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Il tesoro di Luisa Muraro
Riprendiamo dal sito della Libreria delle donne di Milano La pubblicazione nell’ultimo dei Quaderni di Via Dogana della conversazione integrale inedita di Luisa Muraro con Clara Jourdan svoltasi nel 2003 (Esserci davvero, Libreria delle donne, Milano 2025) ha anzitutto il pregio di farci scoprire gli aspetti meno scontati e più sorprendenti della personalità della ben nota filosofa della differenza sessuale. Sollecitata con garbata finezza da Clara Jourdan che non si limita a formulare domande ed esporre le proprie osservazioni, ma contestualizza, mette a punto, sottolinea rimandi a vita e opere, Luisa Muraro coglie e accoglie suggestioni, schizza una sorta di autoritratto enunciando i propri pensieri con audacia e nondimeno con sobrietà, si sofferma con franchezza sui tratti spinosi del proprio percorso esistenziale-politico sino ad affievolire l’alone di una certa baldanza caratteriale e a tentare di svelarne il punto cieco. Esserci davvero si apre con il riferimento di Luisa Muraro alla madre che ogni due mesi «sentiva l’esigenza interiore di andare al Santuario di Monte Berico» edificato sui colli di Vicenza e dedicato alla Madonna: un pellegrinaggio in forma di «divertimento autorizzato delle donne»; «una specie di allungamento religioso del cristianesimo, ma, sappiamo, era la religione precristiana della grande dea», data la presenza della Madonna sotto il cui manto trovano rifugio tutti; un viaggio verso un luogo di devozione mantenuto in vita dal sentimento religioso dell’umanità femminile. Ma non c’è traccia di una rappresentazione idealizzata della madre, giacché Luisa Muraro puntualizza: «[…] l’importanza di mia madre nella mia vita e per me è anche problematica e oscura. Io non sono una donna che ha avuto un rapporto buono con sua madre, nel senso di un rapporto felice. Ho avuto un rapporto buono nel senso di un rapporto che c’era effettivamente». Poche pagine più avanti le sue risposte acquisiscono una tonalità sempre più confidenziale: confessa che i suoi studi, in particolare nella giovinezza, sono stati orientati da qualcosa di instabile, nondimeno presente dentro di lei «in una maniera molto segreta»; invece, «per esserci concretamente in carne e ossa», dichiara di aver avuto bisogno di appoggiarsi a delle persone in una relazione, nella quale gioca «una parte non piccola di egocentrismo. Cioè, sono io che ho bisogno, e l’altro, l’altra, sono l’appoggio simbolico. Non è tanto una relazione di scambio. Certo che la relazione si stabilisce, e lo scambio si stabilisce, ma è uno scambio dispari». Così di volta in volta le è capitato di appoggiarsi «a chi ha l’aria di sapersi orientare» (Bontadini, Rosetta Infelise, Fachinelli, Lia Cigarini) e via via di sganciarsene, tranne nel caso dell’incontro con il femminismo della Cigarini, ovvero «una pratica di relazione, il partire da sé e l’efficacia che ha la modificazione di sé, della propria relazione con le cose». Grazie a questo incontro Luisa Muraro è infatti uscita dall’esserci «truccando i dadi», «facendo carte false», e ha avvertito finalmente con felicità un «esserci in prima persona in qualcosa che accade», un esserci davvero. Il desiderio fisiologico di scrittura che caratterizza il suo itinerario esistenziale, o meglio la sua strategia esistenziale, finisce dunque con il trovare casa e dimora nella pratica politica delle donne assunta come forma simbolica che le avrebbe permesso di scrivere. È ciò che le accadde con La Signora del gioco. Episodi della caccia alle streghe (Feltrinelli, 1976), il libro che segna un cambiamento di rotta nella rappresentazione storiografica delle donne: «Avevo un materiale, perché la caccia alle streghe mi interessava da tempo; avevo un materiale emotivo e anche contenutistico, culturale, gli ho dato la forma di una pratica politica che ha reso possibile la scrittura». È ciò che accadrà con le opere che più risolutamente aderiscono a questa strategia esistenziale, ne dà conferma la stessa autrice non senza cercare di snidare un altro suo aspetto radicato in profondità: «Certo, non è solo la scrittura, è l’avere a disposizione una domanda di scrittura – Luisa, scrivi! – che motiva e autorizza che io possa dedicarmi a questa attività che probabilmente fa dentro di me un ordine simbolico. Qualcosa che ha a che vedere con il dare forma, a me». Dopo essere stata sviata dalla ricerca su Della Porta (Giambattista Della Porta mago e scienziato, Feltrinelli 1978) e dopo la virata sulla linguistica che le ha ispirato quel piccolo grande libro che s’intitola Maglia o uncinetto. Racconto linguistico-politico sulla inimicizia tra metafora e metonimia (Feltrinelli 1981), Luisa Muraro racconta come è andata con Guglielma e Maifreda. Storia di un’eresia femminista (La Tartaruga 1985), «una storia di grandezza femminile». Commuove leggere delle relazioni intrattenute con altri studiosi/e, va dritta al cuore la straordinaria passione che ha accompagnato il suo lavoro alla Biblioteca Ambrosiana: «… ero come in perenne estasi, perché ero tutta presa da questa ricerca, proprio in una maniera che dice qualcosa di questo rapporto che ho, quando la materia della storia, o della mia vita, o della vita degli altri, si può trasformare in scrittura». Ammaliata dagli sprazzi narrativi e dai brevi inserti speculativi – un’alternanza-commistione che è la cifra della scrittura di Muraro – vengo così a conoscenza anche del prezioso lavorìo di tessitura che sta dietro la sua composizione di Non credere di avere dei diritti (Rosenberg & Sellier, 1987), una messa in parole di una pratica politica, «una narrazione libera di donne che vogliono raccontare la loro storia», quella vissuta fra il 1966 e il 1986 a Milano e non solo. E questo vale altresì per l’impresa di Diotima, la comunità filosofica femminile nata tra il 1984 e il 1985 all’Università di Verona, e per il primo testo di Diotima, Il pensiero della differenza sessuale (La Tartaruga, 1987) come per quelli successivi. E ovviamente in Esserci davvero non può mancare il riferimento all’apporto fondamentale dato da Luisa Muraro fin dal primo numero, del giugno 1991, a Via Dogana, la rivista della Libreria delle donne di Milano che era stata inaugurata nel lontano 1975 e di cui ricorre quest’anno il cinquantenario. Una rivista di politica delle donne, vale a dire una politica che non mira alla spartizione del potere, perché quando è in gioco la libertà femminile il cambiamento «si sviluppa con la presa di coscienza e questa ha la stessa natura del fuoco, si accende, si alimenta e non diventa possesso» – come si legge sul sito https://www.libreriadelledonne.it/categorie_pubblicazioni/viadogana/. A proposito del libro coevo alla pubblicazione del primo numero di Via Dogana, L’ordine simbolico della madre (Editori Riuniti, 1991), che segna un taglio nella storia del pensiero, Luisa Muraro ne espone la genesi e riconosce che pur essendo autentico è per lei un libro oscuro: «l’ho scritto in condizioni che me lo rendono non uno specchio per me, e d’altra parte io sono una che non si specchia volentieri. Però le altre donne, non tutte, ma molte altre donne si sono specchiate nel libro e me lo hanno detto, diventando loro lo specchio per me. E allora ho capito. Più che nei miei prodotti io confido nelle lettrici. […] i lettori, le lettrici sono fondamentali per l’esistenza di un’opera – questo viene sempre più riconosciuto – ma possono essere fondamentali anche per la sopravvivenza degli autori». L’ultima tappa di questa conversazione così variegata e piroettante che è Esserci davvero riguarda la decisione di Luisa Muraro di dedicarsi allo studio di Margherita Porete (si veda Lingua materna scienza divina. La filosofia mistica di Margherita Porete, D’Auria M. 1995) e la sua dedizione alla scrittura mistica di donne. Sono pagine nelle quali si percepisce l’intensità del fervore che connota la scoperta della «libertà delle donne [che] diventa proprio un’apertura d’infinito», la scoperta di una teologia in lingua materna – e il pensiero corre a Le amiche di Dio. Scritti di mistica femminile (D’Auria M. 2001) e soprattutto a Il Dio delle donne (Mondadori 2003). La più bella intuizione che grazie a questo suo attraversamento delle mistiche mi/ci viene donata è che «tutto è storia ma la storia non è tutto. C’è qualcosa che eccede e questo qualcosa è vuoto, non è nominabile, non è dicibile, è un niente, è un niente che però io considero un passaggio all’essere». C’è altro, sostiene Muraro, ovvero c’è «il senso della incompiutezza di ogni impresa umana. Non è che vada sanata con la dimensione religiosa che per noi è perduta, ma la consapevolezza del c’è altro, il senso della incompiutezza e della fragilità, va salvaguardato, e senza cadere nel nichilismo e nella disperazione: come nella mistica, è nell’attesa che questo altro venga a noi». Si tratta di disfare la maglia di questo mondo per fare posto ad altro: «Altro, che cosa?». Luisa Muraro ha cercato la risposta nei testi delle scrittrici beghine e delle poetesse preferite e ha trovato, «come risposta, che questo “altro” è l’impossibile: la teologia in lingua materna insegna in pratica (e, entro certi limiti, anche in teoria) a stare al mondo con la certezza che in esso ha luogo, o può trovarlo, anche l’impossibile» (Il Dio delle donne, 2003, p. 84). In tempi di apparente agonia dell’umano imposta dai potenti di turno il tesoro di Luisa Muraro si racchiude in definitiva nella potenza del c’è altro, che tradotto nella nostra quotidianità consiste per l’appunto nella salvaguardia della fragilità e dell’incompiutezza e prepara ogni singolo/a a un altro ordine di rapporti ora, qui, su questa Terra.       Redazione Palermo
Il diaconato femminile fa paura alla Chiesa
E ancora una volta arriva una sferzata alle donne nella Chiesa Cattolica: no al diaconato femminile. A novembre 2023 intervistai la teologa Selene Zorzi dopo il no categorico della Chiesa al sacerdozio femminile, che già inaugurava un no ferreo al possibile diaconato delle donne. Affermava Zorzi: “I sinodi prospettano idealmente dialogo, ma di fatto sono tristi consessi dalla maggioranza di uomini maschi, di una certa età, abituati a stare al mondo da privilegiati. Alle poche donne che ci sono, trattate in modo paternalistico, sembra venir concessa libertà di parola, ma in un contesto di minoranza ove ogni parola divergente viene guardata con la tenerezza di ciò che alla fine non potrà mai andare a sconvolgere troppo le linee di fondo di un sistema statico, lento e lutulento. In generale la Chiesa cattolica ha tempi tutti suoi, lunghi, non certo quelli della vita delle persone di questo mondo in rapidacion, e quindi non ci si può aspettare da essa risposte in tempo per le questioni delle nostre vite singole e brevi. Ci arriverà, ma con i suoi tempi. Ma per fortuna la chiesa istituzionale non coincide con la chiesa escatologica.” A quanto pare la Chiesa ha davvero tempi suoi e sempre troppo lunghi. Papa Francesco ha eliminato d’amblais l’impedimentum sexus che grava per diritto canonico sull’esclusione delle donne dall’ordine, solo che l’ha eliminato solo per i ministeri. Ciò però dimostra che non ci vorrebbe poi tanto, solo un po’ di buona volontà. come disse la Zorzi: “L’errore è guardare alla tradizione pensando si tratti di qualcosa di monolitico, presente fin dall’inizio in modo unitario e immodificabile. Invece studiando anche solo un po’ la storia della teologia ci si rende conto che la tradizione è andata avanti proprio perché si è sempre modificata riuscendo ogni volta a superare nuove sfide e così a rinnovarsi.” Don Fabio Corazzina La sintesi della Commissione di Studio sul Diaconato Femminile, composta ovviamente da soli uomini, ha sentenziato pochi giorni fa che il diaconato femminile non sa da fare. Senza pretese teologiche ma con un briciolo di esperienza umana, cristiana e pastorale, Don Fabio Corazzina – ex-coordinatore nazionale di Pax Christi, grande sacerdote impegnato nelle marginalità e sui temi dell’ambiente, dell’accoglienza, della pace, della nonviolenza e del disarmo e grande assertore del protagonismo delle donne nella Chiesa – ha condiviso alcune considerazioni sui suoi social in commento alla decisione della Commissione: 1. le motivazioni storiche, bibliche, patristiche dottrinali, tradizionali citate mi sembrano sussurrate ex post, quasi a giustificare a tutti i costi una posizione già decisa. 2. sostenere nella tesi 3 che: “si può ragionevolmente affermare che il diaconato femminile non è stato inteso come il semplice equivalente femminile del diaconato maschile e non sembra avere rivestito un carattere sacramentale” lo definirei stucchevolmente irragionevole. 3. ma, questa stucchevole irragionevolezza giustifica la tesi 5 che “esclude la possibilità di procedere nella direzione dell’ammissione delle donne al diaconato inteso come grado del sacramento dell’Ordine.” 4. il top è la tesi della terza sessione, stupendamente incomprensibile perchè parla di mascolinità sacramentale: «La mascolinità di Cristo, e quindi la mascolinità di coloro che ricevono l’Ordine, non è accidentale, ma è parte integrante dell’identità sacramentale, preservando l’ordine divino della salvezza in Cristo. Alterare questa realtà non sarebbe un semplice aggiustamento del ministero ma una rottura del significato nuziale della salvezza». E io credevo che sia l’uomo che la donna fossero sacramentalmente immagine di Dio, soprattutto se si amano! 5. dolcetto finale, di speciale interesse, nell’ultima sessione: “è oggi opportuno ampliare l’accesso delle donne ai ministeri istituiti per il servizio della comunità”. Le donne esulteranno e organizzeranno una festina lady-ministeriale. 6. questa sintesi mi mostra una chiesa intimorita dalle donne, dal femminile, per il solo fatto che esiste, e dalla imperdonabile e insopportabile pretesa di partecipare ai ministeri ordinati. Don Corazzina ha aggiunto: “Non è la chiesa che amo e che vivo”. Come dagli torno. Una Chiesa retrograda che è ancora ferma alla gerarchia dei sessi nella struttura di potere della Chiesa. Una Chiesa che considera ancora degno di nota il “duplice principio petrino-mariano”, un concetto antiquato coniato dal teologo Balthasar per definire i ruoli ecclesiali delle donne e degli uomini all’interno della Chiesa. Come ha ben dimostrato la grande teologa Marinella Perroni, ci sono diversi livelli di problematicità di questo topos teologico che inventa e distingue un principio petrino da uno mariano: * il primo problema è che Balthasar conia il concetto con la finalità di integrare il primato di Roma in tutta la Chiesa; * il secondo problema è che questo dualismo si basa su una forma di universalizzazione per la quale tutti i singoli devono identificarsi in quanto maschi con Pietro e in quanto femmine con Maria; * il terzo problema deriva dal fatto che questo dualismo oppositivo si costruisce attorno ad una ideologia dei generi che si alimenta di stereotipi patriarcali facendoli diventare archetipi del maschile e femminile. All’archetipo del femminile vengono applicate caratteristiche quali l’amore, il nascondimento, il focolare, l’accoglienza, lo spirituale; mentre al maschile si applicano caratteristiche di autorità, potere, ministerialità e agire pubblico. Fare di Pietro e Maria dei simboli in base altresì al loro sesso, è una operazione problematica. I due sono concepiti in senso gerarchico e dicotomico e tale narrazione è tesa a mantenere i privilegi maschili perché le forme di esaltazione del femminile (“mistica della femminilità”)servono ad escludere il riconoscimento dell’una autorità pubblica delle donne. Ciò che risulta interessante e problematico allo stesso tempo è che mentre la sessualizzazione femminile, riguardando la chiesa tutta (“la Chiesa è donna!!” – viene ripetuto), può essere applicata sia a uomini che a donne, quella maschile –non si capisce bene perché – riguarda solo gli uomini maschi. Nella Chiesa si reprime sistematicamente il ruolo delle donne e quando lo si vuole esaltare lo si sublima: nulla di più discriminante. Pur nella sua illuminazione su moltissimi temi, Papa Francesco affermava che una donna non può accedere al sacerdozio “perché non le spetta il principio petrino, bensì quello mariano, che è più importante (…) Il fatto dunque che la donna non acceda alla vita ministeriale non è una privazione, perché il suo posto è molto più importante”. Parole che racchiudono clericalismo, patriarcato, potere, ma soprattutto la trappola della sublimazione: le donne – secondo questa logica – non potrebbero accedere ai posti di potere perchè il loro ruolo “è più importante”. Ciò ricorda un po’ il “genio femminile”[1] di cui parlava Papa Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem. Ma nulla è più fallace di questa narrazione. Oggi la Chiesa di Leone XIV non sembra dare segnali di evoluzione in tal senso. La verità è che la Chiesa, nel 2025 – mentre una miriade di altre Chiese cristiane ospitano il sacerdozio e il diaconato femminile – ha paura solo di concedere un grammo di potere o di protagonismo alle donne. Fin quando non si farà questo passo, la Chiesa deciderà di escludere più della metà dei sui fedeli da forme di protagonismo e decisione.   [1]Benedetta Selene Zorzi, Al di là del “genio femminile”. Donne e genere nella storia della teologia cristiana, Carocci Editore, marzo 2014 Ulteriori informazioni: https://www.queriniana.it/blog/ritorno-del-principio-mariano-petrino–291 https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/12/marinella-perroni-il-duplice-principio.html https://www.cittadellaeditrice.com/munera/von-balthasar-e-la-gerarchia-dei-sessi/ https://www.cittadellaeditrice.com/munera/sulla-formula-principio-marianoprincipio-petrino-m-perroni/ Lorenzo Poli
La nuova Nakba
Rifiuti L’accumulo dei rifiuti attorno ai campi di sfollati è un pericolo per la salute della popolazione. Il municipio di Gaza ha denunciato gli attacchi dell’artiglieria israeliana contro gli operatori impegnati a rimuovere i cumuli di rifiuti. “Oltre ad aver chiuso gli accessi alle discariche che ricadono nella zona sotto l’occupazione, i caccia e l’artiglieria prendono di mira i nostri mezzi”. La politica israeliana mira a rendere impossibile la vita a Gaza, per facilitare la deportazione “volontaria” della popolazione. Il responsabile del municipio di Gaza città addetto all’ambiente ha affermato, in un collegamento con Anbamed, “il significato di una determinazione di Israele a rendere la vita impossibile è quello di costringerci a partire. Vogliono ripetere la cacciata del 1948. Nella sola città di Gaza si sono accumulati 350 mila metri cubi di rifiuti e non abbiamo i mezzi per rimuoverle, anche a causa del blocco di rifornimento di carburanti”. Rifugiati L’Assemblea generale dell’ONU ha innovato l’incarico all’Unrwa per i prossimi 3 anni. 151 a favore, 10 contrari e 14 astenuti. I tentativi israeliani di annientare la memoria storica della Nakba sono falliti. L’attacco frontale del governo di Tel Aviv contro l’Unrwa mira infatti alla cancellazione degli strumenti internazionali che garantiscono i diritti storici dei palestinesi: il diritto al ritorno, lo status di rifugiati, il risarcimento. L’esercito israeliano ha deportato tutti gli abitanti dei campi profughi di Jenin, Tulkarem e Nour Shams, per cancellare la memoria delle deportazioni del 1948. Per ammettere il loro ritorno, i militari hanno proposto la rinuncia allo status di “rifugiato” e il non ritorno degli uffici e scuole dell’Unrwa. Ostaggi La vita di Marwan Barghouti è in pericolo.  Ieri, il figlio del leader incarcerato Marwan Barghouti ha diffuso il seguente grido: “Stamattina mi sono svegliato con una telefonata da un prigioniero rilasciato. Mi ha detto: ‘Tuo padre è stato maltrattato fisicamente. Gli hanno rotto denti e costole, gli hanno tagliato via parte di un orecchio e gli hanno rotto le dita a più riprese per divertimento’. Cosa dovrei fare? Con chi dovrei parlare? A chi dovrei rivolgermi? Viviamo in questo incubo ogni giorno… Mio padre ha 66 anni ormai, oh Dio, da dove prenderà la forza?” La famiglia ha tentato di appurare la veridicità delle informazioni e la reale identità del relatore del messaggio. Ma le autorità carcerarie israeliane non ammettono visite e non forniscono informazioni e respingono ogni richiesta delle istituzioni internazionali di visitarlo. Libertà per Marwan Barghouti Sono oltre 30 gli ospedali che parteciperanno mercoledì 10dicembre alla giornata di mobilitazione “La sanità non si imprigiona” per chiedere la liberazione degli oltre 90 sanitari palestinesi detenuti nelle carceri palestinesi. Da Trento a Palermo si terranno dei flashmob che, ricordiamo, sono aperti a tutti i cittadini. Per leggere tutto l’elenco degli ospedali coinvolti: La sanità non si imprigiona – Anbamed È in corso in Italia ed a livello internazionale, la campagna in favore della liberazione dei prigionieri politici palestinesi e in particolare per mettere fine alle torture e maltrattamenti. Al centro di tale campagna vi è l’obiettivo di salvare il Mandela palestinese, Marwan Barghouti, da 23 anni in carcere.  La campagna viene lanciata alla vigilia della giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese indetta dall’ONU: Campagna internazionale per la liberazione dei prigionieri politici palestinesi – Anbamed ANBAMED
Anche il PD equipara antisionismo e antisemitismo…
INCREDIBILE L’ASCESA DELLA EQUIPARAZIONE TRA ANTISIONISMO E ANTISEMITISMO: L’ENNESIMO DECRETO DI LEGGE DI STAMPO REVISIONISTA APRE UNA NUOVA CACCIA ALLE STREGHE…QUESTA VOLTA DA PARTE DEL PARTITO DEMOCRATICO CON GRAZIANO DELRIO. Incalcolabili sono i danni recati dalla parentesi renziana a capo del Partito Democratico, danni che poi portano alcuni nomi e cognomi con posizioni in politica estera analoghe, o fotocopia, di quelle delle destre. A volte tornano sotto i riflettori distinguendosi con l’inutile servilismo verso lo Stato di Israele, presentando una proposta di legge che equipara l’antisionismo all’antisemitismo, superando a destra i parlamentari di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega. Il Disegno di Legge, presentato da Graziano Delrio, denominato “Disposizioni per il rafforzamento della strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, e per la prevenzione ed il contrasto all’antisemitismo e delega al Governo in materia di disciplina degli interventi relativi ai contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme online di servizi digitali” già dal titolo fa capire il fine della iniziativa: un controllo repressivo che riguarderà scuole, università, realtà sociali e i social destinatari della campagna securitaria (clicca qui per le info). Il disegno di legge segue i classici copioni sperimentati in qualche trasmissione televisiva: narrare la piaga dilagante dell’antisemitismo, dell’odio verso gli ebrei condito da rigurgiti razzisti. E così gli autori del genocidio, i sionisti, in un colpo solo diventano le vittime. E la fonte da cui attingere dati e informazione non è certo super partes, parliamo del monitoraggio operato dal Centro di documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) (https://www.osservatorioantisemitismo.it/), vicino ad ambienti sionisti e da anni attivo nel catalogare ogni espressione di odio contro gli ebrei che spesso e volentieri vengono confusi con i fautori del sionismo. Peccato che tra le segnalazioni si possa ritrovare anche un semplice adesivo di solidarietà con la Palestina affisso alla fermata dei bus o all’ingresso di una mensa. La narrazione parla di un incremento degli episodi antisemiti molti dei quali non sarebbero tracciati giusto a drammatizzare ulteriormente la situazione. Leggiamo testualmente: «Le evidenze raccolte non sono solamente allarmanti da un punto di vista quantitativo, essendo rilevante l’esame qualitativo della tipologia degli atti segnalati, consistenti, tra l’altro, in invettive e stereotipi antisemiti nella realtà virtuale e nella vita quotidiana, in particolare nelle istituzioni scolastiche e universitarie. Si ravvisano altresì minacce a persone ed istituzioni ebraiche, atti di discriminazione (si pensi a esponenti politici e giornalisti cui è stata resa impossibile la partecipazione agli eventi pubblici) e persino alle aggressioni fisiche in luoghi pubblici». Avete letto bene? In Italia radio, giornali e tv sarebbero occupati da antisemiti, giornalisti e politici, manipoli di razzisti si aggirerebbero per le città nel solo intento di impedire l’esercizio di parola agli ebrei recendo loro violenza verbale e fisica. La verità è che le reti Mediaset e la Rai sono sistematicamente occupate da esponenti del centrodestra con posizioni filoisraeliane, parliamo di oltre il 90% degli ascolti televisivi, aggiungiamo i giornali nelle mani di pochi gruppi editoriali e schierati a destra o, se su posizioni del centro sinistra, vicino alle posizioni governative in materia di politica estera. Vittimismo o strategia del complotto? Continuando a leggere il disegno, l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo si fa sempre più forte fino a denunciare un’autentica persecuzione degli ebrei ai quali sarebbe impedito di manifestare la loro stessa religione e identità. Negli ultimi anni da parte dei movimenti solidali con la causa palestinese non c’è stato alcun gesto contro simboli ebraici e sinagoghe, al contrario gli episodi di aggressione ai danni di attivisti filopalestinesi risultano innumerevoli. La narrazione vittimista è funzionale a descrivere una realtà falsata, le grandi adesioni alle mobilitazioni contro il genocidio possono essere avversate non criminalizzando i milioni di partecipanti, ma facendo credere che nel Paese il germe del razzismo antisemita sta prendendo corpo, il passaggio successivo sarà la criminalizzazione di tutti i solidali e gli antisionisti trasformati in odiatori da tastiera al pari di chi lancia invettive senza costrutto assalito dall’odio instillato dalle dichiarazioni avventate di politici senza memoria. E tra gli odiatori chi ritroviamo? Una lunga sequela di nemici che vanno dai movimenti sociali ai sindacati, dagli intellettuali non allineati agli islamici tout court, tutti accomunati da odio ed aggressività. Ma qual è il fine di questo disegno di Legge? Leggiamo dal testo: «Il presente disegno di legge si pone l’obiettivo di adattare la disciplina vigente in ambito digitale e formativo, recando misure volte a prevenire e contrastare le nuove forme di antisemitismo nonché a rafforzare efficacemente l’attuazione della Strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, elaborata nel quadro di quella europea dal Coordinatore nazionale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri». Incredibile la descrizione del propagarsi dell’odio antisemita che, secondo questo disegno di legge, sarebbe una minaccia pericolosa alla democrazia e alla libertà. Passando in rassegna il testo si va dalla delega al Governo per l’adozione – entro sei mesi – di uno o più decreti legislativi, volti a disciplinare in modo organico il contrasto all’antisemitismo online (il che fa presagire il controllo della rete stessa, la chiusura di bollettini, siti, pagine social e riviste di orientamento antisionista), fino alla tutela della libertà della ricerca e di insegnamento in ambito universitario, come se l’autentica minaccia all’università non fosse rappresentata dalla Bernini e dai suoi provvedimenti che andranno ad espellere migliaia di ricercatori. Il vero obiettivo di questo disegno è la normalizzazione del controllo nelle scuole e nelle università a partire dalla sorveglianza dell’operato dei docenti, istaurando un clima repressivo e di soffocante controllo pur celandosi dietro al sommo «valore della conoscenza ed il principio della libera manifestazione del pensiero, nella fondamentale ottica del reciproco rispetto e del confronto civile» (Cass. civ. 28853/2025). E dopo l’alza bandiera arriveranno le buone azioni contro l’antisemitismo, spingendo le scuole a segnalare tutte le iniziative intraprese a sostegno di queste indicazioni con tanto di segnalazioni alle forze di polizia e al Ministero di ogni azione e opinione che possa configurarsi come antisemita. E ancora una volta si va a confondere antisemitismo con antisionismo. Chiunque criticherà l’operato di Israele verrà tacciato di istigatore dell’odio razziale alla stessa stregua di un nazista. Se questo è il disegno di legge partorito dalla fervida immaginazione di un parlamentare del PD, la prossima mossa del centrodestra sarà quella di venirci a prendere a casa per portarci in qualche carcere. Occorre fermare oggi questa follia; occorre fermarli con le ragioni, le azioni propositive e le argomentazioni di cui siamo capaci, è ormai un dovere etico e civile. Federico Giusti Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
Sanità: il pubblico arretra sempre più, mentre i privati occupano gli spazi vuoti
  La spesa delle famiglie è ormai schizzata oltre i € 41 miliardi e dal 2022 al 2024 +1,7 milioni di persone hanno rinunciato a prestazioni sanitarie. Il privato convenzionato domina le RSA e la riabilitazione, ma mostra segni di crisi. Boom invece del privato puro: in 7 anni +137% di spesa out-of-pocket. Sono alcuni dei dati snocciolati da Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE, al 20° Forum Risk Management di Arezzo, presentando un’analisi indipendente sull’ecosistema dei soggetti privati in sanità e sulla privatizzazione strisciante del SSN. Un’analisi che documenta come il progressivo indebolimento della sanità pubblica lasci sempre più spazio all’espansione silenziosa di una moltitudine di attori privati, spesso identificati erroneamente con le sole strutture private accreditate. La Fondazione GIMBE indica 4 macro-categorie di soggetti privati: erogatori che forniscono servizi e prestazioni sanitarie e socio-sanitarie; investitori che immettono capitali con finalità di sviluppo del settore e di produzione di utili; terzi paganti (fondi sanitari, assicurazioni, etc.) che svolgono la funzione di pagatore intermedio tra erogatori e cittadini; realtà che stipulano partenariati pubblico-privato (PPP) con Aziende Sanitarie, Regioni e altri enti. Ciascun soggetto privato può avere natura giuridica profit o non-profit: questi ultimi, se non rappresentano una minaccia per il SSN, nella percezione pubblica finiscono per essere considerati alla stregua di attori privati con elevata propensione ai profitti. Nel 2024 la spesa sanitaria a carico dei cittadini (out-of-pocket) ammonta a € 41,3 miliardi, pari al 22,3% della spesa sanitaria totale: percentuale che da 12 anni supera in maniera costante il limite del 15% raccomandato dall’OMS, soglia oltre la quale sono a rischio uguaglianza e accessibilità alle cure. In Italia la spesa out-of-pocket in valore assoluto è cresciuta da € 32,4 miliardi del 2012 a € 41,3 miliardi del 2024, mantenendosi sempre su livelli compresi tra il 21,5% e il 24,1% della spesa totale. “Con quasi un euro su quattro di spesa sanitaria sborsato dalle famiglie, ha sottolineato Cartabellotta, oggi siamo sostanzialmente di fronte a un servizio sanitario “misto”, senza che nessun Governo lo abbia mai esplicitamente previsto o tantomeno dichiarato. Peraltro, la spesa out-of pocket non è più un indicatore affidabile delle mancate tutele pubbliche, perché viene sempre più arginata dall’impoverimento delle famiglie: le rinunce alle prestazioni sanitarie sono passate da 4,1 milioni nel 2022 a 5,8 milioni nel 2024”. In altre parole, la spesa privata non può crescere più di tanto perché nel 2024 secondo l’ISTAT 5,7 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà assoluta e 8,7 milioni sotto la soglia di povertà relativa. Dal Sistema Tessera Sanitaria è possibile identificare chi “incassa” la spesa a carico dei cittadini. Nel 2023, anno più recente a disposizione, i € 43 miliardi di spesa sanitaria privata sono così suddivisi: € 12,1 miliardi alle farmacie, € 10,6 miliardi a professionisti sanitari (di cui € 5,8 miliardi odontoiatri e € 2,6 miliardi ai medici), € 7,6 miliardi alle strutture private accreditate e € 7,2 miliardi al privato “puro”, ovvero alle strutture non accreditate e € 2,2 miliardi alle strutture pubbliche per libera professione e altro. Si tratta di numeri che fotografano con chiarezza che la privatizzazione della spesa sta determinando una progressiva uscita dei cittadini dal perimetro delle tutele pubbliche, con l’acquisto diretto sul mercato delle prestazioni necessarie. Secondo l’Annuario Statistico del Ministero della Salute, nel 2023 delle 29.386 strutture sanitarie censite, il 58% (n. 17.042) sono strutture private accreditate e il 42% (n. 12.344) strutture pubbliche. Il privato accreditato prevale ampiamente in varie tipologie di assistenza: residenziale (85,1%), riabilitativa (78,4%), semi-residenziale (72,8%) e, in misura minore, nella specialistica ambulatoriale (59,7%). Nell’assistenza residenziale il pubblico arretra del 19,1% mentre il privato accreditato cresce del 41,3%; nell’assistenza semi-residenziale il pubblico segna -11,7% a fronte di un aumento del 35,8% del privato. Nell’assistenza riabilitativa crescono entrambi, ma con percentuali molto diverse (+5,3% pubblico vs +26,4% privato). Infine, nell’altra assistenza territoriale, pur con un aumento assoluto più rilevante nel pubblico, il privato accreditato registra una crescita percentuale quasi doppia (+35,3% vs +18,6%). “Diverse Regioni, sottolinea il presidente della Fondazione GIMBE, hanno favorito un’eccessiva espansione del privato accreditato senza disporre di risorse adeguate, visto che l’imponente definanziamento del SSN ha mantenuto ferme le tariffe di rimborso delle prestazioni”. Per quanto riguarda, infine, il privato non convenzionato, ovvero le strutture sanitarie, prevalentemente di diagnostica ambulatoriale, che erogano prestazioni esclusivamente in regime privato, senza alcun rimborso a carico della spesa pubblica, negli ultimi anni vi è stata la crescita più marcata: tra il 2016 e il 2023 la spesa delle famiglie verso le strutture non convenzionate è aumentata del 137%, passando da € 3,05 miliardi a € 7,23 miliardi, con un incremento medio di circa € 600 milioni l’anno. Nello stesso periodo la spesa delle famiglie per il privato accreditato è cresciuta solo del 45%; di conseguenza il netto divario tra spesa delle famiglie verso il privato “puro” e verso il privato convenzionato si è praticamente azzerato passando da € 2,2 miliardi nel 2016 a soli € 390 milioni nel 2023. Qui per approfondire: https://www.gimbe.org/pagine/341/it/comunicati-stampa. Giovanni Caprio
Le lettere di pace della Flottilla dei Bambini del Mondo
Le Lettere di Pace, inviate da scuole italiane e straniere ai responsabili politici attraverso la “Flotilla dei bambini del mondo” – che continua a solcare il mare – hanno ormai superato le diverse migliaia, trasformandosi in un movimento pedagogico e civile che sorprende per maturità, partecipazione e profondità. Promossa dal Gruppo Educazione alla pace e alla nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa, con il sostegno di oltre quaranta associazioni nel mondo aderenti alla Federazione Internazionale dei Movimenti di Scuola Moderna, l’iniziativa ha coinvolto insegnanti e classi dagli asili alle scuole superiori, mostrando come l’educazione possa davvero diventare un laboratorio vivo di riflessione sulla pace. I docenti si sono assunti un ruolo ulteriore rispetto a quello tradizionale: non solo trasmettitori di contenuti, ma veri educatori alla pace. Hanno guidato alunne e alunni a interrogarsi sulle guerre che attraversano il pianeta, sulle responsabilità politiche e soprattutto sulle possibilità concrete di reagire, anche con un gesto semplice come la scrittura collettiva di una lettera. È nata così la pratica della “messa in mare” delle Lettere di Pace, un gesto simbolico e al tempo stesso concretissimo, perché quelle lettere sono finite sui tavoli di presidenti di organismi internazionali, figure apicali della politica europea e nazionale, amministratori locali e autorità morali come il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Papa Leone XIV, ai quali gli organizzatori sperano di poter chiedere un incontro con gli studenti. Il Presidente della CEI, cardinale Matteo Zuppi, ha incoraggiato apertamente il progetto, sottolineando come sia fondamentale riconoscere ai giovani il diritto di esprimersi sulla pace, sulla guerra e su tutte le questioni che riguardano il loro futuro. È un incoraggiamento che ha trovato eco nel testo con cui il Movimento ha invitato le classi ad aderire: fermare le guerre non è semplice ma la pace si costruisce ogni giorno, iniziando proprio a scuola, imparando ad ascoltarsi, a parlarsi, a risolvere i piccoli conflitti nel rispetto reciproco. Se le lettere viaggiano numerose, se i media ne danno conto, allora anche i politici non potranno ignorare il messaggio delle giovani generazioni, che immaginano il loro futuro con una sola parola: pace. In un mondo in cui l’Unione Europea e le Nazioni Unite, nati come strumenti di prevenzione dei conflitti, non riescono più a garantire una prospettiva stabile di disarmo e riconciliazione, la voce dei più piccoli risuona come un monito e un atto di fiducia. Le guerre continuano a devastare territori e vite, a cancellare speranze e diritti, e parlare di disarmo sembra sempre più un’utopia. Per questo le scuole sentono su di sé un compito nuovo e urgente: educare alla pace, alle relazioni nonviolente, alla ricerca della giustizia come fondamento della convivenza. La didattica democratica e cooperativa, tradizione storica del Movimento di Cooperazione Educativa, permette alle classi di discutere, approfondire e confrontarsi su temi di vita reale. Tutti possono contribuire con passione, entusiasmo e sensibilità, sentendosi parte di un percorso collettivo. È questo approccio che ha favorito un’adesione così ampia da rendere necessaria la proroga dell’iniziativa fino al termine dell’anno scolastico. Le classi potranno continuare a partecipare inviando le proprie lettere e condividendone copia all’indirizzo dedicato, mentre sul sito del MCE è disponibile l’area con i materiali didattici utili alle attività. Accanto alle Lettere di Pace proseguirà anche “Facciamo la pace a…”, il progetto nazionale e internazionale che invita bambini e ragazzi a costruire pace nei luoghi quotidiani: in casa, a scuola, con gli amici, attraverso la gestione nonviolenta dei contrasti. È un modo per far comprendere che la pace non è un concetto astratto né un compito delegato solo ai potenti, ma una responsabilità che si esercita ogni giorno nei gesti più semplici. Il percorso è guidato dal Gruppo Nazionale di Ricerca sull’Educazione alla Pace e alla Nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa, coordinato da Roberto Lovattini. Il MCE è riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione come ente qualificato per la formazione del personale scolastico, e questa iniziativa conferma il valore della sua azione educativa. In un tempo segnato da conflitti e polarizzazioni, le Lettere di Pace ricordano che un altro modo di guardare il mondo è possibile: basta ascoltare la voce limpida e determinata dei più giovani. Laura Tussi
Le nostre lotte valgono più dei vostri profitti
La repressione si abbatte contro il movimento per la Palestina a Catania Piovono a Catania misure cautelari e multe per decine di migliaia di euro nei confronti di attivist3 che hanno partecipato ai blocchi del porto e della stazione durante gli Scioperi Generali del 22 settembre e del 3 ottobre. Migliaia di persone in piazza, equipaggi di terra che hanno accompagnato dall’inizio alla fine la partenza delle navi verso Gaza dai porti siciliani e un corpo collettivo che ha risposto alla chiamata del “blocchiamo tutto”, partita dai portuali di Genova per rifiutare ogni complicità con il genocidio. La Costituzione e il ripudio della guerra ai tempi del genocidio e del riarmo diventano carta straccia; il Diritto internazionale e gli obblighi degli Stati di non concorrere nelle violazioni di diritti umani pure. Il genocidio non deve avere disturbatori: le cose, le merci e l’economia non contano nulla in confronto alle vite umane. Il blocco della produzione e dei transiti, storica pratica di ribellione contro le ingiustizie economico-sociali, diventa una questione di ordine pubblico. La crisi economica morde e il conflitto sociale organizzato va represso sul nascere. Il movimento in solidarietà della Palestina cresce in tutto il mondo e l’unico modo che i Governi hanno per cercare di fermarlo è la sua criminalizzazione. In Italia, come in Germania, in Inghilterra la deriva autoritaria corre alla velocità dei droni che ogni giorno incombono sulle teste di chi subisce l’occupazione coloniale e la distruzione in Palestina e in Cisgiordania. Non a caso sono in discussione disegni di legge che mirano a equiparare antisemitismo e antisionismo con ciò aggiungendo un ulteriore tassello alla deriva repressiva che il nostro Paese sta vivendo. Non è un caso che l’economia di guerra trovi consacrazione nella legge di bilancio. La guerra non è lontana: entra nelle nostre vite, nelle nostre buste paga, nei tagli ai servizi pubblici, nelle infrastrutture a pezzi, nella precarietà, nell’ipoteca del futuro delle giovani generazioni. La Palestina non solo è un laboratorio di colonialismo, violenza, società fondate sull’ipercontrollo tecnologica e lo sfruttamento delle risorse ma anche lo squarcio del velo sulla linea che i Governi non sono disposti a tollerare quando le piazze iniziano a dire “non nel nostro nome”. USB fa della solidarietà una pratica di lotta reale e rigetta al mittente l’antica tecnica del divide et impera che mira a spaccare i movimenti. Per queste ragioni siamo a fianco di tutti i multati e denunciati a Catania, tra cui nostri dirigenti sindacali e attivisti, ai quali abbiamo già offerto piena tutela legale: se toccano uno, toccano tutt3. Non ci faremo intimidire. Dal fiume al mare la solidarietà non la cancellate. Le nostre lotte valgono più dei vostri profitti.   Unione Sindacale di Base
Honduras: movimenti popolari respingono l’ingerenza statunitense nelle elezioni
Basta violazioni della sovranità nazionale! Ulteriori prove della frode Il 4 dicembre scorso organizzazioni indigene e contadine si sono mobilitate dai loro territori verso la capitale per denunciare e respingere l’ingerenza degli Stati Uniti nel processo elettorale appena svoltosi in Honduras, mettendo in guardia dal ritorno al potere di settori politici ed economici violenti e criminali. “Il processo elettorale nel nostro Paese dimostra la reale capacità degli Stati Uniti di influenzare la nostra fragile democrazia (…) Che la propaganda del presidente Trump abbia favorito il Partito nazionale, nonostante i suoi comprovati legami con il narcotraffico, è stato un atto palesemente d’ingerenza e violatorio della libera volontà dei popoli”, si legge nel comunicato delle organizzazioni che si sono radunate davanti al centro operativo del Consiglio nazionale elettorale (Cne). Seminare paura Pochi giorni prima del voto, il presidente statunitense ha rotto il silenzio elettorale con un messaggio pubblicato sul suo account Truth Social, in cui annunciava il suo sostegno incondizionato al candidato del Partito nazionale, Nasry Asfura, definendo “quasi comunista” e “poco affidabile” il candidato del Partito liberale, Salvador Nasralla, e “comunista” e “ammiratrice di Fidel Castro” la sua avversaria del partito di governo Libertà e Rifondazione (Libre), Rixi Moncada. Poco dopo, il presidente argentino di estrema destra Javier Milei si è unito all’appello di Trump. Il giorno seguente, lo stesso Trump ha gettato benzina sul fuoco annunciando che avrebbe graziato l’ex presidente honduregno Juan Orlando Hernández, condannato a 45 anni di carcere per reati legati al traffico di droga. In caso di sconfitta di Asfura, gli Stati Uniti non avrebbero più investito nel Paese, tanto meno – ha scritto – se avesse vinto Moncada. Il giorno dopo le elezioni, il leader statunitense ha pubblicato nuovamente minacce contro coloro che starebbero organizzando una frode per impedire la vittoria del candidato nazionalista. Mai, nella storia elettorale dell’Honduras, si era vista un’ingerenza straniera così grossolana e sfacciata come quella attuale, con il silenzio complice delle missioni di osservazione internazionale. Con l’88% dei voti trasmessi, Asfura è in testa alle elezioni presidenziali honduregne, con un margine di 20 mila voti su Nasralla. “Non ci piegheranno” Mentre i candidati del bipartitismo e della destra tradizionale si scambiano accuse e si proclamano vincitori, Rixi Moncada e Libre denunciano brogli attraverso la manipolazione del sistema di trasmissione dei risultati preliminari (Trep), l’ingerenza straniera e l’alterazione dei verbali. “La manovra è grossolana: un intervento straniero sfacciato, minaccioso, ingiusto e infame per distorcere la volontà popolare e frenare Rixi”, attacca dal suo account X  l’ex presidente Manuel Zelaya. “Signor Donald Trump, lei non ci intimidisce, abbiamo resistito a colpi di Stato, frodi monumentali, omicidi politici e persecuzioni. Se siamo sopravvissuti alla narcodittatura, crede che un suo tweet ci piegherà?”, ha aggiunto. Per l’analista politico Óscar Chacón, intervistato dal Diario Uchile, l’atteggiamento del presidente statunitense rivela una forte contraddizione. “C’è tutta una narrativa che cerca di creare l’immagine di (Nicolás) Maduro come un capo di Stato a capo di un’organizzazione narcoterroristica, senza che fino ad oggi siano state presentate prove convincenti al riguardo. Allo stesso tempo, negli Stati Uniti viene liberata una persona su cui esiste una quantità monumentale di prove che dimostrano che ha introdotto enormi quantità di cocaina negli Stati Uniti”. Venti di frode Le organizzazioni indigene e contadine hanno puntato il dito contro “l’ipocrita lotta internazionale contro il narcotraffico” e hanno denunciato la “liberazione del narco-dittatore Juan Orlando Hernández” che, insieme al suo partito, “ha trasformato l’Honduras in uno Stato narco, strumentalizzando le istituzioni per affari criminali e la proliferazione di gravi violazioni dei diritti umani”. Il comunicato del movimento popolare honduregno indica anche i due partiti tradizionali che si contendono il potere come “responsabili storici della povertà e dell’ingiustizia che affliggono l’Honduras”. In questo senso, hanno chiesto il rispetto della volontà sovrana del popolo honduregno, la garanzia di uno scrutinio rigoroso e l’attribuzione delle responsabilità alla consigliera del Cne, Cossette López, e a tutte le persone responsabili delle cospirazioni contro il processo elettorale. Nelle settimane precedenti alle elezioni, il consigliere del Cne, Marlon Ochoa, aveva denunciato l’esistenza di un piano orchestrato dall’opposizione per destabilizzare il processo elettorale. Diverse registrazioni audio coinvolgevano López, il capogruppo del Partito nazionale, Tomás Zambrano, e un membro delle Forze armate. Ieri (4/12), lo stesso Ochoa ha tenuto una conferenza stampa per denunciare quello che considera un colpo di Stato elettorale (qui il comunicato ufficiale). Su 15.297 verbali trasmessi, 13.246 (86,6%) presentano errori e incongruenze tra la registrazione biometrica e il contenuto del verbale trasmesso tramite il Trep. La differenza ammonta a oltre 982 mila voti. Inoltre, Ochoa ha spiegato che è stato rilevato che il Trep non leggeva né interpretava correttamente i numeri dei voti scritti a mano nei verbali e che trasferiva i voti da un candidato all’altro o da un partito all’altro. Ha anche denunciato che 16.615 verbali sono stati trattenuti all’interno del sistema per 40 ore, la pagina di divulgazione dei risultati è rimasta inattiva per diverse ore e ha subito continue interruzioni. “Una matematica fatta su misura per il bipartitismo con il sostegno pubblico di Washington”, ha affermato il consigliere. Per Ochoa si tratterebbe di una “operazione coordinata tra forze interne alla leadership del bipartitismo e un’ingerenza straniera alleata, che sta imponendo una decisione elettorale che spetta solo al popolo sovrano”. Appello all’unità Le organizzazioni sociali si sono mobilitate verso l’ambasciata degli Stati Uniti a Tegucigalpa, dove hanno lanciato un appello alle organizzazioni contadine, operaie, indigene, femministe e ambientaliste del Paese affinché consolidino la più ampia unità popolare, “per costruire un programma di lotta e difendere l’autodeterminazione dei nostri popoli e territori”. “Si tratta di una flagrante violazione della sovranità nazionale e di un tentativo di plasmare la percezione pubblica e la stabilità sociale in un momento critico per l’Honduras. È inaccettabile che i messaggi di altri Stati vengano utilizzati per esercitare pressioni, influenzare o condizionare l’esito politico dell’Honduras”, ha avvertito Wendy Cruz della Vía Campesina Honduras. “Denunciamo una frode e una manipolazione mediatica che si sta preparando da giorni da parte dei gruppi di potere nazionali e degli Stati Uniti, che stanno giocando un ruolo determinante nelle elezioni”, ha detto Bertha Zúniga, coordinatrice del Copinh. “Non possiamo rimanere in silenzio”, ha continuato, “invitiamo tutte le persone consapevoli a unirsi a questa protesta, perché stanno tornando al potere le strutture criminali che stanno dietro a questi candidati. Dobbiamo alzare la voce!”.   Fonte: LINyM (spagnolo) Giorgio Trucchi
Negato il teatro all’evento “Democrazia in tempo di guerra”, le reazioni
Ferrero (PRC): la prima vittima della guerra è la democrazia! Ma noi non ci arrendiamo e pratichiamo una escalation di democratica. Martedì sit-in di protesta in piazza palazzo di città. “Quello che sta accadendo a Torino da un po’ di tempo a questa parte evidenzia come la prima vittima della guerra siano la verità, la libertà e la democrazia. Com’è noto, il Professor Angelo D’Orsi – in seguito a pressioni politiche –  non aveva potuto tenere la conferenza contro la russofobia al Polo del ‘900 un mese fa e quindi l’iniziativa venne riorganizzata presso il circolo ARCI La poderosa, con una grande partecipazione popolare. Oggi apprendiamo che il Teatro Grande Valdocco, che era stato affittato al Circolo ARCI della Poderosa per tenervi martedi 9 dicembre, una Conferenza dal titolo “Democrazia in tempo di guerra” a cui avrebbero partecipato Alessandro Barbero e Angelo D’Orsi, non è più disponibile. A questo punto è del tutto evidente che la prima vittima della guerra è la democrazia. Ma noi non ci arrendiamo e pratichiamo una escalation democratica. Invitiamo tutti i cittadini e le cittadine a partecipare Martedì prossimo 9 dicembre alle ore 18 al sit in di protesta che si terrà nella piazza Palazzo di città ed a prepararsi a partecipare alla nuova organizzazione del dibattito tra Barbero e D’Orsi, che si terrà in una location ovviamente molto più grande di quella prevista. Perché ai ladri di democrazia rispondiamo allargando la democrazia e la partecipazione popolare.” Redazione Torino
Negato il teatro all’evento “Democrazia in tempo di guerra”, il comunicato di Angelo D’Orsi
A pochi giorni dall’evento “Democrazia in tempo di guerra. Disciplinare la cultura e la scienza, censurare l’informazione”, previsto per il giorno 9 dicembre al Teatro Grande Valdocco di Torino, nel quale il sottoscritto avrebbe dialogato con il collega Alessandro Barbero, con l’adesione di importanti nomi della cultura, della scienza, del giornalismo, della comunicazione (Elena Basile, Alberto Bradanini, Luciano Canfora, Alessandro Di Battista, Donatella Di Cesare, Margherita Furlan, Enzo Iacchetti, Marc Innaro, Roberto Lamacchia, Tomaso Montanari, Piergiorgio Odifreddi, Moni Ovadia, Marco Revelli, Carlo Rovelli, Vauro Senesi, Marco Travaglio), ci viene comunicato questa mattina dalla proprietà del teatro, col quale si era giunti alla firma di un regolare contratto dopo una lunga gestazione, che lo spazio non ci verrà concesso. Al di là delle motivazioni pretestuose e della rottura unilaterale di un regolare contratto – per cui abbiamo già allertato il nostro team legale per avviare azione di richiesta risarcitoria dei danni che questo comportamento ci procura – non possiamo non rilevare che il fatto conferma perfettamente le nostre preoccupazioni sulla limitazione degli spazi di libertà nel Paese e in generale l’inquietante deriva politica e culturale di una democrazia ormai palesemente illiberale, a dispetto della facciata. Di questo avremmo voluto parlare nel corso della serata. Intanto mentre a nome dei soggetti organizzatori, che hanno lavorato per settimane per preparare l’evento, esprimo rammarico a chi aveva prenotato i posti, e a quanti, colleghi e amici che avevano data la loro disponibilità, a partecipare (a cominciare dal prof. Barbero), chiedo a quanti mi sono stati vicini in questo mese di “passione”, a quanti hanno a cuore i principi della legalità democratica sancita dalla nostra Costituzione, a quanti anelano soltanto ad essere correttamente informati, per poter assumere una posizione in merito alle gravissime problematiche del nostro tempo, di sostenermi in questo nuovo capitolo di lotta. Ancora una volta non si tratta solo di Angelo d’Orsi, ma di coloro che, esponendosi in prima persona, mirano semplicemente a esprimere il loro pensiero anche quando esso non sia “in linea” con quello dei poteri forti, palesi o occulti che siano. In ogni caso, l’evento si terrà. Nei primi giorni della prossima settimana comunicheremo data e luogo. Però, intanto, annuncio che alle 18.00 del 9 dicembre, nel giorno dell’evento negato, faremo un sit-in di protesta davanti alla sede del Comune di Torino, come luogo simbolo di una città che è di tutti, e deve essere di tutti, una città medaglia d’oro della Resistenza, la città di Gramsci e di Gobetti, per semplificare, di Norberto Bobbio e di Gastone Cottino, e di tanti e tante che si sono battuti per la libertà. Redazione Torino
Movimenti popolari respingono l’ingerenza statunitense nelle elezioni
Il 4 dicembre scorso, organizzazioni indigene e contadine si sono mobilitate dai loro territori verso la capitale per denunciare e respingere l’ingerenza degli Stati Uniti nel processo elettorale appena svoltosi in Honduras, mettendo in guardia dal ritorno al potere di settori politici ed economici violenti e criminali. “Il processo elettorale nel nostro Paese dimostra la reale capacità degli Stati Uniti di influenzare la nostra fragile democrazia (…) Che la propaganda del presidente Trump abbia favorito il Partito nazionale, nonostante i suoi comprovati legami con il narcotraffico, è stato un atto palesemente d’ingerenza e violatorio della libera volontà dei popoli”, si legge nel comunicato delle organizzazioni che si sono radunate davanti al centro operativo del Consiglio nazionale elettorale (Cne). Seminare paura Pochi giorni prima del voto, il presidente statunitense ha rotto il silenzio elettorale con un messaggio pubblicato sul suo account Truth Social, in cui annunciava il suo sostegno incondizionato al candidato del Partito nazionale, Nasry Asfura, definendo “quasi comunista” e “poco affidabile” il candidato del Partito liberale, Salvador Nasralla, e “comunista” e “ammiratrice di Fidel Castro” la sua avversaria del partito di governo Libertà e Rifondazione (Libre), Rixi Moncada. Poco dopo, il presidente argentino di estrema destra Javier Milei si è unito all’appello di Trump. Il giorno seguente, lo stesso Trump ha gettato benzina sul fuoco annunciando che avrebbe graziato l’ex presidente honduregno Juan Orlando Hernández, condannato a 45 anni di carcere per reati legati al traffico di droga. In caso di sconfitta di Asfura, gli Stati Uniti non avrebbero più investito nel Paese, tanto meno – ha scritto – se avesse vinto Moncada. Il giorno dopo le elezioni, il leader statunitense ha pubblicato nuovamente minacce contro coloro che starebbero organizzando una frode per impedire la vittoria del candidato nazionalista. Mai, nella storia elettorale dell’Honduras, si era vista un’ingerenza straniera così grossolana e sfacciata come quella attuale, con il silenzio complice delle missioni di osservazione internazionale. Con l’88% dei voti trasmessi, Asfura è in testa alle elezioni presidenziali honduregne, con un margine di 20 mila voti su Nasralla. “Non ci piegheranno” Mentre i candidati del bipartitismo e della destra tradizionale si scambiano accuse e si proclamano vincitori, Rixi Moncada e Libre denunciano brogli attraverso la manipolazione del sistema di trasmissione dei risultati preliminari (Trep), l’ingerenza straniera e l’alterazione dei verbali. “La manovra è grossolana: un intervento straniero sfacciato, minaccioso, ingiusto e infame per distorcere la volontà popolare e frenare Rixi”, attacca dal suo account X  l’ex presidente Manuel Zelaya. “Signor Donald Trump, lei non ci intimidisce, abbiamo resistito a colpi di Stato, frodi monumentali, omicidi politici e persecuzioni. Se siamo sopravvissuti alla narcodittatura, crede che un suo tweet ci piegherà?”, ha aggiunto. Per l’analista politico Óscar Chacón, intervistato dal Diario Uchile, l’atteggiamento del presidente statunitense rivela una forte contraddizione. “C’è tutta una narrativa che cerca di creare l’immagine di (Nicolás) Maduro come un capo di Stato a capo di un’organizzazione narcoterroristica, senza che fino ad oggi siano state presentate prove convincenti al riguardo. Allo stesso tempo, negli Stati Uniti viene liberata una persona su cui esiste una quantità monumentale di prove che dimostrano che ha introdotto enormi quantità di cocaina negli Stati Uniti”. Venti di frode Le organizzazioni indigene e contadine hanno puntato il dito contro “l’ipocrita lotta internazionale contro il narcotraffico” e hanno denunciato la “liberazione del narco-dittatore Juan Orlando Hernández” che, insieme al suo partito, “ha trasformato l’Honduras in uno Stato narco, strumentalizzando le istituzioni per affari criminali e la proliferazione di gravi violazioni dei diritti umani”. Il comunicato del movimento popolare honduregno indica anche i due partiti tradizionali che si contendono il potere come “responsabili storici della povertà e dell’ingiustizia che affliggono l’Honduras”. In questo senso, hanno chiesto il rispetto della volontà sovrana del popolo honduregno, la garanzia di uno scrutinio rigoroso e l’attribuzione delle responsabilità alla consigliera del Cne, Cossette López, e a tutte le persone responsabili delle cospirazioni contro il processo elettorale.   Nelle settimane precedenti alle elezioni, il consigliere del Cne, Marlon Ochoa, aveva denunciato l’esistenza di un piano orchestrato dall’opposizione per destabilizzare il processo elettorale. Diverse registrazioni audio coinvolgevano López, il capogruppo del Partito nazionale, Tomás Zambrano, e un membro delle Forze armate. Ieri (4/12), lo stesso Ochoa ha tenuto una conferenza stampa per denunciare quello che considera un colpo di Stato elettorale (qui il comunicato ufficiale). Su 15.297 verbali trasmessi, 13.246 (86,6%) presentano errori e incongruenze tra la registrazione biometrica e il contenuto del verbale trasmesso tramite il Trep. La differenza ammonta a oltre 982 mila voti. Inoltre, Ochoa ha spiegato che è stato rilevato che il Trep non leggeva né interpretava correttamente i numeri dei voti scritti a mano nei verbali e che trasferiva i voti da un candidato all’altro o da un partito all’altro. Ha anche denunciato che 16.615 verbali sono stati trattenuti all’interno del sistema per 40 ore, la pagina di divulgazione dei risultati è rimasta inattiva per diverse ore e ha subito continue interruzioni. “Una matematica fatta su misura per il bipartitismo con il sostegno pubblico di Washington”, ha affermato il consigliere. Per Ochoa si tratterebbe di una “operazione coordinata tra forze interne alla leadership del bipartitismo e un’ingerenza straniera alleata, che sta imponendo una decisione elettorale che spetta solo al popolo sovrano”. Appello all’unità Le organizzazioni sociali si sono mobilitate verso l’ambasciata degli Stati Uniti a Tegucigalpa, dove hanno lanciato un appello alle organizzazioni contadine, operaie, indigene, femministe e ambientaliste del Paese affinché consolidino la più ampia unità popolare, “per costruire un programma di lotta e difendere l’autodeterminazione dei nostri popoli e territori”. “Si tratta di una flagrante violazione della sovranità nazionale e di un tentativo di plasmare la percezione pubblica e la stabilità sociale in un momento critico per l’Honduras. È inaccettabile che i messaggi di altri Stati vengano utilizzati per esercitare pressioni, influenzare o condizionare l’esito politico dell’Honduras”, ha avvertito Wendy Cruz della Vía Campesina Honduras. “Denunciamo una frode e una manipolazione mediatica che si sta preparando da giorni da parte dei gruppi di potere nazionali e degli Stati Uniti, che stanno giocando un ruolo determinante nelle elezioni”, ha detto Bertha Zúniga, coordinatrice del Copinh. “Non possiamo rimanere in silenzio”, ha continuato, “invitiamo tutte le persone consapevoli a unirsi a questa protesta, perché stanno tornando al potere le strutture criminali che stanno dietro a questi candidati. Dobbiamo alzare la voce!”. (foto Luis Méndez) Fonte: LINyM (spagnolo) Giorgio Trucchi
I libri sono liberi, ma le opinioni non sempre lo sono
Evidentemente l’Italia ha maturato un problema con i libri. E’ un problema che ha sempre avuto, ma in questi anni si è acutizzato. Non tanto perchè fanno discutere per i loro contenuti, ma perchè fa discutere ciò che rappresentano spesso politicamente. Hanno fatto discutere a partire da chi li ha scritti, dalle opinioni degli scrittori, o lo hanno fatto a partire dai contenuti del libro stesso. Abbiamo anche un problema di schizofrenia con la democrazia, il fascismo, l’antifascismo, la libertà d’espressione e la censura. Problemi che in questi anni ritornano periodicamente al centro del dibattito perchè evidentemente non si sanno gestire. Uso il termine schizofrenia perchè evidentemente ogni anno diventa sempre più patologico. Sembra che non si riesca più a distinguere ciò che è fascista da ciò che non lo è, libertà d’espressione da ciò che non lo è, censura da ciò che non lo è, democrazia da ciò che non lo è. Tutto questo accompagnato da comportamenti confusionari: un anno si critica uno scrittore per le sue opinioni e si invita alla censura; un anno si invita uno scrittore a non presentarsi ad un festival pur essendo stato invitato; un anno nel silenzio assoluto viene esclusa una casa editrice dichiaratamente antifascista dal Salone del Libro di Torino senza che non troppe voci mediatiche si levino in aiuto; un anno alcuni scrittori fanno un appello in contrarietà alla presenza di una casa editrice dichiaratamente fascista senza essere ascoltati. Tutto questo sembra un teatro, una commedia senza trama di cui si intuisce il contenuto e si ignora la conclusione, perchè la fine è sempre diversa: un misero spettacolo da cui si può indagare la salute della nostra democrazia. I fatti recenti, dopo l’appello – firmato tra gli altri da Alessandro Barbero, Anna Foa, Antonio Scurati, Carlo Ginzburg, Giovanni De Mauro, Christian Raimo e Zerocalcare – per chiedere di escludere dall’evento “Passaggio al Bosco”, la casa editrice che pubblica scritti di e su Mussolini, Degrelle, Codreanu e neofascismo, ce lo manifestano senza tante sfumature. Ciò che mi riporta alla mente sono episodi simili che negli ultimi vent’anni l’Italia ha vissuto su questo tema. Nel 2008 il Salone del Libro di Torino dedicò la sua edizione ad Israele “per i sessanta anni della sua nascita”. Un evento percepito mediaticamente come festoso ed importante che solo qualcuno seppe contestare. Il Forum Palestina e altre reti solidali con i palestinesi, organizzarono una efficace campagna di boicottaggio che aprì un discussione a tutto campo nel mondo della cultura e della politica. Moltissimi scrittori, palestinesi e non solo, decisero di non partecipare perchè non aveva senso che una democrazia come l’Italia dedicasse un evento culturale alla nascita di un Paese nato sulla pulizia etnica da parte di gruppi d’estrema destra sionisti e la Nakba del 1948 del popolo palestinese, al quale – già all’epoca – imponeva di vivere in un sistema di apartheid razzista e coloniale fatto di violenza e soprusi quotidiani e repressione militare sistematica. Conclusione: non troppo clamore mediatico e il mondo della cultura italiana celebrava Israele senza che nessuno si indignasse per la sua storia. Nel 2011 nel Veneto leghista, l’allora assessore alla cultura della Provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, iniziava una crociata una serie di scrittori italiani invitando alla censura dei loro testi: “Via quegli autori dalle biblioteche pubbliche” – disse pubblicamente. La loro colpa era aver firmato nel 2004 un appello per la liberazione e l’indulto a Cesare Battisti, combattente militante negli anni Settanta nei Proletari Armati per il Comunismo (PAC), organizzazione italiana della lotta armata di estrema sinistra. Fu così che si chiedeva che gli “scrittori pro-Battisti” – così vennero chiamati – venissero messi al bando nelle scuole. “Non chiediamo nessun rogo di libri, intendiamoci. Semplicemente inviteremo tutte le scuole del Veneto a non adottare, far leggere o conservare nelle biblioteche i testi diseducativi degli autori che hanno firmato l’appello a favore di Cesare Battisti”, disse l’assessore regionale all’istruzione Elena Donazzan, 39 anni di Bassano del Grappa, fervente cattolica del PDL, con alle spalle una militanza nel Fronte della Gioventù e un passaggio in An. “Un boicottaggio civile è il minimo che si possa chiedere davanti ad intellettuali che vorrebbero l’impunità di un condannato per crimini aberranti”, sbottava annunciando una lettera a tutti i presidi, mentre nelle biblioteche comunali, nel silenzio generale, stavano sparendo le opere degli autori politicamente scomodi. Donazzan, nota alle cronache regionali per aver deciso di donare a tutti gli scolari delle elementari una copia della Bibbia, dichiarò: “Un autore, un intellettuale, esiste per quello che scrive. Questo è il suo ruolo nella società. Quella a favore di Battisti non è stata una petizione popolare. Ci troviamo davanti a un messaggio aberrante lanciato da intellettuali. A favore di un personaggio che si è macchiato dei peggiori crimini di sangue. L’unica cosa che possiamo fare è boicottare i loro libri. Smettere di leggerli. Non accoglierli nelle biblioteche pubbliche e nelle scuole. (20 gennaio 2011)”. In seguito, a chiederne ufficialmente la censura nelle scuole, era stato l’assessore regionale con l’appoggio del presidente della Regione Luca Zaia, che definì la vicenda di Battisti “abominevole”: “I delinquenti vanno messi in galera, non lasciati liberi”. Intanto casi di censura leghista, strisciante o esplicita, venivano denunciati da alcuni bibliotecari veneti. A venire sconsigliati erano soprattutto i libri di Roberto Saviano. Soddisfatto di aver sollevato “un gran vespaio”, come lo definì lui, l’assessore provinciale Speranzon disse che “Era proprio quello che volevo” anche se poi la presidente della Provincia, la leghista Francesca Zaccariotto, fu costretta a fargli fare marcia indietro. Riassumendo: dei politici locali decisero che era giusto censurare i libri di alcuni scrittori ed intellettuali, che non avevano violato nella regola della nostra fantomatica “democrazia”, solo perchè avevano chiesto in un appello la liberazione di un guerrigliero politico degli anni Settanta, oltre alla richiesta di fare pace con la travagliata storia degli Anni di Piombo, di “assalto al cielo” e di radicalità delle masse. L’azione dei politici leghisti locali fu sicuramente fascista e antidemocratica che violava il diritto alla libertà d’espressione e limitava la diffusione di cultura. Questi politici volevano censurare dei libri sulla base di una loro politicizzazione strumentale di alcuni fatti passati, fondata sulla loro opinione che volevano trasmutare in convinzione di massa. Le opinioni, proprio perchè tali, sono sempre di bassa lega rispetto ai pensieri strutturati e argomentati con cognizione di causa. Ma la storia non finisce qui. Nel 2019, Wu Ming 4 che avrebbe dovuto presentare al Salone del Libro di Torino l’antologia di suoi scritti su “J.R.R. Tolkien Il Fabbro di Oxford” edito da Eterea, decide di annullare la sua presentazione in quanto al Salone del Libro sarebbe stata presente uno stand Altaforte, di fatto la casa editrice di CasaPound, organizzazione d’estrema destra occupante di un palazzo del Ministero dell’Interno che nessuno ha mai sognato di sgomberare. Nei giorni prima la notizia aveva suscitato molte critiche ed esortazioni a tenere fuori dalla kermesse una presenza platealmente neofascista. Dello stesso avviso anche il fumettista ZeroCalcare, che scrisse: “oggettivamente sta roba prima non sarebbe mai successa. Qua ogni settimana spostiamo un po’ l’asticella del baratro”. Come ha risposto il Comitato d’indirizzo del Salone? Con un comunicato che in sostanza dice: “CasaPound non è fuorilegge, dunque può stare al Salone, basta che paghi”. Non tutti seguirono l’esempio, il saggista Christian Raimo, dimessosi da consulente del Salone del Libro, decise di esserci lo stesso “soprattutto per parlare, discutere, ascoltare, e contestare. Ogni spazio pubblico è un campo di battaglia”. Un’opinione condivisibile, soprattutto se il motivo era provare coi propri mezzi a non normalizzare quella presenza inquietante. Riassumendo: Il Salone del Libro decide di invitare una casa editrice di stampo neofascista perchè CasaPound non è fuori legge, ma si dimentica di due punti fondamentali: la Legge Mancino (1993), che punisce l’incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, inclusi gesti e simboli; e la Legge Scelba (1952) che vieta la ricostituzione del disciolto Partito Fascista e punisce l’apologia del fascismo, condannando manifestazioni, propaganda e organizzazioni che ne richiamino principi o metodi, con la Mancino che funge da norma sussidiaria per condotte meno specificamente fasciste ma discriminatorie. Questo basterebbe per dire che il neofascismo non è un’opinione tra le altre e che la sua apologia è reato. Nel 2021, invece, al Salone del Libro di Torino succede qualcosa di estremamente insolito: l’esclusione della casa editrice udinese Kappa Vu da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia (con la famigerata Mozione 50) dalla partecipazione al “Salone del libro” di Torino previsto dal 14 al 18 ottobre 2021. La comunicazione è avvenuta non con una comunicazione scritta ma con una telefonata, non alla casa editrice diretta interessata, ma all’Associazione di editori di cui Kappa Vu fa parte, con l’avvertimento di esclusione di tutti gli altri editori appartenenti all’Associazione. Si tratta di un fatto gravissimo un fatto grave: una decisione avvenuta in base ad un “giudizio di merito” dal punto di vista politico da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia, sulle pubblicazioni della casa editrice stessa in merito alle esecrabili vicende del confine orientale e sulle foibe. Non si tratta di una casa editrice qualunque, ma una casa editrice che pubblica libri su argomenti storici importanti: l’occupazione fascista della Jugoslavia, l’italianizzazione fascista delle terre slave, la resistenza antifascista jugoslava, le foibe, le amnesie di Stato italiane sulle vicende del Confine Orientale, l’antislavismo fascista, i campi di concentramento fascisti dove vennero rinchiusi e sterminate le popolazioni slave etc. La politica non potrebbe operare discriminazioni sulla base di pubblicazioni non ritenute “proprie”. L’Anpi Udine con il coordinatore Dino Spanghero affermò: “inaccettabile e antidemocratico, una violazione della libertà di stampa sancita dalla Costituzione”. Conclusione: evidentemente la Regione Friuli Venezia Giulia ha delle simpatie revisioniste della storia a tal punto da impedire la presenza di una casa editrice che, attraverso la ricerca storica, ha dichiarato guerra al revisionismo storico. Interessante che il Salone del Libro non si sia espresso…. Per concludere, l’art. 21 della nostra Costituzione afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, essendo il pluralismo delle idee e dei pensieri, e non la censura, patrimonio delle società democratiche. Un conto è esprimere la propria opinione libera; un conto è imporre forzatamente la propria opinione pensando che debba essere legge; un conto è dichiararsi fascisti e, in quanto tale, pretendere di avere voce in capitolo; un conto è accettare che i fascisti possano essere normalizzati in quanto agenti d’opinione; un conto è escludere chi la pensa diversamente a prescindere proprio per il suo pensiero; un conto è esporsi per chiedere democraticamente chiarimenti su fatti democraticamente inspiegabili come appunto la presenza di case editrici apertamente schierate Credo che sia urgente più che mai discutere ampiamente sui temi della libertà di espressione, dei valori dell’antifascismo e sul fatto che l’apologia di fascismo sia reato. Un questione che prima o poi si dovrà affrontare se vogliamo continuare a vivere in un clima pacifico di dialogo. Lorenzo Poli