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Il diaconato femminile fa paura alla Chiesa
E ancora una volta arriva una sferzata alle donne nella Chiesa Cattolica: no al diaconato femminile. A novembre 2023 intervistai la teologa Selene Zorzi dopo il no categorico della Chiesa al sacerdozio femminile, che già inaugurava un no ferreo al possibile diaconato delle donne. Affermava Zorzi: “I sinodi prospettano idealmente dialogo, ma di fatto sono tristi consessi dalla maggioranza di uomini maschi, di una certa età, abituati a stare al mondo da privilegiati. Alle poche donne che ci sono, trattate in modo paternalistico, sembra venir concessa libertà di parola, ma in un contesto di minoranza ove ogni parola divergente viene guardata con la tenerezza di ciò che alla fine non potrà mai andare a sconvolgere troppo le linee di fondo di un sistema statico, lento e lutulento. In generale la Chiesa cattolica ha tempi tutti suoi, lunghi, non certo quelli della vita delle persone di questo mondo in rapidacion, e quindi non ci si può aspettare da essa risposte in tempo per le questioni delle nostre vite singole e brevi. Ci arriverà, ma con i suoi tempi. Ma per fortuna la chiesa istituzionale non coincide con la chiesa escatologica.” A quanto pare la Chiesa ha davvero tempi suoi e sempre troppo lunghi. Papa Francesco ha eliminato d’amblais l’impedimentum sexus che grava per diritto canonico sull’esclusione delle donne dall’ordine, solo che l’ha eliminato solo per i ministeri. Ciò però dimostra che non ci vorrebbe poi tanto, solo un po’ di buona volontà. come disse la Zorzi: “L’errore è guardare alla tradizione pensando si tratti di qualcosa di monolitico, presente fin dall’inizio in modo unitario e immodificabile. Invece studiando anche solo un po’ la storia della teologia ci si rende conto che la tradizione è andata avanti proprio perché si è sempre modificata riuscendo ogni volta a superare nuove sfide e così a rinnovarsi.” Don Fabio Corazzina La sintesi della Commissione di Studio sul Diaconato Femminile, composta ovviamente da soli uomini, ha sentenziato pochi giorni fa che il diaconato femminile non sa da fare. Senza pretese teologiche ma con un briciolo di esperienza umana, cristiana e pastorale, Don Fabio Corazzina – ex-coordinatore nazionale di Pax Christi, grande sacerdote impegnato nelle marginalità e sui temi dell’ambiente, dell’accoglienza, della pace, della nonviolenza e del disarmo e grande assertore del protagonismo delle donne nella Chiesa – ha condiviso alcune considerazioni sui suoi social in commento alla decisione della Commissione: 1. le motivazioni storiche, bibliche, patristiche dottrinali, tradizionali citate mi sembrano sussurrate ex post, quasi a giustificare a tutti i costi una posizione già decisa. 2. sostenere nella tesi 3 che: “si può ragionevolmente affermare che il diaconato femminile non è stato inteso come il semplice equivalente femminile del diaconato maschile e non sembra avere rivestito un carattere sacramentale” lo definirei stucchevolmente irragionevole. 3. ma, questa stucchevole irragionevolezza giustifica la tesi 5 che “esclude la possibilità di procedere nella direzione dell’ammissione delle donne al diaconato inteso come grado del sacramento dell’Ordine.” 4. il top è la tesi della terza sessione, stupendamente incomprensibile perchè parla di mascolinità sacramentale: «La mascolinità di Cristo, e quindi la mascolinità di coloro che ricevono l’Ordine, non è accidentale, ma è parte integrante dell’identità sacramentale, preservando l’ordine divino della salvezza in Cristo. Alterare questa realtà non sarebbe un semplice aggiustamento del ministero ma una rottura del significato nuziale della salvezza». E io credevo che sia l’uomo che la donna fossero sacramentalmente immagine di Dio, soprattutto se si amano! 5. dolcetto finale, di speciale interesse, nell’ultima sessione: “è oggi opportuno ampliare l’accesso delle donne ai ministeri istituiti per il servizio della comunità”. Le donne esulteranno e organizzeranno una festina lady-ministeriale. 6. questa sintesi mi mostra una chiesa intimorita dalle donne, dal femminile, per il solo fatto che esiste, e dalla imperdonabile e insopportabile pretesa di partecipare ai ministeri ordinati. Don Corazzina ha aggiunto: “Non è la chiesa che amo e che vivo”. Come dagli torno. Una Chiesa retrograda che è ancora ferma alla gerarchia dei sessi nella struttura di potere della Chiesa. Una Chiesa che considera ancora degno di nota il “duplice principio petrino-mariano”, un concetto antiquato coniato dal teologo Balthasar per definire i ruoli ecclesiali delle donne e degli uomini all’interno della Chiesa. Come ha ben dimostrato la grande teologa Marinella Perroni, ci sono diversi livelli di problematicità di questo topos teologico che inventa e distingue un principio petrino da uno mariano: * il primo problema è che Balthasar conia il concetto con la finalità di integrare il primato di Roma in tutta la Chiesa; * il secondo problema è che questo dualismo si basa su una forma di universalizzazione per la quale tutti i singoli devono identificarsi in quanto maschi con Pietro e in quanto femmine con Maria; * il terzo problema deriva dal fatto che questo dualismo oppositivo si costruisce attorno ad una ideologia dei generi che si alimenta di stereotipi patriarcali facendoli diventare archetipi del maschile e femminile. All’archetipo del femminile vengono applicate caratteristiche quali l’amore, il nascondimento, il focolare, l’accoglienza, lo spirituale; mentre al maschile si applicano caratteristiche di autorità, potere, ministerialità e agire pubblico. Fare di Pietro e Maria dei simboli in base altresì al loro sesso, è una operazione problematica. I due sono concepiti in senso gerarchico e dicotomico e tale narrazione è tesa a mantenere i privilegi maschili perché le forme di esaltazione del femminile (“mistica della femminilità”)servono ad escludere il riconoscimento dell’una autorità pubblica delle donne. Ciò che risulta interessante e problematico allo stesso tempo è che mentre la sessualizzazione femminile, riguardando la chiesa tutta (“la Chiesa è donna!!” – viene ripetuto), può essere applicata sia a uomini che a donne, quella maschile –non si capisce bene perché – riguarda solo gli uomini maschi. Nella Chiesa si reprime sistematicamente il ruolo delle donne e quando lo si vuole esaltare lo si sublima: nulla di più discriminante. Pur nella sua illuminazione su moltissimi temi, Papa Francesco affermava che una donna non può accedere al sacerdozio “perché non le spetta il principio petrino, bensì quello mariano, che è più importante (…) Il fatto dunque che la donna non acceda alla vita ministeriale non è una privazione, perché il suo posto è molto più importante”. Parole che racchiudono clericalismo, patriarcato, potere, ma soprattutto la trappola della sublimazione: le donne – secondo questa logica – non potrebbero accedere ai posti di potere perchè il loro ruolo “è più importante”. Ciò ricorda un po’ il “genio femminile”[1] di cui parlava Papa Giovanni Paolo II nella Mulieris Dignitatem. Ma nulla è più fallace di questa narrazione. Oggi la Chiesa di Leone XIV non sembra dare segnali di evoluzione in tal senso. La verità è che la Chiesa, nel 2025 – mentre una miriade di altre Chiese cristiane ospitano il sacerdozio e il diaconato femminile – ha paura solo di concedere un grammo di potere o di protagonismo alle donne. Fin quando non si farà questo passo, la Chiesa deciderà di escludere più della metà dei sui fedeli da forme di protagonismo e decisione.   [1]Benedetta Selene Zorzi, Al di là del “genio femminile”. Donne e genere nella storia della teologia cristiana, Carocci Editore, marzo 2014 Ulteriori informazioni: https://www.queriniana.it/blog/ritorno-del-principio-mariano-petrino–291 https://www.alzogliocchiversoilcielo.com/2022/12/marinella-perroni-il-duplice-principio.html https://www.cittadellaeditrice.com/munera/von-balthasar-e-la-gerarchia-dei-sessi/ https://www.cittadellaeditrice.com/munera/sulla-formula-principio-marianoprincipio-petrino-m-perroni/ Lorenzo Poli
Negato il teatro all’evento “Democrazia in tempo di guerra”, le reazioni
Ferrero (PRC): la prima vittima della guerra è la democrazia! Ma noi non ci arrendiamo e pratichiamo una escalation di democratica. Martedì sit-in di protesta in piazza palazzo di città. “Quello che sta accadendo a Torino da un po’ di tempo a questa parte evidenzia come la prima vittima della guerra siano la verità, la libertà e la democrazia. Com’è noto, il Professor Angelo D’Orsi – in seguito a pressioni politiche –  non aveva potuto tenere la conferenza contro la russofobia al Polo del ‘900 un mese fa e quindi l’iniziativa venne riorganizzata presso il circolo ARCI La poderosa, con una grande partecipazione popolare. Oggi apprendiamo che il Teatro Grande Valdocco, che era stato affittato al Circolo ARCI della Poderosa per tenervi martedi 9 dicembre, una Conferenza dal titolo “Democrazia in tempo di guerra” a cui avrebbero partecipato Alessandro Barbero e Angelo D’Orsi, non è più disponibile. A questo punto è del tutto evidente che la prima vittima della guerra è la democrazia. Ma noi non ci arrendiamo e pratichiamo una escalation democratica. Invitiamo tutti i cittadini e le cittadine a partecipare Martedì prossimo 9 dicembre alle ore 18 al sit in di protesta che si terrà nella piazza Palazzo di città ed a prepararsi a partecipare alla nuova organizzazione del dibattito tra Barbero e D’Orsi, che si terrà in una location ovviamente molto più grande di quella prevista. Perché ai ladri di democrazia rispondiamo allargando la democrazia e la partecipazione popolare.” Redazione Torino
Negato il teatro all’evento “Democrazia in tempo di guerra”, il comunicato di Angelo D’Orsi
A pochi giorni dall’evento “Democrazia in tempo di guerra. Disciplinare la cultura e la scienza, censurare l’informazione”, previsto per il giorno 9 dicembre al Teatro Grande Valdocco di Torino, nel quale il sottoscritto avrebbe dialogato con il collega Alessandro Barbero, con l’adesione di importanti nomi della cultura, della scienza, del giornalismo, della comunicazione (Elena Basile, Alberto Bradanini, Luciano Canfora, Alessandro Di Battista, Donatella Di Cesare, Margherita Furlan, Enzo Iacchetti, Marc Innaro, Roberto Lamacchia, Tomaso Montanari, Piergiorgio Odifreddi, Moni Ovadia, Marco Revelli, Carlo Rovelli, Vauro Senesi, Marco Travaglio), ci viene comunicato questa mattina dalla proprietà del teatro, col quale si era giunti alla firma di un regolare contratto dopo una lunga gestazione, che lo spazio non ci verrà concesso. Al di là delle motivazioni pretestuose e della rottura unilaterale di un regolare contratto – per cui abbiamo già allertato il nostro team legale per avviare azione di richiesta risarcitoria dei danni che questo comportamento ci procura – non possiamo non rilevare che il fatto conferma perfettamente le nostre preoccupazioni sulla limitazione degli spazi di libertà nel Paese e in generale l’inquietante deriva politica e culturale di una democrazia ormai palesemente illiberale, a dispetto della facciata. Di questo avremmo voluto parlare nel corso della serata. Intanto mentre a nome dei soggetti organizzatori, che hanno lavorato per settimane per preparare l’evento, esprimo rammarico a chi aveva prenotato i posti, e a quanti, colleghi e amici che avevano data la loro disponibilità, a partecipare (a cominciare dal prof. Barbero), chiedo a quanti mi sono stati vicini in questo mese di “passione”, a quanti hanno a cuore i principi della legalità democratica sancita dalla nostra Costituzione, a quanti anelano soltanto ad essere correttamente informati, per poter assumere una posizione in merito alle gravissime problematiche del nostro tempo, di sostenermi in questo nuovo capitolo di lotta. Ancora una volta non si tratta solo di Angelo d’Orsi, ma di coloro che, esponendosi in prima persona, mirano semplicemente a esprimere il loro pensiero anche quando esso non sia “in linea” con quello dei poteri forti, palesi o occulti che siano. In ogni caso, l’evento si terrà. Nei primi giorni della prossima settimana comunicheremo data e luogo. Però, intanto, annuncio che alle 18.00 del 9 dicembre, nel giorno dell’evento negato, faremo un sit-in di protesta davanti alla sede del Comune di Torino, come luogo simbolo di una città che è di tutti, e deve essere di tutti, una città medaglia d’oro della Resistenza, la città di Gramsci e di Gobetti, per semplificare, di Norberto Bobbio e di Gastone Cottino, e di tanti e tante che si sono battuti per la libertà. Redazione Torino
Bresso, no aeroporto commerciale:non ci fermeremo nonostante il dietrofront di Enac Servizi Srl
“Non crediamo alle rassicurazioni date da Enac Servizi Srl e riteniamo le nostre preoccupazioni fondate e legittime. Ecco perché andremo avanti con la nostra protesta e abbiamo deciso di lanciare una raccolta firme in tutti i Comuni interessati dal traffico aereo intorno a Bresso. – dichiara il Comitato Difesa Parco Nord No Aeroporto Commerciale – Inoltre, entro gennaio inviteremo tutte le istituzioni, i Sindaci, Enac ed Enac Servizi Srl ad una assemblea pubblica sulla difesa del Parco Nord e del Protocollo del 2007”. Il Comitato Difesa Parco Nord – No Aeroporto Commerciale, alla luce delle audizioni di ieri in Regione Lombardia, ribadisce la sua completa contrarietà alla Regional Air Mobility e a qualsiasi violazione del Protocollo d’Intesa del 2007 relativo all’Aeroporto di Bresso “Franco Bordoni Bisleri”. Al fianco del Comitato, ieri mattina erano presenti all’audizione il Sindaco di Bresso Simone Cairo, il Vice Sindaco di Cusano Milanino Mario Zanco e di Cinisello Balsamo Giuseppe Berlino, il Presidente di Parco Nord Milano Marzio Marzorati, il promotore del Comitato Difesa del Parco Nord Arturo Calaminici, l’Assessore Elena Grandi del Comune di Milano e i rappresentanti di Città Metropolitana di Milano, che hanno espresso in maniera univoca le loro preoccupazioni sull’impatto che questa eventuale decisione avrebbe per l’inquinamento acustico, ambientale e per la sicurezza dei comuni limitrofi già densamente abitati. Gli auditi hanno, inoltre segnalato l’aumento dei voli dallo scalo milanese. “Sull’aeroporto di Bresso è, inoltre, attualmente in vigore il protocollo d’intesa firmato nel 2007 e sottoscritto da molti enti, tra cui la presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dei Trasporti, la Provincia di Milano e i Comuni coinvolti. – ha precisato il Sindaco di Bresso Simone Cairo – Tale protocollo esclude opere o interventi che potenzino ulteriormente la capacità di traffico aereo”. Il Protocollo di intesa è attualmente in vigore dal 31 luglio 2007 ed esclude tassativamente opere o interventi che configurino un potenziamento della capacità di traffico. Lo stesso Piano di Riassetto Aeroportuale, redatto dall’ENAC nel 2005, sottolineava come lo scopo fosse intervenire senza produrre impatti significativi sul territorio circostante ed escludendo qualsiasi modifica dell’utilizzo dell’infrastruttura o incremento di traffico e quindi anche di inquinamento acustico o atmosferico. A sottoscrivere quel documento furono: Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dei Trasporti, Provincia di Milano, Agenzia del Demanio, Ente Nazionale Aviazione Civile (ENAC), Comuni di Bresso, Cinisello Balsamo e Milano, Consorzio Parco Nord Milano. “Il Parco Nord risponde ai bisogni dei cittadini e alle esigenze di biodiversità. – ha aggiunto Marzio Marzorati, Presidente del Parco Nord Milano – L’anno scorso è stato frequentato da 3 milioni di visitatori. La natura ha assunto un ruolo pubblico. Se Bresso dovesse diventare uno scalo commerciale ci sarebbero conseguenze sulla fruizione del parco e anche sull’ambito residenziale”. “Non esiste nessuna richiesta né progetto che preveda di aprire l’aeroporto di Bresso al traffico commerciale. Le notizie che sono state diffuse nelle scorse settimane sono infondate. Quello che esiste è uno studio realizzato dalla Fondazione PWC Italia che ha esaminato le potenzialità di questa area per lo sviluppo di vari servizi sul territorio, come per esempio il trasporto sanitario di farmaci di nuova generazione con droni a propulsione elettrica e a idrogeno e il trasporto di organi e materiale biologico. Servizi per i quali sono in essere collaborazioni con aeroporti già operativi su questo fronte e con ospedali che sarebbero interessati a fruire di questi servizi”. Così si è difeso l’Amministratore Unico di Enac Servizi Srl Marco Trombetti che però ha firmato con Enac un contratto di programma dal 2025 al 2027 che prevede che dal 1° febbraio 2026 l’aeroporto di Bresso sarà affidato in gestione totale alla sua società la cui missione principale è quella di sviluppare la Regional Air Mobility (RAM), una rete nazionale di scali di aviazione generale come quello di Bresso. Qui un passaggio del documento: 𝐋’𝐞𝐫𝐨𝐠𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 (dei finanziamenti a Enac Servizi Srl) 𝐞̀ 𝐭𝐞𝐬𝐚 𝐚 […] 𝐚 𝐬𝐯𝐢𝐥𝐮𝐩𝐩𝐚𝐫𝐞 𝐞 𝐚 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐞𝐧𝐞𝐫𝐞 𝐥𝐞 𝐩𝐨𝐥𝐢𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐞𝐜𝐞𝐬𝐬𝐚𝐫𝐢𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐢𝐧𝐜𝐞𝐧𝐭𝐢𝐯𝐚𝐫𝐞 𝐥’𝐢𝐦𝐩𝐥𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐫𝐨𝐭𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐑𝐞𝐠𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥 𝐀𝐢𝐫 𝐌𝐨𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐲, 𝐢𝐧 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐢𝐜𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞 𝐬𝐮𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐞𝐫𝐨𝐩𝐨𝐫𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐜𝐮𝐢 𝐚𝐥𝐥’𝐚𝐫𝐭. 𝟒, 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐚𝐝 𝐄𝐍𝐀𝐂 𝐮𝐧 𝐩𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐧𝐞𝐜𝐞𝐬𝐬𝐚𝐫𝐢𝐞. Questo progetto aprirebbe gli aeroporti demaniali statali territoriali a voli commerciali nell’ambito della mobilità aerea territoriale tramite l’utilizzo di velivoli di massimo 19 passeggeri con un raggio d’azione che varia dai 300 a 600 chilometri.   Redazione Italia
Caos Eurovision: l’ok a Israele porta al ritiro di quattro Paesi
L’EBU approva la partecipazione di Israele all’Eurovision 2026. In risposta si ritirano 4 Paesi e il numero potrebbe aumentare. L’Eurovision Song Contest 2026 in questi mesi aveva mano a mano assunto le sembianze di una polveriera. L’EBU (European Broadcasting Union), con la sua assemblea generale di giovedì 4 dicembre ha acceso la miccia, facendo saltare tutto in aria. Con l’approvazione delle modifiche al regolamento, è stata ufficialmente autorizzata la partecipazione di Israele alla prossima edizione, che si terrà a Vienna (Austria) dal 12 al 16 maggio. Immediata è stata la reazione dei Paesi che da tempo chiedevano l’esclusione di Israele, in risposta al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza. Spagna, Paesi Bassi, Irlanda e Slovenia hanno già annunciato il boicottaggio della prossima edizione, mentre la prossima settimana potrebbero arrivare i ritiri anche di Belgio e Islanda. La Finlandia valuterà ulteriormente la situazione, mentre il Portogallo ha detto che si presenterà a Vienna. Questo è solo il primo scoppio di un disastro annunciato fin dal termine dell’edizione 2025, dove Israele non solo è stato al centro delle attenzioni per i fatti della Striscia di Gaza, ma anche per il controverso exploit al televoto della sua rappresentante Yuval Raphael, che ha così sfiorato un clamoroso trionfo. Sotto la lente di ingrandimento degli osservatori e degli appassionati è finito il primo posto al televoto, gonfiato grazie alle campagne promozionali multi-piattaforma ideate e promosse da agenzie governative israeliane, come evidenziato successivamente da Eurovision News – Spotlight. Subito dopo la finale dello scorso maggio i sopraccigli si erano alzati proprio in quei Paesi che oggi hanno annunciato il ritiro dalla prossima edizione. L’EBU ha mostrato tuttavia mancanza di nervo nella gestione della situazione, schiacciata dalle pressioni politiche. Ha dapprima annunciato una votazione a novembre (con quorum abbassato dal 75% al 50% più uno) per decidere sulla partecipazione o meno di Israele, per poi ritrattare e fissare una riunione dedicata. La questione è stata, infine, spostata all’Assemblea Generale dell’EBU, in cui si sarebbe votato non per l’esclusione o meno del Paese, ma per delle modifiche al regolamento. Il nuovo regolamento dell’Eurovision 2026 L’EBU già a novembre aveva annunciato novità, con l’obiettivo di «fornire tutele più solide e aumentare il coinvolgimento», come dichiarato dal Direttore dell’evento Martin Green. Tra le righe queste modifiche cercavano di garantire la partecipazione di Israele e rassicurare i Paesi più critici come Spagna, Paesi Bassi e Irlanda, in un complesso tentativo di mediazione. Tentativo naufragato sul nascere, vista l’immediata reazione del broadcast spagnolo RTVE che – come riportato da EurofestivalNews – ha definito “insufficienti” i cambiamenti. Si è arrivati così al 4 dicembre, quando la stessa RTVE assieme ad altre sette emittenti ha chiesto ugualmente il voto a scrutinio segreto sull’esclusione – anche solo provvisoria per un anno – di Israele. La richiesta è stata rigettata perché – dal punto di vista dell’EBU – l’approvazione del regolamento stabiliva nuove garanzie per la partecipazione di tutti i Paesi all’evento. Con 738 voti a favore, 264 contrari e 120 astenuti l’EBU ha reintrodotto le giurie tecniche nazionali nelle semifinali, aumentando il numero dei loro componenti da 5 a 7; ridotto il numero massimo di voti per utente da 20 a 10; modificato le Istruzioni di Voto e il Codice di Condotta del concorso per impedire campagne promozionali di terze parti e una revisione dei sistemi tecnici di sicurezza. Le reazioni e gli scenari possibili Subito dopo l’esito del voto sono usciti i primi comunicati stampa, tra cui quello durissimo dell’emittente olandese AVROTROS: “La partecipazione [all’Eurovision nda] non è conciliabile con i valori pubblici fondamentali per la nostra organizzazione. […] AVROTROS ha rilevato che la crisi umanitaria a Gaza, le restrizioni alla libertà di stampa e l’interferenza politica che hanno caratterizzato l’ultima edizione dell’Eurovision Song Contest erano incompatibili con i valori che rappresentiamo. In tale contesto, ha concluso che la partecipazione dell’emittente israeliana KAN quest’anno non poteva più essere in linea con le nostre responsabilità di emittente pubblica. Affidabilità, indipendenza e umanità sono i nostri principi guida. […] L’EBU ha riconosciuto che si sono verificate interferenze politiche durante la precedente edizione e ha annunciato misure aggiuntive per evitare che si ripetano. Tuttavia, queste misure non modificano quanto accaduto durante l’ultima edizione. […] Ciò che è accaduto nell’ultimo anno […] ha oltrepassato un limite per noi. […] Inoltre, la situazione a Gaza rimane estremamente fragile e profondamente preoccupante”. Dello stesso tono anche la dichiarazione dell’irlandese RTÈ («RTÉ rimane profondamente preoccupata per l’uccisione mirata di giornalisti a Gaza durante il conflitto e per il continuo diniego di accesso al territorio ai giornalisti internazionali») e della slovena RTVSLO («Per il terzo anno consecutivo, il pubblico ci ha chiesto di dire no alla partecipazione di qualsiasi Paese che ne attacchi un altro. […] L’Eurovision è stato un luogo di gioia e felicità fin dall’inizio, artisti e pubblico erano uniti dalla musica, e dovrebbe rimanere così. […] Non parteciperemo all’ESC se ci sarà Israele. A nome dei 20.000 bambini morti a Gaza»). Critiche sulla neutralità politica del concorso arrivano, infine, dalla Spagna con RTVE: «L’uso del concorso da parte di Israele per scopi politici rende sempre più difficile mantenere l’Eurovision come evento culturale neutrale». A questi quattro Paesi potrebbero seguire a ruota il Belgio, l’Islanda – che comunicherà la sua decisione mercoledì 10 dicembre – ma anche Finlandia e Svezia. Già solo con l’uscita di questi primi quattro Paesi, che non trasmetteranno l’evento, l’Eurovision Song Contest perderà – stando ai dati 2025 – quasi 10 milioni di spettatori (solo per la finale), il 6% complessivo. Tutto questo nonostante il ritorno in gara di Bulgaria, Moldavia, Romania e il probabile debutto del Kazakistan. Chiaramente opposta la reazione israeliana con il tweet del Presidente Isaac Herzog, che scrive «Israele merita di essere rappresentato su tutti i palcoscenici del mondo». Israele aveva ricevuto il sostegno del Paese organizzatore, l’Austria, così come della Germania. Il Cancelliere Friedrich Merz ad ottobre aveva dichiarato che sarebbe stata la Germania a dover lasciare il concorso qualora Israele fosse stato escluso. L’Italia nel mentre – salvo clamorosi ripensamenti – ci sarà, con il vincitore del Festival di Sanremo 2026. L’elenco definitivo dei Paesi in gara all’Eurovision Song Contest 2026 sarà pubblicato prima di Natale ma, comunque vada, sotto l’albero non ci sarà una bella sorpresa. Anna Polo
Dossier Leonardo in Parlamento il 9 dicembre
9 dicembre 2025 conferenza stampa alla Camera dei Deputati per la presentazione del dossier su Leonardo S.p:A.: piovono euro sull’industria “necessaria” di Crosetto e Leonardo S.p.A. Martedì 9 dicembre, su invito della deputata Stefania Ascari (M5S, Presidente dell’Intergruppo per la Pace tra la Palestina e Israele), BDS ITALIA presenterà un dossier sulle complicità di Leonardo S.p.A. nei crimini di guerra commessi in Palestina. Interverranno: Stefania Ascari (Deputata M5S), Arnaldo Lomuti (Commissione Difesa), Anthony Aguilar (ex contractor Gaza Humanitaria Foundation), Stefania Maurizi (giornalista d’inchiesta), Michela Arricale (avvocata), Rossana De Simone (attivista Peacelink), Raffaele Spiga (attivista BDS Italia). Diretta streaming sulla Web TV della Camera dei Deputati. Negli ultimi decenni l’Italia è diventata uno dei partner europei più fedeli a Israele. Con Leonardo in prima fila, la nostra industria è parte integrante del circuito che alimenta i crimini contro l’umanità e legittima il colonialismo. Il dossier denuncia tali complicità, evidenziando come le scelte politiche e industriali italiane non siano neutrali ma contribuiscano concretamente a rafforzare il regime israeliano di apartheid e occupazione. Leonardo S.p.A. intrattiene da oltre un decennio una cooperazione strutturale con il settore militare israeliano. Nel 2012 Israele ha acquistato 30 aerei M-346, oggi impiegabili con oltre dieci tipologie di armamenti, mentre l’Italia ha acquisito 1 satellite Optsat-3000 e 2 velivoli radar G550 CAEW nell’ambito dello stesso accordo. La presenza industriale diretta di Leonardo in Israele comprende tre sedi della controllata DRS RADA Technologies e una partecipazione del 12% nella società Radsee Technology. Il dossier rileva inoltre che Israele può rivendere a terzi i M-346 ricevuti, come avvenuto con la Grecia tramite Elbit Systems. Leonardo ricopre un ruolo significativo anche nel programma internazionale F-35, di cui l’Italia ospita la linea di assemblaggio e produzioni critiche. Tali elementi delineano un quadro di integrazione industriale e tecnologica che contribuisce alla disponibilità operativa dei sistemi in uso nelle forze armate israeliane. Il movimento globale BDS (Boicottaggio, Disinvestimento, Sanzioni), che rappresenta la più grande coalizione della società civile palestinese richiama l’Italia ai propri obblighi derivanti dalle sentenze della Corte internazionale di giustizia, tra cui l’imposizione di un embargo militare totale a Israele compreso il commercio bilaterale, il trasferimento e il transito di materiale militare e a duplice uso, i partenariati, la formazione congiunta, la ricerca accademica e altre forme di cooperazione militare. Questo tipo di sanzioni è tra gli obiettivi a cui il movimento BDS si pone di arrivare attraverso campagne d’informazione, pressione pubblica  e denuncia delle complicità. DOSSIER DA SCARICARE QUI: Piovono euro sull’industria “necessaria” di Crosetto e Leonardo SpA Le relazioni con Israele.  Redazione Italia
Perché l’ideologia woke è di destra
L’ideologia woke già da due anni ha perso smalto e innocenza, per diventare nelle mani delle destre l’insulto ideale con cui screditare ogni lotta contro razzismo, ingiustizia, oppressione. Il wokismo è diventato il dispositivo retorico reazionario della destra per criticare chiunque parli di lotta al colonialismo e all’imperialismo, anche se spesso e volentieri discorsi apparentemente anticoloniali stanno sullo sfondo dei discorsi woke. Non è un caso infatti che erroneamente molti autori progressisti vengono definiti woke, pur non essendolo di fatto. Ciò alimenta ancor di più la confusione sotto il cielo. L’obiettivo della destra è delegittimare chi parla di colonialismo occidentale e dei suoi crimini nella storia degli ultimi secoli, continuando a portare in palmo di mano i presunti “valori occidentali”. Dall’altra parte le esplosioni di puritanesimo rieducativo scatenato dagli eccessi della cancel culture hanno alienato chi, pur di opinioni progressiste, non accettava questo clima di inespressione. C’è chi la demonizza, descrivendola come una sorta di perversione-ossessione, e c’è chi invece la considera una forma addirittura di “progresso morale e spirituale dell’umanità”. Ma che cosa significa Woke? E in che cosa consiste questa nuova ideologia che sembra diventata egemone in molti ambienti della cosiddetta “sinistra neoliberal” occidentale? Sebbene sia fondamentalmente presa di mira dalla destra più reazionaria, davvero è di sinistra? Esistono, oltre alle solite critiche della destra bigotta e conservatrice, anche altre più sensate che mettono a nudo le ipocrisie e fanno luce sui suoi legami con l’attuale sistema-mondo e la sua ideologia di fondo, il neoliberismo? Il termine Woke,– letteralmente “sveglio” – entra ufficialmente nei dizionari dell’anglosfera a partire dal 2017 dopo essere stato adottato dal movimento anti-razzista Black Lives Matter. Non si tratta di una visione politica complessiva e organica, ma di un insieme – spesso anche un po’ caotico – di teorie e di rivendicazioni diverse ma che, secondo autori importanti come Chomsky o Zizek, hanno comunque un senso storico preciso e coerente: un vero e proprio cambio di paradigma nelle teorie e nelle pratiche politiche della sinistra occidentale. La sinistra non di sempre, ma la sinistra liberal: quella che non critica il capitalismo, ma parla di “capitalismo inclusivo”; quella che non parla di liberazione dai sistemi di oppressione, ma di emancipazione nei sistemi stessi; quella che non parla di mettere in discussione gli attuali rapporti di potere, ma vuole integrare tutti negli attuali ruoli di potere; infine quella che non parla di socialismo, ma di “mercato libero” in nome del “neoliberismo progressista”. L’ideologia Woke spazia dai classici temi connessi ai diritti civili ad alcune nuove battaglie culturali che vanno dalla distruzione di monumenti del passato alla politicizzazione degli orientamenti sessuali visti come atti di autoaffermazione, alla legalizzazione della gravidanza surrogata, alla censura del linguaggio ritenuto scorretto: da qui i grandi temi delle “guerre culturali”, la polarizzazione radicale dell’opinione pubblica e la lotta per il politically correct).   Questo nuovo orientamento politico ha origine in quella corrente culturale nota come postmodernismo emersa negli anni Settanta nelle università francesi e poi diffusasi in alcuni ambienti della sinistra liberal americana da cui poi è stata pienamente fecondata. Un nuovo approccio che prenderà anche il nome di New Left e che si caratterizza per una cesura piuttosto netta con la tradizione socialista e marxiana e si fonda su nuove teorie dello sfruttamento e dell’emancipazione più compatibili con le strutture capitaliste. A partire dagli anni Ottanta, con la crisi dell’Urss e l’affermarsi delle strutture economiche neoliberiste, che questa ideologia comincia a diffondersi e ad affermarsi. Per quanto quasi nessuno si definirebbe Woke, oggi nel nostro Paese gran parte di queste idee sono entrate a far parte dell’immaginario politico delle nuove generazioni, e questo anche grazie all’adesione ad alcune delle sue teorie da parte attori, influencer e di buona parte dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento. Dall’altro lato della barricata, ad avere risonanza sono purtroppo quasi solo le critiche mosse dalla destra bigotta e reazionaria che, in nome di una tradizione da loro arbitrariamente inventata, si erge ad eroica guardiana dei sacri valori del patriarcato, della distinzione dei ruoli di genere e, in generale, di come si facevano le cose una volta. Ma al di là del generale Vannacci e dell’estrema destra italiana, in questi anni anche tanti intellettuali di sinistra hanno preso posizione contro alcune delle tesi antropologiche e politiche dell’ideologia Woke più superficiali e contro l’atteggiamento aristocratico e antidemocratico di alcuni suoi esponenti. Nel suo libro Categorie della politica, Vincenzo Costa sottolinea, ad esempio, anche l’atteggiamento spesso elitario e classista di questa nuova sottocultura. Maturata all’interno delle università, l’ideologia Woke ha infatti fatto presa soprattutto negli ambienti di lavoro intellettuale e negli strati più agiati della popolazione. Nonostante il bombardamento mediatico, le classi popolari ne sono rimaste sostanzialmente estranee e, anzi, spesso guardano ad essa con ostilità e sospetto. Come scrive la giornalista Florinda Ambrogio: “La correlazione tra redditi alti dei genitori e comportamenti Woke dei figli salta agli occhi. […] In Francia, solo il 40 per cento degli operai ha sentito parlare della scrittura inclusiva e solo il 18 per cento sa di che cosa si tratta, contro il 73 per cento nelle categorie superiori.” Ma questa diffidenza e ostilità non è casuale e ha ragioni politiche profonde. Nella New Left postmoderna vengono infatti ridefinite le nozioni di dominio e di emancipazione: il soggetto da emancipare smette di essere identificato nei ceti subalterni e nelle classi lavoratrici – ossia le persone vittime della miseria e della precarietà – per diventare le minoranze etniche e sessuali e di coloro che, indipendentemente dal reddito, sono considerati o si sentono “diversi”. Diventando questi ultimi i soggetti sociali da emancipare, gli operai, contadini, impiegati e, in generale, le classi popolari, a causa della loro cultura – che viene considerata dallo wokismo retrograda, ignorante e prevaricatrice – diventano magicamente espressione del nuovo potere da abbattere. Dalla lotta politica allo sfruttamento e per l’emancipazione del 99% quindi, con l’ideologia Woke si passa alla lotta culturale contro il costume e le tradizioni popolari, ritenute come un bacino uniforme di sessismo, razzismo, omofobia. Per questo, scrive Costa, “anche l’atto rivoluzionario non consiste più nello spezzare i legami di potere e dipendenza tra le classi e gli uomini, ma nel distruggere la cultura popolare come emblema di oppressione delle minoranze”. Diventa quindi chiaro perché la sinistra liberal appaia sempre più spesso un’elitè che, demonizzando lo stile di vita e i legami comunitari, vorrebbe imporre loro una rieducazione dall’alto in base alle proprie convinzioni di nicchia. “Categorie della politica” di Vincenzo Costa Come nota Zizek, questo progetto è probabilmente destinato a fallire. “Sceneggiatori, registi, attrici e attori” – scrive il filosofo marxista sloveno in un articolo chiamato Wokeness is here to stay – “cadono sempre di più nella tentazione di impartire lezioncine moraleggianti. Una forzatura che non ha riscosso successo tra il pubblico, nonostante il settore dell’immaginario è dove si conquista il mondo reale e si rovescia il pensiero delle persone”. Differentemente dalle grandi figure della tradizione socialista, insomma, queste nuove forme di “intellettualismo degenerato” (parafrasando Adriana Zarri, quando si scagliava sia contro il pensiero unico democristiano sia contro i falsi intellettuali pronti ad esaltare la società dei consumi), non sembrano interessati ad ascoltare e a dare voce agli interessi della maggioranza delle persone, ma solo a biasimarne gli stili di vita accusandoli di ignoranza e discriminazione: “Quella che in origine era una sacrosanta volontà di uguaglianza di diritti” – continua Costa in Le categorie della politica – “rischia di diventare una vera e propria guerra culturale dei primi contro gli ultimi”. Un esempio emblematico, in questo senso, è il caso del cosiddetto linguaggio inclusivo: in maniera del tutto arbitraria e in barba ai secolari processi storici di formazione linguistica, alcune nicchie di intellettuali americani e europei hanno deciso di voler modificare alcune desinenze e pronomi, accusando di discriminazione e prevaricazione tutti coloro che non si adeguano. Il linguaggio è un discorso molto più complesso e non avviene mai per scelte arbitrarie prese da un momento all’altro. Mentre si bersagliano i plurali linguistici, a non essere mai toccate dalle critiche Woke sembrano essere proprio le principali cause della riproduzione della diseguaglianza e della discriminazione, ossia i meccanismi di mercato e di distribuzione della ricchezza. Per dirla con una battuta “Ci si emancipa con successo dall’oppressione di grammatica e sintassi, mente ci si prosterna accoglienti verso i consigli per gli acquisti degli influencer” scrive Andrea Zhok. Alla luce di questa trasformazione nei concetti di “discriminazione” ed “emancipazione” appare ora molto più chiaro il nesso tra cultura Woke e neoliberismo e la ragione per la quale i grandi poteri di questo mondo si siano spesso fatti portavoce di questa nuova ideologia. Nel wokismo, le questioni socioeconomiche, i rapporti tra lavoro e capitale, lo strapotere della finanza internazionale e la perdita di sovranità democratica vengono surclassate. Centrale è invece il tema dell’identità e delle narrazioni identitarie poichè a destare scandalo è la notizia di cronaca, sulle quali si fa leva per generare consenso. In secondo luogo, il wokismo promuove una politica dell’individualismo e della frammentazione in cui ogni fronte comune che si fondi sull’interesse nazionale, sull’interesse di classe, sull’interesse di una comunità locale viene infiacchito da conflitti privati di autoaffermazione. Si parla spesso, per questa tendenza, di Identity politics – politiche dell’identità -, ma sarebbe più giusto parlare di politica di rigetto dell’identità, visto che ogni identità collettiva viene percepita con disagio da individui abituati a pensare che la libertà sia totale assenza di vincoli e legami e che il processo di liberazione sia sempre un processo non con, ma contro ogni comunità di appartenenza: per citare Sartre, per i rappresentati della cultura Woke, “l’altro è l’inferno.” A partire da questo tema, un’altra grande critica all’ideologia woke è stata mossa dalla filosofa Susan Neiman – statunitense trapiantata in Germania – nel suo libro “La sinistra non è woke. Un antimanifesto”. Dappertutto sta risorgendo un nazionalismo feroce e cinico, contrapposto alla globalizzazione e l’elezione di Donald Trump è arrivata a coronare una rimonta delle destre reazionarie in tutto il mondo, con punte di neofascismo o addirittura neonazismo. Com’è potuto succedere? Neiman ha una sua risposta. Non è economica, geopolitica o tecnologica, ma è una risposta culturale: la destra ha vinto perché la sinistra non esiste quasi più. Come ha dichiarato Neiman in una intervista a La Repubblica: «È dal 1991 che la sinistra è allo sbando. Non solo il socialismo di Stato; ogni forma di socialismo è stata vista come fallimentare. In più, con la fine del socialismo di Stato è come se si fosse estinto ogni altro ideale e proprio qui il neoliberalismo, sostenuto dalla psicologia evoluzionistica, ha sostenuto e propagandato che l’unica forza universalista valida fosse il desiderio generale per beni di consumo e potere. E quelli a sinistra che non accettavano di aderire a questa prospettiva, si sono sentiti senza alternative se non combattere l’oppressione in termini molto particolari: la lotta al razzismo, al sessismo e all’omofobia. Lotte fondamentali, ma che non si possono portare avanti senza quei princìpi che proprio il progressivismo woke ha abbandonato». Dalla seconda metà del Novecento, secondo Neiman, i valori della sinistra sono stati messi in discussione proprio da certe frange neoliberali e movimentiste. Ed è così che molti fra coloro che oggi si considerano “di sinistra” non sono davvero “di sinistra”, ma sono “woke”. Che è una cosa diversa, anzi, in un certo senso è proprio il contrario: un movimento che vive la modernità in tutti i suoi aspetti futili, ma diffida delle sue fondamenta spesso senza cognizione di causa; che vive del mito del progresso economico, ma diffida dei suoi presupposti; che nega ogni fronte comune possibile, frammentando il corpo sociale in tribù identitarie in lotta; che rinuncia ai diritti sociali e si aggrappa esizialmente ai diritti civili. Già alla prima riga, Susan Neiman dichiara che questo libro non è «una tirata contro la cancel culture», ma è molto di più: un anti-manifesto, una lucida requisitoria sugli sbagli che la sinistra ha fatto, in questi decenni confusi. Perché è solo tornando a costruire, dalle fondamenta dei propri valori, che la sinistra può risorgere. «Woke fa appello alle tradizionali emozioni liberali e di sinistra: il desiderio di aiutare oppressi ed emarginati. Per questo motivo si tende a sottovalutare i vari modi in cui il movimento woke è profondamente minato al suo interno da idee molto reazionarie: il rifiuto dell’universalismo, la negazione che esista una distinzione di principio tra potere e giustizia, credere che ogni tentativo di progresso sia una forma mascherata di sottomissione. Tutte le idee che il woke tenta di boicottare sono valori fondamentali di sinistra» – ha affermato Neiman nell’intervista a La Repubblica – «(…) confonde la mente a progressisti e liberali che non riescono ad agire con chiarezza e, come si vede dalle recenti iniziative di Donald Trump, consente alla destra di qualificare e attaccare come woke qualsiasi tentativo di promuovere la giustizia sociale». Secondo la Neiman, è stata l’ideologia woke, con la sua retorica spesso irragionevole, a spalancare la strada alla destra più reazionaria. Il principale merito del pamphlet di Susan Neiman (che sta sbancando negli Stati Uniti) è di spiegare bene che il wokismo, un’ideologia fondamentalmente di destra, si è impossessata di ampie frange della sinistra. Neiman documenta brillantemente lo svilimento delle lotte “umanistiche” in rivendicazioni identitarie, l’infiltrarsi delle categorie schmittiane “amico-nemico” nel discorso politico di sinistra, la rinuncia alla concezione progressiva della storia ereditata dall’illuminismo. Rigettando universalismo, giustizia e progresso, i woke si sono sostanzialmente uniformati al particolarismo, all’ideologia del dominio e all’abolizione della speranza. Neiman non ha timore di dichiararsi socialista e persino illuminista. Se si va a vedere, la sua pars construens non è lontana da quella offerta da Axel Honneth in L’idea di socialismo. “La sinistra non è woke. Un antimanifesto” di Susan Neiman Ma la soluzione a queste contraddizioni non sarebbe il tanto ripetuto argomento per il quale bisogna portare avanti sia i diritti civili che quelli sociali? Sicuramente, ma dovremmo anche fingere di non vedere che, da mezzo secolo, il dibattito pubblico verte solo sui primi, mentre sono solo i secondi ad andare a picco; a questo proposito, una menzione merita l’ultimo libro di Carl Rhodes – Capitalismo Woke – dedicato ad un fenomeno in espansione, quello del Wokewashing, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente (greenwashing e veganwashing), le cause LGBT (pinkwashing o rainbow-washing), l’antirazzismo (blackwashing), i diritti delle donne (purplewashing), le azioni umanitarie (bluewashing), i diritti animali (animal-washing), o addirittura i temi sociali e i diritti del lavoro (redwashing): dal ricco CEO di BlackRock che tuona contro le discriminazioni allo spot di Nike contro il razzismo; da Gillette che fustiga la mascolinità tossica al sostegno di varie compagnie al referendum australiano del 2017 sul matrimonio omosessuale. Questi non sono esempi isolati: “Fra le imprese, soprattutto quelle globali, vi è una tendenza significativa ed osservabile a diventare woke” scrive Rhodes, tanto che “Secondo il New York Times il capitalismo woke è stato il leitmotiv di Davos 2020”. L’autore – che non è certo un conservatore di destra – ha, nei confronti di questo fenomeno, una posizione piuttosto negativa e ne sottolinea l’aspetto ipocrita e strumentale volto a sviare l’attenzione dalle pratiche oligarchiche e antisociali dei grandi gruppi economici: «È tempo di abbandonare l’idea che le imprese, in quanto attori principalmente economici, possano in qualche modo aprire la strada politica per un mondo più giusto, equo e sostenibile. Il capitalismo woke è una strategia per mantenere lo status quo economico e politico e per sedare ogni critica. Questo libro è un invito a opporgli resistenza e a non farsi ingannare». E’ infatti facile vedere come fra i temi di tale impegno ci sia una forzosa selezione determinata dai propri interessi: non si è ancora visto, ad esempio, le grandi aziende scendere in campo contro l’elusione fiscale, dato che sono i primi a praticarla. In qualche modo, Capitalismo woke di Carl Rhodes si sposa perfettamente con la critica, che fece la giornalista e saggista Naomi Klein in No Logo, ai processi di rebranding e di rebrandizzazione delle menti da parte delle multinazionali con il fine di rifarsi una verginità a fini di immagini pubblicitarie e propagandistiche. L’ideologia Woke, secondo Rhodes, sta diventando il corrispettivo di ciò che era il cristianesimo per la borghesia dell’800 e 900: un modo per vendersi come difensori della morale e del bene, sviando l’attenzione dalle forme sistemiche di sfruttamento che portano avanti. Dopo aver lottato contro il moralismo religioso di stampo cristiano di qualunque declinazione, ci troviamo oggi imbrigliati in una forma rigenerata di moralismo laico che nulla ha di diverso strutturalmente rispetto al primo se non nei contenuti. “Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia” di Carl Rhodes Il wokismo è un esempio di americanizzazione culturale in nome dell’individualismo liberale della società dei consumi dove tutto (corpo, idee, pensiero, identità, linguaggio) finisce per essere frammentato oltre ad essere poi ridotto a merce o a feticcio. Pier Paolo Pasolini, uno dei primi critici ante-litteram dell’ideologia woke, pochi mesi prima di essere ammazzato, aveva capito che sotto la copertura delle giuste rivendicazioni politiche delle minoranze si stava sviluppando una nichilistica distruzione di tutte le forme di vita difformi alla norma del consumismo individualistico. Così, a tal riguardo, scriveva sul Corriere della Sera nel 1975: “Tale rivoluzione capitalistica dal punto di vista antropologico pretende degli uomini privi di legami con il passato, cosa che permette loro di privilegiare, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue esigenze edonistiche. […] tale nuova realtà ha tratti facilmente individuabili; borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica ansia democratica, correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza”. Nulla di più vero. Questa società ha un immenso bisogno di diritti civili, che possono progredire di senso solo laddove sono accompagnati dallo sviluppo dei diritti sociali, altrimenti rimarranno diritti per pochi. Come direbbe la filosofa femminista e marxista Nancy Fraser, serve più che mai una ribellione del 99% della popolazione per pensare ad un mondo di verso in nome della cura, delle relazioni, della difesa dell’ambiente dalle follie delle nostre società capitaliste industriali opulente odierne. Servono alleanze dal basso per capire l’interconnessione di eventi e fenomeni perché non ci si salva da soli, ma serve capire quali siano i nostri interlocutori senza farci abbindolare da distrazioni di massa volte solo a canalizzare la rabbia collettiva per disperderla nel nulla, illudendoci di essere incisivi mentre i fatti di questo mondo ci ricordano che siamo sempre più impotenti.   (1) Vi è una sola pecca nel libro: un sostanziale fraintendimento di Foucault, di cui va di moda dire che è un postmodernista scettico, relativista e celebratore di una “concezione neutra del potere”. Il grande accusato è “Sorvegliare e punire”. Ma Foucault va letto fino agli ultimi corsi al Collège de France, per capire anche le prime opere e la sua critica radicale ad ogni potere. E Neiman finisce invece per alimentare questo superficiale cliché.   Ulteriori info: https://www.ondarossa.info/iniziative/2025/02/capitalismo-woke  https://www.futuroprossimo.it/2024/06/dal-blackwashing-al-rainbow-washing-per-le-aziende-impegno-o-facciata/ https://site.unibo.it/canadausa/it/articoli/fenomenologia-della-cancel-culture-tra-woke-capitalism-e-diritti-delle-minoranze https://www.limesonline.com/rivista/censura-e-wokismo-uccidono-l-universita-tedesca–16365764/ > Capitalismo woke https://www.globalproject.info/it/in_movimento/cannibalizzazione-e-resistenza-lecopolitica-anticapitalista-di-nancy-fraser/25269 https://www.leftbrainmedia.co.uk/post/the-comfortable-embrace-how-the-woke-left-serves-capital Lorenzo Poli
Germania: “Obiettiamo perché la pace richiede coraggio”
Nella notte tra giovedì 4 e venerdì 5 dicembre gli attivisti della campagna Wir verweigern! (Obiettiamo!) hanno modificato alcuni manifesti dell’esercito tedesco per richiamare l’attenzione sul diritto all’obiezione di coscienza e contrastare la propaganda a favore della guerra e della violenza. “Per me, che sono giovane, è inquietante vedere ovunque questa pubblicità a favore della guerra, una guerra in cui lo Stato vuole mandarmi con il servizio militare obbligatorio. La mia vita non è una vostra risorsa!”, spiega uno degli attivisti. Wir verweigern! è una campagna di un gruppo giovanile che invita alla disobbedienza civile di massa e oppone resistenza al riarmo e al servizio militare obbligatorio. All’inizio di settembre gli attivisti hanno scritto con lo spray sulla parete esterna dell’asilo nido del Bundestag: «Obbligate anche i vostri figli a uccidere?». Scritte in bianco: Fai quello che conta davvero. 70 motivi per l’esercito tedesco. Perché non possiamo cedere ad altri la responsabilità. Trova i tuoi motivi. 70 anni dell’esercito tedesco. Scritta in rosso su “responsabilità”: uccidere. Scritte in bianco: Perché i diritti fondamentali non si difendono da soli. Trova i tuoi motivi. 70 anni dell’esercito tedesco. Scritta in rosso su “diritti fondamentali”: Capitalisti. La protesta contro il servizio militare obbligatorio sta crescendo. Organizzazioni giovanili e studentesche di tutta la Germania invitano oggi, venerdì, a uno sciopero nazionale contro la visita medica obbligatoria. Uno degli attivisti ha commentato: «Non vogliamo morire per uno Stato che non si prende cura di noi. Le nostre scuole e le nostre università stanno cadendo a pezzi, le nostre pensioni stanno svanendo e stiamo vivendo il pieno impatto della catastrofe climatica. Come se non bastasse, ora dovremmo anche uccidere ed essere uccisi in prima linea per gli interessi di potere di altri. Ma siamo chiari: rifiuteremo il servizio militare». Comunicato stampa widerstands-kollektiv.org del 5 dicembre 2025 Pressenza Berlin
Sgomberi e morte di persone migranti: uno scandalo che non scandalizza
I fatti del 3 dicembre 2025 (ennesimo sgombero dei magazzini di Porto vecchio che stavolta ha interessato 150 persone migranti/transitanti e richiedenti asilo, e morte di Hichem Billal Magoura, cittadino algerino di 32 anni) mettono la città dinanzi a un nodo tragico. Lo sgombero è stata l’ulteriore dimostrazione di come, confrontate a problemi strutturali, le istituzioni reagiscono rispondendo ad altri criteri, e cioè a urgenze mediatiche di bassissimo profilo, da loro stesse create ad arte. Senza umanità, senza visione politica. Nel pomeriggio, poi, è stato trovato il corpo senza vita di un giovane algerino, Hichem Billal Magoura, in uno dei locali di Porto vecchio. Questa morte, per freddo e per le situazione spaventosa in cui le persone migranti vivono, segue quella di due pakistani in un caseggiato abbandonato tra i campi di Beivars (vicino a Udine) e quella di un richiedente asilo afghano (a Pordenone), tutti e tre uccisi dalle esalazioni di monossido di carbonio mentre tentavano di proteggersi dal gelo di questo già terribile autunno. Sono vittime annunciate di sciagurate politiche di accoglienza e di campagne xenofobe. Se la città e le sue istituzioni volessero ritrovare dignità, dovrebbero da subito attuare politiche diverse, sulla base del rispetto dei più elementari diritti dell’essere umano, calpestati con accanimento anche nella nostra città e nella nostra Regione. Gianluca Paciucci PRC – Trieste Rifondazione Comunista - Sinistra Europea
Seán Binder rischia vent’anni di carcere per aver salvato vite
È possibile rischiare vent’anni di carcere per aver aiutato delle persone a non morire in mare? È quello che sta accadendo a Seán Binder, 31enne tedesco cresciuto in Irlanda, esperto di soccorso subacqueo. Tutto inizia nel 2018 a Lesbo, in Grecia, quando viene arrestato dalla polizia insieme alla rifugiata siriana Sarah Mardini e accusato di vari reati, alcuni dei quali molto gravi. Passa 106 giorni in carcere fino al dicembre 2018, quando esce su cauzione. Da allora si apre per lui un percorso fatto di indagini, perquisizioni, informazioni parziali quando non del tutto assenti. Le accuse legate a reati minori – falsificazione, spionaggio, uso illegale delle frequenze radio – vengono annullate nel gennaio 2023 per vizi procedurali, ossia la mancata traduzione degli atti. L’impianto accusatorio connesso ai reati più gravi è ancora in piedi. Il processo si apre il 4 dicembre. Seán deve difendersi dalle accuse di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, appartenenza a un’organizzazione criminale e riciclaggio e rischia fino a 20 anni di carcere. Oggi Seán vive a Londra e insieme a Valeria Solarino siamo andati a trovarlo per farci raccontare la sua storia. Valeria Solarino ha curato la regia del video; le riprese e il montaggio sono di Anna Coccoli e le musiche sono a cura dei Mokadelic. “Se vedi qualcuno annegare, lo aiuti” Seán Binder ha scelto di andare in Grecia nel 2016, quando aveva 23 anni. Di fronte ai blocchi, ai respingimenti, all’indifferenza dell’Europa nei confronti delle persone migranti e richiedenti asilo che perdevano la vita in mare, ha pensato che quell’Europa non lo rappresentava ed è andato a Lesbo per attivarsi con una Ong locale. Il caso di Seán rientra in una dinamica di criminalizzazione della migrazione e di chi opera in solidarietà con le persone migranti, richiedenti asilo e rifugiate. Un approccio che si ritrova trasversalmente in tutta Europa e che, attraverso un uso distorto della normativa, colpisce singoli individui e Ong. Chi opera in solidarietà verso altre persone è in realtà un difensore dei diritti umani e, come sancito dall’omonimo Protocollo delle Nazioni Unite, il suo lavoro deve essere tutelato, non ostacolato. Siamo al fianco di Seán Binder e di tutte le persone criminalizzate solo per aver aiutato altri esseri umani. La solidarietà non è reato! Fai sentire la tua vicinanza a Seán, mandagli un messaggio e noi glielo consegneremo di persona. Cosa dice il diritto internazionale La lotta al traffico di esseri umani, su cui generalmente si basano i processi di criminalizzazione della solidarietà, dovrebbe al contrario incardinarsi nella creazione di percorsi di accesso regolari e sicuri, che tutelino i diritti delle persone in fuga. Le norme adottate dall’Unione Europea nel 2002 con l’obiettivo dichiarato di reprimere il traffico di esseri umani armonizzando la legislazione degli Stati membri in questo ambito – note come “pacchetto facilitatori” – e su cui attualmente sono in fase di negoziazione alcune proposte di riforma, devono essere in linea con il diritto internazionale: secondo il Protocollo delle Nazioni Unite sul traffico di esseri umani, perché una condotta possa essere soggetta a criminalizzazione deve esserci l’intenzione “di ottenere, direttamente o indirettamente, un vantaggio economico o materiale di altro genere” (articolo 6). Il riferimento esplicito alla necessità che vi sia l’elemento del profitto affinché una persona possa essere perseguita penalmente è volto a tutelare le persone migranti, i loro familiari, le Ong e i difensori dei diritti, riconoscendo inoltre che l’attraversamento irregolare delle frontiere è spesso l’unica possibilità per le persone in pericolo. L’attuale quadro normativo europeo e dei Paesi membri ha invece consentito la criminalizzazione e il perseguimento penale di chi agisce in solidarietà. Approfondisci il nostro lavoro sul tema.   Amnesty International