunto il 102° anniversario. In questa occasione organizzeremo nuovamente diversi eventi. Tuttavia, l’incontro di quest’anno ha un carattere distintivo. Perché quest’anno è considerato più critico degli altri? Mentre la regione si trova ad affrontare la possibilità di una nuova ristrutturazione geopolitica, quale posizione dovrebbero assumere i curdi in questo processo? In questo momento la nostra regione sta attraversando un periodo di profonda trasformazione. Soprattutto dopo l’offensiva lanciata da Hamas nell’ottobre 2023, gli sviluppi in atto nella regione hanno interessato anche il Kurdistan. Negli ultimi due anni è diventato sempre più chiaro che sia l’ordine di Sykes-Picot sia l’ordine di Losanna non sono più operativi e vengono superati. Nella nostra regione è in corso una guerra su larga scala. Questa guerra non si limita alla Palestina: pur essendo iniziata lì, si è estesa all’intera regione. Anche il Kurdistan è parte di questo processo. È possibile che i confini cambino e che i sistemi e gli status politici in tutto il Medio Oriente vengano rimodellati. Ecco perché invitiamo tutti i curdi a venire a Losanna. L’evento di quest’anno non si concentra solo sul passato di Losanna, ma anche sul suo presente e sul suo futuro. Naturalmente, la dimensione storica e la devastazione che ha causato restano impresse nella nostra mente. Ma il tema principale di quest’anno è il seguente: lo status quo di Losanna è stato superato. Cosa dobbiamo fare noi curdi in questo nuovo periodo? Mentre la regione viene ristrutturata, quale posizione dovrebbero assumere i curdi? Questo è il tema centrale e l’argomento principale di cui dobbiamo discutere. Per questo motivo, questo anniversario ha un significato diverso rispetto agli anni precedenti. Attualmente in Kurdistan è in corso un processo di dialogo e di pace. Sono in corso discussioni, negoziati e sforzi per una risoluzione pacifica della questione curda. Si tratta di un processo estremamente importante per tutti i curdi. Tutti hanno una responsabilità in questo. Cosa dovremmo fare? Questa domanda ha un grande peso per tutti i curdi. Poiché il Kurdistan settentrionale (Bakur) è la parte più grande, sia in termini di popolazione che di estensione geografica, confina con le altre parti e le influenza direttamente. Inoltre, tra le potenze occupanti, la Turchia è lo Stato che più attivamente persegue l’ostilità contro i curdi. Pertanto, una soluzione lì rappresenterebbe una soluzione per il Kurdistan nel suo complesso. Anche questo fa parte della nostra agenda. Quando guardiamo al Kurdistan orientale (Rojhilat), vediamo che l’Iran è sull’orlo di una guerra su larga scala. Un cessate il fuoco è stato raggiunto con Israele, ma entrambe le parti continuano a prepararsi alla guerra. Le questioni fondamentali non sono state risolte. Il programma nucleare iraniano continua, mentre Israele e gli Stati Uniti perseguono una strategia per un Iran denuclearizzato. Questi sviluppi hanno un impatto diretto sul Kurdistan. Il Rojhilat è la seconda regione più grande del Kurdistan, sia per popolazione che per territorio. Pertanto, qualsiasi cambiamento in quella zona ci riguarda da vicino. I curdi devono essere preparati a questo processo. Per quanto riguarda il Kurdistan meridionale (Başur), esiste uno status federale ufficialmente riconosciuto. Tuttavia, i problemi rimangono irrisolti. L’articolo 140 della Costituzione irachena non è ancora stato attuato. L’influenza dell’Iran su Başur e i suoi interventi occasionali continuano, così come le incursioni militari della Turchia. Shengal è una questione particolarmente importante per noi. I massacri che vi hanno avuto luogo non sono finiti. Anche la questione Maxmur è in corso. Quando guardiamo al Sud, vediamo un gran numero di problemi irrisolti. In Rojava, esiste uno status autonomo di fatto da 13 anni. Tuttavia, questo status non è stato riconosciuto né costituzionalmente né legalmente. Questa struttura deve ottenere un riconoscimento ufficiale. Un nuovo sistema di governo sta prendendo forma in Siria. I gruppi islamisti radicali mantengono ancora la loro influenza. Questi gruppi, che ora hanno il potere a Damasco, prendono di mira le comunità druse, alevite e cristiane. C’è anche la possibilità che questi attacchi possano ritorcersi contro i curdi. Tutte queste questioni devono essere affrontate e discusse a fondo nel periodo attuale. Di fronte a tutti questi sviluppi regionali, che tipo di risposta collettiva intende creare l’evento di Losanna e a chi rivolge il suo appello? Il Congresso nazionale del Kurdistan (KNK) ha avviato una discussione su questo tema. Nella riunione del consiglio esecutivo tenutasi la prima settimana di questo mese, è stato delineato un piano per questo processo. La questione dell’unità nazionale si presenta ora davanti a noi come un compito urgente. Alla conferenza che abbiamo tenuto in occasione del centenario di Losanna, è stata presa la decisione di convocare una conferenza per l’unità nazionale, ma questa non è ancora stata attuata concretamente. Per questo motivo invitiamo chiunque desideri contribuire verbalmente a questo processo a venire a Losanna. Questa non è solo una marcia o un raduno, è anche un forum di idee. Il formato dell’evento è stato modellato di conseguenza: si svolgerà come una semi-assemblea, una piattaforma. Ogni partito, istituzione e individuo avrà l’opportunità di condividere pensieri e proposte. Non solo i curdi, ma tutto il popolo del Kurdistan sono invitati. Saranno presenti anche assiri e siriaci. Parteciperanno rappresentanti di tutte le fedi. Il 26 luglio a Losanna vogliamo alzare una voce unificata al mondo a nome del Kurdistan. Questo appello è rivolto sia ai curdi che alla comunità internazionale. Noi diciamo: in un momento in cui ci sono così tanti problemi irrisolti nella nostra regione, quando si parla di un nuovo processo di Losanna, quando il vecchio status quo è stato superato, quale posizione assumeranno i curdi nel nuovo ordine emergente? Venite, pensiamo insieme, discutiamo insieme. Riuniamoci in una conferenza per l’unità nazionale. Faremo questi appelli. Faremo anche un appello al mondo: esigeremo che la grande ingiustizia commessa un secolo fa venga riparata. Cento anni fa, le potenze vincitrici dell’epoca si riunirono e divisero il Kurdistan in quattro parti, senza neppure menzionare il nome dei curdi. Questa è stata una grave ingiustizia. Faremo appello alle potenze mondiali affinché agiscano contro questa ingiustizia. Anche se è passato un secolo, questo torto storico deve essere riconosciuto e corretto. Il Congresso Nazionale del Kurdistan (KNK) ha avviato una discussione su questo tema. Nella riunione del suo Consiglio Esecutivo tenutasi la prima settimana di questo mese, è stato delineato un piano per questo processo. Ecco perché affrontiamo l’evento di quest’anno con una prospettiva diversa e con grande importanza. Invitiamo tutto il popolo del Kurdistan e tutti gli amici del popolo curdo a unirsi a noi a Losanna. Come ha detto, l’attacco di Hamas del 7 ottobre ha spostato gli equilibri in Medio Oriente. Stanno emergendo nuovi status politici. In questo contesto di dinamiche in evoluzione, ritiene che il Trattato di Losanna debba essere riconsiderato in relazione allo status del popolo curdo? È esattamente ciò di cui stiamo discutendo, e in effetti ne stiamo discutendo da anni. Questa ingiustizia deve essere corretta. Lo status quo di Losanna è inaccettabile. Questo trattato ci è stato imposto come una condanna a morte. Deve essere superato. I curdi devono avere un posto nel nuovo ordine emergente, con la propria identità, cultura e diritti. È così che lo stiamo inquadrando, è così che lo stiamo esprimendo. Questa non è una posizione presa contro nessuno. Esistiamo in quella regione, siamo un Paese, siamo un popolo. Anche noi dobbiamo ottenere uno status. Lo status imposto a Losanna è stato costruito sulla nostra cancellazione. Non possiamo e non lo accetteremo. Stiamo ribellando. Chiediamo una nuova realtà, un nuovo trattato, un nuovo accordo. Quando parla di nuovo accordo, intende qualcosa che sarebbe riconosciuto dalle potenze internazionali? Chiunque sia coinvolto, ciò che conta è che si tratti di un accordo accettato da tutte le parti interessate. Soprattutto dai popoli della regione. Se, tra di noi, riusciamo a raggiungere un tale accordo, potrebbe non esserci bisogno di molto intervento esterno. Ma quella regione è di interesse globale, riguarda il mondo intero. Ciò che si sta svolgendo nella regione è, di fatto, una guerra mondiale. Una Terza Guerra Mondiale è in atto, distribuita nel tempo e nella geografia. In questo senso, vogliamo una discussione che includa tutti i soggetti coinvolti. Vogliamo una discussione approvata da tutti gli attori rilevanti. Ciò che vogliamo è un nuovo status quo, in cui i curdi abbiano il loro giusto posto. Queste richieste saranno espresse chiaramente durante la marcia del 26 luglio, giusto? Sì, le nostre richieste saranno espresse in quella sede. Il KNK rilascerà una dichiarazione durante l’evento. In quell’occasione verrà avviata una discussione, ma non si concluderà lì, continuerà. Un nuovo programma sarà presentato al popolo curdo. Crediamo che questa debba essere la direzione del programma futuro. Lei ha affermato che il Trattato di Losanna deve essere rinnovato e che è necessario un nuovo accordo. Considerando gli attuali sviluppi regionali, ritiene che una discussione del genere possa realisticamente iniziare a breve termine? Dal nostro punto di vista, una discussione del genere è sempre possibile, anzi, necessaria. C’è una grande ingiustizia in atto. Deve essere corretta. E stiamo lottando per questo. Un’importante conferenza si è tenuta a Losanna in occasione del centenario del Trattato di Losanna. Inoltre, hanno partecipato curdi provenienti non solo da tutte e quattro le parti del Kurdistan ma anche da molte regioni del mondo. Al termine della conferenza è stata rilasciata una dichiarazione finale che delineava le misure necessarie da adottare. Quanto di ciò è stato effettivamente attuato? E in caso contrario, quali sono stati i principali ostacoli?In qualità di uno degli organizzatori di quella conferenza, di qualcuno che è stato coinvolto nella sua organizzazione dall’inizio alla fine, ha appoggiato pienamente tutte le sue decisioni. Chiediamo che vengano attuate. La questione più importante è l’unità nazionale. Non siamo ancora riusciti a raggiungere il livello di risultati che speravamo su questo fronte. Ecco perché, sabato, alzeremo ancora una volta la voce per riaffermare i risultati di quella conferenza. Infatti, l’evento di quest’anno si baserà in gran parte su quell’incontro e vi farà riferimento. In qualità di uno degli organizzatori di quella conferenza, di qualcuno che è stato coinvolto nella sua organizzazione dall’inizio alla fine, appoggio pienamente tutte le sue decisioni. Chiediamo che vengano attuate. La questione più importante è l’unità nazionale. Non siamo ancora riusciti a raggiungere il livello di risultati che speravamo su questo fronte. Ecco perché, sabato, alzeremo ancora una volta la voce per riaffermare i risultati di quella conferenza. Infatti, l’evento di quest’anno si baserà in gran parte su quell’incontro e vi farà riferimento. Infine, c’è qualcos’altro che vorrebbe aggiungere, un messaggio per la marcia che si terrà a Losanna sabato 26 luglio, in occasione del 102° anniversario del Trattato di Losanna? Innanzitutto, invito tutti, tutte le forze curde, a riconoscere l’urgenza del momento attuale, a venire a Losanna, a dire la loro verità e ad agire insieme in accordo con questa voce collettiva. L'articolo Zübeyir Aydar: lo status quo di Losanna è finito, chiediamo un nuovo trattato proviene da Retekurdistan.it.
Crisi sociale e sanitaria in Sudan: intervista a due operatrici di Emergency
Da aprile 2023 il Sudan è lacerato da una guerra civile tra l’esercito nazionale e le forze di supporto rapido (Rsf), una milizia paramilitare. Il conflitto ha dato luogo alla più «grave crisi umanitaria al mondo» secondo le Nazioni Unite, con 12 milioni di sfollati, 25 milioni di persone affette da carestia, centinaia di migliaia di feriti e decine di migliaia di morti civili. Il sistema sanitario è al collasso, gli aiuti umanitari sono insufficienti e non riescono a raggiungere tutte le aree interessate dalla crisi. L’ospedale Salam center di Emergency nella capitale Khartoum, attivo dal 2007, è rimasto in piedi per tutta la durata della guerra; solo da gennaio 2025 ha vaccinato 1133 bambini, ne ha visitati 4633 e ha accettato in pronto soccorso 2100 persone, portando a termine 41 interventi di cardiochirurgia specializzata. A raccontarlo sono Elena Giovanella, responsabile della clinica di anticoagulazione del Salam Center e Abulwahab Abdallah Hassan Suha, senior medical officer e direttrice del dipartimento. Qual è lo status del vostro ospedale e qual è stato l’impatto della guerra sulla struttura? Giovanella: L’intero sistema sanitario sudanese è gravemente danneggiato, il nostro ospedale per fortuna non è mai stato colpito. A causa della ristrettezza dei fondi e dell’impossibilità di ricevere aiuti umanitari per via aerea, le risorse mediche e chirurgiche sono molto inferiori ai bisogni della comunità. Le catene di approvvigionamento sono state interrotte, sia gli abitanti dell’area che le strutture sanitarie hanno dovuto comprare le scorte al mercato nero, per un costo che in pochissimi potevano permettersi. Al momento il nostro staff è composto da 120 persone, 10 internazionali e 110 nazionali, e viviamo dentro la struttura. Riusciamo a fare al massimo 20 operazioni al mese, dobbiamo selezionare i pazienti da sottoporvi in base a chi ha più chances di sopravvivere. All’inizio della guerra, quando le Rsf controllavano la città, eravamo lontane dall’area dei combattimenti quindi a differenza di altri ospedali non abbiamo subito danni eccessivi. A partire dall’ottobre 2024, quando l’esercito ha lanciato la campagna di riconquista della capitale, ci siamo ritrovate nel mezzo del fuoco incrociato: abbiamo dovuto allestire un bunker nel seminterrato dove durante i bombardamenti portavamo anche i pazienti. Ritirandosi, poi, le milizie hanno distrutto o portato via tutti i cavi elettrici lasciando la città completamente al buio e il carburante necessario per alimentare il generatore era difficile da trovare – a un costo comunque molto alto – mettendo gravemente a rischio la tenuta dell’ospedale. Suha: Durante tutta la campagna non entrava nulla nell’area, siamo sopravvissute grazie alle scorte di cibo secco e abbiamo organizzato camion di distribuzione dell’acqua, che riuscivamo a rimediare da un pozzo sotto la struttura, per la popolazione locale rimasta senza. Da gennaio, quando i combattimenti si sono intensificati, abbiamo dovuto interrompere totalmente la chirurgia, perché l’ospedale poteva essere un obiettivo militare e operare era troppo pericoloso. Abbiamo ripreso solo a fine aprile. In questi due anni la struttura è stata riorganizzata più volte, in base alle esigenze: abbiamo aperto un ambulatorio pediatrico che oggi si occupa di varie patologie tra cui la malnutrizione, che interessa tre milioni di bambini nel paese. Siamo ripartite anche con il programma vaccinale, ma in molti hanno saltato dosi critiche e sono esplose epidemie come il colera che ora colpisce sei regioni. Allo stato attuale è anche difficile monitorarne la diffusione, non abbiamo numeri precisi dei malati e dei morti. È cambiata la situazione da quando l’esercito a fine marzo ha riconquistato la città? Suha: Sì, da un lato è migliorata perché sono ripartiti gli aiuti umanitari, il cibo terapeutico per le persone affette da malnutrizione e i vaccini, dall’altro l’afflusso di pazienti è aumentato a dismisura. All’ambulatorio pediatrico riusciamo a visitare 67 bambini al giorno e negli ultimi mesi ne sono arrivati sempre di più. Sfollati provenienti da tutte le zone del conflitto sono venuti a chiedere assistenza: dal Darfur o dal Kordofan sono più di due settimane di viaggio e spesso arrivano già consumati da malattie come la tubercolosi. Una donna è arrivata dal campo profughi di Zamzam, nel Darfur, per ricevere un’operazione al cuore; quando è arrivata la sua condizione era già troppo avanzata e non abbiamo potuto procedere con l’intervento. Ci ha raccontato che al campo venivano attaccati dalle milizie ogni giorno, che stupravano, uccidevano, razziavano e arrestavano arbitrariamente. Il vostro ospedale è l’unico gratuito in una regione che interessa 300 milioni di persone e molti Stati, avete operato pazienti provenienti da 35 Paesi diversi, cosa ha comportato lo scoppio della guerra? Giovanella: L’impatto è stato devastante, allo scoppio del conflitto avevamo 35 pazienti dal Ciad, Uganda, Somaliland, Etiopia e altri Paesi in attesa di interventi chirurgici. Siamo riuscite a operarli tutti ma non sapevamo come farli evacuare. Grazie alla collaborazione di altre Ong e al nostro staff li abbiamo portati ai confini o in zone sicure. Due bambini li ho portati io stessa fino a Port Sudan, attraversando aree controllate dalle milizie. Milioni di persone hanno perso l’accesso a cure mediche specializzate gratuite, il nostro ospedale era un punto di riferimento per tutta la regione, soprattutto per il reparto cardiologico. L’impatto di questa guerra eccede i confini del Sudan. Dr. Suha come sono cambiate le geografie del suo Paese, la coesione sociale e la vita quotidiana dallo scoppio del conflitto? Suha: sento di avere due identità: quella professionale che deve rimanere concentrata e la cittadina che ha il cuore spezzato. Il Sudan è devastato. Ho perso amici, vicini e quelli che sono sopravvissuti hanno perso tutto, intere famiglie sono state separate o decimate. La mia è sfollata in Egitto, mia madre ha una malattia cronica e non la vedo da quasi due anni. Le scuole e le università sono chiuse o distrutte, i luoghi un tempo pieni di vita come le piazze, le strade, i mercati e gli spazi culturali sono sventrati o deserti. Le maglie della nostra vita quotidiana sono irrimediabilmente sfaldate, ci vorrà ben oltre la fine della guerra per ricucirle. La sfiducia e la diffidenza imperano e minano profondamente la coesione sociale, per gruppi etnici che hanno subito persecuzioni come la comunità Masalit c’è un trauma collettivo da superare. Le persone sono state colpite per la loro identità e questo lascerà delle cicatrici indelebili. Tuttavia, la società civile non è persa: ho visto famiglie accogliere vicinati interi nella loro casa rimasta in piedi, organizzare collettivamente i trasporti, condividere quel poco di cibo e acqua a disposizione. Gli studenti credono ancora nella possibilità di costruire un Paese migliore e unito attraverso la cultura e la creatività. Il Sudan ha sempre trovato la forza di reinventarsi, ci riuscirà anche questa volta. Affinché ciò avvenga, però, è necessario che sia fatta giustizia. La comunità internazionale deve costringere i responsabili di queste atrocità a prendersi le proprie responsabilità, oltre agli aiuti umanitari abbiamo bisogno di un processo politico di ricostruzione. Nell’immagine di copertina la vista aerea della città di Khartoum. Di Christopher Michel, da Flickr SOSTIENI, DIFENDI, DIFFONDI DINAMOPRESS Per sostenere Dinamopress si può donare sul nostro conto bancario, Dinamo Aps Banca Etica IT60Y0501803200000016790388 tutti i fondi verranno utilizzati per sostenere direttamente il progetto: pagare il sito, supportare i e le redattrici, comprare il materiale di cui abbiamo bisogno L'articolo Crisi sociale e sanitaria in Sudan: intervista a due operatrici di Emergency proviene da DINAMOpress.
Ilva. L’unica strada è una vera riconversione.
Intervista a Massimo Ruggieri, Presidente di “Giustizia per Taranto”. Sorge una città nel sud dell’Italia che è stata la culla della Magna Grecia abbracciata da due mari: chi la visita ne rimane folgorato per la bellezza e la storia millenaria, visto che è stata fondata nel 706 avanti Cristo. Eppure da due decenni è banalmente la città dell’Ilva! È solo una delle offese che vengono inopinatamente fatte a Taranto: non è più la sede di uno dei musei archeologici più importanti d’Italia e d’Europa e non quella del Castello aragonese (fortezza medievale tra le più ammirate), ma il territorio che ospita il siderurgico più grande e più inquinante d’Europa. Quella fabbrica, sebbene stia lentamente collassando per conto suo, è ancora in grado di distribuire diossine e morti, benzene e malattie, polveri sottili e dolore. Una città stremata ha raccolto tutte le sue energie residue per gridare a chi doveva apporre una firma alla continuazione della produzione con modalità obsolete e altamente insalubri, ‘Chiudete quel mostro!’, ‘Bloccate il catorcio!’Abbiamo raggiunto telefonicamente Massimo Ruggieri che di Giustizia per Taranto è il presidente. Presidente Ruggieri, a Taranto state vivendo giorni particolarmente delicati per la questione legata all’ex-Ilva. Ne vuole parlare? Sì, è in dirittura di arrivo il procedimento per autorizzare l’ex-Ilva per dodici anni con il ripristino di tre altiforni a carbone. Sostanzialmente si sta riportando la fabbrica al periodo dei Riva con tutte le conseguenze che quella nefasta gestione comportò. Un’evidente forzatura del Governo per favorire la produzione ad ogni costo. Si intende, poi, edulcorare questa nuova Autorizzazione Integrata Ambientale con un accordo di programma interistituzionale che prevede un percorso di ‘decarbonizzazione’ estremamente vago, la cui valenza sarebbe tutta da verificare e i cui costi (non meno di due miliardi di euro) sono scaricati su chi acquisirà la fabbrica. A tale proposito vale la pena ricordare che la gara pubblica aperta dal Mimit solo qualche mese fa, non ha trovato alcun compratore disponibile a investire più di 500 milioni di euro su una fabbrica che è ormai ridotta ai minimi termini. Fuori dalla Puglia, passa il messaggio che volete chiudere la fabbrica sebbene siano stati fatti degli interventi per ammodernarla. Come considera questa narrazione? È una narrazione figlia della propaganda del Governo. Si vuol far credere che i problemi di Taranto siano stati superati mentre drammi, sperperi e contraddizioni sono ancora sul tavolo. La cosa è certificata a partire dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea che presto stabilirà sanzioni per l’Italia, rea di non tutelare i cittadini di Taranto dall’inquinamento. Inoltre a ottobre si aprirà un nuovo processo ai danni di Acciaierie d’Italia (attuale gestore della fabbrica) in quanto continua a inquinare. Tuttavia, occorre sgomberare il campo dall’assunto nel quale si racchiude spesso la narrazione sull’ex-Ilva e cioè che si è vittime del dualismo fra salute e lavoro. Non è così ormai da anni, poiché alla mancata tutela della salute e dell’ambiente nel territorio, si affianca anche una gravissima crisi economica e occupazionale. L’Italia spende centinaia di milioni di euro all’anno per la cassa integrazione di migliaia di lavoratori di Acciaierie d’Italia e a questo si aggiungono le enormi perdite economiche che quella fabbrica comporta ogni giorno, dal momento che produce sotto i livelli che le procurerebbero profitti. Motivo per il quale si ha urgente bisogno di spingere la produzione a livelli insostenibili per la nostra comunità, ma in grado di tornare a generare profitto (sempre ammettendo che ci siano spazi nell’attuale mercato dell’acciaio, cosa mai considerata dalla politica). In più è noto da tempo che, qualunque gestore acquisirà gli impianti, dovrà dar luogo a importanti esuberi e, se davvero si intenderà sostituire gli attuali altiforni con forni elettrici, si arriverà a quasi due terzi di possibili licenziamenti. Vuole parlare dei sindacati che a Genova hanno avuto un ruolo decisivo nella chiusura della pericolosa ‘area a caldo’ del capoluogo ligure? Purtroppo, il ruolo dei sindacati in questa vicenda è di assoluta retroguardia. La violenza con cui il Governo ricatta i tarantini agitando lo spettro dei licenziamenti in caso di chiusura, anche solo parziale, della fabbrica, funziona per prima proprio su di loro. Ciò li porta da anni a salvaguardare la produzione e quasi a temere prospettive di riduzione o di decarbonizzazione della fabbrica, in considerazione dei posti di lavoro in meno che comporterebbero. Oltre a qualche sporadico appello alla sicurezza sul lavoro e all’ambiente, a volte pare di poter sovrapporre le loro posizioni a quelle di Confindustria. D’altra parte, a Taranto non dimentichiamo che, per qualche anno fecero scendere in strada i lavoratori della fabbrica accanto all’azienda per protestare contro la magistratura che aveva appena fermato gli impianti dell’area a caldo poiché insicuri per i lavoratori e inquinanti. A Genova una ventina di anni fa le lotte si fecero, al contrario, per pretendere la chiusura degli impianti più inquinanti e si fu capaci di ottenere questo successo con la forza rivendicativa di un’unione di intenti con il quartiere e la città. Quegli impianti furono trasferiti a Taranto raddoppiando la capacità inquinante dell’Ilva nella nostra città, ma qui, evidentemente, i loro effetti non sono stati giudicati dai sindacati ugualmente dannosi. E che ruolo ha avuto la politica nazionale rispetto alla tutela della salute e della vita dei tarantini? Nessuno, poiché non ha affatto tutelato i tarantini. La politica nazionale si è sempre apertamente e poderosamente schierata dalla parte della produzione e della finanza che ne ha garantito la prosecuzione. La prova più evidente è l’iper legiferazione che ha riguardato l’ex-Ilva, per la quale siamo arrivati a contare oltre venti provvedimenti ad hoc per innalzare limiti agli inquinanti, assicurare fondi, aggirare i provvedimenti della magistratura e rendere legali le straordinarie ingiustizie generate dalla fabbrica. Da milanesi sappiamo bene che l’attenzione dei tarantini è rivolta al tribunale della nostra città che potrebbe mettere la parola ‘fine’ ai tormenti e al dolore di un’intera comunità. Può spiegare bene su cosa deve decidere? Il Tribunale di Milano è stato interpellato attraverso un’inibitoria rivolta contro Acciaierie d’Italia da un’associazione chiamata Genitori Tarantini ed altri cittadini che, difesi dagli avvocati Rizzo Striano e Amenduini, hanno chiesto se fosse normale che la fabbrica produca in assenza autorizzativa e procurando danni sanitari ai tarantini. La richiesta esplicita è stata di sospendere gli impianti dell’area a caldo, ovvero quella più inquinante. Questo è il motivo per cui il Ministro Urso ha avuto particolare fretta per far approvare la nuova Autorizzazione Integrata Ambientale per l’ex-Ilva. Tuttavia, resta ancora da verificare se la fabbrica non produca danni a salute e ambiente. In caso di pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana – hanno puntualizzato i giudici della Corte di Giustizia Europea che hanno fornito parere al Tribunale di Milano -, l’esercizio dell’installazione deve essere sospeso. Lottate da anni contro poteri fortissimi ché demoliscono tutte le conquiste fatte per le strade e nelle aule di giustizia (anche europee). Se le cose andassero per il verso della giustizia sociale e ambientale, Taranto diventerebbe un esempio virtuoso a cui guardare da ogni parte d’Italia e non solo! È esattamente così e ne siamo convinti e consapevoli. L’esempio a cui spesso guardiamo per ragioni di sovrapponibilità, è quello della Ruhr, in Germania. Lì, a fronte di una crisi economica, ambientale e sanitaria, si dette luogo negli anni ’90 al più straordinario esempio di riqualificazione di un territorio.     Laura Tussi
Manifestazione 20 luglio ad Idro, Gianluca Bordiga: “Il Lago d’Idro non è un serbatoio d’acqua per l’agrobusiness!”
Domenica 20 luglio 2025 alle ore 18:00 a Idro, sul Lago d’Idro, nel piazzale principale della Pieve Vecchia (Chiesa di Santa Maria ad Undas), via Trento, strada principale verso il Trentino – indetta dall’Associazione Amici della Terra Lago d’Idro Valle Sabbia, con la partecipazione di tutta la Federazione del Fiume Chiese ed il Comune di Idro – avrà luogo la grande Manifestazione a Difesa della Naturalità del Lago d’Idro, nonché dell’ambiente dell’intero corpo idrico del Fiume Chiese, di cui il lago ne è un meraviglioso rilassamento morfologico. Con un importante coinvolgimento degli operatori turistici, si attende una grandissima partecipazione da parte di attivisti provenienti dal Trentino, dalla Val di Edro, dalla Val Trompia, da Desenzano, dalla pianura bresciana alle aree mantovane, da Bagolino a Calvisano passando per Montichiari, Acquanegra e Remedello. Per capire i temi che le associazioni ambientaliste porteranno alla manifestazione, abbiamo intervistato Gianluca Bordiga, membro dell’Associazione Amici della Terra e portavoce della Federazione del Fiume Chiese, coordinamento di associazioni e comitati ambientalisti in difesa dell’omonimo fiume.   Come nasce la vostra lotta in difesa del Lago d’Idro? Il Lago d’Idro è un bacino lacustre di origine glaciale situato tra la Lombardia e il Trentino-Alto Adige, è un ecosistema fragile e un importante nodo ecologico all’interno della Rete Natura 2000. Il Lago d’Idro è un rilassamento morfologico del fiume Chiese, è parte di un bacino idrografico complesso e transregionale, cinque macroaree diverse tra esse, 31 Comuni su due Regioni e tre Province. Dal 2007, dopo brutti decenni di gestione predatoria dei livelli – originata da un Regio Decreto del 25.10.1917 per scopi meramente produttivi – è stata introdotta mediante un accordo prefettizio una regola di gestione più equilibrata, simile al naturale, limitando l’escursione del lago a 1,3 metri verticali, determinando una evidente rigenerazione ecologica che ha fermato l’erosione delle rive e favorito la ripresa della vitalità della fauna ittica, quindi anche del fenomeno turistico. Però, il 5 agosto 2008 Regione Lombardia ingannò i sindaci di Idro, Anfo e Bagolino dicendo che sarebbe stato necessario intervenire con l’avvio di un progetto infrastrutturale volto a reintrodurre escursioni verticali innaturali fino a 3,5 metri per prevenire la paleofrana. Il fenomeno, denominato paleofrana, in corrispondenza della diga di ritenuta a paratoie mobili, era noto da molto tempo ma è stato trascurato fino all’epoca in cui è scaduta la concessione della gestione delle acque (durata 70 anni) da parte della SLI – ovvero dal 1987 – e sono cominciate le trattative sulle possibili quantità d’acqua prelevabili dal lago. Subito, noi del coordinamento “Salviamo il Lago d’Idro” invitammo i sindaci a non firmare per quel progetto, ma loro firmarono. Quella firma diede inizio a 21 anni di battaglie in difesa del nostro lago da progetti invadenti ed esclusivamente finalizzati a scopi speculativi da parte dell’agrobusiness. Cosa sta succedendo ora? E’ successo che dopo anni nell’ombra, questo progetto non è finito nel dimenticatoio ma è stato modificato e in senso peggiorativo. A settembre 2025, il Commissario Nazionale per l’Emergenza Idrica – a cui hanno affidato il progetto con l’obiettivo “risparmia-acque” – ha voluto far partire il bando per nuove opere infrastrutturali. Il progetto ora prevede la costruzione di nuove opere di regolazione del Lago d’Idro per permettere una gestione più aggressiva delle acque, ossequiando le richieste irrigue intensive e a scorrimento della pianura medio alta orientale lombarda. Questo porterebbe ad un abbassamento del lago fino a 3,3 metri. Si tratta di progetti che favorirebbero l’irrigazione selvaggia su modello delle opere per la captazione artificiale delle acque del lago d’Idro formulata nel 1855, ovvero lo “scorrimento”. Quest’opera inciderebbe sul lago ed il fiume Chiese, prevedendo anche una Savanella all’incile del lago e infrastrutture invasive finalizzate a eludere la normativa sul deflusso ecologico, per sfruttare in maniera abnorme queste acque. Il progetto, modificato rispetto alla versione VIA 2013, è privo di nuova valutazione di impatto ambientale, come invece richiesto per variazioni progettuali rilevanti. Tutto ciò è assurdo se pensiamo che dal 2007 – con la fine delle folli gestioni – è andato incontro ad un’autorigenerazione ecologica importante dal punto di vista della flora e della fauna ittica. Quale impatto avrebbe questo progetto su zone particolarmente tutelate? Sulla sponda nord c’è la Zona Speciale di Conservazione (ZSC/ZPS) IT3120155 “Biotopo di Baitoni – Lago d’Idro”, interamente trentina. Si tratta di un habitat di interesse comunitario che funge da corridoio ecologico per specie di avifauna, anfibi e pesci. Il “Biotopo di Baitoni” è soggetto a tutela provinciale ed è classificato come “zona umida di pregio”. Le escursioni forzate dei livelli, previste dal progetto, impatterebbero in modo permanente sull’habitat, sui popolamenti bentonici e sulla vegetazione riparia. Il rischio è la perdita della qualifica di ZSC/ZPS a causa dell’interruzione delle funzioni ecologiche dell’area. Sono state riscontrate violazioni procedurali e partecipative su questo progetto? Il progetto era stato sottoposto a Valutazione d’Impatto Ambientale (VIA) nel 2013 e successivamente prorogato due volte (2019 e 2023), nonostante cambiamenti significativi nel contesto ambientale e progettuale, con un costo raddoppiato da 48 a 97 milioni di euro. Le proroghe, come evidenziato in diverse interrogazioni parlamentari e petizioni ai Consigli della Regione Lombardia (INP/4/XII) e della Provincia autonoma di Trento (4/XVII), sono avvenute in assenza di adeguata informazione e consultazione dei cittadini e degli enti locali, in violazione della Convenzione di Aarhus e delle direttive europee 2011/92/UE (VIA) e 2000/60/CE (acque). Le proroghe della VIA a questo progetto sono avvenute con la mancata attivazione dell’accordo operativo della convenzione tra Agenzia Interregionale Del Fiume Po (AIPo), Regione Lombardia e Comunità Montana. Sarebbe dovuta essere proprio Comunità Montana a coordinare il coinvolgimento dei soggetti locali. Queste proroghe sono avvenute senza informazione ambientale adeguata né ai cittadini né agli enti locali territorialmente coinvolti; e senza una nuova consultazione pubblica, nonostante modifiche sostanziali al progetto e mutamenti ambientali. Inoltre, l’erogazione di fondi europei FESR ai Comuni (programmazione 2007-2013) è stata subordinata a un Accordo di Programma che, come condizione, imponeva la rinuncia preventiva degli enti beneficiari ad avviare qualsiasi azione amministrativa o giudiziaria per la tutela dello stesso lago d’Idro, nel contesto del progetto delle nuove opere di gestione del lago. Tale clausola condiziona il libero esercizio delle funzioni pubbliche di controllo e tutela ambientale, viola il principio di leale cooperazione istituzionale e pone seri dubbi di compatibilità con il diritto dell’Unione, con i principi di partecipazione effettiva e indipendenza amministrativa sanciti dalla Convenzione di Aarhus, dalla direttiva 2011/92/UE e dal Regolamento FESR 2021/1058. Tutto ciò rischia di introdurre distorsione nell’accesso ai fondi europei, subordinando l’ottenimento con la rinuncia ad agire nell’interesse pubblico e ambientale, configurando un conflitto con i principi generali del diritto ambientale europeo e con i criteri di ammissibilità e condizionalità ex ante previsti dai regolamenti UE. Chi spinge per questo progetto altamente invasivo? La politica regionale della Lombardia è soggiogata e condizionata da un comparto agricolo che irriga 45mila ettari di 40 comuni della pianura medio-alta orientale lombarda con le acque del corpo idrico del fiume Chiese tramite un sistema obsoleto. Con queste opere il comparto agricolo vuole arrivare a poter derivare, cioè togliere quando vuole d’estate tutta l’acqua che gli serve. Noi lo diciamo da molto tempo che tra i nemici giurati degli ecosistemi del Lago d’Idro e del Fiume Chiese c’è Ettore Prandini, Presidente di Coldiretti, che nel 2018 ha dichiarato: “Il Lago d’Idro è stato concepito per l’agricoltura”. Dichiarazioni assurde se pensiamo che il Lago d’Idro è un bacino di origine glaciale. Questi si credono onnipotenti a tal punto da poter modificare un ambiente naturale per i loro profitti, fatti su un disastro ecologico ed un modello di sviluppo assurdo. La crisi climatica ha reso ancor più evidente quanto sia irresponsabile considerare il lago d’Idro come una semplice riserva idrica da sfruttare in modo innaturale e megalomane, mentre è un ecosistema fragile da proteggere. Secondo l’ultimo rapporto OCSE, luglio 2025, il 40% delle terre emerse è già esposto a rischio siccità e l’agricoltura – che consuma circa il 70% dell’acqua dolce disponibile – è chiamata a trasformarsi radicalmente per garantire resilienza climatica e sostenibilità. Quali sarebbero gli obiettivi da perseguire per il Lago d’Idro? Tra le priorità urgenti figurerebbero la riconversione dei sistemi irrigui verso l’irrigazione a goccia con un potenziale risparmio fino al 76%; la riforma della tariffazione dell’acqua per promuoverne un uso efficiente e responsabile; investimenti in pratiche agricole e piani territoriali basati sulla Natura e i suoi cicli naturali. Invece di seguire queste indicazioni, sembra che le istituzioni vogliano mettere fondi pubblici per aumentare i prelievi dal lago, senza affrontare le reali inefficienze del sistema irriguo della pianura, noto per dispersioni e sprechi. Questa scelta istituzionale non solo è miope, rischia di aggravare la condizione ecologica del lago e del fiume Chiese, in contrasto con gli obiettivi europei. La vera “messa in sicurezza” è quella che protegge il lago, le comunità locali e il clima; e non quella che impone prelievi coatti per alimentare un sistema irrigatorio inefficiente ed insostenibile già nel medio termine. Cosa si sente di dire in vista della vostra manifestazione? Riproporre progetti del genere significa andare incontro ad un rischio di deterioramento degli ecosistemi che è stato riconosciuto anche da due risposte della Commissione Europea (E-003863/2022 e E-002855/2024) a interrogazioni parlamentari che richiamano il principio di prevenire il deterioramento degli ecosistemi acquatici e degli ecosistemi terrestri dipendenti e l’obbligo di informazione ambientale e di partecipazione del pubblico. Chi ama la Natura, l’ambiente, la giustizia sociale e crede che l’interesse industriale non debba assolutamente andare a discapito degli ecosistemi, venga alla manifestazione. Dobbiamo impedire questo progetto nel solco della civiltà. Fate forza a questa manifestazione con la vostro solidarietà.   Per ulteriori info: https://youtube.com/live/7bPFQ39onJo?feature=share https://www.youtube.com/live/sAgX8phi1_g?si=jrNuQfwtuaH6G79i https://www.rainews.it/tgr/lombardia/video/2025/07/lago-didro-la-protesta-contro-il-nuovo-sbarramento-delle-acque-2aec9cb8-49ab-4efb-8d7c-bbab1412b51c.html?wt_mc=2.www.wzp.rainews http://www.salviamoillagodidro.it/ https://www.radiondadurto.org/2025/04/09/lago-didro-non-diventi-serbatoio-al-servizio-di-unagricoltura-che-spreca-lacqua/ Redazione Sebino Franciacorta