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Brasile di Lula tra la Cop30, i territori indigeni e le promesse mancate. Intervista a Loretta Emiri
Cop30, le trame oscure del “green capitalism”, la colonizzazione dei crediti di carbonio, le false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica, la lotta per il riconoscimento dei territori indigeni amazzonici e le mancate promesse del governo Lula, ormai totalmente dipendente dal Congresso Nazionale in mano alla destra neoliberista. In questa intervista c’è tutta la passione di una ecologista e indigenista italiana che ha vissuto con gli indigeni amazzonici del Brasile e con loro ha respirato la loro lingua, la loro cultura, la loro spiritualità, la profonda connessione con la Natura, la difesa dei loro sistemi di medicina tradizionale, la lotta per la difesa dell’Amazzonia e dei territori indigeni dall’estrattivismo e dalla deforestazione. Nel 1977 Loretta Emiri si è stabilita nell’Amazzonia brasiliana dove, per 18 anni, ha sempre lavorato con o per gli indios. I primi quattro anni e mezzo li ha vissuti con gli indigeni Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini. Fra di loro ha svolto lavori di assistenza sanitaria e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, del quale l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. In quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, fra i quali: Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), Cartilha yãnomamè (Abbecedario yãnomamè), Leituras yãnomamè (Letture yãnomamè), Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese). Nel 1989 è stato pubblicato A conquista da escrita – Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che Loretta ha organizzato insieme alla linguista Ruth Monserrat, e che include il capitolo Yanomami di cui è autrice. Nel 1992 ha pubblicato la raccolta poetica Mulher entre três culturas – Ítalo-brasileira ‘educada’ pelos Yanomami (Donna fra tre culture – Italo-brasiliana ‘educata’ dagli Yanomami). Alcune sue poesie sono state incluse nel volume 3 della Saciedade dos poetas vivos. Nel 1997 ha pubblicato Parole italiane per immagini amazzoniche, opera che riunisce ventisette poesie; tredici sono in portoghese, lingua nella quale sono state generate, accompagnate da versioni in italiano. Nel 1994 ha pubblicato il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. Nel 2022 ha pubblicato Educada pelos Yanomami (Educata dagli Yanomami), libro di poesie e foto scattate tra gli Yanomami. In italiano, Loretta ha pubblicato i libri di racconti Amazzonia portatile, A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, Discriminati che ha ottenuto il Premio Speciale Migliore Opera a Tematica Sociale del 12º Concorso Letterario Città di Grottammare-2021; le presentazioni degli ultimi due libri sono entrate nel programma ufficiale del Salone Internazionale del libro di Torino, rispettivamente nel 2017 e 2019; invece per Amazzone in tempo reale  ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013. Nel 2020 ha pubblicato Mosaico indigeno, che riunisce testi con taglio giornalistico sulla congiuntura indigena. Loretta è anche autrice del romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, 2011, e di Romanzo indigenista, 2023. Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più è stato divulgato in versione pdf nel gennaio del 2023. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, AMAZZONIA ­– fratelli indios, Euterpe, Pressenza, La bottega del Barbieri, Sarapegbe, Atlante Residenze Creative, Cartesensibili. Nel maggio del 2018 è stata insignita del Premio alla Carriera “Novella Torregiani – Letteratura e Arti Figurative”, per la difesa dei diritti dei popoli indigeni brasiliani. Come è andata la Cop30 a Belem, in Brasile? Le conferenze climatiche sono sempre servite per stilare accordi tra capi di governo e esponenti del capitale globale. A ogni anno che passa, questa realtà è sempre più squallidamente evidente.   Tali accordi mascherano le disuguaglianze storiche e perpetuano le strutture coloniali. Ciò che cambia negli anni, sono le parole e le strategie usate per mantenere gli interessi autocratici e geopolitici determinati da coloro che detengono il potere economico. A Belem si è ripetuto il teatrino: nonostante la massiccia presenza di indigeni, comunità tradizionali, lavoratori, movimenti sociali, il processo ufficiale è stato dominato totalmente dai suddetti interessi economici. L’espressiva presenza delle minoranze e delle classi oppresse è servita, però, a mettere in evidenza, in modo eclatante, definitivo, proprio il distanziamento che c’è tra il potere costituito, asservito al capitalismo, e le popolazioni. La Cop30 in molti avevano previsto che sarebbe stata l’ennesima occasione persa, per via della prospettiva completamente eurocentrica che sembra aver preso in questi anni trattando fondamentalmente del tema del net-zero, della retorica sulla “neutralità carbonica” e delle false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica: quello che il presidente della Bolivia Luis Arce aveva definito “colonizzazione dei crediti di carbonio” e “capitalismo green”. Ha riscontrato anche lei questa tendenza? Rispondendo alla prima domanda, ho risposto parzialmente a questa. Ma il quesito posto merita un approfondimento a partire dalla definizione “green capitalism”. Dietro questo termine così moderno e accattivante si nasconde tutto il marciume del capitalismo selvaggio, dell’ipocrisia, del colonialismo tuttora vivo e vegeto. Ripeto: ciò che cambia sono le parole e le strategie. Vi faccio un esempio concreto parlandovi degli Yanomami, con i quali ho avuto il privilegio di vivere per oltre quattro anni nella loro patria/foresta, e di cui sono un’alleata storica. La gioielleria francese Cartier ha creato una fondazione attraverso la quale finanzia pubblicazioni e mostre che hanno a che vedere con gli Yanomami. Il territorio di questo popolo è sistematicamente violato dai cercatori d’oro; durante l’invasione organizzata nel 1987 dalle oligarchie locali, l’etnia ha rischiato l’estinzione; nel 1992 il suo territorio è stato ufficialmente omologato, ma ciò non ha fermato le invasioni; durante il governo Bolsonaro gli Yanomami hanno di nuovo rischiato di scomparire; nel marzo del 2024, il governo Lula ha ordinato la rimozione dalla Terra Indigena Yanomami dei cercatori d’oro, con la distruzione delle loro sofisticate armi e dei potenti macchinari di cui oggigiorno dispongono. Quest’ultima è stata senz’altro una iniziativa lodevole ma, storicamente, succede che i cercatori vengono allontanati per poi sempre tornare invadendo altre aree; i politici parlano di successi e conquiste, gli Yanomami continuano a denunciare le sistematiche nuove invasioni (che potrebbero essere evitate adottando provvedimenti più efficaci già identificati e ripetutamente suggeriti).  Come vogliamo definire la Cartier, potente gioielleria francese che finanzia iniziative relative gli Yanomami minacciati di estinzione proprio a causa dell’estrazione dell’oro nel loro territorio? È ipocrisia anche cercare di convincere l’opinione pubblica che l’estrazione legale dell’oro è differente da quella illegale, dato che gli habitat sono ugualmente distrutti, le popolazioni locali sono ugualmente sfruttate e si ammalano a causa dello stravolgimento dell’ambiente, mentre i capitalisti mondiali divengono più oscenamente obesi di quello che già sono.  Per non parlare di un altro fenomeno che sta sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno affronta: professionisti (antropologi, fotografi, scrittori, e persino filosofi o pseudo-tali) che hanno raggiunto notorietà e fama internazionale, nelle loro attività sono finanziati da fondazioni simili a quella della Cartier; fondazioni create da colossi mondiali che, attraverso il “capitalismo green”, perpetuano il colonialismo. Dal gennaio del 2023, cioè da quando Lula è tornato al potere, sono impegnata in una battaglia persa: fomento la creazione di un Centro di Formazione Yanomami, che potrebbe essere facilmente creato nell’unica area del loro territorio raggiungibile attraverso la strada. Una delle finalità della proposta è quella di incentivare l’unione e la collaborazione tra i gruppi locali, storicamente nemici fra di loro, perché solo l’unione e l’organizzazione permetterà agli Yanomami di sopravvivere fisicamente e culturalmente. Un’altra finalità è quella di preparare professionalmente i giovani, affinché assumano funzioni e ruoli a tutt’oggi svolti o controllati dai bianchi, mettendoli in condizione di prendere decisioni autonomamente e dispensare gli “intermediari”, cioè le poche persone che decidono per loro. L’unione e la formazione sono strumenti di lotta che rafforzerebbero l’organizzazione e l’autonomia della società yanomami. Io penso e scrivo le stesse cose da oltre quarant’anni, ma coloro che potrebbero concretizzare la proposta della formazione rivolta a tutta il popolo, e non solo ad alcuni privilegiati individui o gruppi locali, continuano, imperterriti, a fare “orecchie da mercante”. Come si sta muovendo il governo di Lula di fronte ai temi dell’ambiente? Sta portando avanti i temi della deforestazione, della fine dell’estrattivismo e della consegna delle terre agli indigeni come aveva promesso? Naturalmente, in occasione della Cop30 Lula ha omologato alcune poche terre indigene, tanto per dare un contentino; ma ce ne sono oltre sessanta di cui il processo amministrativo è stato completato e alle quali manca solo la sua firma. Lula è potuto tornare al governo facendo accordi a dir poco “ambigui”, così che può decidere ben poco. Chi decide è il Congresso Nazionale, nel cui seno sono confluiti loschi figuri legati al governo anteriore e quindi all’estremissima destra. E il Congresso non dà tregua: mi riferisco al Progetto di Legge definito Della Devastazione; al Senato che in cinque minuti ha approvato una legge che beneficia termoelettriche a carbone; alla crescente offensiva dell’agribusiness contro i popoli indigeni, offensiva incentivata dall’indecente tesi del Marco Temporale, tesi che contraddice quanto stabilito dal STF (Supremo Tribunale Federale), e cioè che la data della promulgazione della Costituzione Federale non può essere utilizzata per definire l’occupazione tradizionale delle terre indigene. Dato che era già stato approvato nella Camera dei Deputati, il suddetto progetto di legge venne inviato a Lula che ne vietò la tesi e altri dispositivi; i veti presidenziali vennero poi rigettati dal Congresso, cosi il progetto è diventato la Legge Nº 14.701/2023. Lo scienziato Philip Fearnside, ricercatore dell’INPA (Istituto Nazionale di Ricerche dell’Amazzonia), reputa che la Cop30 sai stata caratterizzata da una generalizzata mancanza di coraggio politico per affrontare i temi centrali della crisi climatica. Nell’intervista concessa alla rivista Amazônia Real, egli afferma che la conferenza ha ignorato i combustibili fossili e non ha fatto passi in avanti per combattere la deforestazione; decisioni queste che, secondo lui, mettono a rischio immediato la sopravvivenza dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali dell’Amazzonia. Inoltre, Fearnside afferma che il Brasile sbaglia anche nella transizione energetica, mantenendo contraddizioni come l’asfaltatura della strada BR-319 e nuovi progetti di estrazione del petrolio, mentre i provvedimenti emergenziali in atto non hanno la capacità di accompagnare la velocità con cui avviene il surriscaldamento della terra. Alla vigilia della Cop30 l’Ibama (Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle Risorse Naturali Rinnovabili, che è un’autarchia federale) ha autorizzato la Petrobras a realizzare ricerche per rendere viabile l’esplorazione del petrolio a cinquecento km. dalla Foce del Fiume Amazonas, nel cosiddetto Margine Equatoriale, in alto mare, a confine tra gli Stati di Amapá e Pará. Mentre, appena la Cop30 si è conclusa, il Congresso ha rigettato i veti che erano stati suggeriti e ha autorizzato nuovi interventi in punti critici della strada BR-319; notizia, questa, del 27 novembre 2025. Durante la Cop30 sono successe cose che, per un spettatore esterno sembrerebbero assurde. Le proteste degli indigeni alla Cop30 sono state represse duramente. Cosa è successo precisamente? Il fatto che la Cop30 sia stata realizzata in Brasile ha permesso che un grande numero di indigeni ed esponenti di popolazioni tradizionali si facessero presenti a Belem, che è la capitale simbolica dell’Amazzonia brasiliana. La loro massiccia presenza, la coloratissima diversità culturale che li caratterizza, le manifestazioni che hanno saputo organizzare, le loro accorate dichiarazioni, che sono frutto di oltre cinquecento anni di soprusi e sofferenze, hanno messo sotto i riflettori le contraddizioni dell’attuale governo. A stento Lula si barcamena tra ciò che potrebbe fare, ma non ha il coraggio sufficiente per fare, e ciò che fa, costretto dall’estremissima destra che controlla il Congresso Nazionale. Le forze dell’ordine hanno represso i manifestanti, proprio come accade in qualsiasi altro Paese che pensa di essere democratico: le popolazioni vengono represse quando osano mettere in discussione le scelte di Stato. Txulunh Natieli, che è una giovane leader del popolo Laklãnõ-Xokleng, ha riassunto brillantemente il risultato della Cop30 dicendo che la conferenza ha esposto le contraddizioni stesse del Brasile, la cui politica è molto esterna e poco interna. Invece Luene, del popolo Karipuna, ha affermato che il Brasile potrà guidare la transizione climatica soltanto se dichiarerà l’Amazzonia “zona libera dai combustibili fossili”. Il documento finale della conferenza invita alla cooperazione globale, ma evita di citare paroline quali “petrolio”, “carbone”, “gas”; dal documento è stata esclusa anche la locuzione “eliminazione graduale”. Gli accordi firmati durante la Cop30 rivelano la squallida farsa della sostenibilità, le lobby dei fossili, dell’oro, dell’agribusiness. Nonostante siano stati fatti alcuni pontuali passi in avanti, la conferenza è terminata lasciando grandemente frustrati leader indigeni, specialisti, osservatori, cioè tutti coloro che si rifiutano di essere servi di un sistema sociale piramidale. Cosa è successo tra Raoni e Lula e perché ha fatto così scalpore? Raoni è molto amato dagli indigeni e dai loro alleati, ma è molto conosciuto anche all’estero da quando il cantante Sting lo aiutò a far uscire la problematica indigena dall’ambito brasiliano per proiettarla a livello mondiale. È un adorabile vecchietto, dai più considerato e amato come “nonno”.  Durante tutta la vita, è stato coraggioso e coerente; il tema più ricorrente nei suoi discorsi riguarda il riconoscimento e l’ufficializzazione delle terre indigene. Come può sopravvivere un popolo senza un territorio dove vivere bene e perpetuarsi? Quando Lula è stato rieletto, il giorno della cerimonia ufficiale per l’inizio del suo nuovo mandato di presidente, ha voluto Raoni accanto a sé. Ha salito la rampa che lo ha condotto nel Palazzo del Planalto, sede del Potere Esecutivo Federale, tenendo a braccetto il vecchio leader indigeno. Durante la Cop30, senza usare mezzi termini, Raoni ha manifestato la sua profonda delusione di fronte al fatto che alle solite promesse non fanno mai seguito le scelte politiche che andrebbero fatte e, naturalmente, la sua presa di posizione ha avuto una grande ripercussione sia in Brasile che all’estero. Gli indigeni, come sempre, sono solo usati, strumentalizzati. Le foto scattate a Lula al fianco di Raoni sono l’espressione visiva delle promesse mancate contrapposte alla cruda realtà dei fatti. Quale è la situazione delle popolazioni indigene amazzoniche ora e cosa bisogna cambiare? In Brasile gli indigeni dovrebbero rifiutare di farsi cooptare dal governo federale, dal momento che molto poco riescono a fare: molti di loro si sono già “bruciati”, cioè hanno deluso il movimento indigeno organizzato perché difendono o tacciono su molte scelte ambigue fatte dal governo. In Italia, quello che andrebbe fatto sarebbe smettere di definire “di sinistra” persone e governi. La sinistra esiste ancora solo attraverso i movimenti e le organizzazioni popolari. Se Lula è stato un solido leader sindacale, fondatore del Partito dei Lavoratori, non significa che per arrivare ad essere eletto e rieletto presidente di un paese continentale come il Brasile non abbia dovuto modificare principi e posizioni, non abbia dovuto allearsi alle più disparate e ambigue forze politiche. Inoltre, come spiegare il fatto che all’interno del suo partito, apparentemente, sembra non esserci nessuno in condizione di sostituirlo? Corre voce che si candiderà per l’ennesima volta; e questa, almeno per me, non è democrazia, ma il perpetuarsi di una posizione di potere. Quello che andrebbe fatto sarebbe di analizzare con più equilibrio, più attenzione, meno retorica la situazione politica brasiliana ma, soprattutto, dovrebbe essere denunciato coraggiosamente, senza mezzi termini, il “capitalismo green”, che è fortemente praticato anche da multinazionali di origine italiana. Ciò che andrebbe fatto è denunciare e porre fine al colonialismo, che continua vivo e vegeto attraverso l’invenzione di nuovi termini e nuove strategie, che sono così efficaci da ingannare individui e intere popolazioni.  Ciò che gli indigeni fanno, da oltre cinquecento anni, è resistere per esistere.   Bibliografia Amazônia Real https://amazoniareal.com.br/repercussao-da-cop30-oscila…/ Apib Oficial https://apiboficial.org/2025/10/13/as-vesperas-da-cop-povos-indigenas-cobram-demarcacao-de-terras-67-so-dependem-de-uma-assinatura-de-lula/? Mídia Ninja https://www.facebook.com/MidiaNINJA Loretta Emiri, “Amazzonia – Il piromane ha nome e cognome” https://www.pressenza.com/it/2019/09/amazzonia-il-piromane-ha-nome-e-cognome/ Centro de Formação Yanomami no Ajarani – Dossier https://drive.google.com/file/d/1O_A3dR4u28VLB_iyrj3Xpxk–xRyYkC0/view?usp=share_link Durante la privilegiata, come lei stessa sostiene, convivenza con gli Yanomami, ha raccolto oggetti della cultura materiale di questo popolo. Di particolare rilievo è il nucleo dedicato all’arte plumaria, collane ed orecchini. Per lunghi anni ha accarezzato il sogno di sistemare i materiali in luogo pubblico. Il sogno si è concretizzato all’inizio del 2001, quando il Museo Civico-Archeologico-Etnologico di Modena ha accolto i 176 pezzi della Collezione Emiri di Cultura Materiale Yanomami. Nel maggio del 2019, una parte della collezione è stata esposta al pubblico e ufficialmente inaugurata. Durante tutto il 2023 e 2024 si è dedicata, sistematicamente, al fomento della creazione del Centro di Formazione Yanomami, da strutturarsi nell’area indigena Ajarani, producendo e divulgando vari testi riuniti nel Dossier “Moyãmi Thèpè Yãno – A Casa dos Esclarecidos – Centro de Formação Yanomami – Dossiê”, Loretta Emiri, CPI/RR, 01-24. Lorenzo Poli
Connetti la tua rabbia. Intervista a Lee Lai
Nata a Melbourne nel 1993, Lee Lai è una fumettista transgender asiatica australiana che vive in Canada. Vincitrice di numerosi premi per artisti under 35, debutta nel 2021 con la graphic novel Stone Fruit, di cui Cannon (Coconino Press, 2025, 304 pagine, € 24) è un seguito ideale che porta avanti la sua lucida esplorazione delle relazioni umane nella società contemporanea.  L’abbiamo intervistata in occasione di Lucca Comics & Games 2025. PULP: In premessa alle mie domande: Cannon ha un’estetica quasi del tutto uniforme, uno stile realistico in bianco e nero. Tuttavia alcune scelte spezzano questa uniformità,  la prima è un uso particolare che fai di alcuni uccelli che compaiono in determinate situazioni. Qual è il loro ruolo? LL: Si tratta di gazze ladre, e compaiono ogni volta che la protagonista prova rabbia oppure un senso di perdita del controllo, e ogni tanto compaiono quando si trova con personaggi che stanno affrontando emozioni negative a loro volta e da lungo tempo, come suo nonno. La gazza ladra è una soluzione versatile nella scrittura in quanto porta con sé una moltitudine di simbolismi: nella cultura orientale sono un simbolo di buona fortuna e di connessione, mentre nella cultura occidentale significano sfortuna o un presagio negativo. Per me è utile pensare alle differenti interpretazioni che possiamo dare alla rabbia, che può rivelarsi un’energia produttiva e necessaria o anche distruttiva. PULP: Il secondo elemento che spezza l’uniformità dell’estetica di Cannon è la virata sul rosso di alcune tavole,  di regola bianco e nero. Qual è il senso di questa scelta? LL: Come le gazze ladre, il rosso compare quando la protagonista è arrabbiata. Il mio libro è soprattutto un’esplorazione del ruolo che la rabbia gioca nella nostra vita. Il rosso appare anche quando qualcuno sta guardando un vecchio film horror in videocassetta. Scrivendo Cannon mi sono innamorata dell’horror e negli anni che ho impiegato a realizzare il libro mi sono resa conto che il genere non lesina le allegorie. Il body horror e la violenza sono usati per esplorare temi delicati come i traumi e il lutto e lo fanno in modi che spesso approdano all’isteria fino a sfociare nella comicità e nel trash. Credo sia questo aspetto dell’horror che piace a molti spettatori. Credo che allo stesso modo la rabbia si manifesti talvolta in maniera isterica, a quel punto quando una persona perde il controllo diventa comica o addirittura ridicola. L’isteria è il collegamento tra la rabbia e l’orrore che io rappresento con il colore rosso. PULP: Il 2025 è stato un’ottima annata per il genere horror che sembra stia tornando attuale in quanto racconta qualcosa della nostra società. Che ne pensi? LL: Sono d’accordo. Credo che abbiamo fame di storie che confermano la nostra esperienza del mondo che ultimamente è diventata terrificante. Forse lo è sempre stata ma negli ultimi anni lo è di più, e trovo conferme di questo quando vedo la paura affrontata in maniera creativa. PULP: Un altro aspetto che colpisce nel tuo fumetto è il ruolo dei nastri di auto rilassamento. Uno dei personaggi principali l’ascolta in cuffia mentre sta correndo, talvolta in parallelo con le scene di sesso. Qual è il significato di questa scelta? LL: Qualche volta ho usato questo parallelo con le scene di sesso. Credo che il ruolo del nastro sia di incoraggiare l’ascoltatore a calarsi nel proprio corpo. Ironicamente, alcune delle scene di sesso sono piuttosto cerebrali e poco, come dire, incarnate. Penso che i nastri abbiano due funzioni: una è di mostrare che la protagonista sta facendo di tutto per gestire sé stessa prima di rendersi conto che la gestione di sé potrebbe non essere la migliore delle risposte. L’altra funzione è quella di uno strumento che salda le scene tra di loro. In questo graphic novel ho davvero voluto sfidare me stessa nella scrittura di diverse scene, con diversi personaggi, che si svolgono nello stesso frangente temporale. Rendere questo in un fumetto può essere difficile ma volevo proprio raccontare in parallelo ciò che i diversi personaggi stavano passando nello stesso momento e come ciò influenzasse le loro interazioni. PULP: Abbiamo sostituito la cura di sé con la gestione di sé o siamo sempre stati così? LL: Questa è una domanda esistenziale. Credo di essere diventata sempre più critica nei confronti dell’idea della gestione del sé e della mercificazione della salute portata avanti dall’industria del benessere e non mi sorprende che tutto ciò sia più popolare che mai essendo il nostro stile di vita più sregolato e malsano che mai. Ma d’altra parte come puoi pensare al benessere con un genocidio in corso? In definitiva credo di aver messo una discreta dose di cinismo in questo libro e nella mia vita, anche se le strategie di gestione del sé alla fine un senso ce l’hanno. PULP: Le scene di sesso e i corpi nudi che disegni sono di un realismo dimesso. Ciò ha un significato? LL: Si tratta dei corpi e delle scene di sesso che voglio disegnare perché sono i corpi che vedo intorno a me e che amo. Ho sempre amato i corpi di ogni genere, sono meravigliosi da guardare e ti dirò che mi sono sentita ingannata quando, dopo aver guardato film e scene di sesso da adolescente, ho sperimentato l’intimità in prima persona e mi sono resa conto che è completamente diversa, è meno patinata e molto più onesta, più tenera e talvolta più comica, a volte addirittura imbarazzante, è una vasta gamma di cose. E trovo bello mostrare che si tratta di qualcosa di pratico più che politico, mi dà una grande soddisfazione. PULP: Trovi che la rappresentazione dei corpi fatta dai media mainstream sia una forma di biopolitica? LL: Sì, ed è impressionante. Credo che oggi in particolare lo sia e non sono contraria, lo trovo divertente, mi lascia stupita. Vedi, nei film e nei programmi TV degli anni ’70 il canone estetico dei corpi era molto più rilassato. Ora siamo in quest’era dove tutto è posticcio, come in un film della Marvel, e le aspettative sono alte come mai prima, ogni corpo dev’essere fottutamente pompato tanta gente ne soffre. PULP: Qual è lo sguardo sulle relazioni umane che fai trasparire dalla graphic novel? LL: La rabbia può essere istruttiva se la sappiamo ascoltare, il conflitto e il confronto aspro a volte sono necessari e possono essere trasformativi. Non sempre, ma talvolta sì, anche se non credo di avere risposte semplici a riguardo perché non credo che ce ne siano. Credo ci siano solo diversi dettagli confusi e che il meglio che possiamo fare sia essere onesti con noi stessi. PULP: In Cannon è molto presente l’elemento dell’identità: etnica, sessuale, generazionale. Come interagiscono queste identità fra loro? LL: l’identità può essere un’arma distruttiva, l’ho visto succedere in molti modi anche nel mondo dell’editoria. Credo di aver sviluppato più indecisione che mai nei confronti dell’idea di identità. Quand’ero più giovane per me era molto importante capire quale fosse la mia per orientarmi nel mondo ma adesso il mondo sta cadendo a pezzi comunque. Credo che dovremmo scartare una certa idea di identità ma credo anche che l’individualismo possa danneggiare il senso di comunità così come ogni cosa può essere uno strumento per avvicinare le diverse comunità. Non credo di avere un’opinione definitiva sull’argomento, ma credo che continuerà a saltar fuori nel mio lavoro perché è così che organizziamo il nostro spazio sociale, più che mai in senso polarizzante.  PULP: Una dei protagonisti lavora con la scrittura ma ha problemi a scrivere come vorrebbe. Ciò rispecchia un problema che tutti abbiamo con una pratica antica e naturale come sederci in cerchio e condividere storie? LL: Credo che lei abbia problemi perché non è connessa con la sua comunità in molti sensi. Credo che se fosse circondata da pari e da mentori che la portino a farsi le giuste domande e la incoraggino non farebbe tutta questa fatica e non farebbe scelte creative che la portano a tradire le persone che ha intorno. Credo che la mia strategia principale per proteggermi come artista sia fare fronte comune con altri fumettisti, poeti, scrittori e artisti visuali e discutere tutti insieme le nostre idee per mettere in atto le strategie che ci permettono di continuare con il nostro lavoro. L'articolo Connetti la tua rabbia. Intervista a Lee Lai proviene da Pulp Magazine.
Il presidio giornaliero per la Palestina a Cagliari: ne parliamo con Vania Erby, portavoce del Comitato “Can’t stay silent”
Ho incontrato per la prima volta Vania Erby in occasione della manifestazione del Movimento spontaneo per la Palestina “Can’t stay silent”-La corsa dell’indignazione, avendo ricevuto il comunicato stampa con il quale veniva annunciata per il 5 settembre 2025; comunicato pubblicato da pressenza il 2 settembre. Ingegnere, libera professionista in tematiche ambientali, coltiva la passione per lo sport, la corsa in montagna; inoltre, è attivista ambientale e per i diritti umani. Anima e portavoce del movimento. Da dove nasce il tuo impegno per la Palestina e come è sorto il movimento “Can’t stay silent” che quest’estate, a più riprese, ha riempito le strade di Cagliari di migliaia di persone? Ti ringrazio per questa domanda che mi consente di pormi interrogativi importanti. L’impegno civile nasce sempre dal desiderio di vivere in un mondo “ideale” nel quale diritti e doveri dovrebbero essere realmente uguali per tutti, dove la libertà degli individui non dovrebbe essere messa in discussione e dove il diritto alla vita non dovrebbe essere mai violato. L’impegno, per formazione personale, nasce decine di anni fa in relazione a tematiche ambientali, oramai però le evidenze della storia attuale ci raccontano che non è possibile separare le lotte sulla questione climatica dalle lotte per i diritti degli individui. L’impegno civile credo sia una questione di ideali, coscienza, valori e giustizia, valori che si sente la necessità di condividere con i nostri simili. L’obiettivo delle lotte è sempre quello di tutelare il bene comune ed è questo il concetto che le supporta tutte. Negli scorsi mesi le evidenze, visibili in mondo visione, delle atrocità commesse nella striscia di Gaza dal governo israeliano e dallo stato di apartheid, le violazioni dei diritti civili in Cisgiordania, sono stati gli elementi trainanti che hanno smosso le coscienze. Credo che il movimento “Can’t stay silent” sia stato capace in qualche modo di accendere una miccia, di innescare una scintilla che ha permesso di infuocare il cuore dei cagliaritani e di farli scendere in massa nelle piazze della nostra città. Da movimento spontaneo “Can’t stay silent”-La corsa dell’indignazione (era il titolo dato alla prima manifestazione); si è poi trasformato in Comitato e ha collaborato con l’ “Associazione Amicizia Sardegna Palestina” e il “Comitato Sardo di Solidarietà con la Palestina”. Vuoi raccontarci le motivazioni di questo sviluppo. La risposta a questa domanda è semplice e unica: scendiamo in piazza per i diritti dei cittadini, per il diritto inviolabile di tutti i popoli alla libertà, ma scendiamo in loro rappresentanza e non credo sarebbe stato né giusto né possibile farlo senza le persone palestinesi, senza che loro fossero l’anima portante della protesta. L’unione di intenti porta sempre a cose grandi, come poi è accaduto. A Cagliari non ricordo a memoria manifestazioni così imponenti negli ultimi 30 anni. La forza della coesione fa proprio la differenza. L’ultima iniziativa del Comitato “Can’t stay silent”, di cui sei la portavoce, è il presidio quotidiano a Cagliari, in Piazza Yenne, che ha riscosso l’adesione di tante persone. In altre città italiane ci sono presidi periodici, per lo più settimanali, ma di giornalieri, oltre a quello di Cagliari, è conosciuto quello di Milano. Ti chiedo com’è stata la partecipazione (dal 31 ottobre ad oggi)? Dopo la manifestazione nella quale i sindacati si sono uniti, in cui a Roma sono scese in piazza 2 milioni di persone e a Cagliari, io credo, almeno 30.000, per gridare in pace “Palestina libera!”. Dopo che si è raggiunta il 10 ottobre una falsa tregua chiamata pace, gli animi delle persone in Sardegna, ma credo nel mondo intero, si sono riappacificati con quanto i governi occidentali ci hanno voluto far credere. Sappiamo bene però che tutto questo è un grande inganno, che la pace è un grande inganno perché non vera. Israele continua a portare avanti il suo piano genocida, a spostare la linea gialla, continua a radere al suolo le case dei palestinesi a distruggere infrastrutture che con le forti piogge hanno ridotto i campi tendati in un mare di acqua, hanno trasformato i campi in luoghi invivibili. Oggi, Israele sta sterminando il popolo palestinese.  In particolar modo uccide le bambine e i bambini palestinesi, soggetti preferiti di annientamento. Vania Erby (foto Facebook) Mi sono chiesta perché scegliesse prioritariamente i bambini e le bambine; credo che la risposta sia semplice e scontata. I bambini e le bambine rappresentano il futuro; rappresentano, da un lato la speranza di sopravvivenza e dall’altro, per gli israeliani, l’ostacolo alla conquista e al predominio assoluto in terra di Palestina. Oggi noi non ci stiamo, continuiamo a scendere in piazza per i diritti degli indifesi: di bambini donne e uomini che chiedono solo di vivere. Ogni giorno siamo e saremo in piazza Yenne a Cagliari dalle 19:00 alle 20:00 e invitiamo tutti quelli che condividono i nostri principi e la nostra sofferenza ad unirci a noi. Con oggi siamo in piazza da 30 giorni. Tante persone si sono unite a noi in questi 30 giorni, persone che come noi non riuscivano più a tenersi dentro al cuore la sofferenza per questo massacro, persone che hanno deciso che il silenzio non poteva continuare, perché oggi il silenzio uccide più di prima. Non poche persone si sono domandate perché non si è scesi in piazza anche per solidarizzare con le altre popolazioni che nel mondo subiscono guerre altrettanto crudeli, e di cui poco si parla; penso in particolare alle guerre nelle Afriche: Sudan, Mali, Repubblica Democratica del Congo, Sahara Occidentale che vede coinvolta la popolazione Sahrawi, ecc. Certamente, il silenzio uccide in molte parti del pianeta. Per questo abbiamo deciso che ci schieriamo con tutti i popoli che, nel nostro piccolo, vogliamo difendere con la nostra voce, quei popoli che gli stati sovrani hanno deciso di non difendere. Con il presidio di Milano c’è stato qualche contatto; si è creata una qualche sinergia? Le prospettive per il futuro? Fare rete è l’unica cosa che permetterà alla protesta di acquisire coscienza e forza. Circa 40 giorni fa vidi la foto su internet del presidio di Milano ed è lì che ho capito che quella era una buona strada per costruire consapevolezza e sviluppare azioni concrete di dissenso, creare un luogo di discussione, un luogo dove le proteste per i diritti umani violati potessero trovare casa. Sono entrata in contatto subito con la piazza di Milano e spesso ci sentiamo. L’unione fa la forza e non solo a parole. Grazie, Vania per questa tua testimonianza, per il tuo impegno personale e quello del Comitato “Can’t stay silent”, per il presidio quotidiano che animi in piazza Yenne, in solidarietà con la popolazione palestinese della Striscia di Gaza e della Cisgiordania occupata e con tutti i popoli, i diritti dei quali vengono calpestati.   Pierpaolo Loi
Università Estiva Parco Toledo: smilitarizzare per proteggere la vita
Lo scorso 13 settembre, nell’ambito della terza edizione dell’Università Estiva dell’Umanesimo Universalista (Parco Toledo), si è tenuta la tavola rotonda “Smilitarizzare per proteggere la vita”. Hanno partecipato come relatori Ovidio Bustillo, di Alternativas Noviolentas, Juana Pérez Montero in rappresentanza della nostra agenzia stampa Pressenza, Valentina Carvajal di Greenpeace e Inma Prieto di Mondo senza Guerre e senza Violenza, tutti membri dell’Alleanza per il Disarmo Nucleare, con i quali abbiamo potuto parlare al termine dell’evento. Ecco le loro dichiarazioni sul tema che ci ha riuniti quel giorno. Ovidio Bustillo, che coordinava la tavola rotonda, ha fornito il quadro generale. Juana Pérez Montero ha parlato del Trattato sulla proibizione delle armi nucleari. Valentina Carvajal ha incentrato il suo intervento sulla campagna di denuncia del commercio di armi con Israele, nel pieno del genocidio a Gaza, mentre Inma Prieto ha chiuso la tavola rotonda parlando delle diverse forme di violenza e di come affrontarle da diversi punti di vista, in particolare quello dell’istruzione. Ha concluso il suo intervento invitando i presenti a leggere e fare proprio l’Impegno Etico elaborato dalla sua organizzazione, che potete trovare QUI. Video (in spagnolo): Álvaro Orús. Intervista: Juana Pérez Montero --------------------------------------------------------------------------------   > Come attivare i sottotitoli in italiano: > > * Far partire il video > * Cliccare sul simbolo della rotella in basso a destra (Impostazioni) > * Cliccare su Sottotitoli > * Cliccare su Inglese > * Cliccare ancora su Sottotitoli (inglese) > * Scegliere Traduzione automatica > * Tornare nel video, in cui appare la lista delle lingue disponibili > * Scegliere la lingua italiana dalla lista > > La traduzione non è perfetta, ma facilita comunque la comprensione. TRADUZIONE DALLO SPAGNOLO DI STELLA MARIS DANTE Redacción Madrid
Segretario Esecutivo dell’ALBA Rander Peña: “Il Venezuela sostiene la pace per tutta l’America Latina”
Al termine della conferenza stampa settimanale del Partito Socialista Unito del Venezuela (PSUV), abbiamo avuto l’opportunità di conversare con Rander Peña, Segretario Esecutivo dell’ALBA, e anche incaricato di dirigere l’organizzazione dell’Internazionale Antifascista, che sta riunendo di nuovo a Caracas delegati provenienti da tutto il mondo. Lei sta svolgendo il ruolo di Segretario Esecutivo dell’ALBA, l’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America, fondata da Cuba e Venezuela, che sta perdendo forza dopo il ritorno a destra di alcuni paesi membri: un compito assai complesso in questo momento, di fronte alla minaccia imperialista nei Caraibi. Come vede dal suo punto di osservazione ciò che sta accadendo nella Patria Grande, ma anche a livello mondiale? L’America Latina è minacciata da poteri suprematisti che cercano di imporre i propri interessi con la forza. L’America Latina ha però deciso da tempo di intraprendere il cammino della sovranità, dell’indipendenza, dell’autodeterminazione dei popoli e di proteggere la pace al di sopra di ogni cosa. Nel 2014, al vertice de L’Avana, dove si riunirono i paesi della CELAC, una delle grandi decisioni che furono prese lì, e che rimarrà registrata per la storia, è dichiarare l’America Latina come una zona di pace: e questo è un bene prezioso che abbiamo difeso in quel momento, che difendiamo ora e difenderemo sempre in qualsiasi circostanza. Se c’è qualcosa che il Venezuela ha fatto in tutto questo tempo, in cui vediamo una minaccia reale, provocazioni reali per generare un “cambio di regime”, non è sostenere se stesso. Il Venezuela non sostiene se stesso. Il Venezuela sostiene la pace intera di tutta l’America Latina. Una situazione indesiderabile per il Venezuela, avrà un impatto su tutta la regione. Fortunatamente, la maggior parte dei paesi della regione lo capisce, ed è per questo che hanno contribuito, attraverso le loro azioni e dichiarazioni, a proteggere quella pace che tanto vogliamo e a cui tanto aneliamo. L’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America [ALBA] è stata in prima linea in ognuno di questi scenari, attraverso dichiarazioni, azioni, attraverso vertici straordinari che abbiamo realizzato, ognuno dei presidenti che fanno parte dell’Alleanza, i primi ministri dei Caraibi Orientali. Insomma, in questa fase stiamo difendendo il nostro diritto a vivere in pace, il nostro diritto al futuro, ed è qualcosa che continueremo a fare con tutta la forza indomita di questo popolo latinoamericano, ma specialmente quando parliamo del Venezuela, parliamo anche del popolo bolivariano, che è già una responsabilità storica che abbiamo noi figli e figlie di Bolívar. E questo carico storico ci dà una responsabilità, una altissima responsabilità, e in nome di Bolívar continueremo a difendere la nostra autodeterminazione, la nostra indipendenza e la pace che abbiamo conquistato. Da alcuni paesi dei Caraibi, che sono passati a destra, ma anche quelli in cui governa una falsa sinistra, parliamo ad esempio della Guyana, arriva un attacco anche alla Caricom, un attacco all’integrazione latinoamericana, ma anche una concreta minaccia militare. Come stanno rispondendo gli altri paesi? E cosa sta facendo lei come Segretario esecutivo dell’Alba? Gli Stati uniti adotteranno sempre stratagemmi per strumentalizzare alcuni governi che hanno deciso di non curarsi dei loro popoli, ma di difendere gli interessi degli Stati Uniti. Questo accade con alcuni governi, non solo dei Caraibi, ma dell’America Latina. Sono presidenti che sono arrivati al potere politico con una chiara intenzione, un chiaro obiettivo, che è quello di poter beneficiare gli interessi degli Stati Uniti in ciascuno di questi paesi. Noi, di fronte a ciò, confidiamo nella saggezza di ognuno dei popoli dell’America Latina. Se c’è qualcosa che hanno dimostrato lungo tutta questa storia è che sono popoli con una profonda vocazione di difesa della sovranità, dell’indipendenza, dell’autodeterminazione. Prima o poi, i fiumi torneranno al loro corso e quei governi che hanno deciso di sottomettersi agli interessi imperialisti, la storia li espellerà dalle sue pagine. E lì non rimarrà che un pessimo ricordo di quei governi che hanno ceduto o hanno preteso di cedere i loro paesi a interessi stranieri. I popoli dell’America Latina, dei Caraibi, ricorderanno, invece, i presidenti che hanno saputo proteggere gli interessi del loro popolo. Nessuno, assolutamente nessuno parlerà dei leader di estrema destra nella regione. Ma sono sicuro che passeranno 300, 400, 500 anni e tutti parleranno di Hugo Chávez, di Fidel Castro, dei nostri dirigenti e delle nostre dirigenti: di Nicolás Maduro, di Raúl Castro, di Daniel Ortega. Insomma, questa è la storia. Ognuno decide come vivere la propria vita. Noi abbiamo deciso di viverla in coerenza con il desiderio, con l’anelito dei nostri popoli e lo stiamo facendo. Difendiamo a ogni costo gli interessi del popolo venezuelano. Per questo siamo tanto attaccati dall’imperialismo nordamericano. Perché se Nicolás Maduro si fosse arreso agli interessi imperiali, avrebbe sicuramente un tappeto rosso a Washington, ma il popolo in questo momento starebbe soffrendo. Abbiamo deciso di unire la nostra sorte a quella del nostro popolo, all’interesse del nostro popolo, all’anelito del nostro popolo, al desiderio del nostro popolo e lo stiamo facendo. Come quadro politico socialista, come vede questo piano di Trump, che non riguarda solo la Patria Grande, ma una ricerca di nuova egemonia da parte di un imperialismo che è in una crisi di modello conclamata? Come vede il futuro dell’Alba e quali sono le contromisure a livello generale che il Venezuela può mettere in campo? Vediamo chiaramente quali siano gli interessi imperialisti, che cercano sempre di fare, commettere o intraprendere azioni atte a raggiungere i loro obiettivi. In America Latina agiscono due dottrine antagoniste tra loro, che hanno combattuto storicamente e che combattono anche ora, la dottrina bolivariana e la dottrina monroista. Il nuovo monroismo intende l’America Latina come un territorio che deve essere disarticolato per far sì che l’imperialismo nordamericano possa realizzare i suoi desideri e interessi nella regione. Il bolivarianismo propone tutto il contrario. Intende che l’America Latina debba essere unita, rafforzata. Crediamo nell’unione latinoamericana come principio fondamentale per poter raggiungere gli obiettivi e i grandi aneliti dei popoli dell’America Latina, dei Caraibi. E questi scontri fanno sì che ci siano posizioni inconciliabili tra l’imperialismo nordamericano e i desideri e le aspirazioni del popolo latinoamericano. Quell’anelito continuerà, con loro là con i soliti piani di aggressione, noi qui con la nostra agenda: un’agenda di pace, di sovranità, di autodeterminazione, un’agenda di pace con giustizia sociale. Loro, invece, intendono la pace attraverso la forza, lo hanno dichiarato, e agiscono in questo senso, e sembrano sentirsi orgogliosi di usare il termine pace attraverso l’uso della forza. Noi no, noi crediamo nella pace attraverso la giustizia sociale, attraverso l’incontro con l’altro, nella pace, accompagnata sempre dalla felicità, utilizzando la massima bolivariana della ricerca della maggiore somma di felicità possibile per tutti e tutte. Lei ha organizzato l’Internazionale Antifascista. Una proposta di estrema attualità per il mondo. Che bilancio fa fino ad oggi e come proseguirà questa proposta? L’Internazionale Antifascista è un potente movimento che si è formato in tutto il mondo. Più di 77 paesi stanno formando l’Internazionale Antifascista con diversi capitoli, con un chiaro messaggio, che è condannare quello che sta cercando di essere la rinascita di nuove forme del fascismo, e neofascismo come si definisce. E i neofascisti stanno usando diversi strumenti, ma per fare ciò che hanno sempre fatto in passato: sterminare l’avversario, uccidere l’altro, fare i propri comodi attraverso l’odio e la violenza. Noi non possiamo permettere la rinascita di cose maligne per l’umanità. Se c’è qualcosa in cui crediamo e di cui siamo convinti, è che dobbiamo mettere a disposizione tutto ciò che abbiamo per difendere l’esistenza stessa dell’umanità. Ed è quello che stiamo facendo. L’Internazionale Antifascista, se ha uno scopo, è impedire che il neofascismo possa avanzare, perché l’avanzare del neofascismo è il regresso dell’umanità. Ed è quello che noi ci proponiamo e che stiamo facendo: impediamo che il neofascista avanzi, perché il neofascismo fa regredire l’umanità, e può arrivare fino allo sterminio completo di un’intera civiltà, come vediamo con il genocidio in Palestina. Quello che vediamo in Palestina fa parte di quelle azioni sioniste, neofasciste, che riuniscono il peggio che ci possa essere, o i peggiori orrori dell’umanità e tentano di applicarlo. Questo è per noi inammissibile. Per questo, se c’è qualcosa di molto attuale, oggi, è l’Internazionale Antifascista. Fonte Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba
Fake news, propaganda e linguaggio mediatico: una conversazione con Giuliana Sgrena
Dalla manipolazione dell’informazione alla narrazione dei femminicidi: la riflessione di Giuliana Sgrena risuona oggi con forza e lucidità. Viviamo nell’epoca della manipolazione digitale, dei conflitti raccontati in diretta e delle narrazioni tossiche che deformano la realtà più rapidamente di quanto la si possa verificare. Le fake news non sono più semplici distorsioni: sono strumenti politici, economici e bellici, capaci di orientare masse, polarizzare società, innescare crisi e condizionare decisioni cruciali. Nel corso degli anni, Giuliana Sgrena ha denunciato con forza come la manipolazione dell’informazione non sia un fenomeno isolato, ma una distorsione trasversale che attraversa ogni ambito del dibattito pubblico. Nel suo saggio Manifesto per la verità (Il Saggiatore), compie una diagnosi impietosa dei mali dell’informazione contemporanea, mostrando come la falsificazione della realtà colpisca in modo particolare i soggetti più vulnerabili: le donne, raccontate con un linguaggio che giustifica la violenza; i migranti, la cui verità “si inabissa come un corpo affogato”; le popolazioni in guerra, di cui arrivano solo frammenti distorti, piegati agli interessi dei governi. «Per papa Francesco», ricorda Sgrena, «Eva è stata vittima della prima fake news uscita dalla bocca del serpente». Una metafora che conserva oggi una drammatica attualità e che ben descrive il peso che le narrazioni tossiche continuano ad avere nelle società moderne. Una voce autorevole, rigorosa e sempre attenta a questi meccanismi, Sgrena offre strumenti fondamentali per comprendere il presente. Di seguito, la conversazione integrale. INTERVISTA A GIULIANA SGRENA «Fu un giorno fatale quello nel quale il pubblico scoprì che la penna è più potente del ciottolo e può diventare più dannosa di una sassata», scrive Oscar Wilde. Quanto ritiene sia ancora attuale questa famosa citazione di Wilde? La libertà di espressione è una grande conquista ma è anche una spina nel fianco dei regimi autoritari e dei dittatori che utilizzano ogni mezzo per impedire qualsiasi critica o qualsiasi pensiero libero. Nel suo saggio Manifesto per la verità, racconta come si possano innescare conflitti dalla scintilla di una notizia falsa o manipolata. Come è possibile difendersi e accedere a informazioni sicure? Purtroppo quando una falsa notizia ha l’obiettivo di scatenare una guerra è sostenuta da una campagna di propaganda mediatica che non si può fermare. Lo si è visto nella seconda guerra del Golfo (2003), quando il movimento pacifista portò in piazza milioni di persone, e fu definito dal New York Times la seconda potenza mondiale, ma non riuscì a bloccare l’invasione dell’Iraq. «La fotografia sconfigge le fake news», queste le parole di Oliviero Toscani durante la conferenza stampa del 2017 per la presentazione della seconda edizione del talent show Master of Photography. Ritiene veritiera questa affermazione? Non è vera. Purtroppo oggi anche le fotografie sono manipolabili e falsificabili. Un esempio clamoroso è quello del fotografo brasiliano Eduardo Martins, che si era costruito un profilo perfetto sui social: trentadue anni, alto, biondo, bellissimo, surfista, scampato alla leucemia. Presente in tutte le guerre, dove scattava foto bellissime vendute alle più note agenzie del mondo. Le foto migliori venivano vendute per beneficenza e il ricavato devoluto ai bambini di Gaza. Troppo bello per essere vero e infatti era tutto falso. Martins non è mai esistito e le sue foto erano tutte rubate e falsificate. Ma anche senza arrivare a questo estremo ci sono foto manipolate e altre diffuse con una falsa didascalia. Alcuni politici si servono di Twitter (280 caratteri) per comunicare, a discapito del confronto giornalistico. Cosa pensa della politica ai tempi del social? I politici si sono facilmente convertiti a Twitter che permette loro di lanciare solo slogan, perché in 280 battute non si può esprimere un concetto complesso. I social sono diventati lo strumento per fare politica evitando il confronto con i giornalisti, che vengono sbeffeggiati per minare la loro credibilità. Così possono far circolare fake news e dati falsi senza essere smentiti e, quando lo sono, definiscono le proprie affermazioni «fatti alternativi», come ha fatto Trump. Nelle cronache di violenze verso le donne troppo spesso incontriamo superficialità linguistica. Espressioni come “amore malato”, “raptus di passione”, “era un gigante buono” lasciano nelle donne violate il dubbio sulle loro ragioni. In quale direzione bisognerebbe andare per invertire una rotta così dannosa? Il modo di descrivere la violenza contro le donne è impregnato di cultura patriarcale. La donna stuprata e ammazzata viene descritta come una che se l’è andata a cercare, mentre si cercano le attenuanti o giustificazioni per chi commette un femminicidio. Le giornaliste dell’Associazione Giulia, insieme alle Commissioni Pari Opportunità della Fnsi e dell’Usigrai, hanno elaborato il Manifesto di Venezia, che indica le regole per una corretta informazione. Gli argomenti trattati nei suoi libri mettono spesso sotto accusa il mondo del giornalismo. Non si è mai lasciata impressionare dalle naturali ripercussioni che questo tipo di inchieste avrebbero comportato? Nel mio libro (Manifesto per la verità) ho fatto un’analisi spietata del modo di fare informazione soprattutto su alcuni temi particolarmente sensibili o manipolabili, per responsabilizzare chi fa informazione e chi ha il diritto di essere informato. Presentando questo libro, che è stato utilizzato anche in alcuni corsi di formazione per giornalisti, ho trovato molti colleghi che condividono le mie critiche. Si avvicina una data importante: il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Lei, che si è sempre occupata di condizione femminile, quale pensiero desidera lasciare alle donne abusate che cercano di reagire ai loro carnefici? Le donne devono denunciare le violenze subite, ma le autorità devono proteggerle. Non basta aumentare le pene per chi commette femminicidi: occorre evitarli. E questo si può fare finanziando le case che accolgono le donne che hanno subito violenze; invece questi finanziamenti vengono tagliati e le case chiuse. Giuliana Sgrena venne rapita il 4 febbraio 2005 dall’Organizzazione del Jihād islamico mentre si trovava a Baghdad per realizzare reportage. Fu liberata trenta giorni dopo, in un’operazione in cui rimase ucciso Nicola Calipari. Cosa è cambiato nella sua vita da quel tragico giorno? Preferirei non rispondere a questa domanda. Le parole di Giuliana Sgrena mostrano come la ricerca della verità sia un impegno che non riguarda solo i giornalisti, ma l’intera società. Nel rumore informativo che caratterizza il nostro tempo, riconoscere le manipolazioni, denunciare le distorsioni e pretendere un linguaggio rispettoso e accurato è un atto di responsabilità collettiva. Lucia Montanaro
Il caso Moussa Baldé e la violenza strutturale della detenzione amministrativa
La vicenda di Moussa Baldé ha messo ancora una volta in luce la violenza radicata nei CPR, rivelando come la deumanizzazione sia la regola all’interno di queste strutture e sottolineando l’urgenza di continuare a lottare contro ogni forma di razzismo sistemico e istituzionale. In questa intervista, l’Avvocato Gianluca Vitale, che assiste la famiglia di Moussa e segue il processo in corso, ricostruisce le responsabilità istituzionali, le omissioni e le violenze – anche invisibili – che hanno trasformato una vittima in un “irregolare” da espellere, fino all’isolamento e al suicidio. Una testimonianza indispensabile per comprendere non solo ciò che è accaduto a Moussa, ma ciò che accade ogni giorno nei CPR. PH: Stop CPR Roma QUALI SONO LE CIRCOSTANZE CHE HANNO PORTATO MOUSSA BALDÉ A ESSERE RINCHIUSO NEL CPR DI TORINO, SOPRATTUTTO DOPO AVER SUBITO UNA VIOLENTA AGGRESSIONE? Subito dopo l’aggressione, Moussa – pur essendo la vittima di un reato – è tornato a essere considerato semplicemente un “clandestino”, da trattare come tale: quindi da rinchiudere ed espellere. Era arrivato in Italia qualche anno prima e aveva chiesto la protezione internazionale, un passaggio quasi obbligato per chi entra nel Paese senza reali canali di ingresso regolare. Aveva iniziato un percorso molto positivo: parlava bene italiano e partecipava ad attività con gruppi antirazzisti. Col tempo, però, l’attesa infinita e l’incertezza sul suo futuro hanno incrinato questo equilibrio. Non sapendo se la sua domanda sarebbe mai stata accolta, aveva tentato di raggiungere la Francia, ma era stato respinto. Da lì era iniziata una vita ai margini, fino a perdere il permesso di soggiorno e diventare irregolare. Poi l’aggressione davanti a un supermercato di Ventimiglia. Dopo quel fatto, Moussa è stato fermato dalla polizia che, accertata la sua irregolarità, lo ha consegnato all’ufficio immigrazione. Da lì è iniziato il percorso verso il CPR. COSA SAPPIAMO DELL’AGGRESSIONE SUBITA DA MOUSSA A VENTIMIGLIA? CI SONO INDAGINI IN CORSO SU QUELL’EPISODIO DI VIOLENZA? Il video dell’aggressione, ripreso da una residente, è circolato rapidamente online. I tre aggressori italiani, temendo di essere riconosciuti, si sono presentati spontaneamente alla polizia e sono stati denunciati a piede libero. Moussa, invece, è finito al CPR. Gli aggressori hanno tentato di sostenere di essersi solo difesi, accusando Moussa di averli aggrediti, ma il processo ha poi smentito questa versione. Il giorno successivo, mentre il video suscitava interrogativi e molti parlavano già di un’aggressione a sfondo razzista, la polizia ha diffuso una dichiarazione in cui escludeva motivazioni razziali, avallando la tesi – priva di riscontri – della presunta “precedente aggressione”. Il processo, celebrato a Imperia, si è concluso con la condanna dei tre aggressori a due anni di reclusione con sospensione condizionale della pena. Anche in quella sede la Procura ha deciso di non contestare l’aggravante dell’odio etnico, nonostante un’aggressione del genere non possa che evocare, almeno, un evidente rapporto di superiorità degli aggressori sulla vittima. SECONDO LEI, MOUSSA AVREBBE DOVUTO ESSERE TRATTENUTO IN UN CENTRO DI DETENZIONE, CONSIDERANDO LE SUE CONDIZIONI PSICOLOGICHE E FISICHE DOPO L’AGGRESSIONE? Una volta classificato come straniero irregolare, Moussa ha perso ogni riconoscimento della sua condizione di vittima, e la sua vulnerabilità non è stata minimamente considerata. Avrebbe avuto diritto a essere ascoltato, a presentare denuncia, forse a chiedere un permesso per motivi di giustizia. Aveva bisogno di supporto. Ma nessuno gli ha spiegato nulla. In commissariato gli è stato semplicemente chiesto se volesse denunciare l’aggressione, senza chiarire cosa comportasse. Impaurito e confuso, ha detto di voler solo essere lasciato in pace. Da lì è stato trasferito all’ufficio immigrazione, sempre senza capire cosa gli stesse accadendo. È arrivato al CPR in uno stato di grande fragilità, senza comprendere le ragioni della sua detenzione. È stato quasi subito messo in isolamento, perché presentava delle lesioni cutanee e gli altri detenuti temevano potesse essere scabbia. La soluzione più comoda – anche per evitare tensioni interne – non è stata quella di verificare se fosse psicologicamente idoneo alla detenzione o, in caso contrario, rilasciarlo. Né di spiegare agli altri detenuti che non correvano alcun rischio. Si è preferito isolarlo in una cella, da solo, “eliminando” il problema. Di fatto, non gli è stata garantita alcuna assistenza né supporto psicologico. QUALI RESPONSABILITÀ AVEVANO LA DIREZIONE DEL CPR E IL PERSONALE MEDICO NEI CONFRONTI DI MOUSSA – E DOVE RITIENE CHE ABBIANO FALLITO? Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha annullato il capitolato nazionale di gestione dei CPR proprio perché carente nell’assistenza sanitaria e psicologica e privo di protocolli dedicati al rischio suicidario. La stessa sentenza ribadisce che, al di là delle lacune dell’appalto, gli enti privati che gestiscono i CPR hanno comunque l’obbligo di garantire la salute psicofisica delle persone trattenute. Approfondimenti/CPR, Hotspot, CPA CPR, IL CONSIGLIO DI STATO CONFERMA: VIOLATO IL DIRITTO ALLA SALUTE DEI TRATTENUTI Una sentenza che svela la patogenicità della detenzione amministrativa Avv. Arturo Raffaele Covella 11 Novembre 2025 Questo, per Moussa e per molti altri, non è stato fatto. La valutazione dell’idoneità al trattenimento, ad esempio, si limita a verificare l’assenza di malattie contagiose e la capacità della persona di vivere in una comunità – non in “quel tipo” di comunità, cioè un luogo di detenzione, ma in una comunità generica. In pratica, ci si concentra quasi esclusivamente sull’eventuale presenza di gravi malattie infettive, senza prestare alcuna attenzione alle condizioni psichiche della persona migrante. Oltre a non riconoscere né considerare quella vulnerabilità, né a fornire alcun tipo di supporto, Moussa è stato anche isolato, lasciato da solo in una condizione di ulteriore abbandono, che non poteva che accrescere il rischio di comportamenti autolesivi. CREDE CHE IL SUICIDIO DI MOUSSA POTESSE ESSERE EVITATO CON UN ADEGUATO SUPPORTO MEDICO E PSICOLOGICO? Un’adeguata presa in carico psicologica avrebbe certamente potuto aiutare Moussa a superare quel momento di estrema fragilità. Ma garantire davvero questo tipo di supporto, all’interno del centro, avrebbe richiesto attività di monitoraggio e osservazione costante: un impegno ulteriore che non è stato messo in campo. Al contrario, Moussa è stato collocato da solo nella cella di isolamento, senza alcun sostegno. Quella cella, situata nei cosiddetti “ospedaletti” e separata dalle altre aree del CPR, era totalmente inadatta a qualsiasi forma di osservazione sanitaria. Il Garante nazionale dei detenuti l’aveva descritta come “una gabbia dei vecchi zoo”, a testimonianza delle condizioni disumane dello spazio. Il suo corpo è stato trovato la mattina. La sera precedente, l’infermiera incaricata di somministrargli la terapia si era avvicinata alla cella e lo aveva chiamato. Non avendo ricevuto risposta, ha semplicemente lasciato il bicchierino con i farmaci su un muretto, senza verificare il suo stato. Non sappiamo nemmeno se, in quel momento, Moussa fosse ancora vivo e se un intervento tempestivo avrebbe potuto salvarlo. C’è poi un ulteriore elemento decisivo: non è stata mai presa in considerazione quella che avrebbe dovuto essere l’“opzione zero”. Di fronte alle sue condizioni, alla vulnerabilità evidente e all’aggressione appena subita, le autorità avrebbero dovuto decidere di non detenerlo affatto, avviando semmai un percorso di presa in carico. Evitare la detenzione sarebbe stato, senza dubbio, il modo più efficace per prevenire il rischio di un gesto suicidario. LA SUA FAMIGLIA HA DICHIARATO CHE “SI VEDEVA CHE STAVA MALE“, EPPURE NON SONO STATI INFORMATI DELLA SUA MORTE. PERCHÉ, SECONDO LEI, LE AUTORITÀ NON LI HANNO AVVISATI TEMPESTIVAMENTE? Moussa, come tutte le persone migranti trattenute, non era più visto come una persona, con i diritti e gli affetti che questo comporta. Era ridotto a un semplice soggetto – o addirittura oggetto – da detenere. Quando una persona viene trattenuta, nessuno si preoccupa di capire se abbia una famiglia, legami affettivi o qualcuno da avvisare. Anzi, chi ha appena perso la libertà perde spesso anche il diritto alle relazioni esterne: durante quel periodo, Moussa è stato privato del suo telefono, impossibilitato a comunicare con chi gli era vicino. Nessuno si preoccupa di dire ai parenti che è detenuto; perchè dovrebbero preoccuparsi di avvisarli che è morto? Così è stato anche per Moussa: i suoi familiari in Guinea hanno saputo dell’accaduto solo tramite altre persone, senza alcun contatto diretto dalle autorità italiane. Né lo Stato, né l’ente gestore del CPR hanno mai cercato di mettersi in contatto con la famiglia, neanche per esprimere un minimo segno di vicinanza. Qualche settimana dopo la sua morte, la Ministra dell’Interno, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha limitato la propria dichiarazione ad affermare che “era stato fatto tutto regolarmente”, senza mostrare alcuna forma di dispiacere o un minimo sentimento di cordoglio e umanità per quella perdita. PH: Mai più lager – NO ai CPR C’È UN PROCEDIMENTO LEGALE IN CORSO, E CHI VIENE RITENUTO RESPONSABILE: IL DIRETTORE DEL CPR, IL PERSONALE MEDICO, LO STATO? Attualmente a Torino è in corso un processo nei confronti della direttrice del centro e del responsabile medico, accusati di omicidio colposo per non aver fornito a Moussa un’adeguata assistenza, per non aver predisposto un protocollo di prevenzione del rischio suicidiario e per averlo collocato in isolamento. Nessuno dei funzionari della Questura o, ancor più, della Prefettura è sotto processo. Inizialmente erano stati indagati anche alcuni funzionari per aver utilizzato e consentito l’uso di un luogo di isolamento non previsto da alcuna norma di legge. Tuttavia, il procedimento si è concluso con un’archiviazione, perché quegli spazi – i cosiddetti “ospedaletti” – erano utilizzati da anni e nessuno si era accorto che trattenere una persona lì, senza alcuna base normativa, costituisse un sequestro di persona. Lo Stato, dunque, si è assolto, e sotto processo ci sono solo i gestori privati di quella detenzione. RITIENE CHE IL CASO DI MOUSSA SIA UNA TRAGEDIA ISOLATA O FACCIA PARTE DI UN PROBLEMA SISTEMICO NEL MODO IN CUI L’ITALIA TRATTA I MIGRANTI NEI CENTRI DI DETENZIONE? Il caso di Moussa, purtroppo, è tutt’altro che una eccezione. È quel tipo di detenzione che porta con sé, come conseguenza quasi necessaria, che la persona sia dimenticata in una cella, abbandonata e sottoposta all’arbitrio di chi gestisce il centro (e di chi dovrebbe controllare quella gestione). Di Moussa si è saputo e se ne è parlato solo perché c’era il video della sua aggressione, e perché era evidente che era una vittima e avrebbe dovuto essere trattato come tale. Invece di ricevere aiuto, lo Stato gli ha inflitto l’ulteriore violenza della cella e dell’isolamento. Purtroppo, situazioni simili accadono ogni giorno. Ricordo, ad esempio, anni fa una donna straniera priva di permesso di soggiorno: dopo ore di violenza in una fabbrica abbandonata era riuscita a fuggire e a fermare una volante. Pur potendo denunciare il suo aguzzino, la sua condizione di “clandestina” ha subito avuto la meglio: le è stato notificato un decreto di espulsione. Un altro caso riguarda una badante senza permesso, investita insieme all’anziano che assisteva. Invece di scappare, si era fermata ad aspettare i soccorsi, arrivati insieme alla polizia. Nonostante fosse vittima, la sua posizione irregolare ha prevalso e le è stato notificato un decreto di espulsione. Anche in occasione di un altro decesso al CPR di Torino, quello di Fatih nel 2008, si sospettò che non fosse stato soccorso nonostante un malore. Nel tentativo di far interrogare gli altri detenuti e proteggerli dall’espulsione, un Pubblico Ministero mi rispose che non c’era motivo di agitarsi, perché si trattava “solo di un clandestino” e non c’erano responsabili. Un caso più recente, quello di Faisal nel 2019, conferma lo stesso schema: con evidenti problemi psichici, Faisal era stato collocato nell’“ospedaletto” per valutare la sua compatibilità psicologica con il trattenimento, e lì era rimasto isolato per oltre cinque mesi, fino alla morte. Anche in questo caso, il centro si era limitato a “dimenticare” una persona vulnerabile. Questa disattenzione alle persone è la normalità; non solo a Torino, ma in ogni luogo di detenzione amministrativa. QUALI RIFORME O CAMBIAMENTI STRUTTURALI SAREBBERO NECESSARI PER EVITARE CHE UNA TRAGEDIA DEL GENERE SI RIPETA? È l’intero sistema di gestione dell’immigrazione a dover essere rivoluzionato. La libertà di circolazione dovrebbe essere un diritto per tutte e tutti, mentre da anni si fanno sforzi continui per ostacolarla e limitarla, pur liberalizzando al contempo la circolazione dei capitali e dei flussi finanziari, favorendo nuove forme di colonialismo e affermando il “nostro” diritto di muoverci liberamente. Che senso ha subordinare la possibilità di cercare lavoro alla necessità di “avere già” un lavoro? Proprio questa politica crea l’imbuto in cui si ritrovano molte persone migranti: l’unica via d’accesso diventa la richiesta di protezione internazionale, con tempi di attesa lunghi e spesso frustranti, e infine il tritacarne della detenzione. Il sistema è costruito per non funzionare: trasforma le persone migranti in una massa di forza lavoro facilmente ricattabile, ridotta a semplice fattore produttivo, di cui ci si può facilmente disfare quando diventa “inutile” o quando inizia a rivendicare diritti. PH: Mai più lager – NO ai CPR HA AVUTO ACCESSO A DOCUMENTI, REGISTRAZIONI VIDEO O TESTIMONIANZE UTILI PER COSTRUIRE IL CASO? HA INCONTRATO OSTACOLI NEL REPERIRE QUESTE INFORMAZIONI? Per quanto riguarda l’aggressione subita a Ventimiglia, nel corso del processo sono stati acquisiti tutti i video delle telecamere di sorveglianza, compresa quella della polizia: l’aggressione, infatti, è avvenuta proprio sotto le finestre del più grande commissariato della città. Per quanto riguarda il CPR, è stato acquisito tutto ciò che era possibile ottenere. Il problema principale è che l’“ospedaletto” – formalmente una stanza di osservazione sanitaria – non dispone di alcun sistema di videosorveglianza interno (né esterno). Tutto ciò che accade all’interno rimane quindi invisibile a chiunque dall’esterno. COSA PENSA SIA PIÙ IMPORTANTE CHE L’OPINIONE PUBBLICA SAPPIA SU CHI ERA MOUSSA, AL DI LÀ DEI TITOLI DI GIORNALE? Come molti giovani migranti che arrivano in Italia e in Europa, Moussa era una persona piena di desiderio e gioia di vivere, che inseguiva sogni e speranze. Il folle sistema di gestione della migrazione lo ha prima inserito nel circuito dell’accoglienza, per poi non offrirgli alcuna via d’uscita, gettandolo nell’irregolarità. Moussa è stato vittima non solo della violenza di chi lo ha aggredito, ma anche del razzismo di una società che lo ha visto – come vede altri in difficoltà – come un corpo estraneo da espellere. È stato vittima del razzismo istituzionale di un Paese che rifiuta di comprendere che persone come lui rappresentano una risorsa preziosa. Non dimenticherò mai il suo sguardo spento e disperato, quando mi diceva che non sarebbe rimasto nel CPR, così come non dimenticherò il suo sguardo luminoso in un video di qualche anno prima, in cui raccontava quanto stesse apprezzando la vita in Italia, prima di essere tradito nelle sue speranze e gettato via. QUALE MESSAGGIO DESIDERA LANCIARE ALL’OPINIONE PUBBLICA E AI RESPONSABILI POLITICI ATTRAVERSO QUESTO PROCESSO? Il processo è il luogo deputato ad accertare se è stato commesso un reato, e ad accertare se a commetterlo sono state le persone che in quel processo compaiono come imputati. Insieme ai familiari, che si sono costituiti parte civile, alla Garante cittadina dei diritti delle persone private della libertà, all’ASGI, all’Associazione Franz Fanon, anche loro costituiti parte civile, vorremmo che questo processo servisse anche a far emergere l’inutilità e la disumanità dei CPR, aggiungendo un tassello al percorso verso la loro chiusura. Il processo accerterà se gli imputati siano colpevoli, ma ci auguriamo che dimostri anche a tutti come molti, a diversi livelli, siano responsabili di quella morte e di altre simili. COME STA AFFRONTANDO TUTTO QUESTO LA FAMIGLIA DI MOUSSA? È COINVOLTA NEL PERCORSO GIUDIZIARIO? Come dicevo i familiari, i genitori e le sorelle e i fratelli, si sono costituiti parte civile, e stanno seguendo il processo con enorme dolore ma anche con una straordinaria dignità. Ripetono sempre che questo deve essere un processo che porti verità e giustizia per la morte di Moussa, ma che allo stesso tempo costituisca un passo verso verità e giustizia per tutte le persone migranti che sono state e sono detenute in questi luoghi. Credo che tutti noi possiamo trarre un insegnamento da chi, pur avendo perso un figlio a causa dell’insensibilità di questo Paese, non cerca vendetta, ma giustizia per tutte le persone migranti.
Festival della Pace a Brescia: un kaki di Nagasaki a Bruxelles
Dal 7 novembre Brescia sta ospitando l’ottava edizione del Festival della Pace, organizzata da Comune e Provincia in collaborazione con Fondazione Brescia Musei e Amnesty International, con l’alto patrocinio del Parlamento Europeo. La rassegna, ormai punto di riferimento nel panorama culturale bresciano e nazionale, mette quest’anno al centro il tema dell’Europa e del suo ruolo nel mondo contemporaneo. Tra gli eventi di chiusura il 23 novembre al teatro San Carlino (Corso Matteotti 6) si terrà l’incontro “Un kaki per Bruxelles” moderato da Nuri Fatolahzadeh (“Il Giornale di Brescia) con la presenza di Francesco Foletti  e Giulia Bonomelli (Brescia-Nagasaki Tree Project for Europe), di Giorgio Gori e Massimiliano Salini (europarlamentari). A pochi giorni dall’incontro abbiamo incontrato Giulia Bonomelli (Direttivo Kaki Tree Project) e le abbiamo posto qualche domanda. Come hai conosciuto il kaki di Nagasaki?  L’ho conosciuto attraverso Francesco Foletti. Allora, io abito a Castegnato. Inizialmente non fu attraverso il kaki, ma attraverso lo sport, l’associazione  Motus.  Lui ha avvicinato mio marito che è un insegnante di educazione fisica specializzato in atletica. Hanno iniziato una collaborazione molto efficace e fruttuosa, nel senso che hanno fatto diventare l’associazione qualcosa di bello, importante, molto radicato nel paese e non solo. E poi, piano piano ,mi ha così fatto conoscere il Kaki tree project che allora era ancora molto legato al Giappone. Nel frattempo sono diventata un amministratore per il Comune di Castegnato, consigliere con delega proprio i temi della pace. Mi hanno affidato il kaki, che è stato messo a dimora qui nel nostro paese, uno dei primi, tra l’altro, nel bresciano. Poi è successa una cosa… Nel 2020, durante il Covid, è venuto a Castegnato il presidente Sergio Mattarella. E’ stato un evento particolarissimo. Ecco, lui è venuto senza che nessuno lo sapesse e quando ce l’hanno detto, neanche noi ci credevamo. Casualmente anche Francesco era lì quella mattina, lui non va mai al Civettino (il cimitero locale) il 1° di novembre, ma quel giorno vede il Presidente della Repubblica. A un certo punto, dopo questa visita particolare, ci siamo detti: “Come Castegnato potrebbe ricambiare questo gesto di generosità del Presidente? Regaliamogli un kaki”. Quindi abbiamo cercato, attraverso l’amministrazione, di proporre questa pianta come segno di riconoscenza da parte della comunità. Ci abbiamo messo un po’, ma alla fine ce l’abbiamo fatta: un esemplare è stato messo a dimora a Castelporziano. Ho creato il percorso Vivi, i bagni di gong. Anche questo è nato nell’anno della pandemia, quando io cercavo da consigliere, durante l’estate, di creare piccoli eventi nel mio paese per portare le persone fuori di casa, perché ormai non usciva più nessuno, erano tutti spaventati. Ho creato questi momenti all’aperto per la comunità, con tutte le norme restrittive che c’erano: presentazioni di libri aprendo magari le case, quelle particolari, antiche, i cortili… momenti di benessere nei parchi… Come succedono le cose belle, abbiamo messo insieme i pezzi. Chi suonava il gong mi ha chiesto di poter creare un percorso in Franciacorta. Loro pensavano ai vigneti, ma io ho proposto i luoghi dove sono messi a dimora i kaki. Il gong è uno strumento portatore di pace più interiore, quindi facciamolo nei luoghi dove ci sono questi alberi della pace. Ci tenevo a coinvolgere le amministrazioni, perché hanno una grande responsabilità. Possono prendere una posizione, possono dire la loro. Da una delle nostre chiacchierate è nato il Kaki bike tour. Abbiamo creato il primo percorso in Valcamonica e poi, naturalmente, si sogna sempre, ci si allarga e quindi abbiamo fatto quello successivo da Brescia a San Marino, dopo ancora da Castel Porziano a Scampia e poi da Trieste a Vienna. Quest’anno abbiamo toccato i laghi, da quello del Garda a quello di Monate, sempre attraverso i kaki.  Si crea quasi una linea invisibile tra di loro. Portiamo con noi poi l’esperienza di quelli che abbiamo incontrato la volta precedente, la condividiamo con gli altri e diventa una grande, grande comunità. Noi ci arricchiamo tantissimo e a nostra volta portiamo questo anche all’esterno, agli altri.  Come si intrecciano il kaki di Nagasaki e l’Europa? La partecipazione al Festival di quest’anno è un po’ la conseguenza dell’evento che abbiamo fatto lo scorso anno donando l’albero di kaki al sindaco di Lampedusa, Vito Mannino. Abbiamo voluto portarlo all’estremo confine dell’Europa, alla porta ed è stato molto bello, molto importante, soprattutto quando poi l’abbiamo messo a dimora qualche settimana fa. Quest’edizione del Festival parla di Europa. Noi abbiamo una specie di accordo con il Comune, ossia donare ogni anno un albero che sia, diciamo così, contestualizzato al tema centrale. Essendo appunto il tema del 2025 l’Europa, abbiamo ripreso un po’ quanto fatto l’anno scorso. Lampedusa accoglie, però poi dobbiamo anche smuovere le coscienze di chi prende le decisioni. Perché in realtà questo è importante, perché chi prende le decisioni ha il dovere anche di pensare al bene comune. Daremo idealmente a chi ha la responsabilità di custodire in Europa la dignità umana, la libertà dei popoli, per cui è una presa di responsabilità importante quella che dovrebbero avere i due europarlamentari  presenti a quest’affidamento. Vorremmo dire di custodire l’Hibakuiumoku di Nagasaki perché, come tutti gli alberi, ha bisogno di cura e anche le persone hanno bisogno di cura, di attenzione e di non essere mai perse di vista. Di tutti i kaki che hai conosciuto ce n’è qualcuno che ti ha colpito particolarmente, per cui ti sei emozionata? Di tutti quelli che ho visti, e sono tanti, anche col Kaki bike tour, quello che mi ha emozionato di più è stato quello di Trieste. Sono affezionata a quello di Castel Porziano perché evidentemente è un po’ il kaki degli italiani. Anche perché chi visita Castel Porziano e fa il giro di quel giardino avrà  informazioni anche su questo albero, quindi può arrivare a tante persone. E poi l’ultimo, quello di Scampia. Quando l’abbiamo messo a dimora, abbiamo trovato tantissimi amici e scoperto che cos’è Scampia dietro l’immagine che tutti abbiamo. Io ho capito che spesso dietro a una grande criticità, una grande sofferenza, una grande fatica, c’è anche una grande reazione da parte delle persone. Lì ho visto l’umanità, il rispetto proprio per la persona, la cura della persona, nei volti delle tantissime associazioni che operano là, che sono racchiuse in questo progetto Pangea. Abbiamo proprio trovato degli amici, persone con le quali quando ti ritrovi è come non essersi mai lasciati. Questi sono i tre che ho più presenti dentro di me, naturalmente senza togliere nulla a tutti gli altri.   Tiziana Volta
‘Cosa succede, davvero, in Spagna?’ Andrea De Lotto lo chiede a Rolando d’Alessandro
Oggi, 18 novembre, alle 21, l’incontro online con un italiano, attento e lucido attivista, che vive a Barcellona da oltre 40 anni. A Rolando d’Alessandro, che ha passato una vita a lottare all’interno dei movimenti della città catalana, ma soprattutto sa leggere quello che avviene intorno a lui, nell’intervista diffusa in diretta Andrea De Lotto (redattore di Pressenza e collaboratore di Radio Onda d’Urto) chiederà di raccontare un’interessante società, in difficile equilibrio tra grandi slanci, speranze e un passato che non passa… “Come raccontare un governo centrale, i governi locali, tra altisonanti proclami e la dura e faticosa realtà?” evento Facebook “Cosa succede, davvero, in Spagna?“ collegato al profilo di PRESSENZA. Redazione Italia
Distopia, distopia, per piccina che tu sia… Intervista a Simone Angelini
Simone Angelini, classe 1980, nasce a Chieti e collabora con riviste come “Linus” e “Alias Comics”, l’inserto del “Manifesto”. Una dozzina di anni fa inizia il sodalizio con lo scrittore e fumettista Marco Taddei. La loro graphic novel più famosa è la pluripremiata Anubi, pubblicata nel 2015, e che gli vale tra gli altri il premio Boscarato.  Rifrazione Fantasma (Coconino Press, 2025, p. 264, euro 17,96), è la nuova graphic novel distopica di Angelini, con un tono leggero e un’estetica colorata che racconta la vicenda di Falco Lomuncolo, un ex ingegnere che esce di carcere dopo una detenzione lunga anni e si ritrova in un mondo che non riconosce più, dominato dai social network e da onnipresenti droni spia che controllano costantemente la vita delle persone. Sarà una sua vecchia invenzione la chiave della personale ribellione. Rifrazione Fantasma è un’opera divertente da leggere e ricca di spunti, che riflette sulla società contemporanea con ironia e lucidità. In occasione di Lucca Comics and Games 2025 abbiamo intervistato l’autore.  PULP: Nella tua opera Rifrazione Fantasma troviamo una serie di elementi di world building distopico, la popolazione è sottoposta ai “crediti universali” e ha assunto una pigmentazione in “pantone caramello”, insieme a tanti altri elementi che compongono un quadro preciso. Vogliono essere un affresco politico? Di che genere? SA: Sicuramente sono riferimenti… Mi piace dire che è una realtà che si muove con qualche secondo di sfasamento rispetto alla nostra, quindi non troveremo sicuramente una fantascienza estrema, con elementi impensabili. Rappresenta una realtà vicina alla nostra, ma si potrebbe anche parlare di retrofantascienza, nel senso che nessuno vieta di pensare che stiamo muovendoci in una società meno progredita della nostra, ma più sviluppata sotto il punto di vista tecnologico, sotto alcuni aspetti. Utilizzare quegli elementi è servito anche per creare quel contatto con la nostra realtà e, quindi, per avviare una sorta di riflessione senza prendere una posizione, aprendo un dialogo che susciti un ragionamento nel lettore e porti in superficie degli elementi che pensavo potessero essere di riflessione anche per un nostro contemporaneo. PULP: Uno di questi elementi in particolare, la volgarità come fattore di decurtazione del credito sociale, suscita due domande. La prima: fai una satira di quella che qualcuno chiama cancel culture e dell’idea che una certa parte politica sia eccessivamente suscettibile? La seconda domanda è: si tratta di una citazione da Demolition Man? SA: Demolition Man non lo ricordo assolutamente; è un film che penso di aver visto circa trent’anni fa e la mia memoria ormai è quella che è. Il riferimento al contemporaneo, quindi alla cancel culture, c’è sicuramente. Vivo in questa realtà e mi piace ragionare su queste cose. Però è anche una riflessione leggera, o un voler tornare all’infanzia, quando i genitori ti dicevano: “Hai detto una parolaccia, adesso metti le cento lire dentro al salvadanaio”. Più o meno, è anche un voler riflettere sull’infantilizzazione che stiamo subendo come cittadini: ci stanno trasformando in bambini in cui a gestire tutto è chi sta in alto e che, come un genitore, decide cosa è giusto e cosa è sbagliato, come ci dobbiamo muovere e parlare. Quindi, era un po’ riflettere anche su tutto questo utilizzando un escamotage narrativo.  PULP: Secondo te perché la distopia sembra essere un genere tanto attuale, sempre sul pezzo nel descrivere i nostri tempi? SA: Io in realtà penso che ci sia un modo di fare fantascienza e distopia che è molto evidente. A me piace invece la fantascienza che non ti fa capire subito cosa vuole dirti. Ti lancia un messaggio che devi capire solo dopo un po’ che stai leggendo o guardando un film, che ti fa ragionare. Quando invece è un qualcosa di spiattellato e rappresentativo diretto, non stiamo parlando di quello, non c’è più la parte del ragionamento che sicuramente è importante che ci sia. Questa importante presenza di racconti distopici non può che farmi piacere, perché è giusto che ci sia, è giusto che si rifletta non soltanto con i post sui social di gente che ti dice “questo è giusto, questo è sbagliato”, ma anche leggendo e facendo ragionare la nostra testa, raccogliendo informazioni tramite le opere culturali. PULP: Visto che parli molto dei social network nel tuo libro, secondo te, oltre a essere strumenti di platformizzazione, di controllo, di omologazione, hanno anche spazi di libertà? SA: Gli spazi ci sono, senza dubbio. Non sono assolutamente una persona che pensa a chissà quale tipo di cospirazione, però dobbiamo anche riflettere sul fatto che i social network sono strumenti di multinazionali, che devono fare denaro, fondamentalmente, a meno che non parliamo dei social network indipendenti che si muovono su reti indipendenti. Ma quelli di larga fruizione sono tutte macchine per far soldi. Dipende molto da come li utilizziamo: se ci lasciamo trascinare nell’utilizzo standard che ci viene suggerito dagli algoritmi — da tutti questi algoritmi infernali che stanno brevettando — siamo semplicemente un ingranaggio di quel sistema per fare soldi. A quel punto, la libertà magari si dovrebbe trovare fuori da quei sistemi. PULP: Parliamo ora dell’aspetto visuale di Rifrazione Fantasma. Il volume ha un’estetica anni ‘80 che sembra ispirarsi anche alla grafica pubblicitaria dell’epoca. Come l’hai costruita e che ispirazione hai preso? È una scelta deliberata o lavori sempre così? SA: In realtà, questo è un lavoro che spicca subito graficamente. Non dico che sia distante dai miei lavori precedenti, però gli ho dedicato un tempo diverso. È un tipo di riflessione diverso, perché è un libro che è nato, come idea, circa quindici anni fa. Non è una storia nata adesso, quindi ho avuto tanto tempo per pensarlo e solo nell’ultimo anno l’ho materialmente disegnato. Avevo già in mente come farlo, e l’estetica che sono andato a scegliere è un’estetica non direttamente ispirata agli anni ’80; volevo un’estetica colorata e stravagante. Le spalline imbottite provengono dalle mie ricerche, dai miei archivi e da cose che vorrei mettere nei fumetti e che sono riuscito a incastrare in questo libro. Poi sicuramente io sono un figlio degli anni ’80, sono nato esattamente nel 1980 e quindi sicuramente ho portato nel libro questi elementi. Rileggendo il libro, ho ripensato a Ritorno al futuro e a tante altre fonti d’ispirazione che sul momento ho usato senza pensarci. PULP: Il personaggio di Falco Lomuncolo è uno smanettone, non è un semplice utente della tecnologia, ma è uno che ci mette mano. È un po’ il Tuttle di Brazil, è quella persona che si trova nella posizione di ribellarsi, volente o nolente. Rappresenta dunque la generazione hacker degli anni ’80 e ’90, quando un po’ tutti mettevano le mani nei computer, facendo anche pirateria e violando la legge? SA: Sì, sicuramente è come dici. Cioè, lui è il figlio di quegli anni lì. Appunto, facendo leva sulla sua passione da smanettone, è arrivato a essere un ingegnere per l’esercito. Falco arriva da quel mondo, dal poter mettere mano alle cose e crearle. Come ho detto prima, non utilizza la tecnologia in modo preconfezionato. Lui quella maniera la rifiuta, lui spacca i sistemi che gli vengono lanciati contro, come la sfera drone che lo perseguita. Preferisce tornare a lavorare sul progetto che stava realizzando per l’esercito e che aveva sviluppato da ragazzino, semplicemente per andare a spiare le compagnucce di scuola nel bagno, diventando invisibile. Per lui la tecnologia non è fatta di massimi sistemi, ma risponde a un bisogno diretto. PULP: Il mondo di Rifrazione Fantasma è pieno di occhi che ci guardano, e un fattore di liberazione è l’invisibilità. Perché Falco diventa invisibile attraverso il sudore? C’è una simbologia dietro? SA: In realtà no, è qualcosa che mi è venuto in mente così. Non essendo io uno scienziato, né un tecnico in grado di inventare qualcosa, ho dovuto pensare a una tecnologia che smaterializzasse le persone, non avendo minimamente idea di come poterla rendere un minimo credibile. Quindi, con la sospensione dell’incredulità, ho pensato questa cosa. Questo elemento ha sviluppato anche altre parti del libro, il bisogno di arrivare a Falco quando suda è andato a influenzare anche il suo look e certe scene di fuga.   L'articolo Distopia, distopia, per piccina che tu sia… Intervista a Simone Angelini proviene da Pulp Magazine.