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Bukavu: dalla parte del popolo
Stella Yanda è una donna congolese che vive a Bukavu e ha dedicato tutta la sua vita al lavoro sociale, partecipando alla nascita della Società civile, di cui è ancora oggi un punto di riferimento. Le abbiamo rivolto alcune domande. Quali sono stati i suoi primi passi nel lavoro sociale? Nel febbraio del 1981, sono entrata a far parte di ” Solidarité paysanne” (Solidarietà contadina), la prima organizzazione laica, almeno nel Kivu, come si chiamava la nostra provincia prima di essere divisa in due, Nord-Kivu e Sud-Kivu. La nostra preoccupazione era che la popolazione agricola, che costituiva oltre l’80% della popolazione totale, non venisse presa in considerazione nelle principali decisioni politiche del Paese, soprattutto quelle riguardanti i settori dell’agricoltura e dello sviluppo. “Cosa state facendo?”, chiedevamo. “Niente”, rispondevano i contadini, anche se erano loro che davano da mangiare a tutti con i frutti del loro lavoro e pagavano le tasse e imposte. Abbiamo iniziato a sensibilizzarli affinché prendessero coscienza del loro importante ruolo e della necessità di organizzarsi per essere forti e rivendicare un posto nei principali processi decisionali del Paese. Eravamo nel pieno della dittatura di Mobutu, durante la Guerra Fredda tra il blocco orientale e quello occidentale. Il regime e altre persone malintenzionate ci chiamavano comunisti e ci accusavano di lavorare per l’URSS. Alla fine, hanno capito che il nostro obiettivo era lavorare con la base, ma dovevamo anche sviluppare strategie utilizzando strutture o processi accettabili o tollerati. Così, abbiamo creato con i produttori della Piana della Ruzizi delle cooperative agricole, nelle quali si mescolavano uomini e donne. Quali erano i rapporti tra uomini e donne in queste cooperative? Nei nostri villaggi nella Piana, alle donne non era permesso di partecipare a riunioni con degli uomini o parlare in pubblico. Abbiamo sottolineato la partecipazione anche delle donne. Il primo passo è stato che le donne partecipassero alle riunioni, anche se non parlavano. Abbiamo istituito un “servizio femminile”, con due animatrici il cui ruolo specifico era quello di lavorare con le donne per sensibilizzarle e incoraggiarle a parlare di fronte agli uomini. Questo ci ha fatto capire che, oltre alle sfide generali dello sviluppo, le donne avevano i loro problemi, come il carico di lavoro, la questione delle talee di manioca, alimento base, e la necessità di andare a cercare acqua su lunghe distanze. Non saper leggere o scrivere rendeva loro difficile partecipare ai comitati delle iniziative messe in atto. Così, abbiamo iniziato a considerare progetti che affrontassero specificamente le sfide delle donne. La priorità era la questione dell’acqua potabile e della salute pubblica, e l’onere di prendersi cura dei malati. Dopo la creazione della Cooperativa agricola (Mkulima), della Cooperativa degli allevatori di bestiame (Butuzi) e della Cooperativa dei pescatori del lago Tanganica (Virigwe), abbiamo iniziato a sviluppare progetti per rendere più fruibile le sorgenti e acquedotti per avvicinare i punti di distribuzione dell’acqua alle case e ridurre così la duplicazione del lavoro per le donne. Ciò ha portato a una diminuzione delle malattie legate al consumo di acqua sporca. Con chi avete collaborato? Il governo, con i suoi servizi tecnici, aveva i tecnici di cui avevamo bisogno, ma non godeva quasi della fiducia della popolazione, perché molti rendevano la loro vita più difficile anziché facilitarla. Tuttavia, c’erano alcuni funzionari governativi con cui abbiamo potuto collaborare in ambiti puramente tecnici a livello della subregione e del territorio d’Uvira come veterinari, agronomi… Abbiamo beneficiato del supporto del governatore dell’epoca, il sig. Mwando Simba, che ci ha aiutato e incoraggiato molto. Quando venivamo a Bukavu, andavamo a parlare con padre Georges Defour dei Missionari d’Africa, direttore dell’ISDR (Istituto Superiore per lo Sviluppo Rurale). Era soddisfatto del nostro lavoro, ci dava consigli e indirizzava a noi degli studenti per tirocini. Quando non avevamo ancora i permessi di lavoro ufficiale, ha persino accettato che Solidarité Paysanne fosse considerata una branca rurale dell’ISDR. La strategia di avere alleati, di collaborare con le istituzioni, con persone che avevano sufficiente influenza, ha permesso di svolgere il nostro lavoro senza problemi. In quali circostanze è nata la società civile? Nella RDC, abbiamo iniziato a parlare di società civile in modo strutturato negli anni ’90, ma questo concetto è di vecchia data: comprende, ad esempio, tutto il lavoro svolto dal movimento sindacale per rivendicare i diritti dei lavoratori. Come Solidarité Paysanne, abbiamo esteso l’esperienza a tutto il Paese, attraverso il Sindacato di Alleanza Contadina, che riuniva i delegati delle cooperative agricole e altre iniziative di base in tutte le province. Pertanto, quando abbiamo avviato la dinamica di costituzione della Società Civile alla vigilia della Conferenza Nazionale Sovrana, c’erano già agganci in tutto il Paese. Nel Sud-Kivu, abbiamo scoperto che c’erano anche altre organizzazioni laiche, perché Solidarité Paysanne non era in grado di rispondere a tutte le esigenze della base. Ci siamo chiesti come lavorare in sinergia ed essere forti nei confronti dell’apparato statale. Così, nella Piana, è nato il CDR (Comitato di Sviluppo Rurale) di Uvira-Fizi, che ha riunito le Cooperative di pescatori del Lago Tanganika, gruppi di donne, cooperative di allevamento, cooperative di produzione agricola e iniziative di trasformazione. Successivamente, all’interno di Solidarité paysanne, vennero create UWAKI (Umoja wa wanawake wa Kivu), che riuniva organizzazioni dedicate alle questioni femminili, e FEDCOOP (Federazione delle Cooperative Contadine), che includeva tutte le altre organizzazioni. A livello generale, venne creata CRONG (Consiglio regionale delle ONG), che riuniva tutte queste organizzazioni a livello provinciale, e successivamente CNONG (Consiglio nazionale delle ONG) a livello nazionale. Durante la Conferenza Nazionale del 1991-92, dei delegati, ci sono stati dei delegati, donne e uomini agricoltori, che hanno partecipato, segnando una nuova dinamica che avrebbe consolidato e promosso questi concetti di Società Civile, come insieme di organizzazioni non governative e associative, prive di connotazioni statali, di polizia, militari o tribali-etniche. È nata così la Società civile, nella sua forma attuale, nella RD Congo. Quali erano i vostri rapporti con gli altri paesi della regione dei Grandi Laghi? Allo stesso tempo, esistevano anche approcci regionali, poiché avevamo gli stessi partner internazionali, come la Cooperazione Belga. Ad esempio, quando si sviluppava una struttura in Ruanda, la proponevano anche alle organizzazioni congolesi e burundesi. Abbiamo svolto un lavoro congiunto, che ha avuto un impatto significativo sul lobbying. I nostri amici del Nord Kivu, Beni e Butembo avevano anche avviato contatti con organizzazioni in Uganda. Abbiamo inviato degli animatori in Tanzania per imparare com’erano strutturate le cooperative e quali erano le loro tecniche di produzione di sementi. Qual era il ruolo e il posto delle chiese? Quando abbiamo strutturato la Società Civile, avevamo previsto dieci componenti, tra cui le confessioni religiose. Sebbene la Chiesa cattolica abbia svolto e continui a svolgere un ruolo importante nella strutturazione della Società Civile, è una sottocomponente di questa componente. Le chiese hanno sempre collaborato per delegare un rappresentante all’Ufficio di Coordinamento e un membro alla guida del Consiglio Etico. Va notato che le chiese hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale in momenti cruciali della storia del nostro Paese. Ad esempio, possiamo citare l’organizzazione del Simposio Internazionale per la Pace a Butembo, che ha mobilitato numerose persone provenienti dall’ex provincia del Kivu, da paesi limitrofi come Burundi, Uganda e Kenya, nonché dall’Europa (Svezia, Italia, Francia, Belgio, ecc.). C’è anche il dialogo organizzato a Kinshasa, comunemente noto come dialogo della CENCO, che aveva riunito diversi attori politici quando l’ex presidente Joseph Kabila voleva proporsi per un terzo mandato, sebbene la Costituzione della RD Congo limiti i mandati presidenziali a due. Anche oggi, le chiese nella RD Congo si mobilitano da diversi mesi per riunire gli attori politici e porre fine al conflitto armato che continua a affliggere la popolazione della parte orientale del Paese. Il ruolo delle chiese rimane molto significativo. Tuttavia, è legato al dinamismo e all’impegno dei capi delle confessioni religiose. Cosa serve per essere un vero attore sociale? Quando abbiamo strutturato la Società Civile, abbiamo previsto dieci componenti, tra cui le confessioni religiose. Sebbene la Chiesa Cattolica abbia svolto e continui a svolgere un ruolo importante nella strutturazione della Società Civile, ne è un sottocomponente. Le chiese hanno sempre collaborato per delegare un rappresentante all’Ufficio di Coordinamento e un membro a presiedere il Consiglio Etico. Cosa serve per essere un vero operatore sociale? La cosa fondamentale è amare ciò che si fa, crederci e impegnarsi a farlo, e a farlo con gli altri… Altrimenti, rimaniamo artificiali e non giungiamo a conclusioni. Nel nostro gergo, parliamo di attori-soggetti e attori-oggetti. Un attore-soggetto si impegna, crede in ciò che fa e cerca anche di convincere gli altri a unirsi a lui. Spesso invece, gli attori-oggetti si rivolgono al lavoro sociale perché non hanno lavoro altrove e sono in cerca di uno stipendio. Sono sempre puntuali all’inizio del lavoro, alle 16:05 hanno già la borsa pronta e iniziano a guardare l’orologio per andarsene precisi alle 16. Quando c’è un’emergenza fuori programma, gli attori-soggetti vi si precipitano, gli attori-oggetti sono a disagio. Alcuni, impegnati nella città, si rifiutano di andare nei villaggi della campagna, eppure il nostro lavoro richiede sacrificio, con l’obiettivo di dare il nostro contributo, per quanto piccolo, per le persone che soffrono e hanno bisogno di aiuto. Pressenza IPA
Intervista a Irit Hakim e Aisha Khatib: “da Combattenti per la Pace noi continuiamo a sperare”
Intervista a Irit Hakim e Aisha Khatib, attiviste dell’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace, in Italia dal 21 al 24 settembre 2025 Il prossimo 21 settembre sarà la Giornata Internazionale della Pace e dobbiamo ringraziare la Fondazione Gariwo di Milano per aver concepito un’iniziativa così ricca di contenuti, contributi, momenti di confronto, che dalle 14 e fino alle 20 di sera sarà possibile seguire all’interno del Giardino dei Giusti, in zona Monte Stella a Milano. (Clicca sull’immagine per il programma completo) “Alla luce di quanto sta accadendo in Medio Oriente e dell’orrore  che non si placa abbiamo voluto indicare la possibilità di un’alleanza tra le forze intenzionate a ricostruire i ponti dalle macerie” leggiamo nel comunicato che riepiloga un programma giocato sul tema della Tenda del Lutto, come quella che nel marzo del 2024 è stata allestita nel villaggio bi-nazionale di Neve Shalom Wahat al-Salam. Uno spazio in cui sarà possibile sostare “per tutto il tempo che sarà necessario e sintonizzarsi così con il battito del proprio cuore, per un momento di riflessione.” L’iniziativa ha ricevuto l’adesione di numerose associazioni (tra queste anche il nostro Centro Studi Sereno Regis) ed è stata organizzata in collaborazione con IPSIA ACLI, il Centro di Nonviolenza Attiva e l’Associazione Italiana Amici di Neve Shalom Wahat al-Salam. E le ospiti davvero ‘speciali’ di questa giornata, saranno la palestinese Aisha Khatib e l’israeliana Irit Hakim, attiviste dell’organizzazione israelo-palestinese Combatants for Peace, che nei giorni successivi all’evento milanese sarà possibile incontrare anche a: * 22 settembre, ore 18 a Torino: CAM Culture and Mission, via Cialdini, 4; * 23 settembre, ore 18 ad Aosta: Sala Expo Plus, via Garibaldi, 7; * 24 settembre, ore 21 a Morbegno: Complesso San Giuseppe, via V Alpini, 190. In attesa di incontrarle di persona, le abbiamo raggiunte per telefono nei giorni scorsi ed ecco qui un’anteprima delle loro storie. AISHA KHATIB Vivo a Nablus, lavoro come manager in una scuola elementare, sono sempre stata impegnata nel sociale e ho avuto sei figli di cui tre “in salvo” tra Manchester e Polonia. E ho già qualche nipotino. Sono entrata nel Movimento dei Combatants for Peace sei anni fa, 2018, ma già dal 2004 partecipavo alle attività dei Parents Circles Family Forum per via della morte del mio fratello amatissimo Mahmoud, colpito al cuore quando aveva 17 anni da un soldato dell’IDF. Era il 7 agosto 1989, non potrò mai dimenticare quella data. Stava per strada, diretto alla casa dei nonni. O forse è possibile che anche lui stesse partecipando al lancio di qualche pietra, erano gli anni della prima intifada. Un soldato gli ha sparato proprio al cuore. E’ sopravvissuto per dieci anni e si è persino sposato, ma solo pochi giorni dopo il matrimonio è morto e la diagnosi è stata chiarissima. E’ stata una morte differita nel tempo, ma la causa è stata quel proiettile. Ed è morto lo stesso giorno in cui è stato colpito: 7 agosto 1999. Pochi giorni dopo la sepoltura di Mahmoud anche un altro fratello, solo due anni più giovane di lui, si è buttato dal quinto piano di un palazzo ed è morto sul colpo. I due erano legatissimi, e dunque doppia perdita, una più dolorosa dell’altra. I nostri genitori non si sono mai più riavuti da questa tragedia, ed è toccato a me, figlia maggiore, cercare di rimettere insieme i pezzi, ma non è stato facile. Come poteva essere possibile una situazione di oppressione come quella che ci viene inflitta ogni giorno, da decenni. Com’è possibile che degli  esseri umani possano diventare così crudeli verso altri essere umani? Cosa c’è nella testa degli israeliani… Sapevo di questi incontri promossi dai Parents Circle, e mi feci convincere da un’amica a iscrivermi a un incontro che si teneva a Beit Jala, quattro ore di macchina per arrivarci e altrettante per tornare. Ricordo ancora come fosse adesso la stretta allo stomaco che mi prese quando entrai in quella sala, tutti che si parlavano animatamente come fossero amiconi, alcune donne che persino si abbracciavano, tra palestinesi e israeliane… come poteva essere possibile, con tutto quello che stavamo subendo? Mi prese un moto di rigetto quasi fisico, volevo andarmene immediatamente, ma ahimè non disponevo della mia macchina per cui mi misi alla ricerca di un taxi: ma era quasi notte, avevo pochi soldi, rimasi per forza a sciropparmi quel teatrino. Improvviamente mi è venuta incontro Sharon, non potrò mai dimenticarla, e mi ha chiesto se poteva raccontarmi la sua storia. Le ho risposto di no. Ma lei non si è persa d’animo: “Abbiamo la stessa storia … anch’io ho perso un fratello”. E’ stato un momento intensissimo, ho cominciato a piangere mentre lei mi parlava di suo fratello e di quanto erano vicini, quando andavano a scuola oppure giocavano insieme, pensando a cosa sarebbero diventati da grandi. E più mi raccontava di suo fratello e più mi ritrovavo nelle sue parole. Ed è stato in quel momento che è diventato naturale chiederle di abbracciarmi mentre piangevamo insieme. Questo mio viaggio è cominciato in quel preciso momento, ed è poi proseguito con un’infinità di incontri all’interno dei Parents Circles finché non ho deciso di entrare nei Combatants for Peace. Era il 2018 e già da qualche anno c’era stata una bella evoluzione: non erano più solo ex combattenti da entrambi i fronti del conflitto, sempre più donne e giovani partecipavano alle attività del movimento. E di lì a poco la direzione sarebbe passata infatti nelle mani della attuali co-direttrici, Rana Salman ed Eszter Koranyi. In cosa consiste il mio attivismo? Nel promuove sempre di più e sempre meglio l’incontro fra donne, israeliane e palestinesi. Sto parlando di persone comuni, normali, non particolarmente intellettuali o speciali. Persone che vivono in modi diversi l’oppressione di questo continuo stato di guerra e si sentono responsabili del cambiamento, ne sentono il bisogno. E si aprono all’ascolto, invocano un cambiamento, vogliono conoscere il punto di vista dell’altra parte, in termini di rispetto reciproco, mettendosi nei panni dell’altro, questa è la cosa più importante, se vogliamo davvero la fine di questa orrenda guerra. Ed è possibile se ci riconosciamo nella nostra umanità. (…) Ciò che è successo il 7 ottobre è stato terribile. Ricordo il momento in cui ci è arrivata la notizia, mentre ero impegnata insieme ad altri CfP nella raccolta delle olive, in una località lontana da Nablus e sempre più assediata dai coloni. Sulle prima non capimmo, continuammo nel nostro lavoro. Fu solo quando stavamo sulla via del ritorno, che prendemmo coscienza della gravità di quanto era successo, e che stava per scatanarsi. Non so quanti checkpoints ci trovammo a subire quel giorno, per non dire del rischio di rimetterci la pelle pochi giorni dopo, mentre stavo guidando: a qualcuno venne la bella idea di sparare alla mia auto, conservo ancora la foto dei fori nella carrozzeria. Ma anche dopo quell’episodio non ho perso la speranza, mai e poi mai perderò la speranza. Perché credo anzi sono certa che tra gli israeliani sono tanti quelli che la pensano come noi e credono che possa esserci una ben diversa soluzione. Intanto però a Gaza succede quel che succede, che nessuno sembra in grado di impedire. Ho amici, e anche dei parenti che vivono lì e non sanno più dove andare. Alcuni preferiscono semplicemente morire dove sono, considerando che anche spostandosi avrebbero poche chances. Sto pregando, prego in continuazione, non faccio altro che pregare. IRIT HAKIM Sono nata a Rosh Pina, una piccola città nel nord d’Israele molto vicina al confine con la Siria, per cui durante la mia infanzia e adolescenza non mi sono mancate le frequentazioni con le popolazioni arabe. Ora vive vicino a Tel Aviv e sono anagraficamente in pensione, ma continuo a fare quel che ho sempre fatto, la ceramista. E mi considero, da sempre, un’attivista: di sinistra e pacifista. Il momento cruciale in questo percorso di consapevolezza è successo quando mi sono trovata ad insegnare in una località del nord d’Israele: una notte, in una scuola non lontana dalla nostra, ci fu l’attacco dei fedayin, dalla Siria. Un buon numero di studenti rimase ucciso, fu per tutti uno shock, un trauma. Avrei potuto reagire in tanti modi diversi e invece la mia unica reazione fu la realizzazione che non si poteva continuare in quel modo e quando verso la fine degli anni ’70 venne fondata l’organizzazione Peace Now, tutt’ora molto attiva ed importante, trovai naturale associarmi a quel progetto. Avevo una trentina d’anni, ero già sposata, mio marito aveva già combattuto in alcune guerre, anch’io come tutt* avevo fatto il servizio militare, ma senz’altro volevo la pace. Proprio in quegli anni c’era stato l’episodio di Uri Avnery, pacifista famoso, che era stato in visita ad Arafat, una visita considerata illegale ma così significativa circa load necessità di parlarli, essere ponti. Eravamo giovani e facevamo tutto il possibile per accrescere questa consapevolezza creando occasioni di dialogo con il “nemico”. A quell’epoca era normalissimo recarsi in visita in Cisgiordania e anche a Gaza: parlavamo con i palestinesi, ci accoglievano nelle loro case, a nostra volta li accoglievamo in Israele, per delle riunioni che erano al tempo stesso normali e surreali: eravamo di sinistra ma a nessuno veniva in mente di mettere in dubbio la legittimità dell’occupazione. In generale eravamo convinti che ok: a un certo punto eravamo arrivati, ci eravamo insediati… davamo per scontato troppe cose. Nessuno avrebbe immaginato che saremmo arrivati agli estremismi di oggi, né era in grado di elaborare un’analisi del problema che era già così evidente allora. Tutto questo succedeva parecchio tempo prima che esistessero i Combatants for Peace, che sono nati nel 2006. E fu qualche anno dopo, 2009, che mi capitò per la prima volta di assistere alla Memorial Ceremony, che ogni anno viene organizzata in coincidenza con Yom Hazikarom, la festività più patriottica del calendario ebraico: il giorno in cui Israele ricorda uno per uno tutti i morti nelle tante guerre combattute della sua breve storia. Una commemorazione che fin dal primo anno della loro esistenza i Combatants for Peace hanno riproposto in chiave bi-nazionale, per ricordare anche le tante vittime palestinesi, idea inaccettabile per il mainstream. Per me invece è stata fin da subito la cosa che era mancata nel pacifismo che avevo vissuto prima: il fatto di riconoscerci nel dolore dell’altra parte, trovare un punto di contatto, la possibilità di riumanizzazione nella sofferenza, e da lì ripartire, per contribuire alla creazione di piccoli e grandi ponti di dialogo, che sono il fondamentale pre-requisito di pace. Non c’erano ancora molte donne nelle fila dei Combatants for Peace in quell’anno, ma presto ce ne sarebbero state, man mano che l’attivismo dell’organizzazione si espandeva in tante altre città e anche in Cisgiordania: era il primo movimento bi-nazionale, israelo-palestinese in tutto, dal livello direzionale alle aggregazioni di base, un esperimento davvero interessante, e umanamente molto stimolante. Anche per i Combatants for Peace il 7 ottobre è stato un momento difficile: nessuno capiva cosa stava succedendo, messaggi che arrivavano da tutte le parti, e quelli che arrivavano dai territori occupati davano versioni totalmente diverse da quel che vedevamo noi in Israele. C’è stato un lungo momento di silenzio, parlarsi era diventato difficile, come se fossero crollate le condizioni fondamentali di fiducia… Poi piano piano abbiamo ricominciato a rivederci su zoom, ma ci sono volute parecchie riunioni e tante tante lacrime per riprendere a lavorare insieme. Al tempo stesso la difficoltà ci ha reso più forti, e più che mai desiderosi di continuare. E quante nuove iniziative si sono messe in moto dopo il 7 ottobre, non solo all’interno dei Combatants for Peace: è tutto un fiorire di movimenti di co-resistenza, una mobilitazione continua, ormai siamo una coalizione di movimenti, con tantissimi giovani che sempre più spesso rifiutano il servizio militare, cosa impensabile un tempo; e sempre più riservisti che rifiutano di tornare a combattere perché a soffrire non sono solo loro, ma le loro famiglie; e parecchie organizzazioni sorelle che ci sostengono dagli Stati Uniti, dalla Germani e speriamo anche dall’Italia. E tutto questo mi riempie di speranza. Non so cosa ne uscirà, ma so che ci stiamo impegnando molto. E prima o poi vedremo i frutti di questo impegno. Daniela Bezzi
Intervista a Roberta Leoni dell’Osservatorio a Radio Onda Rossa sulle iniziative della scuola per Gaza
Radio Onda Rossa, nella trasmissione La scuola non tace: Stop al genocidio, ha intervistato Roberta Leoni, docente, attivista e presidente dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e dell’università, sulle molteplici iniziative e campagne lanciate dall’Osservatorio insieme ad altre realtà associative, come Docenti per Gaza e La scuola per la pace di Torino e Piemonte, per l’inizio del nuovo anno scolastico. Qui l’audio dell’intervista. Ricordiamo tra le iniziative: * Documento per Collegi Docenti e singoli docenti Noi siamo docenti pacefondai; * Proposta minuto di silenzio per il primo giorno per le vittime del genocidio di Gaza. * Mozione per genitori per evitare ai figli e alle figlie iniziative con i militari nelle scuole. * Firma la petizione Noi siamo docenti Pacefondai. Clicca qui per l’intervista su Radio Onda Rossa.
Intervista al sociologo Gianni Piazza: “Chiediamo posizione netta di UniCt su genocidio a Gaza”
Trecento docenti dell’Università di Catania hanno presentato una lettera aperta indirizzata al Rettore eletto Enrico Foti, al Senato Accademico e al Consiglio di Amministrazione, per chiedere che l’Ateneo una posizione chiara e risoluta di sostegno al popolo palestinese e di condanna al genocidio in corso a Gaza. In pochissimi giorni l’iniziativa ha già raggiunto quota quattrocento firme: “L’adesione a questa nostra lettera dichiarazione sta aumentando di giorno in giorno io credo che continuerà ancora almeno fino al prossimo senato accademico quando la presenteremo”, ha dichiarato il dottor Gianni Piazza, docente del Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’ateneo catanese_   Come è nata questa iniziativa? Già un anno fa, assieme a un gruppo di docenti, avevamo inviato una prima lettera al Senato accademico e al Rettore uscente, con la richiesta di prendere posizione su ciò che stava accadendo. Sostenevamo più o meno le stesse cose di adesso. Non ebbe però un grande successo, sia come numero di firmatari, sia come risposta – molto ambigua – da parte del Senato. Questa estate, visto anche l’aggravarsi sempre più della situazione, abbiamo deciso come Osservatorio su Guerra, Informazione, Ambiente e Diseguaglianze, un gruppo di docenti che si è costituito informalmente da alcuni mesi e già svolto delle iniziative, di riproporre una lettera appello. Questa volta però l’elaborazione e poi la diffusione della nostra lettera-appello ha innescato un meccanismo di mobilitazione tra i colleghi, soprattutto i docenti, ma anche i ricercatori, il personale, senza precedenti. Se prima era l’iniziativa di un piccolo gruppo di docenti, adesso sta avendo una diffusione di massa, probabilmente appunto dovuta all’aggravarsi e al radicalizzarsi sempre più della tragedia a Gaza e della situazione internazionale.    Si chiede al Senato accademico e a tutte le istituzioni dell’università di prendere una posizione. Quale obiettivo volete raggiungere concretamente?  Innanzitutto chiediamo una presa di posizione netta e senza ambiguità: si deve condannare il genocidio in corso. Ormai il tempo dei distinguo e delle incertezze è finito. È finito per l’aggravarsi sempre più della situazione, per tutto quello che sta accadendo a Gaza. In particolare nel documento abbiamo sottolineato quello che è stato definito lo scolasticidio, la distruzione di scuole, università, l’uccisione di colleghi, di studenti, una cosa veramente senza precedenti. Davanti a ciò l’istituzione accademica deve esprimere una posizione di condanna chiara e netta.  Tuttavia non è sufficiente. Chiediamo il boicottaggio, l’interruzione degli accordi presenti e futuri con le università e le aziende israeliane, sia quelle presenti nei territori occupati e sia quelle che alimentano la macchina bellica.  Chiediamo la sospensione degli accordi anche confronti di quelle aziende italiane ed estere che producono dichiaratamente delle tecnologie belliche o dual use e che vendono armi a Israele, rendendosi quindi complici del genocidio in atto.  A Catania in particolare chiediamo la sospensione degli accordi con la Leonardo S.P.A. che è direttamente coinvolta.  Poi chiediamo il sostegno e l’ampliamento delle borse di studio per studenti e studentesse palestinesi. E abbiamo già ottenuto un risultato. Nei giorni scorsi le istituzioni accademiche hanno deciso di ampliare le borse di studio per quegli studenti palestinesi che avevano vinto il bando IUPALS. Per Catania ce n’erano soltanto tre adesso sono diventati diciannove.  Infine, l’ultima cosa che abbiamo chiesto, quella più simbolica, è di istituire un giorno, un momento collettivo di ricordo delle vittime civili di questo massacro, per rendere un po’ giustizia alla memoria dei morti e restituirgli quella dignità che spesso gli manca. Come sappiamo ci sono morti di serie A e morti di serie B. Per tanto tempo i morti palestinesi sono stati morti di serie B e per molti continuano ad esserlo anche oggi.  In questo momento l’Università di Catania che relazioni ha con gli istituti di ricerca israeliani?  Ci sono accordi con alcune università, ad esempio quella di Tel Aviv, ma apparentemente non riguardano direttamente lo sforzo bellico. Dobbiamo però tener conto che anche le discipline umanistiche, ad esempio la rielaborazione della storia o l’archeologia, possono essere asservite al progetto di annientamento dell’identità palestinese, della loro storia e della loro cultura. Il  genocidio non ha un aspetto prettamente bellico. Entrando nel particolare, invece, quello che sicuramente è molto evidente è il rapporto che l’università di Catania con la Leonardo S.P.A. che prevalentemente armi. Ha degli accordi molto consistenti con l’università di Catania e sarà sicuramente quello il nodo più difficile da sciogliere, visti gli interessi economici che ci sono. Noi riteniamo che la questione dell’interruzione degli accordi, quindi del boicottaggio sia accademico che economico di università e aziende, sia il vero il vero nodo perché spesso le parole di condanna delle università non si traducono in azioni.  Durante l’offensiva militare di Israele su Gaza l’IDF ha colpito in maniera feroce le università, sono state rase al suolo. Evidentemente c’è un progetto, quello appunto distruggere una classe dirigente palestinese, quindi di togliere il futuro ai giovani palestinesi. Questo fa parte di quello che è stato definito scolasticidio. In generale negli ambienti accademici italiani, siciliani che sensibilità c’è stata nei confronti di questo fenomeno? Per lungo tempo c’è stato anche un clima molto pesante nei confronti di chi sin dall’inizio ha alzato la voce a sostegno del popolo palestinese. Quando noi – e anche tanti altri colleghi in giro per l’Italia – abbiamo cominciato a contestare le politiche genocidarie di Israele e chiedere all’università di schierarsi, lo abbiamo fatto in maniera abbastanza isolata.  Venivamo tacciati in maniera del tutto strumentale di essere antisemiti. Le iniziative di solidarietà erano ostacolate.   C’erano gli studenti però che protestavano, facevano le accampate ed erano loro l’anima della contestazione e della protesta all’interno delle università. Nel corso del tempo, ma soprattutto in quest’ultimo anno, la sensibilità da parte del mondo accademico è aumentata tantissimo (per lo più dalla base, un po’ meno dalle autorità accademiche).  Ci sono state delle prese di posizione all’Università per Stranieri di Siena a giugno, quella di Padova, del Salento e di Pisa a luglio, quella di Bologna, la Sapienza, la Scuola Normale Superiore di Pisa, l’Università di Bari e recentemente anche il Politecnico di Milano. L’Alma Mater di Bologna ha emesso un comunicato di sostegno alla Global Sumud Flottilla. La società intera si sta mobilitando. Il tre settembre a Catania sono scese in piazza circa 15.000 persone, numeri che nella nostra città non si vedevano da tantissimo tempo. Quindi c’è anche un sostegno e una diffusione della sensibilità tra i cittadini. Il nostro contributo si inserisce all’interno di questo contesto: l’università non deve mai essere scollegata e separata dal resto della società, deve essere inserita all’interno del suo tessuto.  A questo punto il nuovo rettore, il Senato accademico, non credo che potranno esimersi dal prendere una posizione e dichiarare sostanzialmente da che parte vogliono stare. Noi pensiamo di stare dalla parte giusta della storia, quindi vorremmo che anche la nostra università si schierasse dalla stessa parte.    Clara Statello
Mille morti in dieci mesi e soprusi quotidiani. Ecco come i palestinesi (soprav)vivono in Cisgiordania
Le colonie nascono come funghi in Cisgiordania, autenticamente dalla sera alla mattina: ti alzi e trovi a 50 metri dal villaggio un avamposto, a volte solo una bandiera, ma il giorno dopo arriva una roulotte, poi spunta un prefabbricato e i pastori palestinesi si ritrovano sotto assedio, in balia dei soprusi quotidiani di coloni e ‘forze dell’ordine’. È esasperata Elena Castellani, volontaria di Assopace Palestina, reduce da quasi tre settimane trascorse in agosto a Masafer Yatta, il villaggio palestinese reso famoso dal documentario premio Oscar “No other land”. Ecco la sua testimonianza, seguita da quella di Sara Emara, attivista italo-egiziana di Amnesty International. Qual è la situazione che hai trovato il mese scorso? Era la terza volta in un anno che andavo a fare ‘interposizione’ per difendere la popolazione palestinese e denunciare gli abusi quotidiani che è costretta a subire. Rispetto all’estate scorsa e a dicembre la situazione già drammatica è ulteriormente peggiorata. L’avvento alla Casa Bianca di Donald Trump e l’appoggio incondizionato del governo estremista di Netanyahu hanno reso i coloni ancora più arroganti. Sanno di poter godere non solo di totale impunità per i loro crimini, ma anche della complicità di tutte le ‘forze di sicurezza’”. Com’è amministrata la Cisgiordania? La Cisgiordania è divisa in tre zone, A, B e C. La prima è (almeno in teoria) governata dai palestinesi sotto l’aspetto amministrativo e militare e copre circa il 18% del territorio, la B (22%) solo per le questioni civili, la Zona C invece è alla mercé degli israeliani, che gestiscono il potere in modo totalmente arbitrario. Con il pretesto di aperture o ampliamenti di zone militari rubano impunemente la terra e il bestiame ai pastori, uccidono le loro galline, avvelenano le capre. Fanno incursioni notturne nelle case, le devastano, bastonano gli anziani, picchiano i ragazzi. Cingendo d’assedio i villaggi impediscono alle famiglie di guadagnarsi da vivere con la pastorizia. Chiudono i pozzi con il cemento, li avvelenano o più spesso deviano il flusso verso le piscine delle colonie illegali. I palestinesi sono quindi costretti ad andare a comprare l’acqua a caro prezzo nella Zona A, e non è sufficiente per irrigare i campi e abbeverare gli animali. Un altro sistema molto usato è la demolizione delle case e delle scuole. I palestinesi di notte le ricostruiscono, ma pochi giorni dopo vengono di nuovo distrutte, magari con dentro gli animali o le loro povere cose. Per costruire o riscostruire serve un permesso che le autorità non concedono mai. Molte famiglie si riducono a vivere dentro le grotte, dove i bambini e gli anziani si ammalano e non c’è neanche la possibilità di farli curare. Nei giorni scorsi all’ingresso del villaggio di At Tuwani in una notte l’esercito ha installato un cancello giallo, trasformato subito in check point: i soldati possono decidere ‘a sentimento’ se e quando far tornare a casa i palestinesi. I palestinesi possono rivolgersi a qualcuno per rivendicare i propri diritti? No. In Area C spadroneggiano i coloni appoggiati dalla polizia, dalle ‘forze di sicurezza’ e dall’esercito. Se qualche palestinese abbozza una minima reazione ai soprusi anche solo a parole si ritrova come minimo pestato e arrestato, ma non di rado viene ferito o ucciso. Secondo l’Onu negli ultimi dieci mesi circa mille palestinesi sono stati uccisi dagli israeliani in Cisgiordania. Chi poi finisce in carcere (e tra questi ci sono centinaia di bambini e adolescenti) può essere sottoposto a tortura fino alla morte e restarci per anni senza poter vedere un avvocato grazie alla ‘detenzione amministrativa’ prevista dalla legge marziale che vige (solo per i palestinesi) in tutti i territori occupati. Qual è l’obiettivo dei coloni israeliani? Vogliono rendere impossibile la vita ai palestinesi per costringerli ad andarsene. E per quanto si tratti di un popolo molto resiliente, spesso riescono nel loro intento. In agosto ho dovuto con tristezza constatare che una comunità che avevo aiutato l’anno scorso aveva ceduto e abbandonato il suo terreno dopo quotidiane incursioni e aggressioni di otto sgherri armati e mascherati: devastavano le case, spruzzavano spray urticante, hanno pestato due ragazzini. Come si può vivere nel terrore? Il problema è che non esistono posti sicuri per i palestinesi, ora più che mai con l’invasione della Striscia di Gaza e il genocidio in corso. Qual è l’attività dei volontari e quali rischi corrono? Il nostro intento è quello di proteggere le famiglie palestinesi, contando sul fatto che la presenza di persone straniere possa fare da deterrente alle incursioni e prepotenze dei coloni. Facciamo turni di guardia la notte per dare l’allarme in caso di bisogno e di giorno accompagniamo quando possibile i pastori al pascolo e i bambini a scuola. Ma siamo ovviamente disarmati e di fronte alle angherie non possiamo far altro che protestare e documentare ciò che accade. Anche noi siamo passibili di arresto, possiamo essere tenuti in cella 24 ore e poi caricati su un aereo diretto a un qualsiasi aeroporto. In passato, alcuni volontari sono stati anche uccisi. È successo un anno fa a Aysenur Ezgi Eygi, 26enne statunitense di origine turca e attivista dell’International solidarity movement, e ancor prima a Tom Hurndall, colpito da un cecchino mentre nella Rafah del 2003, al centro di una pesante offensiva israeliana, indicava ad alcuni bambini dove cercare riparo dalla sparatoria in corso in quel momento e a  Rachel Corrie, schiacciata dai cingoli di una ruspa militare mentre chiedeva di fermare la demolizione della casa di un medico palestinese. Che cosa pensi accadrà alla Global Sumud Flotilla?  Temo saranno attaccati e imprigionati. Israele sa di avere la protezione degli Stati Uniti e di potersi permettere qualsiasi cosa. Tra i rischi che corrono i volontari che da ogni parte del mondo vanno in Cisgiordania c’è anche quello di non riuscire a entrare nei territori occupati. È successo a Sara Emara, attivista italo-egiziana di Amnesty International, che con Elena Castellani e altri tre ha tentato di passare la frontiera con la Giordania. Ho fatto l’errore di presentarmi per prima al controllo passaporti e il cognome egiziano ha destato l’attenzione. Mi hanno trattenuta per oltre sei ore e sottoposta a tre diversi interrogatori. Naturalmente mi ero preparata: la motivazione del viaggio era un pellegrinaggio in Terra Santa con qualche giorno di mare in coda. Avevo svuotato il telefono da tutto ciò che poteva essere compromettente, dai social a molti dei miei contatti. La giustificazione dello smartphone appena sostituito a causa di un furto non ha convinto i soldati, che alla fine mi hanno caricato su un autobus diretto ad Amman. In teoria avrei avuto 30 giorni per fare ricorso; se non lo presenti possono ‘bandirti’ da Israele per 5 anni, ma se lo fai vai incontro a un processo lungo e costoso con altissime probabilità di perdere ed essere condannata per ingresso illegale. Ho dovuto rassegnarmi a tornare in Italia, ma il mio impegno non verrà certo meno. Foto di Elena Castellani Claudia Cangemi
Dal Brasile con amore e solidarietà. Diario di bordo dalla Global Sumud Flotilla
Questa puntata del diario di bordo è dedicata a conoscere un po’ i capitani che vengono da molto lontano e che sono con noi sulla flottiglia. Karina viene dal Brasile, dalla regione di San Paolo, ha una figlia di 17 anni, fa l’insegnante ed è venuta qui perché sentiva che doveva fare qualcosa di diretto, di significativo. Le abbiamo posto alcune domande ed ecco quello che ci ha risposto. Che cosa significa per te, brasiliana, fare una scelta di questo tipo, con tutti i costi anche economici e affettivi che ne derivano? Mi chiamo Karina Viaggiani, sono brasiliana, ma il mio bisnonno era un italiano di Parma; purtroppo non ho potuto ottenere la cittadinanza italiana a causa della legge votata di recente dal governo Meloni, che impedisce a chi ha un nonno italiano di ricevere la cittadinanza se il nonno non è nato in Italia. Ho deciso di venire qui perché da due anni soffriamo molto in Brasile vedendo un genocidio in diretta, una forma brutale di colonialismo che si svolge sotto i nostri occhi. Noi brasiliani il colonialismo lo abbiamo subito per 500 anni, ma fa effetto vederlo in diretta. In Brasile mi occupo di vela, ho un progetto di vela per i minori che vivono in una favela e non potrebbero mai avvicinarsi a questo sport a causa dei costi; noi invece cerchiamo di offrirgli i corsi migliori. Non sono un’esperta di Palestina, non ero una militante, un’attivista storica, ma ho iniziato ad avvicinarmi a questo tema conoscendo Thiago Avila a un incontro all’università a San Paolo e in un centro culturale gestito dagli studenti palestinesi. Ho potuto seguire un seminario di Ilan Pappé, ho approfondito la situazione della Palestina, la lunga lotta di questo popolo contro il colonialismo israeliano e ho deciso di fare qualcosa in prima persona. Come vedono quello che sta accadendo in Palestina il popolo brasiliano e i militanti e le militanti? Il Brasile, ricordiamolo, ha condannato Israele ed espulso il suo ambasciatore e il presidente Lula non può più entrare in Israele. Come vivi tutto questo? Hai paura per la tua incolumità nel caso di arresto e detenzione nelle prigioni israeliane? Il Brasile è un Paese molto grande e noi abbiamo seguito quello che sta succedendo in Palestina anche se siamo molto lontani. Il governo brasiliano si è mosso insieme a quello sudafricano all’interno dei BRICS per condannare la politica colonialista e genocida di Israele, anche perché, come ho già detto, noi abbiamo vissuto nel periodo della dominazione portoghese tutti gli effetti nefasti del colonialismo. Proprio per questo in Brasile c’è molto solidarietà verso la Palestina. Io in Brasile ho la mia vita, una figlia di 17 anni, devo lavorare per mantenerla e quindi questa scelta è stata abbastanza pesante per me, ma ho voluto farla per testimoniare una solidarietà che non conosce confini o frontiere. Certo che ho un po’ di paura all’idea di essere non tanto intercettata, quanto detenuta per molto tempo, perché perderei il lavoro e la mia vita diventerebbe molto, molto complicata.  Il governo Lula però mi dà sicurezza e un senso di protezione. Non sarei mai partita se al posto di Lula ci fosse stato un governo di destra come quello che abbiamo avuto con Jair Bolsonaro.   Manfredo Pavoni Gay
Ezidi: un’etnia sopravvissuta a 74 massacri
Il popolo che dai tempi più remoti della storia umana vive nell’area dove è germogliata una delle civiltà più antiche del mondo è stato perseguitato per millenni, anche recentemente. La sua storia e la sua realtà attuale sono descritte nel libro che l’Associazione Verso il Kurdistan distribuisce per raccogliere contributi a un progetto di solidarietà e in vendita nell’ambito degli eventi organizzati ad Alessandria e dintorni. Il titolo – Rojava: la prima rivoluzione sociale del nuovo secolo viene dalla Siria – del programma organizzato dall’Associazione Verso il Kurdistan in collaborazione con la Rete Kurdistan Italia e CSV Asti-Alssandria dal pomeriggio a sera di sabato 6 settembre nello spazio Serra di La Risto / Cooperativa Ristorazione Sociale (Alessandria – via Milite Ignoto 1/A), illustra la cornice tematica dell’iniziativa che coinvolge i partecipanti con un concerto, uno spettacolo teatrale, una cena e un mercatino. Il sottotitolo – Storia e cultura di un popolo in lotta contro il suo genocidio – sintetizza i contenuti del libro, appena edito da Red Star Press con la prefazione di Giorgio Riolo, scritto da Carla Gagliardini, presidente dell’ANPI di Casale Monferrato e attivista dell’associazione alessandrina impegnata in progetti di cooperazione realizzati nel Kurdistan e, in paricolare, in una zona, il distretto di Shengal, abitata da una delle popolazioni di etnia ezide. L’area geografica è quella, detta anche Mesopotamia perché compresa tra due fiumi, il Tigri e l’Eufrate, in cui sorgeva Ninive, che con Babilionia è stata una capitale della civiltà prosperata dal IX al VII secolo a. C. in passato considerata la prima civiltà della storia e recentemente, in occasione della “presentazione dei più recenti risultati della ricerca archeologica italiana nel nord dell’Iraq, un territorio largamente inesplorato collocato nella regione centrale dell’antica Assiria”, definita “il primo impero globale della storia ” [Acqua per Ninive / IL BO LIVE – Università di Padova, 5 maggio 2022]. Ninive è citata negli annali del regno di Sennacherib (Prisma Taylor del 691 a. C. e Prisma di Chicago del 689 a. C.), che documentano come nel 701 a. C. condusse l’assedio di Gerusalemme e, così, la conquista degli assiri nel regno israelita, e nelle cronache babilonesi, che riferiscono dettagliatamente le vicende della sua “caduta” avvenuta nel 612 a. C.. Dei suoi abitanti parlano il Libro di Giona della Bibbia, ricordando che Dio li maledisse e poi salvò, e i Vangeli, annunciando che nel giorno del giudizio loro pronunceranno la sentenza che condanna per l’eternità la generazione contemporanea di Gesù e dei suoi discepoli *, e i loro discendenti, gli ezidi (o yezidi) in due millenni hanno subito 74 carneficine, l’ultima nel 2014 e a cui l’anno successivo è seguita la distruzione dei reperti e siti archeologici di Ninive. Carla Gagliardini ha focalizzato l’attenzione sugli ezidi che popolano il distretto di Shengal. Perché ? Carla Gagliardini : «Una caratteristica che colpisce di questo popolo è la sua volontà di autodeterminarsi. Non è ovviamente l’unico ad averla, ma fa sempre impressione osservare chi si ribella ai giganti, e mi riferisco ai poteri regionali, conoscendo la propria inferiorità militare e economica, rimanendo, nonostante ciò, ancorato all’idea che l’autodeterminazione di un popolo sia un diritto per cui valga la pena affrontare pericoli e sacrifici. Attualmente la popolazione ezida che abita nel distretto di Shengal sostiene l’Amministrazione Autonoma, una forma di autogoverno che si basa sulle idee del leader curdo Abdullah Ocalan, perché in questo progetto politico riscontra un’efficace risposta al genocidio subito nel 2014. « Il 3 agosto 2014 lo Stato Islamico (IS, o ISIS) ha attaccato e invaso i villaggi ezidi del distretto di Shengal, poi ucciso uomini, ragazzi e donne anziane e rapito le donne più giovani, per venderle sul mercato delle schiave, e i bambini, per trasformarli in soldati del Califfato. L’IS infatti considera gli ezidi i peggiori tra gli infedeli, ma questa loro reputazione di adoratori del diavolo è una falsità che ha attraversato i secoli nelle narrazioni religiose sia ebraiche e cristiane che mussulmane. E nel 2014 il loro genocidio è avvenuto anche perché lo ha reso possibile un accordo tra l’organizzazione jihadista, l’ISIS, e l’autorità che allora era tenuta a difendere il Shengal, ossia il Partito democratico del Kurdistan (KDP). Perciò la comunità ezida adesso ritiene che la propria protezione non sia garantita da forze esterne, quindi per la propria autodifesa si affida unicamente alle proprie unità di resistenza maschili, YBS, e femminili, YJS, e si stringe intorno all’Amministrazione Autonoma di Shengal. « La situazione però è molto complessa, perché il Shengal è un territorio del Medio Oriente che attrae l’attenzione di molti governi e attori politici. Il genocidio del 2014 è come uno spettro che continua a muoversi tra i sopravvissuti e le sopravvissute, una delle tante insidie che la popolazione ezida affronta cercando di organizzarsi per scongiurare la propria cancellazione, fosse anche solo in termini di ininfluenza, nella terra natìa. Tra sfollati ancora residenti in campi profughi lontani dal Shengal e decine di migliaia di giovani ezidi e ezide emigrate all’estero, il distretto rischia di non tornare ad essere popolato da questa comunità che lo abita da millenni. L’Amministrazione Autonoma infatti è stata istituita proprio per scongiurare che ciò avvenga». Nel libro di Carla Gagliardini dedicato agli ezidi la loro storia e realtà sono accuratamente descritte, anche illustrate con molte immagini e fotografie. Su cosa si basa lo studio? Carla Gagliardini : «La ricerca è frutto della consultazione di testi accademici e studi redatti da centri e istituti e di rapporti delle agenzie delle Nazioni Unite, di governi e di organizzazioni che si occupano dei diritti umani, inoltre della lettura di libri sulla questione irachena e di articoli pubblicati sulla stampa nazionale e internazionale all’epoca della commissione del genocidio e, soprattutto, degli incontri avuti in loco con molte persone, in particolare referenti delle varie realtà che costituiscono l’Amministrazione Autonoma di Shengal, che ho avvicinato in numerose occasioni perché faccio parte dell’Associazione Verso il Kurdistan, che collabora con loro per la realizzazione di interventi che spaziano dall’avvio di programmi di istruzione alla ricostruzione di strutture, come asili e presidi sanitari, che dopo la sua sconfitta in Iraq, nel 2017, ritirandosi dal territorio l’IS aveva distrutto. Attualmente stiamo cooperando alla costruzione dell’ospedale di Dulha, che assisterà circa 30.000 persone». I proventi raccolti dall’Associazione Verso il Kurdistan con la vendita del libro infatti saranno interamente devoluti a finanziare questo progetto (per l’acquisto rivolgersi a versoilkurdistan@gmail.com) * Bibbia / Libro di Giona: Dio ordinò a Giona: “Alzati e và a Ninive la grande città e in essa proclama che la loro malizia è salita fino a me”… Giona cominciò a percorrere la città, per un giorno di cammino e predicava: «Ancora quaranta giorni e Ninive sarà distrutta». I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno … il re di Ninive si alzò dal trono, si tolse il manto … fu proclamato in Ninive questo decreto, per ordine del re e dei suoi grandi: «…ognuno si converta dalla sua condotta malvagia e dalla violenza che è nelle sue mani…». Dio vide le loro opere, che cioè si erano convertiti dalla loro condotta malvagia, e si impietosì riguardo al male che aveva minacciato di fare loro e non lo fece – Vangeli / Luca  e Matteo: Nel giorno del giudizio, gli abitanti di Ninive si alzeranno contro questa generazione e la condanneranno, perché… ALTRI ARTICOLI SUL TEMA PUBBLICATI DA PRESSENZA * Bolzano: giornate di cinema kurdo – edizione 2023 * Confine Polonia-Bielorussia Assistere i rifugiati, mettere la Bielorussia e la Turchia sotto pressione / 15 NOVEMBRE 2021 * Genocidio contro la popolazione Yezidi, Iraq: i continui litigi politici impediscono possibili soluzioni / 4 AGOSTO 2021 * Santa Sofia a Istanbul: uso strumentale della religione / 15 LUGLIO 2020 * L’attacco contro i Kurdi smaschera l’ambigua politica di Ankara / 27 LUGLIO 2015  Maddalena Brunasti
Navigando insieme, da 44 paesi per aiutare Gaza. Intervista a Abu Sara, attivista della Global Sumud Flotilla
Claudio Tamagnini, conosciuto come Abu Sara, è uno degli attivisti italiani impegnati nella Global Sumud Flotilla, la missione internazionale che si prepara a salpare verso Gaza con imbarcazioni provenienti da diversi paesi del mondo. Lo abbiamo intervistato nei giorni di attesa e di training in Tunisia, dove racconta l’atmosfera tra equipaggi, volontari e sostenitori della causa palestinese. Come si stanno svolgendo i primi giorni di preparazione della Global Sumud Flotilla? Per due giorni siamo rimasti in porto, poi mi sono spostato anch’io in città per il primo incontro con gli equipaggi registrati. Siamo circa una cinquantina, collegati con la coordinatrice dell’operazione. L’idea è viaggiare come una flotta compatta, a una media di quattro nodi. Qualcuno borbotta: le barche a motore, andando così piano, consumano comunque carburante e finiscono fuori rotta, perché non hanno la deriva delle barche a vela. Ma poi si vedrà… Com’è la situazione dal punto di vista logistico e delle imbarcazioni? In porto, all’inizio, non c’era ancora nessuna barca a parte la nostra. Le altre andavano recuperate in diversi porti, ed erano tutte a motore. I capitani tunisini, infatti, provengono da quella tradizione: non skipper di velieri, ma uomini di barche a motore. Qui chi vuole farsi vedere compra uno yacht, non certo una barca a vela. Intanto abbiamo saputo che le imbarcazioni partite da Barcellona erano state costrette a rientrare per maltempo. Questo rischia di far slittare tutto. Parallelamente alla preparazione, ci sono state anche iniziative pubbliche? Sì, la sera si è tenuta una bella manifestazione per la Palestina e per la Sumud Flotilla davanti al teatro comunale. Non eravamo tantissimi, ma c’erano molte donne e tanti slogan. Che tipo di atmosfera si respira nella vita quotidiana degli attivisti? Ogni sera un attivista nato e cresciuto in centro, Majid, che ha un po’ l’aria di uno spirito della lampada – il suo nome significa “il glorioso” – ci porta a bere birra tunisina e a mangiare qualcosa in posti diversi. Il primo era un locale gestito da italiani ai tempi di suo padre. Si mangia bene. Con noi c’è anche una capitana che accompagna gruppi familiari in gite. Sempre con Majid giriamo a cercare pezzi di ricambio, mentre un suo amico, vecchio lupo di mare, è partito a prendere un’altra barca a Monastir. Fa impressione pensare che a Tunisi non abbiano preparato le imbarcazioni per tempo, mentre qui ci sono oltre 40 gradi e lo scirocco è davvero cattivo. Avete iniziato il training? Sì, finalmente. Si è svolto in un salone del sindacato dei lavoratori tunisini. Ho subito chiesto la provenienza dei partecipanti ed è stata una sorpresa: oltre agli americani e agli europei, c’erano attivisti dalle Maldive, Sudafrica, Indonesia, Oman, Mauritania, Iraq, Kuwait, Iran, Turchia, Algeria. Tutti si ringraziavano a vicenda per esserci, come in una gara a chi fosse più vicino ai palestinesi. Non è un’illusione: la partecipazione di 44 paesi è realtà. Quali sono stati i contenuti principali del training? Ci aspettavano in 130, siamo il doppio. Due giorni intensi di raccomandazioni, soprattutto sulla nonviolenza, ricordando i successi della resistenza nonviolenta: Sudafrica, afroamericani, le marce delle donne. Ma anche la tragedia della Mavi Marmara, con la dura reazione degli attivisti turchi. Ci sono stati momenti particolarmente emozionanti per te? Sì. Al secondo giorno, in video da Berlino, è comparso il mio amico Karam. Nel 2011, a Nabi Saleh, correvamo insieme per sfuggire ai soldati. Lui era paramedico, poi ha lasciato quel lavoro per diventare attivista. È bravissimo, ha fatto anche training per l’ISM in Italia. Con lui abbiamo simulato un assalto dei commando israeliani: molto efficace. Poi ho rivisto Ann Wright, ex colonnello dell’esercito americano, diventata pacifista dopo l’esperienza in Somalia negli anni Novanta. Con lei avevo già condiviso la Flotilla del 2015: grandi abbracci. E adesso cosa vi aspetta? Sembra che i due velieri arrivati dall’Italia verranno presi in consegna dal gruppo turco, che almeno ha skipper esperti di vela. Intanto è ufficiale: partiremo domenica 7. Finalmente ci sarà qualche barca in più!   Laura Tussi
Gennaro Giudetti, l’inferno di Gaza dall’interno delle sue fiamme
È tornato a casa dall’inferno di Gaza, Gennaro Giudetti. Casa è Taranto, che è un altro inferno, ma senza fiamme. Solo fumi, rossastri e cancerogeni. E i bambini muoiono come a Gaza, ma in modo ‘diverso’. Nel suo ultimo libro, ‘Con loro, come loro – storie di donne e bambini in fuga’, Gennaro li accosta – bambini di Gaza e quelli di Taranto – descrivendo le similitudini di un destino infame. Probabilmente da quei bambini che andavano a trovarlo negli uffici ‘teoricamente’ al sicuro, sotto l’egida delle Nazioni unite, non potrà tornarci per un po’, di tempo, perché è stato considerato ‘soggetto sgradito’ a Israele. “Sapremo con più precisione la decisione definitiva tra una decina di giorni”, ci confida. Intanto – appena il tempo di abbracciare i suoi genitori – ed è già in partenza: ha la smania addosso di descrivere ciò che nessuno di noi può neanche immaginare della carneficina a cui un governo genocida ha condannato un intero popolo. “Devo raccontare… devo raccontare che quei bambini ora sono i nostri bambini. In che stato di trance può essere un padre o una madre che mette sul cofano di un’auto delle Nazioni unite il corpo del proprio figlio con la testa staccata dal collo, perché sia condotto… ‘al sicuro’?” Abbiamo intervistato Gennaro Giudetti per saperne di più, sperando che sempre meno gente continui a guardarsi l’ombelico: Mimmo Laghezza
Anche dal porto di Cagliari è salpata la prima imbarcazione della Global Sumud Flotilla
Ieri, domenica 31 agosto 2025, anche dal porto di Cagliari, intorno alle 9:30 del mattino, è salpata la prima imbarcazione dalla Sardegna con a bordo il pacifista sardo di Villaputzu, Marco Loi. L’imbarcazione raggiungerà Tunisi per unirsi alle altre imbarcazioni tunisine e spagnole della Global Sumud Flotilla che salperanno il 4 novembre alla volta di Gaza. Marco Loi ha rilasciato questa breve intervista: «Buongiorno a tutti! Sono Marco, mi trovo nel porto di Cagliari e faccio parte della Global Sumud Flotilla. Partiremo per Tunisi a incontrare la flotta tunisina e la flotta spagnola per unirci contro l’assedio del popolo palestinese oppresso, contro il genocidio, contro le guerre, manifestando, appunto, il sostegno della nostra piccola Isola solidale. Devo aggiungere che cercheremo con tutte le nostre forze di percorrere la scia di Vittorio Arrigoni, il grande Vik, colui che è stato ispirazione di tanti per raggiungere Gaza, nonostante l’assedio marittimo». Foto di Filippo Boi Alla partenza un piccolo gruppo di amici ha rivolto un caloroso saluto all’equipaggio.   Pierpaolo Loi