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Covid-19, Studio italiano: “Aumento dei tumori dopo i vaccini a mRNA”
E’ un tema che abbiamo già trattato approfonditamente e che di recente abbiamo proposto come tema di attualità nell’ambito del diritto alla salute. Il rischio di cancro è aumentato del 23% nelle persone che hanno ricevuto il vaccino COVID-19, secondo uno studio peer-reviewed pubblicato su EXCLI Journal nel luglio 2025. Lo studio ha dimostrato che il rischio di cancro al seno è aumentato del 54% e quello di cancro alla vescica del 62% entro 180 giorni dalla prima vaccinazione. “Si tratta di dati reali e piuttosto preoccupanti”, ha affermato il commentatore medico John Campbell, nel suo programma YouTube mentre illustra i risultati. Lo studio è stato il primo a scoprire prove statisticamente significative di un aumento del rischio di cancro a seguito della vaccinazione contro il COVID-19. I ricercatori hanno esaminato la relazione a lungo termine tra le vaccinazioni contro la SARS-CoV-2 ed i ricoveri ospedalieri per cancro in una coorte di quasi 300.000 residenti della provincia di Pescara, in Italia. I residenti di età pari o superiore a 11 anni sono stati seguiti da giugno 2021 a dicembre 2023 utilizzando i dati ufficiali del Sistema Sanitario Nazionale. I modelli statistici sono stati adeguati per età, sesso, comorbilità, precedenti tumori e precedenti infezioni da SARS-CoV-2, rendendolo il follow-up più completo fino ad oggi sulle diagnosi di cancro dopo la vaccinazione contro il COVID-19.   > “Lo studio ha rilevato che il rischio di diagnosi di cancro era superiore del > 23% per le persone vaccinate con una o più dosi entro 180 giorni dalla prima > vaccinazione, rispetto ai non vaccinati. > Tra le 296.015 persone studiate, 3.134 sono state diagnosticate con cancro.”   Le persone che hanno ricevuto almeno tre dosi del vaccino contro il COVID-19 hanno avuto un aumento del 9% del rischio di diagnosi di cancro entro 180 giorni dalla terza vaccinazione, rispetto ai non vaccinati. Due fattori contribuiscono alla diminuzione dell’aumento del rischio con un numero maggiore di dosi di vaccino, ha affermato Campbell. “Uno è che le persone predisposte al cancro lo avevano già sviluppato” prima che fosse raggiunto il termine di 180 giorni dopo la terza dose, ha affermato Campbell. “Quindi forse l’aumento del 23% dei tumori a sei mesi significa che le persone che svilupperanno il cancro… potrebbero svilupparlo precocemente”. In secondo luogo, il follow-up del cancro richiede decenni per un’analisi adeguata, ha affermato. Non sono stati condotti studi a lungo termine sul vaccino COVID-19, e “questo è stato il problema”, ha affermato Campbell. “Hanno vaccinato i gruppi di controllo in tempi molto brevi… quindi l’intera faccenda è stata un completo disastro”. I tumori al seno, alla vescica e al colon-retto hanno mostrato gli aumenti più elevati e statisticamente significativi nei pazienti vaccinati rispetto a quelli non vaccinati. Il rischio di cancro al seno è aumentato del 54% e quello di cancro alla vescica del 62% nelle persone che hanno ricevuto almeno una dose del vaccino COVID-19, 180 giorni dopo la somministrazione. Il cancro al colon-retto è aumentato del 34%. Nelle persone che avevano ricevuto almeno tre dosi del vaccino contro il COVID-19, 180 giorni dopo la terza dose, il rischio di cancro al seno era aumentato del 36% e quello di cancro alla vescica del 43%. Il rischio di cancro colon-rettale è aumentato del 14%, ma questo aumento non è stato considerato statisticamente significativo a causa delle dimensioni ridotte del campione dello studio. Anche i tumori dell’utero e delle ovaie hanno mostrato un aumento dopo una e tre dosi, sebbene i numeri non fossero statisticamente significativi. Campbell ha spiegato: “Sembra che ci sia un aumento reale, ma se si tiene conto del fatto che persone sono state ricoverate con tumori, quando si suddivide per tipo di tumore, a volte i numeri non sono sufficienti per dare un risultato statisticamente significativo”. Oltre ad analizzare il rischio di cancro, lo studio ha valutato il rischio di mortalità per tutte le cause associato allo stato di vaccinazione contro il COVID-19. Durante lo studio, i risultati hanno mostrato che le persone vaccinate hanno dimostrato una minore probabilità di morte per tutte le cause. “Questo è quasi certamente attribuibile a quello che chiamiamo effetto del vaccinato sano”, ha detto Campbell. “Ci è stato detto, manipolato, mentito, chiamatelo come volete, che questo vaccino era buono per la nostra salute. Quindi, le persone interessate alla salute hanno avuto la tendenza a farsi vaccinare”. Gli autori dello studio hanno affermato che il pregiudizio del “vaccinato sano” che induce a pensare che i vaccini riducano i decessi, potrebbe sottovalutare i rischi di cancro. Si legge nello studio: “il bias dei vaccinati sani, analogamente a come probabilmente porta a una sovrastima dell’efficacia del vaccino contro la mortalità per tutte le cause, potrebbe anche portare a una sottostima del potenziale impatto negativo della vaccinazione sui ricoveri ospedalieri dovuti al cancro. Essendo, lo stile di vita più sano, tipicamente associato alla vaccinazione che può ridurre il rischio di carcinomi”.   > Video di John Campbell che analizza lo studio:     Fonte: LO STUDIO “VACCINAZIONE CONTRO IL COVID-19, MORTALITÀ PER TUTTE LE CAUSE E RICOVERO OSPEDALIERO PER CANCRO: STUDIO DI COORTE DI 30 MESI IN UNA PROVINCIA ITALIANA”  –  QUI LA VERSIONE PDF  https://childrenshealthdefense.org/defender/covid-vaccine-linked-sharp-rise-cancer-italian-researchers-find-john-campbell/ Lorenzo Poli
La Flotilla dell’umanità è in viaggio sotto un cielo stellato; le stelle, però, sono droni
Partita da Barcellona per Gaza, la Global Sumud Flotilla affronta sorveglianza militare, minacce e sostegno internazionale . Il 2 settembre, le prime barche della Global Sumud Flotilla erano partite da meno di 48 ore da Barcellona, quando, intorno alle 22:30 ora italiana, mentre navigavano a circa novant miglia nautiche dall’isola di Minorca, sono state intercettate da tre droni. Ma cos’è la Global Sumud Flotilla? È un’azione civica, nata dal basso, nell’ambito del Movimento Globale a Gaza, composta da circa cinquanta imbarcazioni civili, con a bordo attivisti provenienti da quarantaquattro paesi del mondo. L’obiettivo è creare un corridoio umanitario per Gaza, sotto assedio israeliano da mesi. Sulla flottiglia è puntata l’attenzione di quella parte di mondo che riconosce i diritti umani e il valore della vita; purtroppo, però, non soltanto di quella. La presenza dei droni sulla flottiglia è stata comunicata dall’attivista Thiago Avìla attraverso una diretta lanciata sul profilo Instagram del movimento @globalmovementtogaza. Thiago è ormai un volto noto per chi segue la causa palestinese: climattivista e militante per i diritti umani, è stato protagonista di una precedente spedizione della Freedom Flotilla, membro dell’equipaggio della barca Madleen, bloccata illegalmente dall’IDF, sempre attraverso droni e quadcopters (quadricotteri militari). Nella diretta, Thiago ha evidenziato, mettendo in allerta il resto dell’equipaggio, che i droni potevano essere lì per una ricognizione di sorveglianza ordinaria dell’autorità marittima competente su quelle acque; oppure per un attacco militare. A chi non abbia seguito attentamente gli ultimi sviluppi dell’invasione di Gaza potrebbe sembrare un’affermazione forte. Invece, la seconda ipotesi è molto plausibile. Infatti, come chi scrive sottolineava poco prima, all’enorme e commovente solidarietà che è giunta da ogni parte del globo (è notizia recente che anche Emergency sosterrà la flotta e affiancherà le imbarcazioni con natanti di supporto logistico e medico), si sono contrapposte le dichiarazioni del governo israeliano: sul Jerusalem Post di tre giorni fa, il ministro della Sicurezza nazionale israeliano, Itamar Ben-Gvir, annunciava che stava per presentare un piano al governo secondo cui «tutti gli attivisti arrestati saranno trattenuti in detenzione prolungata, a differenza della precedente prassi, nelle prigioni israeliane di Ketziot e Damon, utilizzate per detenere i terroristi in condizioni rigorose tipicamente riservate ai prigionieri di sicurezza. Non permetteremo a chi sostiene il terrorismo di vivere nell’agiatezza». Tale piano è stato considerato illegittimo da vari giuristi esperti di diritto internazionale. La relatrice speciale Onu per i territori palestinesi, Francesca Albanese, ha definito l’azione della Global Sumud Flotilla «pienamente conforme al diritto internazionale». Secondo Albanese, «ogni tentativo di fermare o intercettare le imbarcazioni nelle acque internazionali costituirebbe una violazione della libertà di navigazione sancita dal diritto marittimo». È questo il clima in cui naviga oggi la flotta per Gaza, la flotta dell’umanità. Ma torniamo ai droni, ai quadricotteri. Tutti e tutte ne abbiamo sentito parlare. Vengono usati come regalo per i bambini al compleanno, dai fotografi per i matrimoni, dalla protezione civile per la prevenzione degli incendi. Eppure, facendo una ricerca su AI Overviews, leggiamo che sono “piccoli aerei a pilotaggio remoto, utilizzati per ricognizione, sorveglianza e attacchi mirati, che offrono una maggiore protezione delle forze armate grazie alla fornitura di dati in tempo reale e riducendo la necessità per i soldati di accedere ad aree pericolose. Dotati di sensori e telecamere avanzati, questi droni possono operare di giorno e di notte e alcuni modelli sono dotati di funzionalità sull’intelligenza artificiale per l’edge computing e la navigazione avanzata. Le loro dimensioni ridotte e laità rapida di impiego li rendono ideale per le unità di fanteria, sebbene la loro proliferazione, in particolare nei conflitti come quello di Gaza, abbia sollevato anche significative preoccupazioni etiche riguardo all’impatto sulla popolazione civile e al potenziale uso improprio”. Non bisogna essere esperti di ingegneria aerospaziale per capire, quindi, che i droni sono l’esempio perfetto delle tecnologie dual use, cioè di quell’insieme di dispositivi e sistemi operativi che, nati per scopo pacifico, sono oggi largamente utilizzati nelle attività belliche. Un tema che solo di recente è giunto alla ribalta della cronaca, soprattutto per l’uso che se ne sta facendo in Palestina. Che la questione sia delicata lo dimostra il fatto che l’unica base giuridica che prova a disciplinare la materia sia il Regolamento (UE) 821/2021, attraverso cui le produzioni di questi dispositivi vengono supervisionate dall’Unione Europea. I primi droni, però, da ciò che ci dicono le fonti, sono stati impiegati già nel XX secolo, in particolare dagli Inglesi nella Prima guerra mondiale. Non è un po’ tardi arrivare, solo nel 2021, all’adozione di un regolamento europeo per questa materia? Sì, lo è: se, nel secolo scorso, a Sarajevo, durante l’assedio, per sparare alla popolazione civile in mezzo alle strade venivano assoldati mercenari che si posizionavano sui tetti dei palazzi o sulle colline circostanti, nel terzo millennio il cecchinaggio avviene attraverso la tecnologia. Le testimonianze su come l’IDF usi i droni contro la popolazione civile non si contano più, da parte della stampa, dei medici, dei sanitari. La robotizzazione della sparatoria aumenta esponenzialmente la distanza tra la bocca e la vittima e, quindi, trasporta l’atto omicida verso una derivazione di disumanizzazione che non ha precedente. Così, il lavoro delle bombe intelligenti viene coadiuvato perfettamente dai droni killer. La Global Sumud Flotilla, flotta dell’umanità, naviga verso la spiaggia di Gaza che, ricordiamolo sempre, rispetto all’Italia è soltanto dall’altra parte del Mediterraneo; come per i Gazawi, anche per gli attivisti della Sumud il pericolo può arrivare dall’alto, silenzioso e imprevedibile, sotto forma di una piccola lucina nel cielo, che però non è una stella. Non c’è protezione dai droni, per i civili disarmati di Gaza come per gli equipaggi delle imbarcazioni. Forse, però, i nostri occhi possono farsi luce, diventare fari. Tenerli aperti su Gaza e sulla flottiglia può essere una missione, per chi crede che questo massacro vada fermato. La difesa del diritto alla vita dei Gazawi e della permanenza dignitosa sulla loro terra è difesa del diritto internazionale e, quindi, delle nostre stesse esistenze. Ogni cosa è connessa. Da terra, si può e si deve costruire una flotta, che attraversi tutti i paesi e che faccia pressione sui governi, come un’azione internazionalista tra i popoli, a protezione delle barche. È quello che sta facendo il GMTG in tantissime città. Seguiamola, quest’onda, portiamo i nostri corpi nelle piazze e rispondiamo numerosi alla chiamata per le flotte di terra che ci sarà il 4 settembre. Sulle pagine del GMTG ci sono tutti gli appuntamenti: a Napoli, ci vediamo alle 18:00 in Largo Berlinguer. Sosteniamo la Global Sumud Flotilla Fonti Jerusalem Post, 30 agosto 2025 – http://link https://www.jpost.com/israel-news/article-865898 La Repubblica, 1 settembre 2025 Redazione Napoli
No al “neocolonialismo scientifico”: Il Burkina Faso vieta le zanzare OGM di Bill Gates
Con una decisione che ha fatto rumore ben oltre i confini nazionali, il governo del Burkina Faso ha ordinato la sospensione definitiva del progetto Target Malaria, iniziativa di ricerca sostenuta dalla Fondazione Gates e da Open Philanthropy e guidata dall’Imperial College di Londra, che prevedeva il rilascio di zanzare geneticamente modificate per combattere la malaria. Il governo di Ouagadougou ha ordinato la chiusura dei laboratori e la distruzione dei campioni, trasformando un atto tecnico in un gesto dal forte valore simbolico e geopolitico: riaffermare la propria sovranità nazionale e opporsi a quello che viene definito nel Paese come una forma di «neocolonialismo scientifico», in cui le popolazioni vulnerabili diventano cavie di tecnologie ad alto rischio. Le preoccupazioni relative all’influenza coloniale sono un tema ricorrente del governo di Ibrahim Traore: il leader panafricano, che ha preso il potere con il colpo di Stato del 30 settembre 2022, si è allontanato dall’Occidente, cercando di limitare sempre più il coinvolgimento straniero nella politica interna. Attivo in Burkina Faso dal 2012, Target Malaria si proponeva di ridurre la trasmissione della malaria intervenendo direttamente sui vettori della malattia: le zanzare Anopheles. La strategia più controversa è quella del gene drive, una tecnica di ingegneria genetica basata su CRISPR che forza la trasmissione di un tratto genetico in tutta la popolazione naturale, fino a renderlo dominante. In questo caso, il tratto serve a produrre solo maschi o a sterilizzare le femmine, con l’intento di ridurre drasticamente la popolazione delle zanzare. Secondo la sociologa e accademica canadese Linsey McGoey, Target Malaria «è un esempio emblematico del tecnoscientismo filantropico che traveste da bene comune l’interesse privato. Dietro la retorica della lotta alla malaria, si nasconde la volontà di imporre tecnologie radicali come il gene drive, con effetti potenzialmente irreversibili sugli ecosistemi e sulle comunità locali. Le popolazioni africane, spesso escluse dal dibattito, subiscono così le scelte di attori globali che dettano l’agenda della salute pubblica». Si tratta, infatti, di soluzione radicale, che promette di colpire alla radice la malattia, ma che suscita preoccupazioni per i suoi effetti ecologici imprevedibili e difficilmente controllabili sugli ecosistemi e solleva dilemmi etici su chi abbia la legittimità di decidere sul suo impiego, soprattutto quando gli esperimenti si svolgono in comunità vulnerabili del Sud globale. Già nel 2016 la National Academies of Sciences degli Stati Uniti aveva avvertito che gli organismi gene-drive non erano pronti per rilasci ambientali. L’OMS nel 2021 aveva raccomandato prudenza e un coinvolgimento reale delle comunità. Nel 2024 la Convenzione sulla Diversità Biologica aveva auspicato valutazioni più ampie su impatto socio-economico, culturale ed etico, soprattutto sulle comunità locali – in linea con il principio di precauzione e decisioni precedenti della COP e del Protocollo di Cartagena. Da segnalare anche i timori che la tecnologia possa essere sfruttata in futuro a fini commerciali (ad esempio, se sviluppata per controllare i parassiti agricoli) o persino come arma biologica. La scelta del Burkina Faso non è solo scientifica ma geopolitica. Da un lato, c’è l’urgenza sanitaria: la malaria uccide ancora quasi 600.000 persone l’anno, perlopiù bambini africani. Dall’altro, c’è la volontà di non trasformarsi in “cavie” per la ricerca occidentale. Gli oppositori del Target Malaria sottolineano che i ceppi di zanzare modificate provengono da laboratori europei e che dietro il progetto ci sono fondazioni miliardarie occidentali che impongono la propria visione tecnologica senza un reale processo democratico locale. Ali Tapsoba, attivista della coalizione CVAB (Coalition pour le Suivi des Activités Biotechnologiques), ha parlato di tecnologia «altamente controversa, imprevedibile e potenzialmente irreversibile». Un capitolo spesso ignorato, ma essenziale per interpretare le ragioni dello stop a Target Malaria, è quello della finanziarizzazione della malaria, un fenomeno esposto con lucidità dall’African Centre for Biodiversity. In sintesi, il documento denuncia come la malaria – da emergenza sanitaria – si sia trasformata in opportunità finanziaria, sovvertendo il senso stesso della lotta alla malattia. Il Burkina Faso funge da “laboratorio vivente” in cui fondazioni cosiddette filantropiche, come quella di Gates, insieme a partenariati pubblico-privati, investono in tecnologie brevettate (vaccini, insetticidi, zanzare GM/gene-drive) attraverso modelli di sviluppo che privilegiano i profitti da royalties piuttosto che il rafforzamento dei sistemi sanitari nazionali. L’1% soltanto degli investimenti globali arriva alle istituzioni di ricerca locali, mentre il resto resta nelle sedi dei donatori. In questo schema, lo scenario è chiaro: i “risultati” più rischiosi di tecnologie sperimentali vengono testati sul continente africano e i danni – se ci saranno – peseranno sulle sue popolazioni, non su chi le ha finanziate o proposte. Il rifiuto del Burkina Faso a Target Malaria non rappresenta solo la chiusura di un progetto scientifico, ma la dichiarazione di una volontà politica: sottrarsi al ruolo di laboratorio del mondo e rivendicare il diritto a decidere sul proprio destino. È un segnale di rottura verso il modello in cui l’Africa viene trattata come terreno di sperimentazione per i governi e le aziende occidentali. La salute pubblica del continente, secondo la nuova rotta intrapresa da Ouagadougou, non può essere subordinata agli interessi di fondazioni miliardarie, ma deve nascere da scelte condivise con le comunità locali, in nome della sovranità e dell’autodeterminazione. Il messaggio è chiaro: il futuro africano non sarà costruito da tecnologie imposte dall’alto, ma da soluzioni radicate nella conoscenza, nella cultura e nelle priorità delle popolazioni stesse. L'Indipendente
“La Zona Grigia”, la macchina industriale della sperimentazione animale
“La zona grigia non è un’anomalia: è il prodotto normale di un sistema disumano” -Primo Levi, I sommersi e i salvati, 1986- “Un sistema non si difende perché è giusto, ma perché esiste” -Michel Foucault – Ho sempre avuto certezze abbastanza ferme su cosa fosse la vivisezione e la sperimentazione animale. Fin da piccolo, ascoltando le parole della grande astrofisica Margherita Hack, non ho mai avuto dubbi su questa pratica che, oltre ad essere disumana (pur essendo commessa da umani su animali non-umani), è violenta, antropocentrica (si usano animali, quindi terzi, per finalità esclusivamente umane) e dunque assurda. I miei pochissimi dubbi sono stati colmati quando ad esprimersi contro questa pratica furono personalità della scienza medica che non ho mai troppo considerato esempi da seguire, come l’oncologo e fondatore dell’Istituto Europeo di Oncologia Umberto Veronesi. Nonostante moltissime sue posizioni controverse, Veronesi era vegetariano, grande sostenitore dei diritti animali e avversario degli allevamenti intensivi e della sperimentazione animale. Nel libro Una carezza per guarire Umberto Veronesi dedica un denso capitolo, l’ultimo, al tema della sperimentazione animale, auspicando, come il filosofo australiano Peter Singer, l’evolversi di un atteggiamento etico antispecista. Pensando che negli ultimi anni sono stati messi a punto via via diversi metodi sostitutivi di ricerca animal-free e human-based, risultava per lui ingiustificata la ancora ampia utilizzazione di cavie da laboratorio, specialmente per esperimenti che darebbero scarso contributo al progresso scientifico. Partendo da ciò Veronesi richiamava all’urgenza di una legislazione in merito alla sperimentazione animale, al fine di limitare sempre più al minimo, grazie all’utilizzo di tecniche alternative, l’uso di animali da laboratorio e affinchè gli animali di grossa taglia come primati, cani e gatti siano esclusi del tutto da queste pratiche sperimentali. Le interviste che feci per Pressenza alla biologa Susanna Penco sulla vergogna della vivisezione e della sperimentazione animale, giustificata spesso mediaticamente con la ipocrita e pietistica spettacolarizzazione del dolore umano, mi hanno aiutato a prendere ancor più consapevolezza del grande business che circonda la sperimentazione animale, oltre a chiarificare una volta per tutte che ad oggi rimane una pratica scientifica non convalidata, con grande margine di errore e molto controversa proprio a causa dell’utilizzo di animali molto diversi dall’essere umano. Però forse più di tutti, ad aiutarmi a fare il punto della situazione su questo grande tema – dal punto di vista filosofico, etico, bioetico ed epistemologico – è stato il recente libro della filosofa e psicologa Federica Nin dal titolo “La zona grigia. Illuminare l’invisibile, riscrivere la responsabilità”, Edizioni Oltre. Federica Nin, studia da anni il rapporto tra scienza, epistemologia, etica e sperimentazione animale e questo libro è molto di più di una presa di consapevolezza su questa pratica: è un’inchiesta dettagliata su un sistema tecno-scientifico ed economico che normalizza la violenza in nome del sapere, cercando di portare alla luce la “zona grigia” della sperimentazione animale, facendola finalmente uscire dalla cortina delle false informazioni, dei cliché istituzionalizzati della ricerca biomedica, delle false convinzioni, dei silenzi, dei tabù e dell’ignoranza epistemologica – come la definì il bioeticista Franco Manti – di medici, ricercatori e scienziati su questo tema, per svelarne l’orrore, l’inutilità e la nocività, anche per gli umani. Nelle prime due parti del libro, Nin affronta con chiarezza le tante ipocrisie giuridiche, scientifiche e etiche che consentono ancor oggi il perdurare dell’utilizzo degli animali in laboratorio, a partire dalle famose “3R”: introdotte nel 1959 da Russel e Burch: Replacement (sostituzione), Reduction (riduzione), Refiniment (raffinamento). Esse si presentavano all’inizio come una proposta evolutiva, ma, nel tempo, sono invece divenuti “pilastri di stabilizzazione”, “strumenti retorici” utilizzati per difendere lo status quo (pag. 31). Oggi sappiamo che questa è la base istituzionale della sperimentazione animale, oltre ad un modo per gli umani di partecipare a pratiche violente senza sentirsi responsabili, rincorrendo falsi miti: giustificazione morale (“per il bene dell’umanità”), il linguaggio eufemistico (“modello animale”), lo spostamento dell’agente morale (“seguivo il protocollo”) e la reificazione della vittima. Nella sperimentazione animale – scrive Nin – “il dolore si dissolve nella burocrazia scientifica e nelle formule normative: è la violenza che si traveste da cura, è il vivente che scompare sotto il lessico della protezione” (p.27). L’industria della sperimentazione animale nasconde “una violenza ordinaria, legalizzata, razionalizzata” (p.47) ed istituzionale in nome della “necessità scientifica” attraverso la retorica sacrificale: la pratica sperimentale diventa un rito simbolico in cui ogni animale è il capro espiatorio, mentre la sua sofferenza diventa promessa di salvezza per l’umanità. È la stessa retorica sacrificale alla base del carnismo e alla giustificazione dell’ecatombe di animali tra caccia, macelli e allevamenti intensivi. “Cambiare paradigma – scrive Nin – significherebbe disinvestire, dismettere, riconvertire” (pag. 82), ovvero porre fine all’economia nociva che sta dietro la sperimentazione animale: i centri di stabulazione, allevamenti intensivi di animali geneticamente modificati, i centri di forniture di gabbie e le aziende produttrici di anestetici, reagenti, calmanti etc. C’è un intero comparto produttivo che trae profitto dall’uso di animali nella ricerca e nella sperimentazione scientifica per un fatturato annuo di 7 miliardi di dollari. La ciliegina sulla torta è sicuramente il mondo accademico basato che – essendo basato sul principio “publish or perish” – premia la quantità di pubblicazioni più che la qualità della ricerca. In molti settori biomedici, i protocolli standardizzati basati su modelli animali sono ancora la via più rapida per produrre dati pubblicabili. Un problema strutturale in quanto gli stessi indicatori di eccellenza scientifica premiano l’adesione al paradigma, non la sua messa in discussione. Si tratta di un’economia che trae profitto garantendo la continuità del sistema. Nelle due ultime parti del libro, Nin offre gli strumenti cognitivi, culturali, scientifici e etici per “disinnescare la zona grigia”: a partire dalla nostra responsabilità interspecifica, che dovrebbe farci aggiungere una quarta R alla formula delle 3R, quale “responsabilità”, passando per un cambio di sguardo e di prospettiva, per arrivare ad affermare con chiarezza e certezza che oggi è non solo possibile, ma doverosa, una sperimentazione non basata sugli animali. I metodi human-based non solo esistono, ma stanno producendo risultati – chi più chi meno – più accurati, affidabili e rilevanti per l’essere umano. Scrive Nin: “Resta da compiere l’ultimo gesto: pensare l’impensabile: pensare che si possa fare ricerca senza sacrificare, in modo coatto, corpi non consenzienti. Pensare che la scienza possa fiorire senza vittime. Pensare che la cura possa nascere dal rispetto, non dal dominio. Pensare che l’essere umano non sia il centro, ma un nodo tra i molti. Pensare che un’altra scienza sia non solo possibile, ma urgente”. (pag. 67) “Questi metodi si basano su un principio semplice: studiare l’essere umano nel rispetto della sua complessità, non cercando il suo riflesso semplificato in altre specie. I vantaggi sono molteplici: maggiore predittività clinica, risultati riproducibili e trasparenti, rispetto del vivente come valore strutturale della ricerca” (pag. 91). Il libro di Federica Nin è una lettura utile e necessaria per essere più consapevoli, oltre ad essere uno strumento indispensabile per chi già sente l’angoscia morale della sperimentazione animale, ma teme che non vi siano alternative: le alternative valide e efficaci già esistono; i ricercatori obiettori di coscienza sulla sperimentazione animale già esistono, sebbene continuino ad essere marginalizzati , sottovalutati e sottofinanziati. Secondo Nin, l’antidoto è diffondere una cultura diversa, contro le lobbies di potere economico-finanziario, contro l’autoreferenzialità accademica e contro le pigrizie mentali di sistema. Lorenzo Poli
Campagna israeliana per censurare i post pro Palestina su Facebook e Instagram, le prove
Abbiamo forse l’impressione di vedere un buon numero di messaggi postati sui social media a favore della resistenza palestinese, ma in realtà, secondo un gruppo di whistleblower (informatori)  impiegati presso Meta – la Big Tech che gestisce Facebook, Instagram e WhatsApp – i messaggi che vediamo effettivamente sono solo una piccola parte di tutti i messaggi pro-Palestina che sono stati postati.  La maggior parte non la potremo mai vedere perché è svanita nel nulla, censurata.  E, sempre secondo questi whistleblower, a promuovere la massiccia censura dei post contro il genocidio in corso a Gaza, c’è lo Stato sionista di Israele, con la piena complicità dei dirigenti di Meta. La denuncia di questi whistleblower appare in due documenti bomba che rivelano come oltre 90.000 post pro palestinesi sono stati indebitamente rimossi da Facebook e da Instagram su richiesta specifica del governo israeliano. I documenti offrono persino un esempio delle email che Israele ha scambiato con Meta per far sopprimere tutti quei post che Tel Aviv giudica “pro terroristi” o “antisemiti”.  (In realtà, dicono i whistleblower, si tratta di normali messaggi di solidarietà per la causa palestinese.) Inoltre, a causa dell’effetto a cascata insito negli algoritmi usati da Meta per vagliare in automatico i messaggi postati sulle sue piattaforme, altri trentotto milioni di post pro Palestina sarebbero spariti nel nulla dal 7 ottobre 2023.  In pratica, si tratta della più grande operazione di censura di massa nella storia moderna, concludono questi informatici militanti che ora, con il loro sito “ICW” (International Corruption Watch), hanno indossato anche i panni di giornalisti investigativi alla Julian Assange. Ma non si tratta soltanto di denunce di atti di censura.  Le rivelazioni dell’ICW mostrano come l’Intelligenza Artificiale (IA) possa essere facilmente manipolata per dare risposte tendenziose: proprio quelle volute da chi ha i mezzi per “avvelenare il pozzo” dei dati, come, in questo caso, Israele.  Si tratta di una denuncia che ci deve far riflettere tutti quanti.  Perché se l’IA può essere manipolata, allora anche noi possiamo essere manipolati ogni volta che leggiamo una cosiddetta riposta “obiettiva” generata dall’IA in una ricerca su Google, ogni volta che poniamo un quesito ad un’app IA che si professa “imparziale” come Chat-GPT o, infine, ogni volta che scegliamo di guardare un video segnalataci da una lista creata dall’IA di YouTube in base a sedicenti criteri di “popolarità”.  (In un precedente studio, l’ICW ha mostrato come, in realtà, gli algoritmi di You Tube – in maniera estremamente sottile – ci spingono a visionare video politicamente orientati a destra.)  In altre parole, l’apparente neutralità degli algoritmi IA usati non solo da Meta ma da tutte le Big Tech è puramente illusoria e dobbiamo esserne consapevoli. Meta sostiene, invece, che i meccanismi che usa per censurare determinati messaggi postati sui suoi social media siano imparziali.  Infatti, spiega Meta, in alto a destra di ogni post che appare su Facebook o su Instagram, c’è un tasto “Report” (“Segnala”) per consentire a chiunque di segnalare che quel post andrebbe rimosso – perché, ad esempio, esso sprona alla violenza, usa la calunnia o costituisce bullismo.  Quindi tutti gli utenti possono fare una “proposta di rimozione” (take down request) riguardante qualsiasi post che essi giudicano offensivo; saranno poi gli algoritmi IA di Meta a decidere se un post è davvero da rimuovere o meno, in base ad una valutazione “obiettiva”.  In conclusione, secondo Meta, se spariscono tanti post pro Palestina dalle sue piattaforme, è soltanto perché molti utenti li hanno segnalati come offensivi e l’algoritmo “obiettivo” di Meta ha convalidato questo loro giudizio. Ma chi abbia usato il tasto “Report” sa benissimo che solo in alcuni casi una richiesta di rimozione fatta da un utente qualsiasi viene accettata.  La procedura illustrata da Meta non può spiegare la sparizione di trentotto milioni di post pro Palestina. Ciò che Meta non dice pubblicamente, infatti, è che esiste anche un secondo canale per far rimuovere post indesiderati ed è proprio quello che ha usato Israele. Si tratta di un indirizzo email riservato, divulgato solo a governi o a grossi enti internazionali, che consente loro di presentare richieste di rimozione che verranno prese in carico prioritariamente, non da un algoritmo, ma da un essere umano (un “verificatore”). Molti governi, infatti, ricorrono a questa procedura per far censurare messaggi postati dai loro cittadini scontenti.  Meta accoglie le loro richieste, almeno in parte, sia per accondiscendenza, sia per evitare che le sue piattaforme vengano oscurate in quei Paesi. Israele, invece, è un caso a parte.  Inoltra a Meta richieste di censurare i commenti critici postati dai propri cittadini solo nell’1,3% dei casi.  (A titolo di paragone, il 95% delle richieste di rimozione fatte dal governo brasiliano riguarda messaggi postati dai cittadini brasiliani).  Ciò significa che nel 98,7% dei casi, il governo israeliano chiede a Meta di censurare messaggi pro Palestina postati sui social da cittadini che abitano fuori da Israele.  E lo fa attraverso una sua Cyber Unit creata appositamente. Così, Israele risulta il Paese con il maggior numero di richieste di rimozione pro capite – tre volte di più di qualsiasi altro. Non solo, ma a differenza di altri Paesi, Israele beneficia di un tasso di accettazione delle sue richieste del 94%, cifra che l’ICW giudica palesemente forzata e anche pericolosa.   Infatti, siccome le accettazioni dei verificatori umani vengono poi usate per addestrare gli algoritmi IA, quegli algoritmi subiscono un “avvelenamento” anti-palestinese e cominciano poi a censurare in automatico ogni futuro post con contenuti simili a quelli rimossi dai verificatori umani su richiesta della Cyber Unit.  In questa maniera, Israele riesce a censurare il resto del mondo. Un dato sorprendente emerge poi dalle rivelazioni dei whistleblower dell’ICW. Il Paese con il maggior numero di richieste di rimozione fatte dalla Cyber Unit non sono gli Stati Uniti o un Paese europeo bensì l’Egitto, che vanta il 21% del totale delle richieste di rimozione israeliane.  Perché questa attenzione particolare all’Egitto? I documenti sul sito dell’ICW non lo dicono, ma è facile indovinare: Facebook è il primario strumento di comunicazione tra gli egiziani ed è stata proprio una valanga di post su Facebook che ha innescato, nel gennaio e febbraio del 2011, manifestazioni anti-governative gigantesche in piazza Tahrir al Cairo (alcune con due milioni di partecipanti) e la conseguente caduta del regime del dittatore Mubarak.  Oggi, un simile massiccio tam-tam di post Facebook contro il blocco degli aiuti umanitari per Gaza al varco di Rafah potrebbe innescare un massiccio assalto popolare a quel varco. Infatti, esso si trova a soli cinque ore di macchina dal Cairo.  Chiaramente, dunque, Israele ha ogni interesse a prevenire una simile protesta: se i manifestanti fossero due milioni come nel 2011, il loro assalto al varco sarebbe incontrollabile.  Da qui l’assoluta priorità data alla rimozione dei post egiziani pro Palestina. I documenti fatti trapelare dai whistleblower di Meta sono stati elaborati da un informatico specializzato in IA, che si fa chiamare “nru”, per creare due documenti che egli ha poi pubblicato sul sito ICW NRU, Meta Leaks Part 1 l’11 agosto 2025 e Meta Leaks Part 2 il 15 agostohttps://bsky.app/profile/icw-nru.bsky.social.  I due documenti esistono anche in formato pdf, la prima parte si trova qui e la seconda parte qui. https://archive.org/details/meta_leaks_part_2/mode/1up?view=theater Una bozza della prima parte è apparsa l’11 aprile 2025 su DropSite News, ma senza provocare reazioni.  Ciò non significa, tuttavia, che la censura dei post pro Palestin da parte di Meta sia passata inosservata o che non susciti interesse. Anzi, già un anno e mezzo fa (21 dicembre 2023), Human Rights Watch (HRW) ha formalmente accusato Meta di censurare con sistematicità una buona parte dei commenti pro Palestina postati su Instagram e Facebook.  Come prove, HRW ha raccolto e analizzato le lamentele di un migliaio di utenti di queste piattaforme i cui post sono stati fatti sparire da Meta. Purtroppo, si tratta di prove necessariamente indirette perché HRW non ha accesso agli algoritmi usati; quindi Meta ha potuto attribuire le soppressioni dei post a non meglio precisate “imperfezioni in alcuni suoi algoritmi” (“bug“) che ha poi promesso di correggere col tempo.  E così, tutto è finito lì. Ora, invece, grazie alle rivelazioni di un piccolo gruppo di whistleblower all’interno di Meta, abbiamo le prove concrete che Meta continua a censurare i post pro Palestina, consapevolmente e impunemente. Infine, grazie alla loro denuncia della tecnica di “avvelenamento del pozzo” dei dati praticata da Israele, abbiamo un’idea più chiara dei limiti dell’Intelligenza Artificiale.  L’IA è palesemente un “pappagallo stocastico”, ovvero una creatura che “parla” usando calcoli di probabilità al posto di una vera consapevolezza di quello che dice.  Questo pappagallo può essere ammaestrato, poi, a presentare prioritariamente le informazioni che i suoi padroni hanno voluto, con maggiore insistenza, fargli incamerare.  In altre parole, apprendiamo che chiunque controlli l’addestramento di un’IA controllerà le basi e influenzerà le possibilità di deduzione grazie a cui quell’IA creerà le sue risposte.  Oggi chi controlla l’IA in Occidente è una manciata di miliardari della Silicon Valley legati alla lobby sionista, ma anche a tutte le più grosse lobby. In conclusione, l’IA è da usare, sì, ma con cautela; in quanto ai prodotti Meta (Facebook, Instagram, WhatsApp), meglio smettere di usarli.  Per quanto riguarda la vicenda Meta Leaks, essa svela solo uno dei vari intrighi escogitati dai sionisti per soffocare il grido che sale da Gaza. Vanno contrastati risolutamente, tutti quanti.         Patrick Boylan
Dipendenti Microsoft contro la complicità con Israele
No Azure for Apartheid è il nome del gruppo di lavoratori della Microsoft che chiedono di mettere fine ai contratti e alle collaborazioni con l’esercito e il governo israeliani basati sul software cloud Azure per la sorveglianza di massa dei palestinesi. Sono collegati al movimento No Tech for Apartheid, formato da dipendenti di Google e Amazon che contestano il contratto da 1 miliardo di dollari del Project Nimbus, firmato nel 2021 per fornire al governo israeliano servizi di cloud computing e intelligenza artificiale. I lavoratori chiedono anche di rendere pubblici tutti i legami di Microsoft con lo Stato israeliano, l’esercito e l’industria tecnologica, compresi i produttori di armi e gli appaltatori, di condurre una revisione trasparente e indipendente dei contratti tecnologici, dei servizi e degli investimenti di Microsoft e di appoggiare le richieste di oltre 1.000 dipendenti, che hanno firmato una petizione in cui si chiede ai dirigenti di sostenere pubblicamente un cessate il fuoco immediato e permanente a Gaza. I lavoratori hanno montato un accampamento presso la sede dell’azienda a Redmond, nello Stato di Washington, con tende, opere d’arte che riflettono le sofferenze dei palestinesi e un tavolo negoziale con un grande striscione con la scritta “Microsoft Execs, Come to the Table” (Dirigenti Microsoft, venite al tavolo delle trattative). Diciotto dipendenti sono stati arrestati dalla polizia per violazione di proprietà privata e altre accuse. Oggi alle 16 (ora locale) sono previste una veglia per i palestinesi uccisi da Israele e una conferenza stampa.       Redazione Italia
Da Olivetti a Repubblica, storia delle coperture del genocidio in Palestina
Dopo l’articolo sui militari israeliani in licenza “premio” nelle Marche sotto la protezione della Digos, proseguiamo il nostro excursus sul ruolo dell’Italia in appoggio ai vari governi sionisti avvicendatisi a Tel Aviv, citando esempi eccellenti e testimonianze dirette. Dopo il 7 ottobre 2023 abbiamo monitorato quasi tutti i “Venerdì”, supplemento settimanale di Repubblica, senza trovare traccia alcuna di un qualche approfondimento sulla tragedia in corso a Gaza, né tantomeno abbiamo mai letto il termine genocidio, tratto dal linguaggio giuridico internazionale; al contrario, nel secondo numero di agosto, (titolo di copertina “Lontano da Gaza”) troviamo paradossalmente interviste tendenzialmente giustificatorie e accondiscendenti a militari israeliani in drop-out da esecuzioni sommarie a donne e bambini, in cerca di sballo e oblio nell’ormai più che turisticizzata Himalaya indiana. Qui i giovani militari israeliani, tra uno spinello e un rave-party inondato di alcool, si “confessano” di fronte alle due inviate del gruppo “Repubblica” esprimendo il proprio dolore e la fatica di vivere il conflitto. Al di là di qualche critica a Netanyahu, soprattutto per la sua politica fallimentare nel rilascio degli ostaggi, non si intravedono tuttavia cenni di consapevolezza sulla gravità dello sterminio in atto e della pulizia etnica, nonché di ciò che sta avvenendo in questi giorni in termini di vera e propria deportazione di intere popolazioni inermi e affamate.  Nessun cenno alla prossima sfida tragica al popolo palestinese, innescata già da parecchi anni in Cisgiordania, dove ormai risiedono quasi un milione di coloni illegali: solo il dolore, il disincanto, la voglia di dimenticare e voltare pagina, forse per esorcizzare il pericolo dietro l’angolo di una chiamata d’accusa di fronte alla Corte Penale Internazionale. L’unica vera consapevolezza che viene messa in risalto nell’articolo è il totale disincanto rispetto all’illusione di Oslo “del due popoli per due Stati”. Vediamo allora come si costruisce negli anni questo intreccio tra comunicazione giornalistica e connivenze con i governi sionisti, che in questo caso riguarda la proprietà, di “Repubblica” ex-gruppo Olivetti, oggi GEDI, che detta la linea editoriale. Qui però la religione c’entra poco o nulla, ma entra in gioco, invece, il concetto di lobby e di centri di potere, le loro alleanze e appunto le connivenze. Adriano Olivetti proveniva infatti da una lunga tradizione di famiglie ebraiche tendenzialmente non osservanti, ma che durante le leggi razziali del ’38 si distinsero nella protezione di propri dipendenti ebrei. Adriano sposò Paola Levi, figlia dell’illustre scienziato ebreo Giuseppe Levi (che poi fu mentore anche di Rita Levi-Montalcini). Paola a sua volta era sorella di Natalia Ginzburg, scrittrice e moglie di Leone Ginzburg, noto intellettuale ebreo. Questo matrimonio legò Olivetti a una delle famiglie intellettuali ebraiche più influenti del Novecento italiano. Antifascismo e protezione di ebrei e dissidenti furono la nota distintiva non solo di Adriano Olivetti, ma di tutto il gruppo intellettuale che si coagulava intorno alle prestigiose edizioni di Comunità. Il modello improntato alla responsabilità sociale d’impresa, un concetto riafferrato anche oggi, sebbene in modo ipocrita, da molte aziende italiane e alla crescita del territorio dove sorgevano le fabbriche Olivetti fu ripreso, ma solo molto parzialmente,  da un altro esponente di una famiglia ebraica del nord, Carlo De Benedetti. La sua ascesa in azienda avvenne tra il 1970 e il 1978, ma la sua visione prettamente finanziaria e speculativa non fece altro che accelerare il processo di decadenza del fiore all’occhiello dell’elettronica italiana e del mondo. Il passaggio cruciale dall’analogico al digitale, che genialmente intuì Adriano Olivetti, affidandone lo sviluppo all’ingegnere Mario Tchou, interpretato dagli Stati Uniti e in particolare dall’IBM, come un grosso rischio al predominio USA nel settore dell’elaborazione dati, fu infatti interrotto dalle morti misteriose di entrambi questi personaggi-chiave. Proprio in questi anni, nel passaggio cruciale verso la decadenza del gruppo multinazionale italiano e in concomitanza con i due conflitti bellici arabo-israeliani, quello del ’67 e quello del ’73, un testimone diretto presente a Ivrea in quel periodo ci racconta dell’esacerbarsi del rapporto di sudditanza verso Israele e dunque anche verso gli Stati Uniti. Tra il 1968 e il 1969, cioè nel pieno dello sforzo governativo israeliano nell’attuazione del proprio progetto di colonialismo di insediamento alla conquista delle nuove terre sottratte all’Egitto (18 nuove colonie in Sinai) e alla Siria, (numerosi insediamenti che ancora oggi si espandono tra le alture del Golan), diversi impiegati degli Olivetti usufruivano di permessi speciali per recarsi in quei territori per dare, in vari modi, un proprio contributo. “Queste partenze – precisa il nostro testimone diretto – non venivano tanto sbandierate e tutto ciò che si riusciva a sapere era che partivano per Israele per dare una mano allo sviluppo dei kibbutz”. Proprio sulla base di questa storia passata Repubblica e il suo supplemento confondono i due termini, sionismo ed ebraismo, effettuando una sovrapposizione storicamente e moralmente sbagliata tra antisionismo e antisemitismo. Anche questo è un ruolo strategico di “facilitatore”, termine adottato da Francesca Albanese a proposito delle università italiane ed europee colluse con l’apparato bellico-industriale israeliano, nell’ambito della nuova guerra ibrida, fatta anche di droni, fake news e propaganda mediatica.   Stefano Bertoldi
Parlare di “neutralità della scienza” significa ignorare la società che viviamo
Il recente caso Serravalle-Bellavite e la sua strumentalizzazione con gogna mediatica annessa, ci potrebbe far riflettere su molte cose, ma soprattutto su una cosa in particolare: la non-neutralità della scienza. La narrazione dominante propone la “scienza” come un’entità superpartes dogmatica portatrice di una verità imparziale e incontrovertibile che trascende le ideologie e i conflitti. Secondo tale visione, la scienza seguirebbe un cammino lineare e sarebbe il risultato di un processo unico, immutabile, deterministico, unidimensionale, astorico, vincolato sull’asse nuovo-vecchio/tradizionale-moderno e totalmente avulso dalla realtà sociale nella quale viene partorita. La scienza sarebbe capace di rimanere incontaminata dal contesto sociale in cui viene concepita, come se fosse mossa da una propria dinamica interna. Questa tesi fa emergere la profonda ignoranza epistemologica di chi la sostiene. Ogni accademico serio ed ogni epistemologo degno di nota smentirebbe questa concezione, a partire dal fatto che la scienza è un sapere pensato, discusso e come tale non può essere incontaminato. Oltre alla dinamiche epistemologiche, se dobbiamo ragionare su come procede la scienza in campo medico oggi, non si può negare che la ricerca biomedica proceda per dinamiche economiche, ovvero si sviluppa laddove c’è uno sviluppo di mercato. In questi trent’anni di globalizzazione neoliberista, di deregulation di mercato e di politiche di privatizzazione a discapito dei beni comuni, si è evidenziato che la ricerca biomedica è diventata sempre più uno strumento il cui fine ultimo non è il diritto alla salute, ma il mercato. La ricerca biomedica è diventata uno strumento del mercato, mentre la salute – da diritto umano – diventa sempre più una merce. Nel mio libro “La guerra all’idrossiclorochina al tempo della Covid-19” cerco di spiegare come un tempo l’investigazione scientifica consistesse principalmente nella ricerca disinteressata in tutte le direzioni, facendo della scienza l’oggetto principale della propria opera. I finanziamenti, per lo più pubblici e statali, non costringevano a investigare in una determinata direzione e necessariamente con un obiettivo. Quando si intraprendevano direzioni di ricerca che non erano realmente utili o non avevano alcun reale beneficio a servizio della collettività, tali rami venivano abbandonati per concentrarsi su altro. La scienza era ancora patrimonio di tutti e proprietà comune in quanto finanziata per la gran parte dallo Stato. Oggi il contesto in cui la “scienza” si sviluppa è radicalmente cambiato. Si è passati dal concetto di ricerca – finalizzato alla scienza e al suo insieme di scoperte – al concetto industriale di produzione di ricerca e sviluppo, ovvero contestualmente alla ricerca si deve per forza produrre qualcosa che abbia poi un ritorno economico. La scienza oggi non deve produrre per forza qualcosa di utile alla collettività, ma qualcosa di utile al profitto economico, soprattutto se privato. Coloro che oggi finanziano la ricerca sono per lo più privati, ovvero banche, fondi d’investimento, multinazionali, grandi aziende e grandi corporations di aziende e tutto ciò che viene finanziato nell’ambito della ricerca deve portare alla produzione di un prodotto vendibile e con un ritorno economico. Non sono più previsti i “rami morti” della ricerca e nemmeno è previsto fare marcia indietro qualora una certa direzione non porti a niente di utile o addirittura possa potenzialmente arrecare un danno. Fa impressione oggi l’ingenuità con cui gli scientisti dogmatici che parlano in difesa della scienza come “bene comune”, quando oggi la scienza è il deus ex machina del capitale finanziario, uno strumento tecnico – si parla sempre più di tecnoscienza – dipendente dall’accumulo capitalistico e, in quanto tale, finanziato per la gran parte da privati che vogliono un ritorno produttivo e proficuo. Poco importa se viene sviluppato un prodotto che poi, in definitiva, realizza più danno che beneficio – il famoso e ignorato principio di precauzione –, importa invece che il finanziamento in termini di ricerca porti comunque allo sviluppo di un prodotto vendibile e che in un modo o nell’altro sia accettato e abbia successo sul mercato. Ciò che sconvolge è che non importa se i mezzi per ottenere tale successo si incentrino su una rigorosità metodologica o su una obiettività dei dati disponibili. Oggi, queste ultime due componenti sono del tutto secondarie, poiché primario è lo sviluppo produttivo-industriale, mentre la ricerca scientifica si deve adeguare di conseguenza. Una volta finanziata una ricerca, questa deve per forza concretizzarsi in produzione e una volta avviata una determinata produzione, questa deve essere per forza “buona” a prescindere che lo sia veramente. Il sistema industriale è riuscito a sdoganare il più basso livello di rigorosità e di obiettività nella ricerca scientifica, soprattutto quella biomedica. La ricerca scientifica, dipendente dall’industria, ormai ha acquisito moltissime delle semplificazioni proprie del modo di operare industriale: viene meno il rigore, l’obiettività e la neutralità e lascia spazio alla grande produzione industriale e al marketing, dando poca importanza alla qualità del prodotto. Ciò che realmente importa è la percezione del prodotto che si riesce a ingenerare sul mercato e a livello mediatico. Su questo l’industria è imbattibile: può tranquillamente vendere qualsiasi cosa facendola passare per il suo contrario. Un documento ufficiale del Comitato Nazionale di Bioetica approvato in seduta plenaria l’8 giugno 2006, dal titolo Conflitto d’interessi nella ricerca biomedica e nella pratica clinica (1), ha definito la medicina come «una scienza polimorfa e complessa, che intrattiene rapporti di vario tipo, con la Società e con le istituzioni che questa produce», sottolineando come la ricerca biomedica moderna può essere effettuata, nel suo complesso, «soltanto con l’impiego dei capitali di enormi dimensioni». Nel documento addirittura si afferma come «la storia della scienza testimonia ampiamente come nell’ultimo secolo siano stati compiuti numerosi e cospicui falsi descrittivi». I falsi scientifici e le distorsioni metodologiche in medicina possono dipendere dal fatto che «gli orientamenti di un ricercatore possano essere diretti e motivati non solo dai problemi conoscitivi […], ma anche da interessi personali o da quelli connessi con le istituzioni di cui quel ricercatore fa parte». In sostanza viene descritto come le case farmaceutiche decidano il brutto e il cattivo tempo, essendo in grado di manipolare e falsificare studi al fine di un profitto privato e a discapito dell’interesse pubblico e del diritto alla salute. Il campo della salute, sia nei suoi aspetti reattivi sia nella prevenzione e promozione, così come nella ricerca, costituisce oggi un mercato gigantesco, che dà molto peso agli interessi finanziari (Stamatakis, 2013; Ioannidis, 2016) a discapito della medicina intesa come campo del sapere. Ce ne sarebbero tanti di esempi plateali, ma uno su tutti sicuramente è lo scandalo che coinvolse l’allora Ministro De Lorenzo che all’epoca ricevette una tangente di 600 milioni di lire – insieme a Poggiolini – dalla casa farmaceutica SmithKline per far diventare obbligatorio, con la legge 165 del 1991, il vaccino anti-epatite B già in uso dal 1981 in forma facoltativa. Nessuna prova scientifica – inesistente tuttora – che provasse la necessità dell’obbligatorietà del vaccino anti-epatite B, ma esistevano invece cause economiche che ancora oggi plasmano le scelte di medici che invece, in nome della “scienza” e di un ambiguo concetto di “prevenzione”, consigliano normalmente un vaccino reso obbligatorio tramite tangente. Ci viene da chiedere se di questo e di molto altro ne siano a conoscenza i membri del Patto Trasversale per la Scienza, o se ne siano a conoscenza tutti coloro che credono che la scienza sia un discorso puro sempre indipendente. Riflettere su questo ci potrebbe aiutare forse ad abbandonare qualunque tipo di fideismo scientifico fine a se stesso per capire che non è troppo diverso da qualunque altro fideismo religioso.   (1) Comitato Nazionale per la Bioetica, Conflitto d’interessi nella ricerca biomedica e nella pratica clinica: https://bioetica.governo.it/media/3118/p76_2006_conflitti_interessi-clinica_it.pdf   Ulteriori info: > Il mito della neutralità scientifica > Il velo della scienza neutrale https://ilmanifesto.it/la-scienza-non-e-neutrale-e-non-prova-la-verita > Gerardo Ienna (Università Ca’ Foscari di Venezia): “La scienza non è neutrale. > Il contributo dei fisici italiani all’idea della responsabilità sociale dello > scienziato” https://www.gssi.it/communication/news-events/item/21981-la-scienza-e-l-illusione-della-neutralita https://www.ilpost.it/2021/10/17/scienza-politica/ https://ilmanifesto.it/il-secolo-di-marcello-cini > Le “collaborazioni” delle Università: ma la scienza è neutrale?   Lorenzo Poli
Il report di Francesca Albanese e le alleanze scientifico-accademiche complici del genocidio a Gaza
La lista di connessioni illustrata nel report, “Dall’economia dell’occupazione all’economia del genocidio” da Francesca Albanese, relatrice speciale ONU per i diritti umani nei territori occupati da Israele, pubblicato con questo titolo per PaperFIRST-Fatto Quotidiano, è a dir poco sconcertante. C’è un legame strettissimo tra mondo imprenditoriale “occidentale” e dunque anche italiano, mondo accademico e centri di ricerca o agenzie europee, come APRE che gestisce, con sede in Italia, il programma europeo Horizon cui dal 2021 aderisce anche Israele e le analoghe istituzioni ed enti israeliani: questo si trascina fin dal ’48, nonostante le proteste crescenti a partire già dalle prime intifade e prosegue tuttora nonostante un genocidio trasmesso in mondovisione. Solo un anno prima della tragedia si svolgeva in Italia l'”Israel and Italy Cooperation in Horizon Framework Programme”, promosso dall’Ambasciata d’Israele in Italia, l’Ambasciata d’Italia in Israele, l’Agenzia per la promozione della Ricerca Europea, appunto l’APRE e l’Israel-Europe R&I Directorate (ISERD).Tra gli ambiti che balzano agli occhi nell’ambito di questo accordo scientifico-accademico uno è quello dell’agrifood, uno di quelli sui cui si è basato il colonialismo di insediamento, con furti di terra e bestiame e soprattutto con una gestione dissennata e padronale di un bene essenziale come l’acqua. Anche il termine stesso “genocidio”, sul quale la senatrice Segre ha di fatto riaffermato recentemente una sorta di “copyright” della comunità ebraica internazionale, è stato evitato da buona parte del Parlamento italiano, anche tra le forze di opposizione, a cominciare da un’esperta della materia come Laura Boldrini, il cui cambiamento a 180 gradi, in termini lessicali, è avvenuto solo dopo quasi due anni dal 7 ottobre, in un’intervista incalzante durante la quale il termine veniva tirato in ballo ma condizionato ad una futuribile decisione terminologica giurisprudenziale della Corte di giustizia internazionale (https://www.radiondadurto.org/2025/05/13/palestina-solidarieta-senza-frontiere-delegazione-italiana-in-partenza-per-il-valico-di-rafah-e-la-striscia-di-gaza/). Francesca Albanese, che invece non ha mai avuto dubbi sul termine genocidio sul piano giuridico, ci racconta di una forma di dominio da parte di imprese private, appoggiate dai rispettivi governi pubblici che in passato, in altre situazioni geopolitiche fu definita come “capitalismo razziale coloniale” ma che oggi ben si ritaglia anche al regime sionista. Nel caso di Israele, l’autrice usa un termine ampio per indicare le imprese coinvolte in queste connivenze complici del genocidio in corso: viene adottata la definizione di “entità aziendali” ricomprendendo in esso “imprese commerciali multinazionali, entità a scopo di lucro e senza scopo di lucro sia private che pubbliche o di proprietà dello Stato, in cui la responsabilità aziendale si applica indipendentemente dalle dimensioni, dal settore dal contesto operativo dalla proprietà e dalla struttura dell’entità”. Dato per assodato che tutta la parte iniziale del rapporto può essere sintetizzato da un’affermazione che non dovrebbe lasciarci dormire la notte, in quanto complici indiretti – ovverosia che grazie a queste complicità “tutti ci guadagnano” – è però altrettanto cruciale analizzare il settore universitario della ricerca e accademico. In questo ambito, le nostre “entità aziendali” sono chiamate in causa pesantemente per le sue strette connessioni con quello israeliano, il quale, in modo ancora più stretto di quello nostro, è scandalosamente legato da sempre all’apparato bellico-industriale. Un Paese impostosi per quasi 80 anni con la violenza e con un sistema di apartheid che si è perfezionato lungo una storia costellata di deportazioni di massa, repressione, incarcerazioni e detenzioni amministrative di migliaia di palestinesi, non poteva non avere un apparato educativo, accademico e scientifico assoldato da quello bellico. Quest’ultimo, forte di una propaganda che parte dai libri di scuola, basata sulla narrazione di una democrazia assediata fin dal suo nascere da dittature sanguinarie arabe e la disumanizzazione della popolazione araba, ha trasformato la società in una caserma fatta di riservisti e reclute impegnate per tre anni nel servizio di leva obbligatorio e “refresh” annuali (vd. La Palestina nei testi scolastici di Israele – Ideologia e propaganda nell’istruzione di Nurit Peled-Elhanan). Nella 59a sessione del Consiglio per i diritti umani dell’ONU – tenutasi tra il 16 giugno e l’11 luglio 2025 – Francesca Albanese inserisce l’ambito accademico, “facilitatore” del genocidio, accanto al sistema finanziario, dove non sfuggono nemmeno alcuni enti caritatevoli di ispirazione cristiana come i Christian Friends of israeli-communities o i Dutch Christians for Israel, impegnati a sostenere progetti per le colonie illegali, alcuni dei quali di addestramento di coloni estremisti. In cima alla lista figurano le scuole di legge israeliane e dipartimenti di archeologia e di studi mediorientali. Il loro lavoro in molti casi è finalizzato a costruire l’impalcatura ideologica giustificatoria del colonialismo di insediamento, che a sua volta può appoggiare le proprie fondamenta su una presunta pre-esistenza millenaria delle popolazioni di religione ebraica in quei territori, minimizzando quella araba. Ma la collaborazione in campo archeologico, in questo caso tra università italiane e israeliane, spazia anche sul fronte delle radici cristiane (vd. Archeologi a Gerusalemme: uno scavo di pace in tempo di guerra https://www.iodonna.it/attualita/costume-e-societa/2025/04/12/uno-scavo-di-pace-in-tempo-di-guerra/) presenti in Palestina, che proseguono senza soluzione di continuità addirittura anche dopo il 7 ottobre. Ciò conferma sul piano ideologico quell’alleanza costruita nel corso dell’ultimo secolo, sulla base di indubbie radici comuni giudaico-cristiane a tutto svantaggio, appunto, di un’altrettanto millenaria presenza araba, portata avanti congiuntamente fin dalla metà dell’ 800. Come da anni tenta di spiegare, sotto il fuoco incrociato dell’accademia israeliana e del movimento sionista internazionale, lo storico ebreo israeliano Ilan Pappé, che individua storicamente tale alleanza proprio nel comune interesse sionista e protestante-anglicano all’emigrazione ebrea di varie nazionalità verso la terra di Palestina: il motto giustificatorio era appunto “un popolo senza terra per una terra senza popolo”.     Stefano Bertoldi
I pericoli della “Scienza Unica”. Riflessioni sul Caso Bellavite-Serravalle
Il 16 agosto 2025 è arrivata la notizia che il Ministro della Salute Orazio Schillaci ha firmato il decreto di revoca in blocco di tutto il Gruppo Tecnico Consultivo Nazionale sulle Vaccinazioni (National Immunization Technical Advisory Group – NITAG), il comitato tecnico che avrebbe dovuto dare indicazioni sulle vaccinazioni in Italia. In particolare, si ritiene necessario avviare un nuovo procedimento di nomina dei componenti del NITAG per coinvolgere tutte le categorie e gli stakeholder interessati. “La tutela della salute pubblica richiede la massima attenzione e un lavoro serio, rigoroso e lontano dal clamore – dichiara il Ministro Schillaci – . Con questo spirito abbiamo sempre lavorato e continueremo ad agire nell’esclusivo interesse dei cittadini”.  Una decisione presa appena dieci giorni dopo le nomine, travolte da una tempesta di polemiche. La questione delle nomine dei dottori Eugenio Serravalle e Paolo Bellavite al NITAG, oltre ad avere sollevato un polverone mediatico in Italia, è stata ripresa sul BMJ (British Medical Journal), una delle riviste scientifiche più autorevoli a livello mondiale, con un articolo a firma di Marta Paterlini. Un articolo ancora fermo agli stereotipi secondo cui la scienza è un unico monolite incrollabile che non può aver visioni diverse al suo interno. Risulta invece interessante una lettera al Direttore del British Medical Journal che, in risposta all’articolo, lo critica affermando che: “La conoscenza scientifica non è una verità assoluta, ma il risultato di un continuo processo di indagine: un corpus di prove in continua evoluzione, perfezionato e rivisto man mano che nuovi dati diventano disponibili. La scienza, per definizione, prospera mettendo in discussione le teorie esistenti e promuove la ricerca e il dibattito continui.” Queste frasi semplicissime riassumono alla perfezione ciò che è il modus operandi del metodo scientifico: osservazione, formulazione di ipotesi, sperimentazione e verifica dei risultati. Se la verifica dei risultati è messa in crisi e la stessa tesi è messa in crisi, il dibattito è aperto. Tutto ciò si dovrebbe far presente alla Federazione Nazionale degli Ordini dei Medici (FNOMCeO) che invece, in merito alla nomina dei due professionisti, ha dichiarato fin da subito che le loro opinioni “sono incoerenti con le evidenze scientifiche sulla vaccinazione”, chiedendo dunque la revoca della nomina solo perchè hanno espresso – in passato e durante la Covid-19 – tesi critiche sull’obbligatorietà vaccinale, sull’efficacia dei vaccini anti-Covid e sugli effetti avversi che avrebbero potuto provocare essendo stati vaccini sperimentali. Ad aggiungere carne al fuoco è stato l’autoproclamato Patto Trasversale per la Scienza (PTS) – un’iniziativa nata il 5 giugno 2019 dalla nota virostar Roberto Burioni – che si propone di “promuovere la medicina basata sulle prove”. E’ propria questa associazione ad aver scritto la petizione per chiedere al Ministro Schillaci la revoca delle nomine di Bellavite e Serravalle nel NITAG, raccogliendo anche le adesioni di Ilaria Capua e del Premio Nobel per la Fisica Giorgio Parisi. La lettera aperta sostiene che “i due medici non vantano una solida produzione scientifica in ambito vaccinale, né riconoscimento accademico in materia di immunizzazione. In passato, hanno pubblicato e promosso contenuti pseudoscientifici, mettendo in dubbio la sicurezza e l’efficacia dei vaccini, e sostenendo teorie prive di fondamento.”  Eugenio Serravalle vanta un’esperienza trentennale sullo studio e sulla divulgazione scientifica sul tema della vaccinazioni, avendo scritto numerosi libri: Bambini Supervaccinati (Edizioni Il leone verde); Tutto quello che occorre sapere prima di vaccinare proprio figlio (Edizioni SI); Vaccinare contro il tetano?; Vaccinare contro il papillomavirus? (Edizioni Salus Infirmorum); Vaccinazioni: alla Ricerca del Rischio Minore (Editore: Il Leone Verde); e Coronavirus – COVID-19 —No! Non è andato tutto bene (Editore: Il Leone Verde). Per capire chi è invece Paolo Bellavite basta leggere il suo curriculum – che sicuramente molti medici, accademici e scienziati invidiano – parte delle sue pubblicazioni sul suo sito e il suo libro Vaccini sì, obblighi no. Le vaccinazioni pediatriche tra evidenze scientifiche e diritti previsti nella costituzione italiana (Edizioni Libreria Cortina Veneta). In sostanza Bellavite e Serravalle sono molto più esperti di vaccinazioni di Giorgio Parisi, che in materia d’immunizzazione non ha alcuna competenza, ed hanno sicuramente più competenze dello stesso Burioni che non è un medico e nemmeno un virologo, ma un microbiologo ricercatore nel campo dello sviluppo di anticorpi monoclonali umani contro agenti infettivi, che si è occupato di vaccinazioni solo in ambito di divulgazione scientifica. Bisognerebbe ricordare a FNOMCeO e a PTS che la letteratura medico-scientifica, oltre a fornire grandi studi sull’importanza e sulla discussa efficacia delle vaccinazioni del passato, fornisce anche ampli studi sui “danni da vaccino”. In Italia esiste una legge – la Legge 210/1992, nota anche come “legge sui danneggiati da vaccinazioni, trasfusioni e somministrazione di emoderivati” – che prevede un indennizzo economico (1) a favore di persone che abbiano subito danni permanenti e irreversibili a causa di vaccinazioni obbligatorie, trasfusioni di sangue o somministrazione di emoderivati. Se esiste una legge sul “danno da vaccino”, vuol dire che il danno da vaccino è riconosciuto e dunque possibile. In Italia, durante gli anni della Covid-19, la Commissione Medico-Scientifica Indipendente – composta da scienziati e medici senza conflitti d’interesse come Bellavite e Serravalle – si è occupata di indagare sull’altissimo impatto sanitario e sociale delle politiche pandemiche e sulle strategie vaccinali durante la Covid-19 in sostanziale assenza di un reale e aperto dibattito sui loro fondamenti scientifici. E’ la stessa Commissione ad aver sottolineato, con fonti/documenti/prove scientifiche alla mano, che le vaccinazioni anti-Covid presentavano numerose problematiche che non si potevano negare, come per esempio i gravi eventi avversi anche nei giovani, affermando inoltre che i vaccini che non danno “immunità di gregge” non possono restare obbligatori. Affermazioni rimaste inascoltate per anni, come anche la relazione del 2021 della Fondazione Hume sulla stima realistica degli effetti avversi dei vaccini anti-Covid e del rapporto rischi-benefici: 80 pagine di relazione con 230 fonti e citazioni (13 pagine solo di bibliografia scientifica). Forse è giusto ricordare al FNOMCeO e al PTS che tutti i vaccini sono farmaci e come tali, per definizione, possono avere controindicazioni ed effetti indesiderati anche gravi. I vaccini, sebbene abbiano sicuramente dato una svolta nella ricerca biomedica, sono anche i farmaci il cui reale impatto sulla scomparsa delle grandi malattie è tuttora discusso. E’ da più di quarant’anni che, sulle orme delle ricerche dell’epidemiologo Thomas McKeown (2), è stato dimostrato che – con l’eccezione degli antibiotici – i farmaci, vaccini compresi, hanno avuto ben poco peso nella scomparsa di malattie letali, mentre un ruolo fondamentale, in Occidente, lo hanno avuto l’acqua potabile, le reti fognarie e soprattutto una alimentazione adeguata; il che spiega come mai malattie che da noi erano considerate innocue – anzi salutari, come quelle esantematiche – in Paesi dove si soffre la fame e la mancanza di acqua potabile e di trattamento dei reflui, esse continuino a essere devastanti, come lo erano in Europa e negli Stati Uniti quando ancora quegli standard non erano stati raggiunti. Ciò spiega come malattie come il tifo, la poliomielite o il vaiolo, che decenni fa seminavano il terrore anche nei nostri paesi, abbiano cominciato a scomparire in seguito a un declino iniziato ben prima dell’introduzione dei vaccini obbligatori è peraltro comprovato dalle serie statistiche relative alla diffusione nel tempo di questi flagelli (basta vedere i dati Istat). Inoltre bisognerebbe segnalare che i vaccini in generale sono i farmaci meno sperimentati, per non parlare dei vaccini anti-Covid che non hanno nemmeno rispettato le condizioni minime di sperimentazione di una decina di anni.  Inoltre, su quest’ultimi prodotti, si è applicata una farmacovigilanza passiva e non attiva: sappiamo bene che se non c’è una vigilanza dal basso, le multinazionali del farmaco, che sono mosse dal profitto, non si pongono davvero il problema della sicurezza di ciò che vendono. Partendo da questi presupposti consolidati, i governi che si sono succeduti durante la sindemia da Covid-19 e le istituzioni sanitarie non hanno mai fatto dichiarazioni a tal riguardo e mai hanno risposto nel merito della tesi esposte da medici e scienziati dissidenti, ma si sono sempre limitati ad etichettare il dibattito con epiteti nauseanti e insostenibili continuando a sviare il dibattito stesso, rispondendo sempre a livello mediatico con argomentazione ad hominem(3) o ab auctoritate(4). Sembra che a fare uso di queste argomentazione siano anche i membri della FNOMCeO e di Patto Trasversale per la Scienza che – invece di essere aperti a diverse concezioni della salute, o quantomeno consapevoli dei più ampi determinanti della salute – chiedono dogmaticamente l’esclusione dal dibattito scientifico di due colleghi con solide credenziali accademiche e, nel caso del Dott. Serravalle, decenni di esperienza clinica di successo in pediatria. Per Burioni l’esperienza e le osservazioni di centinaia di medici e pediatri che segnalano rischi e danni anche gravi a seguito di vaccini non hanno alcun valore, ma contano solo gli studi statistici: quelli che non ci sono perché l’Aifa non li fa e che, in assenza di una farmacovigilanza seria, non si possono nemmeno svolgere. Quindi non resta che lui, Burioni, con le sue argomentazioni ab auctoritate e ad hominem. Bellavite e Serravalle hanno la colpa di aver espresso opinioni discordanti rispetto al consenso prevalente, ma lo hanno fatto presentando argomentazioni basate su prove e analisi ragionate e spesso ignorate dalla stessa opinione pubblica. Inoltre, mentre molti di coloro che hanno condannato le loro nomine potrebbero essere essi stessi influenzati, direttamente o indirettamente, da conflitti d’interesse – attraverso affiliazioni a società scientifiche, case farmaceutiche o programmi istituzionali (5) – non sono stati identificati conflitti di questo tipo in relazione ai Dottori Paolo Bellavite ed Eugenio Serravalle. Conflitti d’interesse sono stati invece segnalati in relazione ad altri membri nominati dieci giorni fa nel NITAG da Schillaci, come: Domenico Martinelli, dell’Università di Foggia, che risulta aver preso sponsorizzazioni da Sanofi (2023) e MSD-Merck (2019); Emanuele Montomoli, dell’Università di Siena, che ha risulta aver preso finanziamenti dall Sanofi (2022, anche consulente) e MSD-Merck (2019 e 2021); Francesco Vitale, dell’Università di Palermo, che ha ricevuto finanziamenti dalla Sanofi (2022), da Pfizer (2018), da GSK-Glaxo (2022 e 2023) e da AstraZeneca (2022); Alberto Villani, legato alla Società Italiana di Pediatria e al Bambin Gesù, che ha ricevuto contributi da Pfizer (2019), da GSK-Glaxo (2020), da Sanofi (2020) e da AstraZeneca (per la redazione di documenti). E’ questo lo scandalo vero, quello che dovrebbe crollare il castello di carte e non la presenza di due medici con esperienza quarantennale in ambito medico e scientifico senza conflitti d’interessi. Per fortuna che le nomine oggi sono state revocate in blocco, perchè queste informazioni dovrebbero far venire la pelle d’oca a tutti noi e a tutta la categoria dei medici e dei virologi. Eppure, paradossalmente, secondo la petizione di Patto Trasversale per la Scienza, erano le nomine di Serravalle che rischiavano di legittimare “teorie antiscientifiche”, di minare “la fiducia dei cittadini nei confronti delle istituzioni sanitarie”, di favorire “l’esitazione vaccinale”, di indebolire “la cultura della prevenzione, fondamentale per la salute collettiva”, o di compromettere “la credibilità del NITAG, screditando anche i suoi membri altamente qualificati”. Parole che farebbero ridere se non facesse piangere il contesto odierno in cui sono proprio le istituzioni sanitarie, prezzolate da conflitti d’interesse, che minano la fiducia dei cittadini nei confronti della scienza; sono proprio le istituzioni sanitarie, i governi e le società scientifiche, prezzolate da conflitti d’interesse, che minano la ricerca scientifica; sono proprio le istituzioni sanitarie, spinte da interessi farmaceutiche, che conducono a quella che chiamano vaccine hesitancy in mancanza di una corretta informazione pluralista, trasparente e sincera che sia in grado di rispondere senza preconcetti alle domande in modo soddisfacente con riferimenti scientifici solidi. Sono le altre nomine fatte dal Ministro Schillaci che, come abbiamo visto, minano la credibilità dello stesso NITAG perchè – se non fosse abbastanza esplicito – un comitato che dovrebbe garantire indipendenza scientifica non può essere composto da persone che hanno ricevuto finanziamenti, consulenze o sponsorizzazioni dalle stesse aziende sulle quali dovrebbero esprimere giudizi. Davvero, secondo il Patto Trasversale per la Scienza, ad indebolire “la cultura della prevenzione” sarebbero stati Bellavite e Serravalle che da anni non fanno altro che occuparsi di prevenzione, primaria, salute, salutogenesi, alimentazione sana, agricoltura biologica, difesa del latte materno e quant’altro? Di quale “prevenzione” parlano quelli del PTS? Evidentemente è un concetto ridotto dai firmatari alla sola vaccinazione e alla sola profilassi, perchè non c’è un articolo sul loro sito che parli di salute nel senso più ampio e fondamentale che include stili di vita sani e la gestione della complessa interazione dei determinanti sociali, economici, commerciali, politici e ambientali della salute. Mentre quelli del PTS festeggiano per le 20.000 firme della petizione per la revoca di Bellavite e Serravalle al NITAG, nessuno si è accorto che erano gli unici senza conflitti d’interessi mentre tutti gli altri ne avevano. Questo, ai membri del PTS, non provoca nessun problema etico per quanto riguarda la salute pubblica? Questo è il pericolo della “Scienza Unica”, tanto amata da Burioni e da tutti color che non amano il confronto e che – come Burioni e PTS, credono che la “scienza non è democratica”(6). La scienza – e le strategie sanitarie basate sull’evidenza che essa ispira – può progredire solo attraverso un dibattito aperto, critico e onesto. Purtroppo, l’ostracismo e la censura sono anche l’eredità della recente pandemia di COVID-19, quando il dissenso dalle narrazioni sanitarie tradizionali è stato sistematicamente messo a tacere attraverso i media, le piattaforme digitali e i canali istituzionali (7). Sebbene la decisione del Ministro della Salute italiano di includere due voci dissenzienti nel NITAG possa essere stata influenzata da considerazioni politiche, dovrebbe essere elogiata, non condannata, nell’interesse dell’integrità scientifica e non respinta esclusivamente sulla base del suo contesto politico. Il pericolo della “Scienza Unica” è che la scienza non sia più uno strumento importante per l’umanità, ma che diventi un’ideologia per la quale costruire crociate insensate, ovvero lo scientismo che ha le sue radici nella scienza cartesiana-newtoniana e nel positivismo francese del sec. XIX, che tende ad attribuire ai metodi delle scienze fisiche e sperimentali la capacità “incontrovertibile” di soddisfare tutti i problemi e i bisogni dell’uomo.   (1) L’indennizzo della Legge 210/1992 è stabilito dallo Stato per motivi di solidarietà sociale e per riconoscere il diritto a un sostegno a chi è stato danneggiato. (2) Thomas McKeown, L’aumento della popolazione nell’era moderna, con “Infanticidio: una rassegna storica” di William L. Langer; introduzione di Giorgio Bert, Milano, Feltrinelli economica, 1979. Traduzione di Guido Viale. (3) “argomentazioni ad hominem“, è una strategia retorica che attacca la persona che presenta un’argomentazione, piuttosto che l’argomentazione stessa. Invece di confutare le affermazioni fatte, si cerca di screditare la persona che le ha pronunciate, spesso usando insulti o critiche personali. Questo tipo di argomentazione è considerato una fallacia logica perché non contribuisce alla validità o alla falsità dell’argomento originale.  (4) “argomentazioni ab auctoritate“, o “appello all’autorità”, sono un tipo di ragionamento che si basa sull’affermazione che una proposizione è vera perché sostenuta da una persona o fonte considerata autorevole. (5) Fabbri A, Gregoraci G, Tedesco D, Ferretti F, Gilardi F, Iemmi D, Lisi C, Lorusso A, Natali F, Shahi E, Rinaldi A. Conflitto di interessi tra ordini professionali medici e industria: uno studio trasversale dei siti web delle società mediche italiane. BMJ aperto. 2016 giugno 1;6(6):e011124. doi: 10.1136/bmjopen-2016-011124. (6) Roberto Burioni, La congiura dei Somari. Perché la scienza non può essere democratica, Rizzoli (7) Bertuzzi N, Lagalisse E, Lello E, Gobo G, Sena B.. La politica durante e dopo il Covid-19: scienza, salute e protesta sociale. Partecipazione e Conflitto, 2022, 15(3): 507-529. DOI:10.1285/i20356609v15i3p507 Lorenzo Poli