Tag - Medio Oriente

Gaza: i bisogni sono enormi dopo 22 mesi di guerra e due mesi di blocco degli aiuti
Dichiarazione di Ted Chaiban, Vicedirettore generale UNICEF 2 agosto 2025 – “…Sono appena tornato da una missione di cinque giorni in Israele, Gaza e Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est. I segni della profonda sofferenza e della fame erano visibili sui volti delle famiglie e dei bambini. Dall’inizio della guerra, a Gaza sono stati uccisi oltre 18.000 bambini. Si tratta di una media di 28 bambini al giorno, l’equivalente di una classe scolastica, che non ci sono più. I bambini hanno perso i loro cari, sono affamati e spaventati e traumatizzati. Gaza ora rischia seriamente la carestia. Si tratta di una situazione che si è andata aggravando, ma ora abbiamo due indicatori che hanno superato la soglia della carestia. Una persona su tre a Gaza passa giorni senza cibo e l’indicatore di malnutrizione ha superato la soglia della carestia, con la malnutrizione acuta che ora supera il 16,5% [nella città di Gaza]. Oggi, oltre 320.000 bambini piccoli sono a rischio di malnutrizione acuta. A Gaza ho incontrato le famiglie dei 10 bambini uccisi e dei 19 feriti da un attacco aereo israeliano mentre erano in fila con i loro genitori per ricevere cibo presso una clinica nutrizionale a Deir el-Balah sostenuta dall’UNICEF. Abbiamo incontrato Ahmed, che ha 10 anni, e suo padre. Quel giorno Ahmed era in fila con sua sorella Samah, di 13 anni. Lei è morta. Ho visto una foto in cui lui agitava furiosamente le braccia per fermare un carro trainato da un asino nel tentativo di salvarla e portarla in ospedale, ma non ci è riuscito. È profondamente traumatizzato e non sa cosa fare. Questo semplicemente non dovrebbe accadere. I bambini che ho incontrato non sono vittime di una catastrofe naturale. Sono affamati, bombardati e sfollati. In un centro di stabilizzazione nella città di Gaza ho incontrato bambini gravemente malnutriti, ridotti pelle e ossa. Le loro madri erano sedute lì vicino, disperate ed esauste. Una madre mi ha detto che non produce più latte materno perché lei stessa è troppo affamata. L’UNICEF sta facendo tutto il possibile per affrontare la situazione: sostiene l’allattamento al seno, fornisce latte artificiale e cura i bambini affetti da malnutrizione acuta grave. Ma i bisogni sono enormi dopo 22 mesi di guerra e due mesi di blocco, che ora è stato allentato ma continua ad avere un impatto, e gli aiuti non stanno arrivando abbastanza velocemente o nella misura necessaria. In mezzo a tutto questo, il nostro personale a Gaza, la maggior parte del quale ha subito perdite personali devastanti, continua a lavorare giorno e notte. L’UNICEF sta fornendo acqua potabile: 2,4 milioni di litri al giorno nella parte settentrionale di Gaza, raggiungendo 600.000 bambini. Si tratta di una media di 5-6 litri di acqua al giorno a persona – meglio di prima, ma ancora ben al di sotto della soglia di sopravvivenza. Abbiamo ricostruito la catena del freddo per i vaccini e continuiamo a vaccinare i bambini. Stiamo fornendo assistenza psicosociale ai bambini che sono stati terrorizzati da ciò che hanno vissuto. Stiamo salvando la vita ai neonati, aiutando a riunire le famiglie separate, sia all’interno della Striscia che, in alcuni casi, a livello internazionale, e fornendo latte artificiale ai bambini più vulnerabili, ma c’è ancora molto da fare. Dopo la tregua annunciata da Israele, l’accesso umanitario è stato in parte facilitato. Abbiamo oltre 1.500 camion carichi di forniture di prima necessità pronti nei corridoi tra Egitto, Giordania, Ashdod e Turchia. Alcuni hanno iniziato a muoversi e negli ultimi due giorni abbiamo consegnato 33 camion di latte in polvere salvavita, biscotti ad alto contenuto energetico e kit igienici. Ma questa è solo una minima parte di ciò che serve; quindi, gran parte della nostra missione è stata dedicata alla sensibilizzazione e al dialogo con le autorità israeliane a Gerusalemme e Tel Aviv. Abbiamo insistito affinché venissero riviste le loro regole militari di ingaggio per proteggere i civili e i bambini. I bambini non dovrebbero essere uccisi mentre aspettano in fila in un centro nutrizionale o mentre raccolgono l’acqua, e le persone non dovrebbero essere così disperate da dover assalire un convoglio. Abbiamo chiesto un aumento degli aiuti umanitari e del traffico commerciale – avvicinandoci a 500 camion al giorno – per stabilizzare la situazione e ridurre la disperazione della popolazione, nonché i saccheggi e quella che chiamiamo auto distribuzione, quando la popolazione insegue un convoglio, e anche i saccheggi, quando i gruppi armati lo inseguono perché il prezzo del cibo è così alto. Per affrontare questo problema, dobbiamo inondare la Striscia di rifornimenti utilizzando tutti i canali e tutti i valichi.   Questo non sarà possibile solo con gli aiuti umanitari, quindi abbiamo anche insistito affinché nella Striscia entrassero beni commerciali – uova, latte e altri beni di prima necessità che integrano ciò che la comunità umanitaria sta portando. Abbiamo insistito affinché fossero ammessi articoli “a duplice uso” e più carburante, in modo da poter riparare il sistema idrico: tubi, raccordi, generatori.  A Gaza fa molto caldo – 40 gradi – e l’acqua scarseggia, con il rischio di epidemie che incombe ovunque. Continueremo a impegnarci affinché le pause umanitarie non causino ulteriori sfollamenti, costringendo la popolazione in un’area sempre più ristretta. Anche in Cisgiordania i bambini sono in pericolo. Finora quest’anno sono stati uccisi 39 bambini palestinesi. Ho visitato una comunità beduina a est di Ramallah, che è stata costretta ad abbandonare le proprie case a causa delle violenze. Abbiamo anche incontrato bambini israeliani colpiti dalla guerra. Bambini che hanno subito paura, perdite e sfollamenti. I bambini non iniziano le guerre, ma sono loro a subirne le conseguenze Ci troviamo a un bivio. Le scelte che faremo ora determineranno la vita o la morte di decine di migliaia di bambini. Sappiamo cosa bisogna fare e cosa si può fare. L’ONU e le ONG che compongono la comunità umanitaria possono affrontare questo problema, insieme al traffico commerciale, se vengono messe in atto misure che consentano l’accesso e che alla fine garantiscano la disponibilità di beni sufficienti nella Striscia, in modo da attenuare alcuni dei problemi legati all’ordine pubblico. Sono necessari finanziamenti. L’appello dell’UNICEF per Gaza è gravemente sottofinanziato: solo il 30% delle esigenze sanitarie e nutrizionali è coperto. Dobbiamo ricordare che le pause umanitarie non sono un cessate il fuoco. Speriamo che le parti possano concordare un cessate il fuoco e il ritorno di tutti gli ostaggi rimasti nelle mani di Hamas e di altri gruppi armati. Questa situazione va avanti da troppo tempo. 22 mesi. Onestamente non mi sarei mai aspettato che saremmo arrivati a 22 mesi di guerra. Quello che sta accadendo sul campo è disumano. Ciò di cui hanno bisogno i bambini, i bambini di tutte le comunità, è un cessate il fuoco duraturo e una via d’uscita politica.” FOTO E VIDEO: https://weshare.unicef.org/Share/0e2ryciq0w65jai05u62f7q6078w2et4 UNICEF
Francesca Albanese: “La sopravvivenza della Palestina sarà la nostra riabilitazione”
Riprendiamo dal sito di Reti Solidali un articolo di Maurizio Ermisino su un incontro avvenuto a Roma con Francesca Albanese, ambasciatrice ONU in Palestina, per la presentazione del suo libro “Quando il mondo dorme” La solidarietà è la declinazione politica dell’amore, secondo la Relatrice Speciale dell’ONU per la Palestina. Per Albanese l’obbligo di prevenire il genocidio è scattato con l’istanza del Sudafrica alla Corte di Giustizia di gennaio 2024. Il sacrificio della Palestina deve essere un’occasione. Possiamo uscirne distrutti o migliori. Genocidio. Pulizia etnica. Apartheid. Le parole sono importanti. E usare le parole giuste per raccontare che cosa sta accadendo oggi in Palestina, nella Striscia di Gaza, è sempre più importante. L’incontro con Francesca Albanese, Relatrice Speciale dell’ONU per la Palestina, di ieri sera al MONK a Roma, per presentare il libro Quando il mondo dorme (Rizzoli, 2025), è stato in questo senso illuminante. In un giardino gremito di folla, con altrettante persone rimaste fuori, Francesca Albanese ha parlato a cuore aperto, con quella “dolorosa gioia”, come la definisce lei, che è  raccontare una situazione terribile con la consolazione della condivisione della denuncia.  Ogni volta è straziante, un dolore collettivo, ma c’è l’obbligo di non fermarsi e di riflettere per cambiare un sistema e di provare a costruire il domani che vogliamo. «Mi si chiedeva perché è così importante chiamare quello che sta accadendo a Gaza “genocidio” e perché dire che Israele sta commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità non è sufficiente» si è chiesta Francesca Albanese. «Se andate dal medico con il cancro e vi dice che avete la febbre, ha sbagliato la diagnosi. Se anche si dovesse condannare la leadership israeliana per crimini di guerra, si fallirebbe la soluzione del problema fondamentale. Non è solo lo Stato di Israele, ma il Sionismo come ideologia predicata sulla realizzazione di uno Stato di soli ebrei in Palestina, che vuol dire che non lo è per tutti gli altri popoli. Il genocidio è l’intenzione di distruggere un gruppo in quanto tale. Ed è quello che Israele sta facendo con atti di uccisione, con l’inflizione di condizioni di vita calcolate per distruggere: se togli l’acqua, il tetto sopra la testa, il cibo, il carburante, se distruggi tutti gli ospedali, se impedisci alle persone l’accesso a qualsiasi cosa per vivere, il risultato è questo. Ormai siamo al di là: nelle ultime settimane sono morte 147 persone, la maggior parte bambini, la maggior parte neonati, per mancanza di viveri. Se anche domani cessassero di piovere le bombe sui palestinesi rinchiusi in quel ghetto che Israele ha creato nel 1948, il genocidio c’è già stato. E chiamarlo genocidio ci dà la misura di quella che è stata la nostra responsabilità». «La cosa fondamentale della convenzione sul genocidio è la prevenzione» continua. «Abbiamo già fallito. L’obbligo di prevenire il genocidio è scattato quando la Corte di Giustizia internazionale ha ricevuto, nel gennaio del 2024, l’istanza del Sudafrica, a cui si sono uniti altri 14 Paesi». «Passo dopo passo facciamo la cosa giusta. Sicuramente non saremo peggio di come siamo adesso» FERMARE L’ECONOMIA DEL GENOCIDIO La grande ipocrisia è quella di tanti Paesi, tra cui l’Italia, che hanno continuato a intrattenere rapporti politici e commercial con Israele. «Un governo può rendersi complice» afferma Francesca Albanese. «Ma noi cittadini possiamo dire no, basta. Ai comuni che mi danno la cittadinanza onoraria io dico: se volete che l’accetti dovete bandire il Made in Israel. A chi è stressato per quanto zucchero ci sia nelle marmellate per i propri figli dico: usate lo stesso zelo per vedere quali prodotti vanno a finanziare direttamente l’economia dell’occupazione che si è trasformata in economia di genocidio. Tanti studenti hanno monitorato le relazioni dei loro atenei con Israele: vanno tagliate senza se e senza ma perché uno Stato accusato di apartheid, genocidio, crimini di guerra non è uno Stato con cui si possono avere relazioni. Fareste oggi una relazione con il Sudafrica al tempo dell’apartheid? La fiction per cui c’è un Israele buono ed uno cattivo deve finire. È Israele che è accusato di crimini: da oggi non si commercia più, non si trasferiscono armi né know-how, non si fa ricerca neutra con uno Stato accusato di crimini internazionali». FRANCESCA ALBANESE: NELLA SOPRAVVIVENZA DEI PALESTINESI CI SARÀ LA NOSTRA RIABILITAZIONE Queste richieste sono arrivate alla politica italiana, che non ha risposto. Cosa si può fare per sensibilizzarla? «Loro sono quello che sono. Nel 2027 dovrete valutare se questa gente merita di rimanere al potere oppure no» risponde, tra gli applausi, Francesca Albanese. «Credo molto nel valore della politica, per me è una parola con la P maiuscola. Capisco i giovani che fanno cittadinanza attiva. Questa deve essere la nuova declinazione della politica. Il sacrificio della Palestina ci deve dare questo: non usciremo da questa fase nello stesso modo in cui siamo entrati. Possiamo uscirne distrutti o uscirne migliori. Prendiamo il dolore di questo momento come quello di un parto: si soffre, si spinge per portare alla luce qualcosa di nuovo. Una frase che ho mutuato e che uso spesso è: la solidarietà è la declinazione politica dell’amore. Questo è un momento di solidarietà in cui ci si ritrova: so che l’amore per me è un amore di riflesso per il popolo palestinese. Che è un popolo dolce e buono. Se lavoriamo tutti insieme non solo il genocidio si fermerà. Non solo i palestinesi si ricostruiranno come fanno del 1948. Ma nella loro sopravvivenza ci sarà la nostra riabilitazione, quella dal peccato originale di noi occidentali, cioè 500 anni di colonizzazione. La declinazione politica dell’amore è questa: dobbiamo tornare ad essere buoni. Lo dobbiamo a noi stessi, alla società che vogliamo lasciare ai nostri figli e nipoti». IL MONDO NON SI CAMBIA A CEFFONI In questi anni Israele, con gli Stati complici, sta mettendo in atto un esercizio lucido della cattiveria. Nel senso di “captivus”, cioè “chiuso”, qualcuno che non è nemmeno in grado di vedere il male che sta facendo. In che modo oggi noi occidentali possiamo sensibilizzare e avere il coraggio e l’intelligenza di fare quel passo indietro rispetto al mondo? «Ci sono tante cose che dobbiamo imparare a fare, ma prima dobbiamo disimparare» risponde Francesca Albanese. «Dobbiamo dismettere certi automatismi. Abbiamo l’ansia da prestazione. Invece di saltare alle conclusioni, alle soluzioni, alla destinazione, dovremmo pensare al processo. E nel frattempo dobbiamo ascoltare. È fondamentale ascoltare perché ascoltare significa capire». Nel libro si legge un episodio particolare, un momento in cui anche Francesca Albanese ha provato un senso di vergogna. «Quando ero in Palestina, già 15 anni fa, Israele arrestava una media di 500-700 bambini all’anno, tra i cinque e i dodici anni e, se un adulto interveniva, ci stava che non tornasse a casa. Nel 2012 mi chiedevo: perché dobbiamo scrivere lettere ad Israele chiedendogli che si rispettino i diritti della convenzione del fanciullo quando arrestano i bambini e li portano nelle corti militari? Ma perché stiamo qui a normalizzare l’abominio? Con il tempo sono riuscita a staccarmi da quel processo di convenienza. Per me era insopportabile il peso della coscienza, sapere quello che potevo o non potevo fare da funzionario delle Nazioni Unite. Il mondo si cambia se si fa la cosa giusta ad ogni passo. Bisogna creare consapevolezza sulla Palestina, di cui si sa ancora troppo poco. Ho avuto un tremore quando un farmacista stava vendendo un prodotto Teva. Se mi dite “voglio fare qualcosa” cominciate a non venderli più. Ma, nei confronti degli ebrei, ammettiamo il garbo, la dolcezza, l’eleganza. Perché il mondo non si cambia a ceffoni». PALESTINA: IL BANCO DI PROVA DEL RISPETTO DELLA LEGALITÀ Cosa dovrebbero fare gli Stati? Come ha scritto ieri Francesca Albanese su X, non dovrebbero solo riconoscere lo Stato di Palestina, fare gesti simbolici, prendere le distanze da Israele. Dovrebbero sanzionare Israele, imporre un embargo totale alle armi, spezzare l’assedio inviando navi, sospendere tutti gli accordi commerciali, indagare e perseguire chi ha commesso crimini nei territori palestinesi occupati. La risposta è sempre: “ma siamo amici di Israele”. «Non si può vituperare la parola amicizia in questo modo» commenta Francesca Albanese. «Se hai un amico che sbaglia, gli dai uno scappellotto. Prendi delle misure perché la persona che ami non sbagli più. Qui si sta parlando di violenza estrema. Un popolo va immaginato come un corpo. Quante ferite si possono infliggere ad un corpo per decenni? E quanta comprensione si può chiedere a questo un corpo e all’anima che lo abita? Con il politico con cui ho parlato c’era proprio una posizione ideologica: “come ti aspetti che noi interrompiamo le relazioni con uno Stato come Israele?” Uno stato così indecente con un esercito così immorale io non me lo ricordo in un Paese che si dice democratico. Negli ultimi anni ho visto cose incredibili. E non è che i palestinesi prima se la passassero bene: già nel 2013 le Nazioni Unite denunciavano maltrattamenti, torture e stupri su minori nelle carceri israeliane. Dove eravamo noi? Dove eravamo nel 2022 quando i pogrom nei confronti dei villaggi palestinesi si moltiplicavano? Per quel viceministro degli affari esteri che mi diceva “non possiamo interrompere le relazioni con lo Stato di Israele” ho pensato: “o vi convinceremo noi o il vostro popolo, alle prossime elezioni voi non ci sarete”. La Palestina sta diventando il banco di prova del rispetto della legalità di cui abbiamo bisogno tutti quanti. Oggi non si può passare e stare in silenzio sul corpo di 20mila bambini». FERMARE IL TRAFFICO D’ARMI Dobbiamo fermare il traffico di armi, raccontare chi le fa. «Altra Economia ha fatto inchieste sulla Leonardo spa, partecipata dal 30% dello Stato italiano, che partecipa alla produzione degli F35 in modalità Beast Mode, in modo da portare una quantità di bombe in grado di distruggere un intero territorio, con il danno di 8 nucleari. Tutti abbiamo un potere e dobbiamo esercitarlo adesso. I portuali di Genova e di Ravenna sono stati i primi a dare l’allarme perché in questi porti si trasferivano armi verso Israele». BISOGNA CURARE L’ANIMA DI UNA TERRA Ci si chiede quale possa essere il processo di transizione verso un futuro che possa portare a una pacifica convivenza tra i due popoli. «Ci sono tanti strumenti per immaginare il futuro» riflette Francesca Albanese. «Possiamo vederlo come la destinazione di qualcosa che vogliamo costruire. C’è una parola che non compare nel vocabolario di noi occidentali: è “healing”, “cura”. Bisogna curare l’anima: c’è un trauma incredibile in quella terra». «Prima di tutto vanno portati i diritti» conclude. «Passo dopo so facciamo la cosa giusta. Sicuramente non saremo peggio di come siamo adesso». Redazione Italia
Con la Palestina contro ogni repressione
Quasi 200 persone al presidio indetto dalla Rete antifascista lecchese il 1° agosto a Como nei pressi dello stadio. L’iniziativa è stata animata per esprimere solidarietà alle cinque persone colpite da un provvedimento di Daspo per avere sventolato una bandiera della Palestina durante la partita Celtic-Ajax a Como il 24 luglio. Negli striscioni e negli interventi, partendo dagli episodi di criminalizzazione delle manifestazioni politiche a Como, a Bergamo e altrove, si è affermato il sostegno alla Resistenza palestinese la condanna dell’orrore del genocidio in atto, il rifiuto della repressione sempre più forte che attraverso decreti sicurezza e retoriche securitarie, restringe lo spazio pubblico, comprime le libertà individuali e collettive e mette a tacere ogni voce fuori dal coro. Free Palestine e Free Gaza certo, ma anche Stop Rearm Europe e la rivendicazione della legittimità di essere antisionisti senza per questo essere accusati di antisemitismo. Nei video gli interventi, aperti da Corrado Conti della Rete antifascista lecchese, della rete Stop al genocidio, dei Giovani palestinesi e in chiusura dell’avvocato Ugo Giannangeli, che ha chiarito l’incongruenza dei provvedimenti repressivi attuati chiarendo tra l’altro che nella legislazione italiana non esiste alcun divieto di sventolare bandiere di altri Paesi. Ecoinformazioni
Manifesto degli insegnanti per Gaza
Riceviamo da Tiziana Guidi, una delle promotrici e volentieri pubblichiamo questo importante documento. In fondo alla lettera al Ministro Valditara si trovano i riferimenti per contatti a informazioni. La scuola è il luogo dove si sviluppano abilità, conoscenze e competenze, e dove si apprendono i veri valori della vita. Oggi il nostro ruolo di educatori non ha senso e non è credibile se non prendiamo una posizione netta contro la risoluzione violenta dei conflitti e il genocidio in corso a Gaza ed in Cisgiordania Non si può rimanere indifferenti di fronte al dramma che sta vivendo la popolazione palestinese e in particolare per le sofferenze indicibili dei bambini e dei ragazzi. La Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata nel 1989 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, stabilisce quali sono i diritti inviolabili di bambine, bambini e adolescenti e i doveri degli adulti nei loro confronti: nulla di tutto ciò oggi è possibile in Palestina e Cisgiordania. Ad oggi ai bambini palestinesi  viene negato: il diritto all’istruzione e allo sviluppo il diritto alla protezione dalla violenza e dagli abusi il diritto a un ambiente sicuro e sano, ma soprattutto il diritto all’esistenza! Lanciamo un appello al mondo della scuola invitandolo a sottoscrivere questo documento che così riassume la nostra posizione: Condanniamo la violenza e le violazioni dei diritti umani Ribadiamo l’inalienabilità del diritto all’istruzione e allo sviluppo per tutti i bambini e le bambine palestinesi. Denunciamo la grave crisi umanitaria che avrà conseguenze devastanti a breve ed a lungo termine sulla salute fisica e mentale della popolazione In nome di ciò chiediamo: L’immediato cessate il fuoco e la protezione dei civili. Il riconoscimento dello Stato di Palestina e l’applicazione immediata della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza Il ripristino dei confini antecedenti al 1967, come da risoluzione n. 242 dell’ONU L’immediata cessazione di invio di armi allo Stato d’Israele ed il divieto di qualsiasi collaborazione militare con esso da parte del governo italiano Insieme per una pace giusta e duratura. Promotori e primi firmatari: Tiziana Guidi, Francesca Russo e Alberico Mitrione. Adesioni: Associazioni: La Comunità per lo sviluppo umano- Av, Irpinia in movimento, Insieme per Avellino e l’Irpinia, Unicef- Avellino, L’Angolo delle storie, ASD Taekwondo – Avellino, Controvento, Arci Saviano, Aps Cuore al centro, Pax Christi-AV, Archeoclub d’Italia-Avellino, Zia Lidia Social Club, La mela di Odessa, L’albero vagabondo, Il Bucaneve – edizioni e saggio, Info@Irpinia, Radio Arci Masaniello, L’Albero della vita, Edizioni Disvelare. Gruppi musicali, teatrali e di danza: I Lumanera, Teatro 99 posti, La Bottega del Sottoscala, Puck Teatral, Il Teatro di Gluck, Teatro d’Europa, Barabba Blues, Cantiere Danza, Emian, Muovimenti, Vernice fresca, Teatro Arci Saviano.  Pagine e gruppi FB: Avellino Rinasce, Collettivo Hurriya, Occhi di un Mondo Altro, La Comunità per lo sviluppo umano- Italia, Poesis,  Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza. Sindacati: ANIEF Avellino, FLC-CGIL Il Vescovo di Avellino Monsignor Aiello Le promotrici del manifesto hanno inoltre inviato una lettera aperta al Ministro Valditara: Gentile Ministro Valditara, di fronte  all’immane tragedia che sta colpendo il popolo palestinese non si può non provare un indicibile dolore. Chi le scrive appartiene al mondo della scuola e per noi educatori, in questi mesi, pensare di aver davanti dei giovani, dei bambini e degli adolescenti che possono godere di cibo, istruzione, accoglienza, protezione, assistenza sanitaria, mentre ai loro coetanei palestinesi oggi è negato persino il semplice diritto all’esistenza, è stato fonte di disagio e malessere: ha attanagliato le nostre coscienze condannando spesso le nostre notti all’insonnia. Da questo è nato il “Manifesto degli insegnanti per Gaza”, dalla necessità di non voltarsi dall’altra parte e di ribadire che quei sacrosanti diritti dei bambini e degli adolescenti, affermati nel 1989 dalla Convenzione che li consacrò, non possono continuare ad essere calpestati.  Così come avviene per il diritto all’autodeterminazione dei popoli, sancito nei trattati di pace al termine della 1* Guerra Mondiale proprio da un presidente americano, Woodrow Wilson,  nei suoi 14 punti,   e che  è oggi disatteso e messo all’angolo quando si parla dello Stato Palestinese. Eppure il rispetto, tra gli Stati come nelle relazioni, non può nascere senza  il riconoscimento dell’altro.   L’iniziativa del “Manifesto degli insegnanti per Gaza” è nata spontaneamente da un gruppo di tre docenti, alla fine di maggio, praticamente ad attività didattica  conclusa, ma nonostante ciò si è estesa a macchia d’olio: dai docenti agli allievi, poi ai loro genitori, al mondo della cultura ed alla società nelle componenti più varie, confermando quella naturale trasversalità che il nostro mondo scolastico ha nelle comunità.                                  Ha finito per coinvolgere in poco più di un mese più di mille persone, 20 Associazioni, oltre 70 tra scrittori, musicisti, artisti, gruppi teatrali, musicali e di danza, diverse pagine FB, un’agenzia stampa, due sindacati ed il sostegno del nostro Vescovo, Monsignor Aiello. Apparteniamo a una piccola città campana in un area interna qual è l’Irpinia, che è certo terra di gente testarda, ma siamo persone comuni, senza alcun superpotere e se tutto questo è stato possibile è perché il nostro disagio trovava rispondenza nel cuore di molti,  si leggeva negli occhi dei tanti che cercavano un modo per poter dire “non nel mio nome”. Perché “la libertà è l’obbedienza alla verità interiore”. C’è una strada obbligata perché le violenze in Medio Oriente si plachino da ogni parte, e questa passa dal riconoscimento dello Stato della Palestina, poiché soltanto dando pari dignità ai due popoli che abitano quei territori essi potranno intraprendere un dialogo autentico e costruttivo.  Abbiamo ascoltato la premier Meloni dire che sarebbe “prematuro” tale riconoscimento e ci viene spontaneo chiederci: quale tempo viene considerato congruo perché la Palestina veda riconosciuto il suo diritto all’autodeterminazione? 77 anni sono un tempo considerato troppo breve? Noi crediamo di no. Così come crediamo necessaria la non collaborazione con lo Stato d’Israele fino a quando non cessi la sua politica di genocidio. Pertanto, gentile Ministro Valditara, le chiediamo di esercitare il suo peso all’interno del governo italiano affinché  l’Italia, seguendo l’esempio del Vaticano e delle altre potenze europee che lo hanno già fatto, riconosca lo Stato di Palestina ed interrompa ogni rapporto di partenariato con Israele fino a quando non muti la sua politica. Professoresse Tiziana Guidi e Francesca Russo. Informazioni di contatto: kefinovanta@yahoo.it francesca.ing.russo@gmail.com    Redazione Italia
Il dilemma della cautela: l’inerzia del Cile di fronte al genocidio a Gaza e il coraggio del Brasile
Mi rivolgo a Lei, Signor Presidente. Mentre il Brasile fa un passo avanti con sanzioni decise, la classica cautela del presidente Boric si rivela un’inerzia che condanna il Cile a essere un semplice spettatore di fronte al passaggio storico del genocidio. Questo editoriale analizza criticamente la differenza tra le risposte di Cile e Brasile di fronte al genocidio a Gaza. Sostiene che, mentre il Brasile impone sanzioni militari e diplomatiche come espressione di una leadership audace e pragmatica, la posizione cilena, ancorata a una cautela divenuta inerzia, rappresenta una rinuncia al dovere morale. L’inazione del Cile non è una strategia diplomatica sostenibile. La recente apertura al dibattito sul riconoscimento della Palestina nei Paesi occidentali evidenzia l’inutilità di tale cautela. Il governo Boric e il Parlamento cileno devono rispondere all’imperativo storico e unirsi a un fronte comune in grado di fermare il genocidio. Lo stesso presidente Boric ha formalmente definito i fatti di Gaza un “genocidio”. Questo riconoscimento verbale colloca il Cile, almeno a parole, dalla parte giusta della storia, ma tale atto politico e morale, inizialmente coraggioso, impone una conseguenza logica: agire con coerenza. Non c’è più spazio per invocare la cautela tradizionale come giustificazione dell’inazione o dell’eccessiva moderazione. Una volta nominato il crimine, viene tracciata una linea che obbliga ad agire con i fatti. La notizia che il Brasile ha imposto sanzioni decise contro Israele — sospendendo le esportazioni militari, ritirando il proprio ambasciatore e aderendo al caso presso la Corte Internazionale di Giustizia — è un faro che illumina l’oscurità dell’inazione e uno specchio in cui il Cile deve guardarsi. Il Brasile non si è limitato alla condanna verbale. Le sue azioni — la sospensione delle esportazioni militari, la rottura dei canali diplomatici e la partecipazione attiva alla Corte — dimostrano una leadership disposta a sostenere costi concreti per esercitare una pressione reale. Il Brasile pone la vita di migliaia di palestinesi al di sopra della convenienza politica e del profitto commerciale. Chiama l’America Latina a unirsi per fermare ciò che è stato chiaramente definito un genocidio. Il Cile ha compiuto alcuni passi, come il ritiro temporaneo del proprio ambasciatore, il sostegno a iniziative parlamentari che mettono in discussione il commercio con prodotti provenienti da insediamenti illegali, nonché dichiarazioni forti in forum multilaterali. Ma quando chi governa ha definito i fatti come genocidio, queste risposte risultano chiaramente insufficienti. La responsabilità principale ricade sul presidente Boric e sul Congresso, che devono superare i calcoli politici ed economici che finora hanno frenato un’azione più incisiva. Paesi tradizionalmente allineati all’Occidente — compresi alcuni con stretti legami con Israele — stanno inviando segnali inequivocabili che lo status quo non è più sostenibile. Il dibattito sul riconoscimento dello Stato di Palestina non è più un tabù nemmeno in nazioni come il Canada, il che sottolinea l’inconsistenza della cautela cilena. L’unica “perdita” reale sarebbero tensioni diplomatiche e alcuni costi commerciali che impallidiscono di fronte alla gravità del crimine. La storia giudicherà duramente coloro che sono rimasti nella comoda zona dell’inazione mentre continuava la barbarie. La cautela, in questo contesto, non è prudenza ma rinuncia e il suo prezzo sarà storico e morale. Signor Presidente, lei ha già riconosciuto che ciò che accade a Gaza è un genocidio. E quella parola cambia tutto. Ogni successiva cautela — per pressioni economiche, calcolo elettorale o timore di ritorsioni — diventa indifendibile di fronte a quell’azione. La storia non giudicherà il suo bilancio diplomatico, ma se è stato all’altezza del crimine che lei stesso ha denunciato. Questo editoriale non chiede impulsività, ma coerenza. Non si tratta di agire per pressione, ma di fare ciò che è giusto — perché è già stato detto che ciò che accade è inaccettabile. Il Congresso, che ha giustamente ascoltato il grido della società civile, deve comprendere che la paralisi è anch’essa una forma di complicità. In questo passaggio storico, alcune ambiguità costano vite. Se il Cile, dopo aver ammesso il genocidio, continua a scegliere la cautela, sarà l’umanità intera a pagare questo passaggio storico con il sangue — come è sempre accaduto quando si è taciuto di fronte all’orrore. Rispettosamente, Claudia Aranda Claudia Aranda
Due diciottenni israeliani finiscono in prigione per il rifiuto di partecipare al genocidio a Gaza
Questa mattina, i diciottenni Ayana Gerstmann e Yuval Pelleg si sono rifiutati di arruolarsi nell’esercito israeliano. Gerstmann è stata condannata a 30 giorni di prigione militare, mentre Pelleg è stato condannato a 20 giorni. Prima di entrare nella base di arruolamento di Tel HaShomer, la Rete Mesarvot ha organizzato una manifestazione a sostegno dei due giovani obiettori di coscienza, con la partecipazione di decine di ex obiettori, di familiari e del deputato della Knesset Offer Cassif. Ayana Gerstmann – Dichiarazione di rifiuto Mi chiamo Ayana Gerstmann, ho 18 anni e la legge israeliana mi impone di arruolarmi. Ho deciso di rifiutare, poiché la mia morale mi obbliga a farlo e ho scelto di agire di conseguenza. Sono cresciuta in una famiglia che parlava spesso del fallimento morale del servizio militare. Eppure da ragazzina non capivo bene cosa fosse il fallimento morale del servizio militare di cui mia madre parlava spesso. Non avevo idea di cosa stesse accadendo intorno a me, quali fossero i territori e quali le occupazioni. Ricordo che anni fa ho partecipato alla cerimonia della Giornata di Gerusalemme della mia scuola – ho ballato, cantato e recitato testi nazionalistici senza nemmeno immaginare che ci fosse un problema con la celebrazione gioiosa di ciò che ci veniva mostrato come “l’unificazione di Gerusalemme – la capitale eterna”. Un anno dopo la mia ignoranza politica è andata in frantumi. Nei giorni precedenti la Giornata di Gerusalemme, ci venne assegnata una ricerca sui luoghi importanti di Gerusalemme. Oggi mi è chiaro che l’obiettivo era quello di rafforzare le mie tendenze nazionalistiche, ma il risultato è stato l’opposto. Ho letto di Gerusalemme Est e per la prima volta l’ho vista come era rappresentata nel sito web di B’Tselem. Improvvisamente ho aperto gli occhi su ciò che si nascondeva dietro le celebrazioni dell’orgoglio nazionale a cui avevo partecipato un anno prima: l’occupazione e l’oppressione. Improvvisamente, e in un colpo solo, mi sono trovata davanti la profonda sofferenza di milioni di persone, che prima non sapevo nemmeno esistessero, la cui libertà viene schiacciata giorno dopo giorno, ora dopo ora, dal regime di occupazione. Da quel momento, è cresciuta la consapevolezza che non posso assolutamente far parte del sistema militare che applica il regime di occupazione e che rende la vita dei palestinesi miserabile. Non farò parte di un sistema che espelle abitualmente comunità, uccide innocenti e permette ai coloni di appropriarsi delle loro terre. Dal 7 ottobre questa consapevolezza ha raggiunto il suo apice a causa delle azioni dell’esercito a Gaza. Dall’inizio della guerra, decine di migliaia di donne e bambini sono stati uccisi e centinaia di migliaia sono stati sfollati dalle loro case, costretti a vivere in campi profughi, privati della loro dignità e affamati. Questa catastrofe umanitaria è il risultato delle azioni dell’esercito, il risultato di una guerra che dura da quasi due anni e che ha perso i suoi obiettivi da tempo. Da due anni vedo lo spargimento di sangue come risultato di una guerra di vendetta senza speranza. Vedo decine di migliaia di bambini gazawi che nascono e crescono nella disperazione, nella morte e nella distruzione che formano un circolo infinito di odio, vendetta e omicidio. Vedo centinaia di giovani della mia età che vengono uccisi perché mandati dallo Stato a continuare in eterno questo circolo. Vedo una guerra che mette in pericolo la vita degli ostaggi. E non posso rimanere in silenzio di fronte a queste cose. Non posso tacere in una società in cui il silenzio ha preso il sopravvento. Non ho il privilegio di stare in silenzio, quando so che tutti intorno a me lo hanno fatto a lungo. La società israeliana ha visto l’occupazione per sei decenni e sta chiudendo gli occhi. La società israeliana vede i bambini gazawi uccisi nei bombardamenti e chiude gli occhi. La società israeliana vede l’esercito commettere le peggiori atrocità morali e decide di tacere. La società israeliana non è pronta a riconoscere le atrocità che il suo esercito sta commettendo contro gli innocenti, perché sa che una volta che lo farà, non sarà in grado di affrontare il senso di colpa. Invece di invocare la propria moralità e opporsi alle atrocità, la società israeliana mette a tacere ogni accenno alla propria immoralità, giustifica tutto ciò che non può essere messo a tacere ed etichetta come malvagia qualsiasi opposizione alla guerra, per paura di essere etichettata come tale, se oserà guardare la verità. Durante la guerra ho sentito innumerevoli volte l’affermazione ”Non ci sono innocenti a Gaza” – e sono inorridita. Vedo questa affermazione normalizzarsi sempre di più. Vedo persone davvero convinte che nemmeno il più piccolo bambino di Gaza sia innocente e che quindi non meriti alcuna pietà. E io rispondo: Un bambino è sempre innocente! Anch’io da bambina ero innocente, quando ho partecipato alle cerimonie della Giornata di Gerusalemme. Non potevo scegliere diversamente quando ho letto i testi nazionalisti che mi era stato detto di leggere, ignorando completamente le sofferenze palestinesi. Un bambino inconsapevole non può fare le sue scelte e quindi è innocente. Ma ora, essendo maturata, la mia innocenza non è incondizionata. Per questo so che se decidessi di rimanere in silenzio, ora che sono consapevole delle sofferenze inflitte a milioni di persone dall’esercito, sarei complice del crimine. Oggi so che non posso tacere di fronte alla sofferenza. Non posso tacere di fronte alle uccisioni e alla distruzione. E oggi so che arruolarsi nell’esercito è peggio del silenzio: è collaborare con un sistema che fa del male a milioni di persone. Per questo mi rifiuto, e lo faccio a gran voce. Non collaborerò e non farò parte del silenzio che permette di commettere le peggiori atrocità in mio nome. Come cittadina di questo Paese dico chiaramente: la distruzione di Gaza – non in mio nome! L’occupazione – non in mio nome! Mi rifiuto di rimanere in silenzio, nella speranza che la mia voce apra gli occhi di altri nella nostra società e risvegli la loro consapevolezza di ciò che viene fatto in loro nome – fino a quando neanche loro potranno più rimanere in silenzio”. Yuval Pelleg – Dichiarazione di rifiuto Mi chiamo Yuval Pelleg e oggi mi rifiuto di arruolarmi. Come tutti noi, ricordo bene le atrocità del 7 ottobre e l’inizio della guerra di distruzione. Ricordo anche le parole di Tal Mitnick, che poco tempo dopo si rifiutò di arruolarsi e disse che la guerra non avrebbe portato alcun progresso, ma solo morte e distruzione. Sono passati 22 mesi e le sue affermazioni si sono rivelate vere. Gli obiettivi ufficiali della guerra – smantellare il dominio di Hamas e restituire gli ostaggi – non sono stati raggiunti. Sotto le dichiarazioni di “porteremo la sicurezza” e di “vittoria totale”, tuttavia, si nasconde una sinistra verità: il vero obiettivo che sta guidando la guerra, quello che non si trova nelle note ufficiali, era e rimane la vendetta. Una vendetta che ha causato l’uccisione di molte decine di migliaia di gazawi, tra cui bambini che il 7 ottobre non erano nemmeno nati, la distruzione totale della Striscia di Gaza e la distruzione di ogni speranza. Mentre assisto ai crimini commessi dall’esercito israeliano contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania, si rivela un fatto spiacevole riguardo all’arruolamento in un esercito che pretende di proteggermi in quanto ebreo: si tratta di un’azione incompatibile con i principi fondamentali della vita e dell’uguaglianza per tutti gli esseri umani, e dell’adesione a un sistema la cui essenza è l’oppressione, l’occupazione e la distruzione. Un tempo speravo di dare un contributo importante alla società attraverso il servizio militare. Ho studiato informatica e volevo entrare nell’intelligence, imparare nell’esercito e poi trovare un buon lavoro nell’alta tecnologia. Purtroppo, ogni linea rossa che avrei potuto immaginare (e molte altre che non mi sono mai passate per la testa) è stata oltrepassata. Non si possono scusare o giustificare i crimini che lo Stato di Israele ha commesso negli ultimi due anni, e in generale in tutta la sua storia. La conclusione è chiara: rifiutare di arruolarsi non è solo un diritto, ma un obbligo, e il primo passo per migliorare la vita di tutti quelli che vivono in questa terra. Dobbiamo capire che il genocidio di Gaza non sta avvenendo in modo casuale o per una scelta “sfortunata” nell’elezione dei leader. È il risultato di lunghi processi di fascistizzazione dell’area e una logica conclusione derivata dai principi fondamentali del sionismo. Lo Stato di Israele ha acquisito esperienza nei crimini e nel terrore fin dalle prime fasi della sua fondazione, e oggi la loro portata e la loro accettazione da parte della società sono più ampie che mai. Da un lato l’ignoranza della morale e del diritto internazionale è sempre stata familiare allo Stato, dall’altro siamo chiaramente nel mezzo di un declino – è lecito supporre che se Nathan Alterman scrivesse “Al Zot” (una poesia del 1948 che critica i crimini di guerra israeliani) oggi verrebbe considerato un traditore e gli direbbero: “Vai a Gaza”. Giustamente, l’IDF non è considerato a livello internazionale un esercito morale, e tantomeno “l’esercito più morale del mondo”. Le sue azioni e le sue aspirazioni – uccisioni di massa di bambini, fame indotta e persino piani per istituire un campo di concentramento – cioè un genocidio – ispirano odio e disgusto, e se mettiamo da parte il nazionalismo e il tribalismo è facile vedere che la rabbia, l’odio e l’opposizione non sono reazioni radicali e certamente non antisemite, ma piuttosto morali, minime e giustificate in risposta ai crimini di cui sopra. Nonostante tutti i suoi crimini, le nazioni del mondo continuano a rifornire la macchina di distruzione israeliana con armi e finanziamenti. Presto sarò imprigionato per il mio rifiuto di partecipare al massacro e mi appello a voi, popoli del mondo: intensificate la lotta! Unitevi a me e resistete alla distruzione e al genocidio con tutta la vostra forza. Infine, voglio ricordare che qui non si tratta di me. Si tratta della distruzione, delle persone uccise, del dialogo che è stato portato all’estinzione e della giustizia che è stata sepolta sotto le macerie di Gaza. Mi sforzo di prendere parte a una lotta per la vita, l’uguaglianza e la libertà. In questa lotta, una cosa è chiara: io e l’esercito siamo agli antipodi. Ecco perché mi rifiuto di arruolarmi. Mesarvot
Gaza, MSF: “Lanci di aiuti inutili e dannosi: governo italiano non cada nell’errore”
Sull’ipotesi che il governo italiano organizzi lanci aerei di aiuti umanitari su Gaza, annunciata ieri dal Ministro degli Esteri, Medici Senza Frontiere (MSF) avverte che questi lanci sono inefficaci e pericolosi e costringono le persone a rischiare la propria vita per cercare cibo. La soluzione più efficace, dignitosa e su ampia scala è aprire i varchi di terra dove tutto è già pronto per entrare, ed è l’unica strada da percorrere. “L’utilizzo dei lanci aerei per la consegna di aiuti umanitari è un’operazione cinica e inutile; il governo italiano non deve cadere in questo errore. Le strade ci sono, i camion ci sono, il cibo e i medicinali ci sono: tutto è pronto per l’ingresso degli aiuti a Gaza, che si trovano a pochi chilometri di distanza dal confine. Quel che serve è che le autorità israeliane decidano di facilitarne l’ingresso nella Striscia ed è su questo che il governo deve fare pressione: accelerare le procedure di autorizzazione, permettere l’ingresso di beni su larga scala e coordinarsi per consentire una raccolta e distribuzione degli aiuti sicura. Solo così potremo iniziare a risolvere il problema della devastante carestia a cui stiamo assistendo” dichiara la dott.ssa Monica Minardi, presidente di MSF.  Gli aiuti aerei riescono a trasportare molto meno delle 20 tonnellate di aiuti che può contenere un camion. Attualmente 2 milioni di persone sono intrappolate in un piccolo lembo di terra che rappresenta il 12% dell’intera Striscia. Se qualcosa atterra in quest’area ristretta, ci saranno inevitabilmente dei feriti. Se invece gli aiuti atterrano in zone che Israele ha messo sotto ordine di evacuazione, le persone saranno costrette a entrare in aree militarizzate, mettendo ancora una volta a rischio la propria vita pur di ottenere del cibo.       Medecins sans Frontieres
Un flash mob per Gaza che rimbalza da Milano a Berlino – Video
Di flash mob a Milano per denunciare il genocidio in Palestina ne sono stati fatti diversi, ma uno in particolare non solo è stato ripetuto tante volte, ma è stato anche ripreso da cittadini e cittadine di altre città italiane. Agli organizzatori la cosa aveva fatto molto piacere, ma potete immaginare la commozione quando, pochi giorni fa, hanno ricevuto dalla Germania, attraverso Pressenza, questa mail e questo video. “Caro Andrea de Lotto, è da molto tempo che volevo scriverti per raccontarti del flash mob di Berlino. L’anno scorso, sul sito di Pressenza, hai scritto del flash mob di Milano. Hai anche mostrato delle foto e un video. Ho subito pensato che avrei voluto farlo anch’io. L’anno scorso ho partecipato a una veglia per Julian Assange, che poi è stato rilasciato. Io e alcuni attivisti abbiamo pensato a cosa avremmo potuto fare con il tempo che si era liberato. Ho raccontato del flash mob di Milano e tutti hanno subito accettato di lottare per la pace nel mondo anche a Berlino. Tuttavia, non abbiamo fatto un flash mob spontaneo, ma ci siamo incontrati davanti alla Porta di Brandeburgo per due ore ogni domenica dal novembre 2024 e abbiamo fatto questo flash mob. Eravamo solo in tre, ma ora siamo molti di più e spesso la gente si unisce spontaneamente. Da un mese a questa parte, leggiamo anche i versi della poesia “Say no” di Wolfgang Borchert. https://www.bo-alternativ.de/borchert.htm (tedesco originale) https://www.oikoumene.org/resources/documents/say-no-by-wolfgang-borchert (traduzione in inglese, con tasto per tradurla in italiano) Se incontri altre persone del flash mob di Milano, per favore raccontagli di noi e digli che la loro azione è stata un modello. Ora vi invio un video del nostro flash mob di domenica scorsa: https://freeassange-berlin.de/medien/_20250713_flashmob/20250713_flashmob_filmbeitrag.q23_h360.mp4 Cordiali saluti da Berlino Barbara S.   Andrea De Lotto
Genova, nuova vittoria dei portuali: nessuno sbarco per la nave carica di armamenti
Mobilitazione per la Palestina e contro la logistica delle armi. A Genova questa mattina i portuali del collettivo Calp, insieme al sindacato Usb, hanno annunciato che tre container contenenti materiale bellico, destinati a La Spezia e trasportati dalla nave Cosco Pisces, non verranno sbarcati né a Genova né a La Spezia. La compagnia Evergreen ha deciso di farli rientrare direttamente verso l’Estremo Oriente, dove erano stati inizialmente caricati. La decisione segue le ampie proteste portate avanti dai lavoratori portuali in questi mesi presso gli scali liguri: “Questa decisione rappresenta un risultato concreto dell’azione sindacale e della pressione esercitata da USB, che aveva proclamato 24 ore di astensione dal lavoro per il 5 agosto al terminal PSA Genova Prà”, scrivono i Calp che ribadiscono con forza: “Non lavoreremo per la guerra“. Redazione Italia
Vivere a Gaza sotto una tenda, aspettando la prossima bomba
Prosegue la nostra corrispondenza da Gaza con Nancy Hamad, la studentessa in economia arrivata alla soglia della laurea nel momento in cui è iniziato il genocidio. Nel dicembre del 2024 Nancy ha ricevuto simbolicamente una laurea honoris causa in economia dal collettivo di ricercatori, docenti e studenti RomaTre Etica. Quel giorno nella terza università della capitale si svolgeva, quasi a porte chiuse e presidiato da agenti della Digos e della celere, un conferimento senza meriti accademici né tanto meno umanitari alla costituzionalista, ex ufficiale dell’esercito israeliano, Daphne Barak Erez, artefice sul piano giurisprudenziale della recrudescenza del regime d’apartheid, fino alla “pietra tombale” di una qualsiasi possibilità di dialogo interreligioso e interetnico tra ebrei e “non ebrei”, come la legge fondamentale del 2018. Mi chiamo Nancy, vivo nella Striscia di Gaza e vi scrivo dal cuore della sofferenza che viviamo ogni giorno. La situazione qui è estremamente difficile e la carestia sta aumentando a un ritmo terrificante. Nonostante tutto ciò che sentiamo dai media riguardo agli aiuti alimentari in arrivo, questi non ci raggiungono mai. Gran parte degli aiuti viene rubata o distribuita in modo ingiusto e noi non vediamo mai nulla. I mercati sono quasi vuoti e, se qualche prodotto è disponibile, ha prezzi che non possiamo permetterci. Qualche giorno fa abbiamo trascorso tre giorni senza un solo alimento di base: niente riso, pane o pasta. Dopo molte sofferenze, siamo riusciti a comprare un po’ di farina e a fare il pane. È stato il nostro primo pasto vero dopo giorni. Vi scrivo oggi affinché possiate sentire la mia voce e quella di molte altre persone come me che hanno bisogno di un aiuto concreto, fornito direttamente alla popolazione, senza intermediari o interferenze. La situazione è insostenibile e ogni giorno è più difficile del precedente, soprattutto per i bambini, i malati e gli anziani. Spero che ci saranno azioni concrete, perché la fame è un nemico infido e le nostre vite sono ormai piene di attesa e dolore. Nella foto si può vedere il pane che finalmente siamo riusciti a fare: è la prima volta che lo mangiamo dopo una pausa di 5 giorni. Abbiamo comprato un chilo di farina a un prezzo molto alto, più di 30 dollari. Poi potete vedere le immagini che hanno fatto il giro del mondo: un aereo giordano che lancia aiuti dall’alto. A causa del vento questi finiscono nelle zone occupate dall’esercito e nessuno se la sente di raggiungerli a causa del pericolo che questo comporterebbe. Poi ci sono altre immagini che ho registrato per mostrare le nostre sofferenze quotidiane: dopo aver fatto la fila per l’acqua dalle 4 del mattino fino alle 4 del pomeriggio, abbiamo “vinto” e ottenuto un secchio e mezzo d’acqua. Si può poi vedere la tenda in cui viviamo le nostre sofferenze quotidiane e dove in ogni caso non ci sentiamo mai al sicuro. Stefano Bertoldi