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Prisoners for Palestine – Age Verification: oltre il porno – Muri di droni – Libia e ONG@0
Estratti dalla puntata del 10 novembre 2025 di Bello Come Una Prigione Che Brucia PRISONERS FOR PALESTINE IN SCIOPERO DELLA FAME Lo sciopero della fame di Prisoners for Palestine rappresenta la prosecuzione in ambito detentivo della lotta portata avanti da Palestine Action contro le complicità istituzionali e le appendici dell’apparato tecno-militare sionista nel Regno Unito. A circa una settimana dall’inizio di questa mobilitazione, alla quale si sono aggiunti in solidarietà il prigioniero anarchico Luca Dolce (Stecco) e Jakhi McCray dagli USA, iniziamo dando spazio alle rivendicazioni dichiarate come obbiettivi dello sciopero della fame: fine della censura, accesso a misure cautelari alternative al carcere, diritto a un giusto processo, deproscrizione di Palestine Action e chiusura di tutte le filiali di Elbit System in UK. Dopo avere aggiornato su chi siano le prigioniere e il prigioniero che fino a qui hanno aderito allo sciopero della fame a rotazione, passiamo alla lettura del comunicato rilasciato da una di loro, Heba Muraisi. In conclusione, una riflessione sull’utilizzo tattico e strumentale della categoria di “terrorismo” per cercare di depotenziare la strategia portata avanti da Palestine Action in sede processuale: una classificazione neutralizzante del nemico utilizzata tanto dagli apparati militari quanto da quelli repressivi. Aggiornamento: L’attivista di Palestine Action Sean Middlebrough, 33 anni, soprannominato Shibby, è fuggito da una prigione del Regno Unito dopo essere stato rilasciato per un permesso temporaneo per assisetere al matrimonio del fratello. Sean ha dichiarato in una comunicazione ricevuta da Electronic Intifada: “Non sono in fuga. Sto semplicemente agendo con buon senso, rifiutando di essere trattenuto come prigioniero di guerra israeliano in una prigione britannica”. AGE VERIFICATION E (NON SOLO) PORNO Il 12 novembre 2025 entra formalmente in vigore la norma che prevede l’obbligo di verifica della maggiore età per l’accesso a contenuti online per adulti. Se l’attenzione si è concentrata soprattutto sui siti pornografici, in realtà le categorie interessate sono estese ad altri ambiti, promuovendo scenari di censura ancor più che di sorveglianza. Cerchiamo di osservare in quale traiettoria politica si inserisca questo provvedimento, nella corrente di riorganizzazione delle condotte online-offline e di implementazione della “società dei varchi” che passa per Identità Digitale e Real Name Internet. A margine una riflessione su pornografia e biopotere. I “MURI DI DRONI” Mentre torniamo a monitorare alcuni indicatori del rischio esplosione della “bolla dell’AI”, tra le quali i tentativi di Deutsche Bank di fare “hedging” (copertura per ridurre i rischi) sui suoi investimenti in datacenters e la perdurante attenzione di Google verso il settore militare (questa volta in Australia), cerchiamo di descrivere la normalizzazione del concetto di “muro di droni”: dalla War on Migrants ai Baltici, dalla separazione tra fronte ucraino e fronte russo alla scala continentale del programma cinese Transparent Ocean. GUARDIA COSTIERA LIBICA, SPARI CONTRO ONG E IL RUOLO DELL’ITALIA Il 2 novembre 2025 si sono rinnovati i memorandum Italia-Libia. Negli scorsi mesi è aumentata la violenza della Guardia Costiera libica, finanziata dall’UE, che ha aperto il fuoco almeno tre volte contro ONG e persone in movimento. Ma i memorandum non sono le uniche collaborazioni che finanziano e legittimano la violenza delle frontiere esterne in Libia. Abbiamo parlato del coinvolgimento di Frontex nelle deportazioni dalla Libia, dell’addestramento in Italia di truppe speciali libiche e delle pratiche con cui la Guardia Costiera libica dissuade gli interventi solidali di search and rescue.
Prisoners for Palestine – Age Verification: oltre il porno – Muri di droni – Libia e ONG@1
Estratti dalla puntata del 10 novembre 2025 di Bello Come Una Prigione Che Brucia PRISONERS FOR PALESTINE IN SCIOPERO DELLA FAME Lo sciopero della fame di Prisoners for Palestine rappresenta la prosecuzione in ambito detentivo della lotta portata avanti da Palestine Action contro le complicità istituzionali e le appendici dell’apparato tecno-militare sionista nel Regno Unito. A circa una settimana dall’inizio di questa mobilitazione, alla quale si sono aggiunti in solidarietà il prigioniero anarchico Luca Dolce (Stecco) e Jakhi McCray dagli USA, iniziamo dando spazio alle rivendicazioni dichiarate come obbiettivi dello sciopero della fame: fine della censura, accesso a misure cautelari alternative al carcere, diritto a un giusto processo, deproscrizione di Palestine Action e chiusura di tutte le filiali di Elbit System in UK. Dopo avere aggiornato su chi siano le prigioniere e il prigioniero che fino a qui hanno aderito allo sciopero della fame a rotazione, passiamo alla lettura del comunicato rilasciato da una di loro, Heba Muraisi. In conclusione, una riflessione sull’utilizzo tattico e strumentale della categoria di “terrorismo” per cercare di depotenziare la strategia portata avanti da Palestine Action in sede processuale: una classificazione neutralizzante del nemico utilizzata tanto dagli apparati militari quanto da quelli repressivi. Aggiornamento: L’attivista di Palestine Action Sean Middlebrough, 33 anni, soprannominato Shibby, è fuggito da una prigione del Regno Unito dopo essere stato rilasciato per un permesso temporaneo per assisetere al matrimonio del fratello. Sean ha dichiarato in una comunicazione ricevuta da Electronic Intifada: “Non sono in fuga. Sto semplicemente agendo con buon senso, rifiutando di essere trattenuto come prigioniero di guerra israeliano in una prigione britannica”. AGE VERIFICATION E (NON SOLO) PORNO Il 12 novembre 2025 entra formalmente in vigore la norma che prevede l’obbligo di verifica della maggiore età per l’accesso a contenuti online per adulti. Se l’attenzione si è concentrata soprattutto sui siti pornografici, in realtà le categorie interessate sono estese ad altri ambiti, promuovendo scenari di censura ancor più che di sorveglianza. Cerchiamo di osservare in quale traiettoria politica si inserisca questo provvedimento, nella corrente di riorganizzazione delle condotte online-offline e di implementazione della “società dei varchi” che passa per Identità Digitale e Real Name Internet. A margine una riflessione su pornografia e biopotere. I “MURI DI DRONI” Mentre torniamo a monitorare alcuni indicatori del rischio esplosione della “bolla dell’AI”, tra le quali i tentativi di Deutsche Bank di fare “hedging” (copertura per ridurre i rischi) sui suoi investimenti in datacenters e la perdurante attenzione di Google verso il settore militare (questa volta in Australia), cerchiamo di descrivere la normalizzazione del concetto di “muro di droni”: dalla War on Migrants ai Baltici, dalla separazione tra fronte ucraino e fronte russo alla scala continentale del programma cinese Transparent Ocean. GUARDIA COSTIERA LIBICA, SPARI CONTRO ONG E IL RUOLO DELL’ITALIA Il 2 novembre 2025 si sono rinnovati i memorandum Italia-Libia. Negli scorsi mesi è aumentata la violenza della Guardia Costiera libica, finanziata dall’UE, che ha aperto il fuoco almeno tre volte contro ONG e persone in movimento. Ma i memorandum non sono le uniche collaborazioni che finanziano e legittimano la violenza delle frontiere esterne in Libia. Abbiamo parlato del coinvolgimento di Frontex nelle deportazioni dalla Libia, dell’addestramento in Italia di truppe speciali libiche e delle pratiche con cui la Guardia Costiera libica dissuade gli interventi solidali di search and rescue.
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Estratti dalla puntata del 10 novembre 2025 di Bello Come Una Prigione Che Brucia PRISONERS FOR PALESTINE IN SCIOPERO DELLA FAME Lo sciopero della fame di Prisoners for Palestine rappresenta la prosecuzione in ambito detentivo della lotta portata avanti da Palestine Action contro le complicità istituzionali e le appendici dell’apparato tecno-militare sionista nel Regno Unito. A circa una settimana dall’inizio di questa mobilitazione, alla quale si sono aggiunti in solidarietà il prigioniero anarchico Luca Dolce (Stecco) e Jakhi McCray dagli USA, iniziamo dando spazio alle rivendicazioni dichiarate come obbiettivi dello sciopero della fame: fine della censura, accesso a misure cautelari alternative al carcere, diritto a un giusto processo, deproscrizione di Palestine Action e chiusura di tutte le filiali di Elbit System in UK. Dopo avere aggiornato su chi siano le prigioniere e il prigioniero che fino a qui hanno aderito allo sciopero della fame a rotazione, passiamo alla lettura del comunicato rilasciato da una di loro, Heba Muraisi. In conclusione, una riflessione sull’utilizzo tattico e strumentale della categoria di “terrorismo” per cercare di depotenziare la strategia portata avanti da Palestine Action in sede processuale: una classificazione neutralizzante del nemico utilizzata tanto dagli apparati militari quanto da quelli repressivi. Aggiornamento: L’attivista di Palestine Action Sean Middlebrough, 33 anni, soprannominato Shibby, è fuggito da una prigione del Regno Unito dopo essere stato rilasciato per un permesso temporaneo per assisetere al matrimonio del fratello. Sean ha dichiarato in una comunicazione ricevuta da Electronic Intifada: “Non sono in fuga. Sto semplicemente agendo con buon senso, rifiutando di essere trattenuto come prigioniero di guerra israeliano in una prigione britannica”. AGE VERIFICATION E (NON SOLO) PORNO Il 12 novembre 2025 entra formalmente in vigore la norma che prevede l’obbligo di verifica della maggiore età per l’accesso a contenuti online per adulti. Se l’attenzione si è concentrata soprattutto sui siti pornografici, in realtà le categorie interessate sono estese ad altri ambiti, promuovendo scenari di censura ancor più che di sorveglianza. Cerchiamo di osservare in quale traiettoria politica si inserisca questo provvedimento, nella corrente di riorganizzazione delle condotte online-offline e di implementazione della “società dei varchi” che passa per Identità Digitale e Real Name Internet. A margine una riflessione su pornografia e biopotere. I “MURI DI DRONI” Mentre torniamo a monitorare alcuni indicatori del rischio esplosione della “bolla dell’AI”, tra le quali i tentativi di Deutsche Bank di fare “hedging” (copertura per ridurre i rischi) sui suoi investimenti in datacenters e la perdurante attenzione di Google verso il settore militare (questa volta in Australia), cerchiamo di descrivere la normalizzazione del concetto di “muro di droni”: dalla War on Migrants ai Baltici, dalla separazione tra fronte ucraino e fronte russo alla scala continentale del programma cinese Transparent Ocean. GUARDIA COSTIERA LIBICA, SPARI CONTRO ONG E IL RUOLO DELL’ITALIA Il 2 novembre 2025 si sono rinnovati i memorandum Italia-Libia. Negli scorsi mesi è aumentata la violenza della Guardia Costiera libica, finanziata dall’UE, che ha aperto il fuoco almeno tre volte contro ONG e persone in movimento. Ma i memorandum non sono le uniche collaborazioni che finanziano e legittimano la violenza delle frontiere esterne in Libia. Abbiamo parlato del coinvolgimento di Frontex nelle deportazioni dalla Libia, dell’addestramento in Italia di truppe speciali libiche e delle pratiche con cui la Guardia Costiera libica dissuade gli interventi solidali di search and rescue.
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Estratti dalla puntata del 10 novembre 2025 di Bello Come Una Prigione Che Brucia PRISONERS FOR PALESTINE IN SCIOPERO DELLA FAME Lo sciopero della fame di Prisoners for Palestine rappresenta la prosecuzione in ambito detentivo della lotta portata avanti da Palestine Action contro le complicità istituzionali e le appendici dell’apparato tecno-militare sionista nel Regno Unito. A circa una settimana dall’inizio di questa mobilitazione, alla quale si sono aggiunti in solidarietà il prigioniero anarchico Luca Dolce (Stecco) e Jakhi McCray dagli USA, iniziamo dando spazio alle rivendicazioni dichiarate come obbiettivi dello sciopero della fame: fine della censura, accesso a misure cautelari alternative al carcere, diritto a un giusto processo, deproscrizione di Palestine Action e chiusura di tutte le filiali di Elbit System in UK. Dopo avere aggiornato su chi siano le prigioniere e il prigioniero che fino a qui hanno aderito allo sciopero della fame a rotazione, passiamo alla lettura del comunicato rilasciato da una di loro, Heba Muraisi. In conclusione, una riflessione sull’utilizzo tattico e strumentale della categoria di “terrorismo” per cercare di depotenziare la strategia portata avanti da Palestine Action in sede processuale: una classificazione neutralizzante del nemico utilizzata tanto dagli apparati militari quanto da quelli repressivi. Aggiornamento: L’attivista di Palestine Action Sean Middlebrough, 33 anni, soprannominato Shibby, è fuggito da una prigione del Regno Unito dopo essere stato rilasciato per un permesso temporaneo per assisetere al matrimonio del fratello. Sean ha dichiarato in una comunicazione ricevuta da Electronic Intifada: “Non sono in fuga. Sto semplicemente agendo con buon senso, rifiutando di essere trattenuto come prigioniero di guerra israeliano in una prigione britannica”. AGE VERIFICATION E (NON SOLO) PORNO Il 12 novembre 2025 entra formalmente in vigore la norma che prevede l’obbligo di verifica della maggiore età per l’accesso a contenuti online per adulti. Se l’attenzione si è concentrata soprattutto sui siti pornografici, in realtà le categorie interessate sono estese ad altri ambiti, promuovendo scenari di censura ancor più che di sorveglianza. Cerchiamo di osservare in quale traiettoria politica si inserisca questo provvedimento, nella corrente di riorganizzazione delle condotte online-offline e di implementazione della “società dei varchi” che passa per Identità Digitale e Real Name Internet. A margine una riflessione su pornografia e biopotere. I “MURI DI DRONI” Mentre torniamo a monitorare alcuni indicatori del rischio esplosione della “bolla dell’AI”, tra le quali i tentativi di Deutsche Bank di fare “hedging” (copertura per ridurre i rischi) sui suoi investimenti in datacenters e la perdurante attenzione di Google verso il settore militare (questa volta in Australia), cerchiamo di descrivere la normalizzazione del concetto di “muro di droni”: dalla War on Migrants ai Baltici, dalla separazione tra fronte ucraino e fronte russo alla scala continentale del programma cinese Transparent Ocean. GUARDIA COSTIERA LIBICA, SPARI CONTRO ONG E IL RUOLO DELL’ITALIA Il 2 novembre 2025 si sono rinnovati i memorandum Italia-Libia. Negli scorsi mesi è aumentata la violenza della Guardia Costiera libica, finanziata dall’UE, che ha aperto il fuoco almeno tre volte contro ONG e persone in movimento. Ma i memorandum non sono le uniche collaborazioni che finanziano e legittimano la violenza delle frontiere esterne in Libia. Abbiamo parlato del coinvolgimento di Frontex nelle deportazioni dalla Libia, dell’addestramento in Italia di truppe speciali libiche e delle pratiche con cui la Guardia Costiera libica dissuade gli interventi solidali di search and rescue.
#stopthegenocideingaza🇵🇸 Dai #droni di #Gaza agli elicotteri italiani: la tecnologia israeliana entra nei cieli di Roma di Antonio Mazzeo Mentre a Gaza le forze armate di Israele proseguono impunemente la loro campagna genocida contro il popolo palestinese, in una base aerea romana si sperimentano sofisticate tecnologie israeliane grazie all’inedita partnership tra aziende belliche nazionali ed internazionali e l’#Aeronautica Militare italiana. https://antoniomazzeoblog.blogspot.com/2025/11/dai-droni-di-gaza-agli-elicotteri.html
#stopthegenocideingaza🇵🇸 Dai #droni di #Gaza agli elicotteri italiani: la tecnologia israeliana entra nei cieli di #Roma In una base aerea romana si sperimentano sofisticate tecnologie israeliane grazie all’inedita partnership tra aziende belliche nazionali ed internazionali e l’#Aeronautica #Militare italiana. Odysight.ai, società di tecnologie aerospaziali ha completato “con successo” una serie di test sugli elicotteri AW139 prodotti dalla holding #Leonardo. https://pagineesteri.it/2025/11/05/in-evidenza/dai-droni-di-gaza-agli-elicotteri-italiani-la-tecnologia-israeliana-entra-nei-cieli-di-roma/?fbclid=IwY2xjawN36G5leHRuA2FlbQIxMQBzcnRjBmFwcF9pZBAyMjIwMzkxNzg4MjAwODkyAAEe2QJThUfP9IxJ6AhbPQvRLkcfQirpIzbxaHY3H9ja1BW6GcUhSt1DZF0pTw8_aem_dGnHd0V7zviyEjD7BgW76w
I droni stanno trasformando la medicina di guerra
Immagine in evidenza da Marek Studzinski su Unsplash C’è un aspetto dell’esperienza del combattimento bellico che, durante l’invasione dell’Ucraina, è andato via via riducendosi: le ferite d’arma da fuoco. Quella che a lungo è stata la principale causa di morte per i soldati impiegati in guerra ha lasciato spazio a un altro genere di lesione, oggi dominante: le ferite da schegge e frammenti. A determinare questo cambiamento è stata la novità tecnologica più rilevante emersa dal conflitto: il massiccio impiego di droni aerei, e in particolare la diffusione degli apparecchi FPV (first-person view: visione in soggettiva). Per la loro natura di armi di precisione di massa, questi sistemi stanno cambiando profondamente il soccorso e il trattamento dei traumi da guerra. COME I DRONI HANNO CAMBIATO LA FANTERIA In un video pubblicato sul suo canale YouTube, Civ Div – un blogger militare statunitense con un passato nel corpo dei marine degli Stati Uniti ed esperienza di combattimento in Siria e Ucraina (con le forze speciali) – descrive la realtà vissuta dalla fanteria moderna come un incubo tattico, di cui i droni sono la causa principale. Per un fante impiegato in prima linea, la presenza continua di questi dispositivi altera radicalmente la percezione dello spazio. Per lungo tempo, infatti, la fanteria ha operato in ambienti essenzialmente “bidimensionali”: trincee, tunnel, edifici, campi aperti. Qui il contatto col nemico avveniva lungo vettori orizzontali: di fronte, di lato o alle spalle. I droni hanno introdotto una terza dimensione: oggi il pericolo può arrivare dall’alto e in qualsiasi momento. Questa possibilità genera un ulteriore carico cognitivo e costringe le forze armate di tutto il mondo ad adattarsi e rivedere l’addestramento, le tattiche e le dotazioni della fanteria. Per rispondere a questa minaccia, gli eserciti hanno iniziato ad adottare diverse misure: sistemi elettronici portatili in grado di disturbare i segnali dei droni, difese a basso costo come reti, gabbie e coperture o altre contromisure fisiche. In alcuni contesti, sono anche impiegate armi leggere tradizionalmente non impiegate dalla fanteria, come i fucili a pompa: poco efficace negli scontri a fuoco contro avversari protetti da armature, questo tipo di arma si è rivelato più efficace di un fucile d’assalto per abbattere un drone in avvicinamento. Aggiungere equipaggiamento difensivo significa però aumentare il peso da trasportare, riducendo la mobilità dei fanti sia in azione sia durante le rotazioni. Un paradosso tattico che altera la routine del combattimento. La conseguenza immediata è che la maggior parte delle unità passa più tempo nascosta in rifugi sotterranei: buche, bunker e trincee coperte diventano infatti la protezione più efficace contro droni dotati di visori termici e della capacità di operare anche di notte, rendendo inefficaci i camuffamenti tradizionali come le tute o le reti mimetiche. Più che una semplice innovazione, la comparsa e la diffusione di questo genere di dispositivi ha assunto i tratti di una vera e propria rivoluzione, il cui effetto non è stato limitato al modo di combattere della fanteria, ma ha avuto importanti ripercussioni anche sulla cosiddetta medicina tattica. CHE COS’È LA MEDICINA TATTICA? Con il termine “medicina tattica” si indica l’assistenza medica fornita d’urgenza in contesti ostili e a rischio, come quelli militari o di polizia. Il suo obiettivo è salvare vite in situazioni di minaccia; compito che svolge basandosi su due principi chiave. Il primo è la golden hour, il periodo critico che segue il trauma e in cui un intervento tempestivo aumenta in modo significativo la probabilità di sopravvivenza dei feriti. Rapidità, coordinamento, cura sul campo ed evacuazione ne sono le leve fondamentali. Il secondo è il Tactical Combat Casualty Care (TCCC), un protocollo creato negli anni ’80 dall’esercito degli Stati Uniti per addestrare medici e paramedici a prestare soccorso sotto il fuoco nemico. Organizzato in tre fasi – care under fire (soccorso durante l’azione), tactical field care (stabilizzazione del ferito), tactical evacuation care (assistenza durante l’evacuazione) – il protocollo TCCC comprende diverse azioni specifiche come il controllo delle emorragie, la gestione delle vie aeree e la decompressione del torace. Fin dalla sua introduzione, il protocollo TCCC ha ridotto la mortalità. La comparsa dei droni ne sta però mettendo in discussione uno dei presupposti di base: l’esistenza di retrovie relativamente sicure e percorribili in tempi rapidi. COME I DRONI HANNO CANCELLATO LE RETROVIE SUI CAMPI DI BATTAGLIA UCRAINI Alla fine di agosto, sull’onda lunga del summit tra Trump e Putin avvenuto a ferragosto in Alaska, il presidente ucraino Zelensky ha respinto la proposta di istituire una “zona cuscinetto” tra il suo paese e la Russia, avanzata da alcuni leader europei come parte di un potenziale accordo di pace tra i due governi. Secondo Zelensky, lungo la linea del fronte esiste già una zona cuscinetto che, di fatto, separa le forze armate del suo paese da quelle del paese invasore. A crearla sono stati i droni, ed è per questo motivo che il presidente ucraino la definisce “zona morta”. Tutto ciò che si muove al suo interno diventa un potenziale bersaglio per le centinaia di droni che la sorvegliano costantemente e il cui raggio d’azione è notevolmente aumentato nel corso del conflitto. Limitato inizialmente a pochi chilometri di distanza, il raggio d’azione dei droni raggiunge oggi una media compresa tra 10 e 15 chilometri per i modelli controllati a distanza e una compresa tra 20 e 40 chilometri per quelli comandati attraverso bobine di cavi in fibra ottica. Grazie all’estensione del loro raggio d’azione, i droni hanno aumentato la profondità della linea del fronte che, fino alla loro introduzione, era determinata dalla gittata delle artiglierie da campo come mortai, obici ed MLRS (Multiple Rocket Launch System, o sistemi lanciarazzi multipli, come i famosi HIMARS). La loro comparsa ha dunque cancellato le retrovie e trasformato in bersaglio tutto ciò che si muove da e verso la linea del fronte, ridisegnandone la logistica.  Quando l’artiglieria dominava il campo di battaglia, colpire un bersaglio in movimento significava prima di tutto individuarlo, poi calcolare le coordinate del tiro e, infine, eseguirlo con il corretto tempismo. Oggi, invece, i droni sono sempre in volo per sorvegliare gli spostamenti di personale e veicoli nemici, ma possono anche essere lasciati in stand by nei pressi di una via di rifornimento per essere attivati e colpirli al loro passaggio. COME LA MEDICINA TATTICA SI ADATTA ALLA PRESENZA DEI DRONI. La scomparsa delle retrovie non solo obbliga le forze armate a modificare il modo di combattere, ma anche le modalità con cui vengono rifornite le posizioni più avanzate, ruotate le truppe o evacuati i feriti. Il trasporto dei feriti verso zone sicure, parte integrante del già citato TCCC, ora richiede più tempo e più adempimenti operativi, perché il percorso verso le retrovie si è allungato, trasformando in potenziale bersaglio chiunque abbia la necessità di attraversarlo. In una testimonianza rilasciata al giornalista David Kirichenko, il colonnello Kostiantyn Humeniuk, chirurgo capo delle forze mediche ucraine, afferma che, in questo contesto, sono proprio i droni a causare il maggior numero di vittime nella fanteria (circa il 70% del totale nel corso del 2025, secondo stime ucraine). Per adattarsi al cambiamento, le organizzazioni di medicina tattica – come il battaglione medico ucraino Hospitellers, a cui si deve l’introduzione in Ucraina di standard e pratiche mediche avanzate – hanno adottato numerose innovazioni tattiche e logistiche: l’allestimento a ridosso della linea di contatto di bunker chirurgici, dotati di strumenti per interventi di stabilizzazione rapida; l’uso di sistemi di guerra elettronica portatili per proteggere il personale impegnato sul campo; l’impiego, seppur limitato a causa della loro relativa affidabilità, di droni terrestri per estrarre feriti in sicurezza; e, in alcuni casi, l’integrazione di equipaggiamenti difensivi anche per il personale medico. Trattare i feriti in bunker all’interno della “zona morta” è una misura pragmatica: igienicamente subottimale, ma spesso la sola scelta in grado di aumentare le probabilità di sopravvivenza. Resta però un problema (ampiamente segnalato dalla stampa): i medici e il personale sanitario sono essi stessi obiettivi degli attacchi russi, perché colpirli significa erodere capacità di cura e know-how formativo. In assenza di mezzi corazzati sicuri per l’estrazione, le squadre mediche ricorrono a soluzioni di emergenza: più punti di primo soccorso, rotazione rapida delle postazioni e, ove possibile, difese elettroniche portatili. NUOVE SFIDE, VECCHI OBIETTIVI Il dominio dei droni aerei a basso costo, ampiamente disponibili e impiegabili come arma, ha quindi mutato la tipologia di ferite e anche il processo necessario per curarle in modo efficace. Lo scopo di fondo della medicina tattica non è cambiato, ma questa fondamentale pratica clinica ha dovuto ampiamente adattarsi, mentre la golden hour – principio comunque ancora valido – è diventata sempre più difficile da rispettare. A tutto questo la medicina tattica si adatta – con i bunker, le contromisure elettroniche e i droni terrestri – ma il cambiamento è strutturale: una guerra che si fa sempre più verticale trasforma la realtà della fanteria, le procedure di combattimento e le politiche di cura. Preservare vite resta un imperativo strategico non negoziabile. Come insegna la storia recente, quando una forza armata espressione di un paese democratico perde la capacità di limitare morti e feriti, la tenuta morale e politica del paese di cui rappresentano gli interessi si incrina. L'articolo I droni stanno trasformando la medicina di guerra proviene da Guerre di Rete.
La colonia più antica, la guerra più recente: Porto Rico come trampolino di lancio per la guerra contro il Venezuela
Quando il presidente Trump ha annunciato che la CIA era stata autorizzata a condurre operazioni all’interno del Venezuela, proprio mentre i droni statunitensi colpivano un’altra piccola imbarcazione al largo delle coste venezuelane, pochi negli Stati Uniti si sono resi conto che gran parte di questa militarizzazione ha inizio sul suolo di una terra priva della propria sovranità: Porto Rico. L’isola, che dal 1898 è sotto il dominio degli Stati Uniti, viene ancora una volta utilizzata come base per il militarismo americano, questa volta per l’ultima “guerra alla droga” di Washington, che nasconde una campagna di coercizione contro i governi indipendenti dell’America Latina. Dopo aver invaso Porto Rico nel 1898, gli Stati Uniti trasformarono rapidamente l’isola in un avamposto militare strategico: la “Gibilterra dei Caraibi”, con basi navali a Ceiba, Roosevelt Roads e Vieques progettate per dominare i Caraibi orientali e proteggere la nuova arteria dell’impero: il Canale di Panama. A partire dalla prima guerra mondiale, i portoricani sono stati arruolati in tutte le principali guerre degli Stati Uniti, combattendo e morendo per una bandiera che ancora oggi nega loro i pieni diritti di cittadinanza. Nel frattempo, le terre e le acque dell’isola sono state espropriate per essere utilizzate come poligoni di tiro, addestramento navale e operazioni di intelligence. Per sei decenni, la Marina degli Stati Uniti ha utilizzato Vieques come campo di prova per le esercitazioni con munizioni vere, sganciando milioni di chili di esplosivi e munizioni, tra cui napalm e uranio impoverito. Il risultato è stato il devastante impatto ambientale e uno dei tassi di cancro più alti della regione. Ci è voluto un movimento di disobbedienza civile di massa per costringere finalmente la Marina ad abbandonare l’isola nel 2003. Quella vittoria dimostrò la capacità dei portoricani di organizzare una resistenza, ma le strutture dell’impero non scomparvero mai. Due decenni dopo, quelle stesse basi e piste di atterraggio sono state riattivate. Nel 2025 Washington ha silenziosamente ampliato le operazioni militari sull’isola, schierando caccia F-35, stazionando aerei da pattugliamento marittimo P-8 e facendo transitare unità dei Marine e delle forze speciali attraverso i porti e gli aeroporti portoricani. La giustificazione ufficiale è quella di “operazioni antidroga”, ma i tempi e la portata indicano qualcosa di molto più grande: un rafforzamento militare regionale mirato al Venezuela. L’aggressione si è ora estesa alla Colombia, a cui Trump ha tagliato tutti gli aiuti statunitensi e ha accusato il presidente Gustavo Petro di essere un “leader della droga”. L’annuncio è arrivato pochi giorni dopo che il presidente colombiano aveva denunciato gli attacchi con droni statunitensi al largo delle coste del Venezuela, uno dei quali, ha avvertito, ha colpito una nave colombiana e ucciso cittadini colombiani. Invece di assumersi le proprie responsabilità, Washington ha risposto con insulti e ricatti economici. La designazione da parte dell’amministrazione Trump di un “conflitto armato non internazionale con i cartelli della droga” fornisce una copertura legale per gli attacchi con droni e le missioni sotto copertura lontano dal territorio statunitense. Lo status coloniale di Porto Rico lo rende il terreno di prova perfetto: un luogo in cui il Pentagono può operare liberamente senza dibattiti al Congresso o il consenso locale. Per i portoricani, questa militarizzazione non è una questione astratta. Significa maggiore sorveglianza, maggiori rischi ambientali e un coinvolgimento più vasto in guerre che non hanno mai scelto. Segna anche un ritorno alla stessa logica imperiale che ha trasformato Vieques in un poligono di tiro: utilizzare il territorio occupato per proiettare il proprio potere all’estero. Porto Rico rimane la più antica colonia del mondo moderno, un “territorio” degli Stati Uniti i cui abitanti sono “cittadini” ma non sovrani. Non possono votare per il presidente, non hanno senatori e possiedono solo un rappresentante simbolico al Congresso. È proprio questa assenza di sovranità che lo rende così utile all’impero: una zona grigia di legalità dove si possono preparare guerre senza il consenso democratico. Non è la prima volta che Porto Rico viene utilizzato come trampolino militare. Le sue basi sono servite come centri logistici per interventi in tutto l’emisfero, dall’invasione statunitense della Repubblica Dominicana nel 1965, a Grenada nel 1983 e Panama nel 1989. Ciascuna di queste operazioni è stata giustificata con la retorica della Guerra Fredda, la difesa della “libertà”, della ‘stabilità’ e della “democrazia”, mentre sistematicamente si prendevano di mira governi e movimenti sociali che cercavano l’indipendenza dal controllo degli Stati Uniti. La deputata portoricana Nydia Velázquez ha avvertito che la storia si sta ripetendo. In un editoriale pubblicato su Newsweek, ha ricordato a Washington la lezione di Vieques: che la popolazione dell’isola ha già pagato il prezzo del militarismo statunitense attraverso la contaminazione, lo sfollamento e l’abbandono. “Il nostro popolo ha già sofferto abbastanza a causa dell’inquinamento militare e dello sfruttamento coloniale. Porto Rico merita la pace, non altre guerre”, ha affermato. Il suo appello è in linea con quello delle nazioni Caraibiche e Latinoamericane della CELAC, che hanno dichiarato la regione “Zona di pace”. L’escalation intorno al Venezuela segue un modello consolidato nella politica estera degli Stati Uniti: quando una nazione afferma il controllo sulle proprie risorse o rifiuta di obbedire ai dettami di Washington, diventa un bersaglio. Venezuela, Cuba e Nicaragua vengono puniti proprio per questo. Sanzioni, blocchi e operazioni sotto copertura fungono da meccanismi di dominio per mantenere l’emisfero aperto al capitale e all’influenza militare degli Stati Uniti. Il ruolo di Porto Rico in questa strategia rivela l’ipocrisia fondamentale di Washington: conduce guerre all’estero in nome della libertà, mentre nega quella stessa libertà alla colonia che ancora controlla. Il suo popolo è governato senza piena rappresentanza, il suo territorio è utilizzato per la guerra e la sua economia rimane vincolata ai dettami di Washington. La richiesta di indipendenza di Porto Rico è la stessa richiesta avanzata dal Venezuela, da Cuba e da ogni nazione che rifiuta di vivere in ginocchio: il diritto di determinare il proprio futuro. La lotta per la pace, la sovranità e la dignità nella Nuestra América (termine coniato da José Martí, scrittore e rivoluzionario cubano) attraversa le coste di Porto Rico. Quando i droni statunitensi decollano dalle piste dei Caraibi per colpire il Venezuela, sorvolano i fantasmi di Vieques, la terra dove un tempo i portoricani si opponevano disarmati a un impero. Porto Rico merita un futuro di pace, di risanamento ambientale e di sovranità, e lo stesso vale per il Venezuela: il diritto di vivere libero dall’assedio, di difendere la propria indipendenza e di costruire il proprio destino senza temere le bombe o i blocchi degli Stati Uniti. Difendere il diritto alla pace di Porto Rico significa difendere il diritto all’esistenza del Venezuela. -------------------------------------------------------------------------------- L’autrice: Michelle Ellner è coordinatrice della campagna latinoamericana di CODEPINK. È nata in Venezuela e ha conseguito una laurea in lingue e affari internazionali presso l’Università La Sorbonne Paris IV, a Parigi. Dopo la laurea, ha lavorato per un programma internazionale di borse di studio con sede a Caracas e Parigi ed è stata inviata ad Haiti, Cuba, Gambia e altri paesi con il compito di valutare e selezionare i candidati. -------------------------------------------------------------------------------- Nota del revisore: nel 2012, 2017 e 2020 i portoricani hanno votato, in consultazioni non vincolanti, a favore dell’adesione dell’isola agli Stati Uniti come 51° Stato federale (fonte: Wikipedia). -------------------------------------------------------------------------------- Traduzione dall’inglese di Stella Maris Dante. Revisione di Thomas Schmid. Codepink
Cybertech 2025: la fiera delle vanità e il genocidio in Palestina
Abbiamo intervistato Roberto Pozzi, vice-presidente dell’area sud-Europa dell’israeliana Check Point Software Technologies Ltd., quarta per performance tra le 106 aziende israeliane quotate nei mercati finanziari USA. La Check Point, impegnata sempre più anche sul versante della ricerca e sviluppo dei sistemi di Intelligenza Artificiale, è tra le numerose aziende informatiche collaboratrici dirette o indirette del  governo d’Israele e del suo esercito e presenti a Roma il 21 e 22 ottobre alla fiera Cybertech Europe, fondata e promossa da Leonardo S.p.A. a sua volta colosso europeo e mondiale nella produzione di armi, partecipata al 30% dallo Stato Italiano. Check Point Technologies Ltd. vende prodotti per la sicurezza informatica in rete in tutto il mondo, (anche, ovviamente) a istituzioni pubbliche “benefiche” come il National Health Service del Regno Unito; tuttavia, la terza più grande compagnia israeliana di I.T., come del resto la maggior parte delle industrie in quel Paese, è strettamente intrecciata anche con gli apparati militari e di sicurezza, oltre che con importanti centri di ricerca universitari locali ed esteri, dato il tacito patto di ferro, dal ’48 ad oggi, tra industria, ricerca e apparati militari. Molti dei top-manager di Check Point, infatti, come Nadav Zafrir, nominato a fine 2024 alla carica di amministratore delegato, hanno militato nella cyber-intelligence dell’esercito israeliano prima di iniziare la carriera nel settore privato. Il Comando Cibernetico delle Forze di Difesa Israeliane fondato, appunto, da Zafrir e il comando dell’Unità d’élite 8200,  dove lo stesso ha poi prestato servizio fino al grado di Generale di Brigata, a sua volta  triangola con alcune delle più grandi aziende di armi israeliane, tra cui il produttore di droni Israel Aerospace Industries (IAI). Questo comando, peraltro, a dispetto, del nome che include, come nell’acronimo IDF (Israel Defence Forces) adottato a partire dal 1998 in funzione di “war-washing”, il concetto di “difesa”, agisce strutturalmente e parallelamente, accanto a quello di “offesa”  in quanto: “al fine di assicurare il suo successo, la dottrina delle IDF a livello strategico è difensiva, mentre le sue tattiche sono offensive. Inoltre, data la mancanza di profondità territoriale del Paese, le IDF devono prendere l’iniziativa quando la cosa è ritenuta necessaria e, se attaccato, trasferire rapidamente il campo di battaglia sul territorio del nemico”. Quest’ultima descrizione sembrerebbe tratta da un manuale di scuola di guerra israeliano e invece si scopre che è di uso comune, tanto che la si può leggere anche sul sito italiano, Italia Kosher, che si occupa di tutt’altro, ovvero di pubblicizzare la produzione vitivinicola israeliana in Italia. Ignaro di tutto ciò, il concetto di “difesa” è stato ribadito più volte proprio dall’alto dirigente della Check Point, il quale, dopo un primo tentennamento al solo sentire citare, all’interno della domanda che chiedeva conto di questi legami opachi, i termini genocidio e apartheid, decide di puntare verso i concetti più neutrali ed edulcorati, appunto, di  “difesa/protezione dei dati”, svincolandosi dallo spinoso tema militare o del semprevivo concetto di “dual-use”. “Siamo un’azienda globale” esordisce  Pozzi “con, è vero, una sede anche in Israele (in realtà qui è nata e qui ha il suo quartier generale n.d.r.) e abbiamo un obiettivo unico, quello di difendere le aziende dagli attacchi informatici. Tutto ciò che è al di fuori di questo contesto mi è difficile contestualizzarlo o commentarlo. Non abbiamo nessuna velleità di passare sul lato opposto, verso un ruolo offensivo. Le persone che fanno questo lavoro in Israele lo fanno con la coscienza che il primo obiettivo è quello della difesa delle aziende”. Cercando quindi di riportare il discorso sui legami tra la Check Point e l’apparato bellico-industriale, Pozzi prosegue così: “Sono italiano e quindi sono lontano da questi contesti. Posso assicurarle che a) in azienda non parliamo mai di contesti bellici b) il nostro focus è solo la difesa e la protezione dei dati aziendali. Poi certamente in questo contesto generale c’è un ambito bellico che si svolge in superficie, la guerra tradizionale e una guerra che si fronteggia invece con la protezione informatica”. Insistendo, invece, sui sistemi di riconoscimento facciale con i quali grazie all’uso dell’A.I. “è possibile identificare una vasta gamma di comportamenti anomali, inclusi risse, cadute, mani alzate e la presenza di oggetti in mano” (descrizione presente proprio nel sito web di Check Point n.d.r.) oppure le profilazioni dei target militari, l’uso bellico dei data base e il loro supporto all’apparato bellico che proprio grazie all’AI possono colpire persone specifiche, Pozzi afferma: “lo posso smentire categoricamente, ma non ho altri elementi per giudicare questo contesto. Certamente attraverso la nostra struttura passa una grossa mole di dati, questo non posso nasconderlo, ma che poi noi li passiamo ad altri che hanno intenti bellicosi lo escludo a priori. L’esercito israeliano è un cliente come ce ne sono tanti in giro per il mondo. Ma, mi creda, Israele ha sempre dimostrato in tutti questi anni di essere sempre sul lato della difesa”. L’intervista è durata poco più di quattro minuti e avremmo voluto ricordare più nel dettaglio il ruolo dell’attuale “capo” di Roberto Pozzi, per esempio proprio nell’Unità di Elite 8200 che a partire dalle clamorose operazioni militari del 2010 è arrivato ad un punto di avanzamento tecnologico tale da riuscire, tramite il software Stuxnet, a infliggere a diversi obiettivi dei danni anche fisici e materiali. Quindi ben al di là del “semplice” danno informatico, come è stato dimostrato nell’attacco rivolto ai sistemi di arricchimento dell’uranio su suolo iraniano a migliaia di chilometri di distanza. Sempre volendo spostare la foglia di fico del concetto di “difesa”, il sistema di attacco cibernetico israeliano è passato di recente dagli attacchi mirati a quelli “sistemici” su infrastrutture civili come ad esempio quello del 2021,  rivolto addirittura contro  4.300 stazioni di servizio in Iran, messe fuori uso nell’elaborazione dei pagamenti: ciò dimostra ancora una volta le potenzialità e noi diremmo l’intenzionalità offensiva israeliana, in grado di avere conseguenze dirette non solo sulle infrastrutture, ma anche sui servizi ai cittadini,  agli utenti finali. Come altre parti del settore hi-tech israeliano, inoltre, come tutte quelle aziende che realizzano un profitto dall’industria dei droni di Israele, la Check Point trae profitto da quel tragico “incubatore” fornitogli da 80 anni di repressione dei palestinesi da parte dello Stato sionista. Le forze di sicurezza che hanno addestrato i direttori e amministratori delegati di Check Point sono complici della prigionia di massa e dell’assassinio di coloro che resistono alla colonizzazione e a un sistema di controllo sempre più sofisticato, che le aziende del settore non esitano, anche pubblicamente in occasione di fiere del settore per addetti ai lavori con un folto pelo sullo stomaco, a presentare come “testate sul campo”. Attraverso il Checkpoint Institute for Information Security (CIIS) di Tel Aviv, l’azienda, anche attraverso un nuovo edificio  per la facoltà, sostiene la ricerca sulla sicurezza informatica, dà spunti agli studenti laureati, fornisce borse di ricerca post-dottorato, organizza workshop e fondi per progetti di ricerca: questo è solo uno dei tanti esempi di porte girevoli per i quadri e dirigenti dell’esercito israeliano, per gli studenti e i docenti e di una commistione sistemica tra industria militare, ricerca e università. Proprio per questo motivo il movimento palestinese BDS ha chiesto il boicottaggio dell’Università di Tel Aviv affermando che: “Per decenni, le università israeliane hanno svolto un ruolo chiave nella pianificazione, nell’attuazione e nella giustificazione delle politiche di occupazione e apartheid di Israele, mantenendo un rapporto particolarmente stretto con l’esercito israeliano”. L’Università di Tel Aviv ha inoltre sviluppato decine di sistemi d’arma, ma tornando sempre al concetto di “difesa” affermato con assoluta certezza da Roberto Pozzi della Check Point, l’Istituto per gli studi sulla sicurezza nazionale (INSS) dell’università di Tel Aviv, si vanta di aver sviluppato la “dottrina Dahiya” (Torat Dahiya) che sostiene l’uso della forza “sproporzionata” da parte dell’esercito israeliano contro i civili palestinesi e libanesi. Oltre a cancellare le prove del genocidio, o meglio ritardando l’individuazione sul campo delle prove che lo dimostrino, la distruzione totale tramite i bulldozer militari delle infrastrutture abitative e logistiche a Gaza e in modo puntiforme anche in Cisgiordania, rivela plasticamente i presupposti di questo approccio militare, che spiega anche il motivo di tanta crudeltà disumana: per prevenire e scoraggiare attacchi futuri, Israele deve rispondere con una forza definita appunto sproporzionata, colpendo non solo i combattenti nemici, ma anche le infrastrutture civili che sostengono il nemico (logistica, comunicazioni, energia, quartieri di appoggio, ecc.). Il nome, infatti, deriva dal quartiere Dahiya di Beirut Sud, roccaforte di Hezbollah, che fu completamente distrutto dall’aviazione israeliana durante la guerra del Libano del 2006. In sintesi questa teoria, peraltro funzionale al progetto della “Grande Israele”, prevede: 1. Deterrenza attraverso la devastazione: l’idea è che la distruzione massiccia crea una “memoria del dolore” nel nemico, rendendolo riluttante a ripetere l’aggressione. 2. Sproporzionalità deliberata: l’obiettivo non è solo neutralizzare la minaccia immediata, ma cambiare la logica del conflitto rendendo un futuro attacco inaccettabile per il nemico. 3. Colpire infrastrutture civili strategiche: perché nelle guerre moderne i confini tra civili e combattenti sono spesso sfumati (specialmente con milizie come Hezbollah o Hamas che operano da aree civili). 4. Risposta immediata e schiacciante: nessuna escalation graduale, si passa subito a un livello di forza superiore, per chiudere il conflitto rapidamente. Sperimentata nel 2006 in Libano, la Dottrina Dahyia è stata poi applicata anche nell’operazione “Piombo Fuso” (2008-2009) ed è tuttora in uso a Gaza da ben due anni. Qui azioni distruttive si sono accompagnate ad azioni mirate, contro per esempio chi poteva raccontare sul terreno queste atrocità: parliamo dei circa 270 giornalisti uccisi proprio grazie alle applicazioni militari dell’A.I. che hanno guidato i droni perfino all’interno degli edifici, percorrendo scale e attraversando corridoi per colpire chirurgicamente o con “effetti collaterali” che Israele ha sempre definito come inevitabili o, comunque, accettabili. Al Cybertech svoltosi a Roma parecchie centinaia di operatori del settore giravano senza sosta, spostandosi da una chiacchiera all’altra e da uno stand all’altro e facendo incetta dei soliti gadget da portare a casa a mogli e figli. E’ stato difficile scorgere nei loro volti auto-compiacenti e sorridenti, dietro le loro divise da manager alla moda, il profilo del “collaborazionista”, ma se questa fiera delle vanità ha in qualche modo rappresentato anche la banalità del male, quella che può nascondersi dietro una tastiera che fa sgorgare del sangue a distanza telematica, allora si può dire che l’impresa è riuscita. Fuori dalla nuvola di Fuksas, il panorama da day-after dell’immensa zona rossa imposta dalla Questura di Roma, dal laghetto dell’EUR fino all’obelisco e dintorni, testimoniava invece la bellezza di un mondo reale messo in pericolo dai costruttori del mondo virtuale. Stefano Bertoldi
Il GCAP come pilastro del ‘Preserving Peace’. La UE delinea la Difesa Europea
[Questo articolo è la continuazione del contributo uscito due giorni fa sulla votazione avvenuta in Senato riguardo al GCAP, e serve a comprendere il ruolo di questo progetto nella tendenza alla guerra di cui la UE è partecipe e promotrice] Con il via libera dato dalla commisione Esteri del Senato […] L'articolo Il GCAP come pilastro del ‘Preserving Peace’. La UE delinea la Difesa Europea su Contropiano.