Cybertech 2025: la fiera delle vanità e il genocidio in Palestina
Abbiamo intervistato Roberto Pozzi, vice-presidente dell’area sud-Europa
dell’israeliana Check Point Software Technologies Ltd., quarta per performance
tra le 106 aziende israeliane quotate nei mercati finanziari USA. La Check
Point, impegnata sempre più anche sul versante della ricerca e sviluppo dei
sistemi di Intelligenza Artificiale, è tra le numerose aziende informatiche
collaboratrici dirette o indirette del governo d’Israele e del suo esercito e
presenti a Roma il 21 e 22 ottobre alla fiera Cybertech Europe, fondata e
promossa da Leonardo S.p.A. a sua volta colosso europeo e mondiale nella
produzione di armi, partecipata al 30% dallo Stato Italiano.
Check Point Technologies Ltd. vende prodotti per la sicurezza informatica in
rete in tutto il mondo, (anche, ovviamente) a istituzioni pubbliche “benefiche”
come il National Health Service del Regno Unito; tuttavia, la terza più grande
compagnia israeliana di I.T., come del resto la maggior parte delle industrie in
quel Paese, è strettamente intrecciata anche con gli apparati militari e di
sicurezza, oltre che con importanti centri di ricerca universitari locali ed
esteri, dato il tacito patto di ferro, dal ’48 ad oggi, tra industria, ricerca e
apparati militari. Molti dei top-manager di Check Point, infatti, come Nadav
Zafrir, nominato a fine 2024 alla carica di amministratore delegato, hanno
militato nella cyber-intelligence dell’esercito israeliano prima di iniziare la
carriera nel settore privato.
Il Comando Cibernetico delle Forze di Difesa Israeliane fondato, appunto, da
Zafrir e il comando dell’Unità d’élite 8200, dove lo stesso ha poi prestato
servizio fino al grado di Generale di Brigata, a sua volta triangola con alcune
delle più grandi aziende di armi israeliane, tra cui il produttore di droni
Israel Aerospace Industries (IAI). Questo comando, peraltro, a dispetto, del
nome che include, come nell’acronimo IDF (Israel Defence Forces) adottato a
partire dal 1998 in funzione di “war-washing”, il concetto di “difesa”, agisce
strutturalmente e parallelamente, accanto a quello di “offesa” in quanto: “al
fine di assicurare il suo successo, la dottrina delle IDF a livello strategico è
difensiva, mentre le sue tattiche sono offensive. Inoltre, data la mancanza di
profondità territoriale del Paese, le IDF devono prendere l’iniziativa quando la
cosa è ritenuta necessaria e, se attaccato, trasferire rapidamente il campo di
battaglia sul territorio del nemico”.
Quest’ultima descrizione sembrerebbe tratta da un manuale di scuola di guerra
israeliano e invece si scopre che è di uso comune, tanto che la si può leggere
anche sul sito italiano, Italia Kosher, che si occupa di tutt’altro, ovvero di
pubblicizzare la produzione vitivinicola israeliana in Italia. Ignaro di tutto
ciò, il concetto di “difesa” è stato ribadito più volte proprio dall’alto
dirigente della Check Point, il quale, dopo un primo tentennamento al solo
sentire citare, all’interno della domanda che chiedeva conto di questi legami
opachi, i termini genocidio e apartheid, decide di puntare verso i concetti più
neutrali ed edulcorati, appunto, di “difesa/protezione dei dati”, svincolandosi
dallo spinoso tema militare o del semprevivo concetto di “dual-use”.
“Siamo un’azienda globale” esordisce Pozzi “con, è vero, una sede anche in
Israele (in realtà qui è nata e qui ha il suo quartier generale n.d.r.) e
abbiamo un obiettivo unico, quello di difendere le aziende dagli attacchi
informatici. Tutto ciò che è al di fuori di questo contesto mi è difficile
contestualizzarlo o commentarlo. Non abbiamo nessuna velleità di passare sul
lato opposto, verso un ruolo offensivo. Le persone che fanno questo lavoro in
Israele lo fanno con la coscienza che il primo obiettivo è quello della difesa
delle aziende”.
Cercando quindi di riportare il discorso sui legami tra la Check Point e
l’apparato bellico-industriale, Pozzi prosegue così: “Sono italiano e quindi
sono lontano da questi contesti. Posso assicurarle che a) in azienda non
parliamo mai di contesti bellici b) il nostro focus è solo la difesa e la
protezione dei dati aziendali. Poi certamente in questo contesto generale c’è un
ambito bellico che si svolge in superficie, la guerra tradizionale e una guerra
che si fronteggia invece con la protezione informatica”.
Insistendo, invece, sui sistemi di riconoscimento facciale con i quali grazie
all’uso dell’A.I. “è possibile identificare una vasta gamma di comportamenti
anomali, inclusi risse, cadute, mani alzate e la presenza di oggetti in mano”
(descrizione presente proprio nel sito web di Check Point n.d.r.) oppure le
profilazioni dei target militari, l’uso bellico dei data base e il loro supporto
all’apparato bellico che proprio grazie all’AI possono colpire persone
specifiche, Pozzi afferma: “lo posso smentire categoricamente, ma non ho altri
elementi per giudicare questo contesto. Certamente attraverso la nostra
struttura passa una grossa mole di dati, questo non posso nasconderlo, ma che
poi noi li passiamo ad altri che hanno intenti bellicosi lo escludo a priori.
L’esercito israeliano è un cliente come ce ne sono tanti in giro per il mondo.
Ma, mi creda, Israele ha sempre dimostrato in tutti questi anni di essere sempre
sul lato della difesa”.
L’intervista è durata poco più di quattro minuti e avremmo voluto ricordare più
nel dettaglio il ruolo dell’attuale “capo” di Roberto Pozzi, per esempio proprio
nell’Unità di Elite 8200 che a partire dalle clamorose operazioni militari del
2010 è arrivato ad un punto di avanzamento tecnologico tale da riuscire, tramite
il software Stuxnet, a infliggere a diversi obiettivi dei danni anche fisici e
materiali. Quindi ben al di là del “semplice” danno informatico, come è stato
dimostrato nell’attacco rivolto ai sistemi di arricchimento dell’uranio su suolo
iraniano a migliaia di chilometri di distanza. Sempre volendo spostare la foglia
di fico del concetto di “difesa”, il sistema di attacco cibernetico israeliano è
passato di recente dagli attacchi mirati a quelli “sistemici” su infrastrutture
civili come ad esempio quello del 2021, rivolto addirittura contro 4.300
stazioni di servizio in Iran, messe fuori uso nell’elaborazione dei pagamenti:
ciò dimostra ancora una volta le potenzialità e noi diremmo l’intenzionalità
offensiva israeliana, in grado di avere conseguenze dirette non solo sulle
infrastrutture, ma anche sui servizi ai cittadini, agli utenti finali.
Come altre parti del settore hi-tech israeliano, inoltre, come tutte quelle
aziende che realizzano un profitto dall’industria dei droni di Israele, la Check
Point trae profitto da quel tragico “incubatore” fornitogli da 80 anni di
repressione dei palestinesi da parte dello Stato sionista. Le forze di sicurezza
che hanno addestrato i direttori e amministratori delegati di Check Point sono
complici della prigionia di massa e dell’assassinio di coloro che resistono alla
colonizzazione e a un sistema di controllo sempre più sofisticato, che le
aziende del settore non esitano, anche pubblicamente in occasione di fiere del
settore per addetti ai lavori con un folto pelo sullo stomaco, a presentare come
“testate sul campo”.
Attraverso il Checkpoint Institute for Information Security (CIIS) di Tel Aviv,
l’azienda, anche attraverso un nuovo edificio per la facoltà, sostiene la
ricerca sulla sicurezza informatica, dà spunti agli studenti laureati, fornisce
borse di ricerca post-dottorato, organizza workshop e fondi per progetti di
ricerca: questo è solo uno dei tanti esempi di porte girevoli per i quadri e
dirigenti dell’esercito israeliano, per gli studenti e i docenti e di una
commistione sistemica tra industria militare, ricerca e università. Proprio per
questo motivo il movimento palestinese BDS ha chiesto il boicottaggio
dell’Università di Tel Aviv affermando che: “Per decenni, le università
israeliane hanno svolto un ruolo chiave nella pianificazione, nell’attuazione e
nella giustificazione delle politiche di occupazione e apartheid di Israele,
mantenendo un rapporto particolarmente stretto con l’esercito israeliano”.
L’Università di Tel Aviv ha inoltre sviluppato decine di sistemi d’arma, ma
tornando sempre al concetto di “difesa” affermato con assoluta certezza da
Roberto Pozzi della Check Point, l’Istituto per gli studi sulla sicurezza
nazionale (INSS) dell’università di Tel Aviv, si vanta di aver sviluppato la
“dottrina Dahiya” (Torat Dahiya) che sostiene l’uso della forza “sproporzionata”
da parte dell’esercito israeliano contro i civili palestinesi e libanesi. Oltre
a cancellare le prove del genocidio, o meglio ritardando l’individuazione sul
campo delle prove che lo dimostrino, la distruzione totale tramite i bulldozer
militari delle infrastrutture abitative e logistiche a Gaza e in modo puntiforme
anche in Cisgiordania, rivela plasticamente i presupposti di questo approccio
militare, che spiega anche il motivo di tanta crudeltà disumana: per prevenire e
scoraggiare attacchi futuri, Israele deve rispondere con una forza definita
appunto sproporzionata, colpendo non solo i combattenti nemici, ma anche le
infrastrutture civili che sostengono il nemico (logistica, comunicazioni,
energia, quartieri di appoggio, ecc.). Il nome, infatti, deriva dal quartiere
Dahiya di Beirut Sud, roccaforte di Hezbollah, che fu completamente distrutto
dall’aviazione israeliana durante la guerra del Libano del 2006.
In sintesi questa teoria, peraltro funzionale al progetto della “Grande
Israele”, prevede:
1. Deterrenza attraverso la devastazione: l’idea è che la distruzione massiccia
crea una “memoria del dolore” nel nemico, rendendolo riluttante a ripetere
l’aggressione.
2. Sproporzionalità deliberata: l’obiettivo non è solo neutralizzare la minaccia
immediata, ma cambiare la logica del conflitto rendendo un futuro attacco
inaccettabile per il nemico.
3. Colpire infrastrutture civili strategiche: perché nelle guerre moderne i
confini tra civili e combattenti sono spesso sfumati (specialmente con milizie
come Hezbollah o Hamas che operano da aree civili).
4. Risposta immediata e schiacciante: nessuna escalation graduale, si passa
subito a un livello di forza superiore, per chiudere il conflitto rapidamente.
Sperimentata nel 2006 in Libano, la Dottrina Dahyia è stata poi applicata anche
nell’operazione “Piombo Fuso” (2008-2009) ed è tuttora in uso a Gaza da ben due
anni. Qui azioni distruttive si sono accompagnate ad azioni mirate, contro per
esempio chi poteva raccontare sul terreno queste atrocità: parliamo dei circa
270 giornalisti uccisi proprio grazie alle applicazioni militari dell’A.I. che
hanno guidato i droni perfino all’interno degli edifici, percorrendo scale e
attraversando corridoi per colpire chirurgicamente o con “effetti collaterali”
che Israele ha sempre definito come inevitabili o, comunque, accettabili.
Al Cybertech svoltosi a Roma parecchie centinaia di operatori del settore
giravano senza sosta, spostandosi da una chiacchiera all’altra e da uno stand
all’altro e facendo incetta dei soliti gadget da portare a casa a mogli e figli.
E’ stato difficile scorgere nei loro volti auto-compiacenti e sorridenti, dietro
le loro divise da manager alla moda, il profilo del “collaborazionista”, ma se
questa fiera delle vanità ha in qualche modo rappresentato anche la banalità del
male, quella che può nascondersi dietro una tastiera che fa sgorgare del sangue
a distanza telematica, allora si può dire che l’impresa è riuscita. Fuori dalla
nuvola di Fuksas, il panorama da day-after dell’immensa zona rossa imposta dalla
Questura di Roma, dal laghetto dell’EUR fino all’obelisco e dintorni,
testimoniava invece la bellezza di un mondo reale messo in pericolo dai
costruttori del mondo virtuale.
Stefano Bertoldi