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Fosse comuni di massa a Gaza: Hamas sollecita un’azione globale
Gaza. Hamas ha esortato i tribunali internazionali e gli organismi competenti a perseguire i responsabili dopo che un’indagine ha rivelato che le forze israeliane hanno spianato con bulldozer i corpi di palestinesi in cerca di aiuti e li hanno sepolti in fosse poco profonde a Gaza. Il gruppo con base a Gaza, in una dichiarazione di mercoledì, ha invitato in particolare la Corte penale internazionale (CPI) e la Corte internazionale di giustizia (CIG) a seguire il caso di tale crimine efferato, includerlo nei rapporti che documentano i crimini del regime di Tel Aviv e portare i leader israeliani davanti alla giustizia per i loro delitti contro i palestinesi nella Striscia di Gaza. Hamas ha osservato che l’indagine della CNN, intitolata “Bulldozed corpses and unmarked graves” (“Corpi spianati e fosse comuni senza nome”), fornisce nuove prove documentate di uno degli aspetti del genocidio sistematico di Israele contro i palestinesi e offre ulteriori conferme del suo “tentativo deliberato di trasformare gli aiuti in trappole di morte di massa”. Il movimento di resistenza ha affermato che il crimine “orrendo” è parte dei crimini di guerra e degli attacchi sistematici che Israele sta perpetrando sotto gli occhi della comunità internazionale, con totale disprezzo per il diritto internazionale e i più basilari principi dei diritti umani. Hamas ha sottolineato che queste atrocità avvengono con la complicità dell’amministrazione statunitense e di alcuni governi occidentali, insieme ai tentativi di ostacolare il perseguimento internazionale dei criminali di guerra israeliani, in particolare il primo ministro Benjamin Netanyahu. Più di 2.000 palestinesi risultano uccisi nel 2025 mentre aspettavano di ricevere aiuti dalla cosiddetta Gaza Humanitarian Foundation, gestita congiuntamente dagli Stati Uniti e da Israele. Il rapporto della CNN, basato su analisi video, immagini satellitari e testimonianze di ex soldati, evidenzia che Israele ha commesso violazioni sistematiche del diritto umanitario internazionale a Gaza. L’indagine rivela la sorte dei palestinesi scomparsi mentre cercavano di raggiungere i convogli umanitari nel nord di Gaza. I sopravvissuti e le famiglie dei dispersi hanno raccontato momenti caotici segnati da spari indiscriminati delle forze israeliane, mentre i civili disperati si affrettavano a procurarsi del cibo. A giugno, Ammar Wadi, un giovane palestinese, aveva lasciato la sua casa in cerca di farina e non è più tornato. Settimane dopo, sul suo telefono è stato trovato un ultimo messaggio alla madre, che diceva: “Perdonami se succede qualcosa”. La sua sorte resta ignota e il suo corpo non è stato ancora recuperato. Filmati video, geolocalizzati nell’area di Zikim, mostrano diversi corpi in decomposizione, alcuni parzialmente sepolti, vicino a un camion di aiuti ribaltato. Si sono osservati cani che rovistavano tra i resti, mentre le immagini satellitari mostrano attività di bulldozer nell’area sia durante che dopo gli incidenti. Le squadre della difesa civile hanno riferito che numerosi corpi non hanno potuto essere recuperati a causa dei continui attacchi israeliani. Un ex soldato israeliano ha raccontato alla CNN che la sua unità aveva sepolto nove palestinesi disarmati senza contrassegnare le tombe né documentarne l’identità con fotografie. Ha descritto come l’odore della decomposizione diventasse insopportabile mentre i cani rovistavano tra i resti. Euro-Med Human Rights Monitor ha documentato tali pratiche attraverso un programma sistematico che utilizza indagini sul campo nel nord e nel sud della Striscia di Gaza. I rapporti sul campo dell’organizzazione indicano che le forze israeliane hanno spesso seppellito corpi palestinesi in spazi pubblici, aree aperte e luoghi vicini a strutture critiche come centri di distribuzione degli aiuti, ospedali e scuole. Queste operazioni venivano spesso condotte dopo che le aree erano state militarmente isolate, con accesso negato a squadre mediche, famiglie e residenti locali. Il gruppo con sede a Ginevra ha sottolineato che questa pratica elimina potenziali prove di uccisioni illegali, ostacola indagini approfondite e nega alle famiglie il diritto di conoscere il destino e il luogo di sepoltura dei loro cari, violando ulteriormente la dignità umana e il diritto internazionale. (Fonti: PressTV, PIC, Quds News, Euro-Med Monitor).
Caos Eurovision: l’ok a Israele porta al ritiro di quattro Paesi
L’EBU approva la partecipazione di Israele all’Eurovision 2026. In risposta si ritirano 4 Paesi e il numero potrebbe aumentare. L’Eurovision Song Contest 2026 in questi mesi aveva mano a mano assunto le sembianze di una polveriera. L’EBU (European Broadcasting Union), con la sua assemblea generale di giovedì 4 dicembre ha acceso la miccia, facendo saltare tutto in aria. Con l’approvazione delle modifiche al regolamento, è stata ufficialmente autorizzata la partecipazione di Israele alla prossima edizione, che si terrà a Vienna (Austria) dal 12 al 16 maggio. Immediata è stata la reazione dei Paesi che da tempo chiedevano l’esclusione di Israele, in risposta al genocidio dei palestinesi in corso a Gaza. Spagna, Paesi Bassi, Irlanda e Slovenia hanno già annunciato il boicottaggio della prossima edizione, mentre la prossima settimana potrebbero arrivare i ritiri anche di Belgio e Islanda. La Finlandia valuterà ulteriormente la situazione, mentre il Portogallo ha detto che si presenterà a Vienna. Questo è solo il primo scoppio di un disastro annunciato fin dal termine dell’edizione 2025, dove Israele non solo è stato al centro delle attenzioni per i fatti della Striscia di Gaza, ma anche per il controverso exploit al televoto della sua rappresentante Yuval Raphael, che ha così sfiorato un clamoroso trionfo. Sotto la lente di ingrandimento degli osservatori e degli appassionati è finito il primo posto al televoto, gonfiato grazie alle campagne promozionali multi-piattaforma ideate e promosse da agenzie governative israeliane, come evidenziato successivamente da Eurovision News – Spotlight. Subito dopo la finale dello scorso maggio i sopraccigli si erano alzati proprio in quei Paesi che oggi hanno annunciato il ritiro dalla prossima edizione. L’EBU ha mostrato tuttavia mancanza di nervo nella gestione della situazione, schiacciata dalle pressioni politiche. Ha dapprima annunciato una votazione a novembre (con quorum abbassato dal 75% al 50% più uno) per decidere sulla partecipazione o meno di Israele, per poi ritrattare e fissare una riunione dedicata. La questione è stata, infine, spostata all’Assemblea Generale dell’EBU, in cui si sarebbe votato non per l’esclusione o meno del Paese, ma per delle modifiche al regolamento. Il nuovo regolamento dell’Eurovision 2026 L’EBU già a novembre aveva annunciato novità, con l’obiettivo di «fornire tutele più solide e aumentare il coinvolgimento», come dichiarato dal Direttore dell’evento Martin Green. Tra le righe queste modifiche cercavano di garantire la partecipazione di Israele e rassicurare i Paesi più critici come Spagna, Paesi Bassi e Irlanda, in un complesso tentativo di mediazione. Tentativo naufragato sul nascere, vista l’immediata reazione del broadcast spagnolo RTVE che – come riportato da EurofestivalNews – ha definito “insufficienti” i cambiamenti. Si è arrivati così al 4 dicembre, quando la stessa RTVE assieme ad altre sette emittenti ha chiesto ugualmente il voto a scrutinio segreto sull’esclusione – anche solo provvisoria per un anno – di Israele. La richiesta è stata rigettata perché – dal punto di vista dell’EBU – l’approvazione del regolamento stabiliva nuove garanzie per la partecipazione di tutti i Paesi all’evento. Con 738 voti a favore, 264 contrari e 120 astenuti l’EBU ha reintrodotto le giurie tecniche nazionali nelle semifinali, aumentando il numero dei loro componenti da 5 a 7; ridotto il numero massimo di voti per utente da 20 a 10; modificato le Istruzioni di Voto e il Codice di Condotta del concorso per impedire campagne promozionali di terze parti e una revisione dei sistemi tecnici di sicurezza. Le reazioni e gli scenari possibili Subito dopo l’esito del voto sono usciti i primi comunicati stampa, tra cui quello durissimo dell’emittente olandese AVROTROS: “La partecipazione [all’Eurovision nda] non è conciliabile con i valori pubblici fondamentali per la nostra organizzazione. […] AVROTROS ha rilevato che la crisi umanitaria a Gaza, le restrizioni alla libertà di stampa e l’interferenza politica che hanno caratterizzato l’ultima edizione dell’Eurovision Song Contest erano incompatibili con i valori che rappresentiamo. In tale contesto, ha concluso che la partecipazione dell’emittente israeliana KAN quest’anno non poteva più essere in linea con le nostre responsabilità di emittente pubblica. Affidabilità, indipendenza e umanità sono i nostri principi guida. […] L’EBU ha riconosciuto che si sono verificate interferenze politiche durante la precedente edizione e ha annunciato misure aggiuntive per evitare che si ripetano. Tuttavia, queste misure non modificano quanto accaduto durante l’ultima edizione. […] Ciò che è accaduto nell’ultimo anno […] ha oltrepassato un limite per noi. […] Inoltre, la situazione a Gaza rimane estremamente fragile e profondamente preoccupante”. Dello stesso tono anche la dichiarazione dell’irlandese RTÈ («RTÉ rimane profondamente preoccupata per l’uccisione mirata di giornalisti a Gaza durante il conflitto e per il continuo diniego di accesso al territorio ai giornalisti internazionali») e della slovena RTVSLO («Per il terzo anno consecutivo, il pubblico ci ha chiesto di dire no alla partecipazione di qualsiasi Paese che ne attacchi un altro. […] L’Eurovision è stato un luogo di gioia e felicità fin dall’inizio, artisti e pubblico erano uniti dalla musica, e dovrebbe rimanere così. […] Non parteciperemo all’ESC se ci sarà Israele. A nome dei 20.000 bambini morti a Gaza»). Critiche sulla neutralità politica del concorso arrivano, infine, dalla Spagna con RTVE: «L’uso del concorso da parte di Israele per scopi politici rende sempre più difficile mantenere l’Eurovision come evento culturale neutrale». A questi quattro Paesi potrebbero seguire a ruota il Belgio, l’Islanda – che comunicherà la sua decisione mercoledì 10 dicembre – ma anche Finlandia e Svezia. Già solo con l’uscita di questi primi quattro Paesi, che non trasmetteranno l’evento, l’Eurovision Song Contest perderà – stando ai dati 2025 – quasi 10 milioni di spettatori (solo per la finale), il 6% complessivo. Tutto questo nonostante il ritorno in gara di Bulgaria, Moldavia, Romania e il probabile debutto del Kazakistan. Chiaramente opposta la reazione israeliana con il tweet del Presidente Isaac Herzog, che scrive «Israele merita di essere rappresentato su tutti i palcoscenici del mondo». Israele aveva ricevuto il sostegno del Paese organizzatore, l’Austria, così come della Germania. Il Cancelliere Friedrich Merz ad ottobre aveva dichiarato che sarebbe stata la Germania a dover lasciare il concorso qualora Israele fosse stato escluso. L’Italia nel mentre – salvo clamorosi ripensamenti – ci sarà, con il vincitore del Festival di Sanremo 2026. L’elenco definitivo dei Paesi in gara all’Eurovision Song Contest 2026 sarà pubblicato prima di Natale ma, comunque vada, sotto l’albero non ci sarà una bella sorpresa. Anna Polo
Contro la violenza dei coloni in Cisgiordania servono scelte vincolanti
La violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania contro la popolazione palestinese è in costante escalation. Le cronache e i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani documentano migliaia di attacchi negli ultimi due anni, registrando un record assoluto proprio lo scorso ottobre con almeno 264 attacchi in un mese: incursioni armate nei villaggi, pestaggi, distruzione sistematica di case, campi e infrastrutture, furti e saccheggi. Uno degli episodi più recenti è avvenuto nella zona di Ein al-Dujuk, vicino a Gerico: quattro attivisti – un canadese e tre italiani – sono stati aggrediti nel sonno, picchiati e derubati da un gruppo di coloni mascherati, armati di bastoni e fucili. È l’ennesima prova di una violenza di tipo squadrista, resa possibile dall’impunità garantita dalle autorità israeliane, che mira strategicamente a terrorizzare la popolazione palestinese per spingerla ad abbandonare la propria terra. Ogni giorno palestinesi subiscono gli stessi attacchi terroristici – spesso ancora più violenti e con esito letale – lontano dalle telecamere e dall’attenzione dei governi occidentali: «Siamo stati aggrediti nel sonno, picchiati, derubati di documenti, telefoni, carte di credito e di tutti i nostri effetti personali. Quello che è accaduto a noi è la realtà quotidiana dei palestinesi: siamo qui a supporto della popolazione e per documentare quanto accade, perché la nostra esperienza sia cassa di risonanza della loro quotidianità.», ci ha raccontato uno dei volontari aggrediti. Di fronte all’aggressione a Ein al-Dujuk, il Ministro degli Esteri Antonio Tajani si è limitato a un commento generico, minimizzando l’accaduto, condannando timidamente a Israele e invitandolo a fermare le azioni dei coloni in Cisgiordania. Non è sufficiente: il governo Meloni deve assumere decisioni concrete, all’altezza della gravità delle violazioni del diritto internazionale da parte dell’entità sionista. «L’Italia deve agire nei confronti di Israele alla stregua di quanto la comunità internazionale fece contro il regime di apartheid sudafricano, adottando misure non simboliche ma vincolanti, per isolare un regime criminale» ha dichiarato Maria Elena Delia, portavoce italiana di GMTG/GSF. «Per questo chiediamo che il governo italiano assuma immediatamente i seguenti impegni concreti»: * embargo sulle armi e sui componenti militari destinati a Israele; * sospensione degli accordi di cooperazione politica, commerciale, militare, di sicurezza e ricerca strategica che rafforzano l’occupazione; * disinvestire e smantellare ogni forma di collaborazione nelle arene politiche, culturali e sportive, finché non sarà messo fine all’occupazione e i responsabili del genocidio saranno perseguiti e chiamati a rispondere dei propri crimini. A Gaza, intanto, centinaia di migliaia di persone affrontano l’inverno in tende allagate e insicure, con accesso limitato a cibo, acqua e cure mediche. Chiediamo con forza al ministro Tajani di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione del governo per ottenere l’apertura di corridoi umanitari permanenti e rimuovere gli ostacoli politici e burocratici all’ingresso degli aiuti. La credibilità di una nazione si misura sulla capacità di trasformare le dichiarazioni di facciata in scelte concrete, nel rispetto degli obblighi internazionali che l’Italia ha sottoscritto e ratificato. Global Movement to Gaza
Libano: oltre 10 mila violazioni dalla tregua da parte di Israele
In queste settimane si sono verificati nuovi bombardamenti in Libano, in particolare nel sud, mentre si registrano droni che sorvolano la zona e che hanno lanciato esplosivi in diverse città come nel caso di Aitaroun, con la scusa di voler colpire Hezbollah. Tutto questo si inserisce in un quadro generale di un cosiddetto percorso di normalizzazione dei rapporti tra Libano e Israele il quale include l’abbandono delle armi da parte di Hezbollah e pressioni internazionali da parte degli Usa. In questo stesso contesto si inserisce la visita del papa di questi giorni. Di queste dinamiche ma anche del sentire della popolazione e delle anime che si muovono nella società a fronte di questi passaggi abbiamo parlato con Agnese Stracquadanio, reporter indipendente ora in Libano.
Non in nostro nome! Incontro a Milano con il Rabbino Dovid Feldman
Mercoledì 3 dicembre presso l’Università Statale si è svolto un interessante incontro con il Rabbino Dovid Feldman di New York, di passaggio a Milano dopo aver partecipato venerdì scorso 28 novembre alla manifestazione a Genova e sabato 29 a quella di Roma a favore della Palestina, sempre sfoggiando una kefiah al collo. Purtroppo i tempi per ottenere l’autorizzazione all’evento da parte dell’Università erano troppo stretti e gli organizzatori, il Prof. Antonio Violante e Alessandro Corti, hanno optato per tenere comunque l’incontro davanti all’Università. Erano presenti diverse decine di persone e molti passanti incuriositi si sono fermati per ascoltare. Il Rabbino Dovid Feldman appartiene al movimento Neturei Karta International, un gruppo religioso ebraico ortodosso che non riconosce l’autorità e la stessa esistenza dello Stato di Israele, in base all’interpretazione del giudaismo e della Tōrāh. I seguaci, concentrati principalmente a Gerusalemme, sono circa 5.000, ma sono presenti anche a New York, a Londra e in Canada. Nonostante le ridotte dimensioni la Neturei Karta  ha esercitato una notevole influenza nei dibattiti sulla relazione tra ebraismo e sionismo. I suoi membri non commerciano con banconote israeliane, non si uniscono alla riserva dell’esercito dello Stato ebraico, obbligatoria per i cittadini israeliani adulti, non cantano l’inno nazionale, non celebrano il Giorno dell’Indipendenza di Israele e non pregano nel luogo più sacro al giudaismo: il Muro del Pianto. Intrattengono rapporti con le autorità palestinesi e il mondo arabo e contestano ai sionisti la strumentalizzazione dell’Olocausto. Il movimento fu fondato nel 1938 a Gerusalemme da ebrei appartenenti all’antica comunità ortodossa stanziata da molte generazioni in Palestina. Gli antisionisti più radicali si raccolsero attorno ai Neturei Karta. Secondo questi la terra oggi occupata dallo Stato di Israele apparteneva a coloro che la abitavano da secoli: arabi, a qualunque confessione appartenessero ed ebrei che vivevano nelle terre palestinesi prima dell’affermarsi della colonizzazione. Il Rabbino Feldman ha tenuto il suo pacato e  lucido discorso in inglese. Non è sembrato vero poter udire una voce ebraica così autorevole e chiara nel definire lo stato attuale delle cose e le responsabilità dello Stato di Israele, nel genocidio del popolo palestinese, definendo criminali gli atti compiuti. Il rabbino ha insistito nel distinguere i concetti di ebraismo e sionismo, arrivando a dire: “ Il sionismo è proibito dalla religione ebraica. Il creatore del mondo ci ha mandato in esilio e ci ha proibito di lasciare tale esilio con il nostro potere umano. Lasciare l’esilio da soli sarebbe una ribellione contro Dio e quindi gli ebrei che credono in Dio non possono sostenere il sionismo. Ciò è ancora più vero alla luce del fatto che il progetto sionista è stato intrapreso a spese di molte persone innocenti e ha comportato la sottrazione della loro terra e delle loro proprietà, l’uccisione di molti di loro e l’espulsione degli altri senza che avessero alcuna colpa.” Il rabbino ha inoltre enumerato i vari pericoli dell’equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, definendolo un crimine contro la verità, perché crea la falsa impressione che ebrei e sionismo siano una cosa sola. Si tratta di una profanazione del nome di Dio, poiché implica che gli ebrei si siano ribellati a Dio. Inoltre questa stessa nozione porta le persone a indirizzare erroneamente la loro opposizione politica ai crimini dello Stato di Israele verso tutti gli ebrei del mondo. La definizione di antisemita in realtà rischia di scatenare l’antisemitismo là dove tenta di mettere a tacere la rivendicazione palestinese, causando un effetto boomerang e portando molte persone a etichettare tutti gli ebrei come sionisti. In conclusione, afferma il rabbino, l’attribuzione del termine antisemita a chi si oppone al sionismo e allo stato di Israele è sbagliata e criminale. Voci come questa dovrebbero poter risuonare ovunque per fare chiarezza e giustizia di tanta confusione e iniquità che pervade i dibattiti e le nostre relazioni. Era presente anche il giovane Assessore del Municipio 1 Lorenzo Pacini, che ha salutato ed espresso solidarietà e posizioni davvero coraggiose rispetto al dramma palestinese e la questione sionista, in evidente contrasto con le opinioni e le dichiarazioni dei suoi colleghi. Un incontro emozionante per la chiarezza, la pulizia, la moralità e l’umanità che questo religioso ha saputo portare e trasmettere. Loretta Cremasco
ONU: il maltempo e la crisi idrica aggravano le già terribili condizioni umanitarie di Gaza
Gaza – PIC. Jonathan Veitch, rappresentante speciale dell’UNICEF in Palestina, ha descritto la situazione nella Striscia di Gaza come “devastante”, osservando che il freddo e il maltempo stanno colpendo famiglie che già vivono in condizioni estremamente difficili. “La situazione a Gaza è devastante mentre il freddo e le forti piogge continuano a colpire famiglie che vivono in condizioni estremamente difficili”, ha detto Veitch in dichiarazioni rilasciate martedì. “Anche con il cessate il fuoco, la vita quotidiana rimane incredibilmente difficile per i bambini nella Striscia di Gaza”, ha affermato il funzionario dell’UNICEF. “Le tende finanziate dagli aiuti del Regno Unito sono ora entrate a Gaza e forniranno rifugi urgentemente necessari per aiutare le famiglie ad affrontare il rigido inverno. Ma serve molto di più”, ha aggiunto. Da parte sua, il Relatore speciale delle Nazioni Unite sul diritto all’acqua potabile sicura e ai servizi igienico-sanitari, Pedro Arrojo, ha avvertito di un’imminente catastrofe umanitaria nella Striscia di Gaza, osservando che l’esercito israeliano ha distrutto quasi il 90 percento delle strutture idriche dall’inizio della guerra contro l’enclave. In una recente dichiarazione, Arrojo ha accusato l’esercito israeliano di usare la sete come arma contro i residenti di Gaza, prendendo di mira le infrastrutture idriche e bloccando l’ingresso del carburante necessario per far funzionare pozzi e impianti di desalinizzazione. L’esperto ONU ha sottolineato che l’acqua potabile contaminata rappresenta una minaccia diretta per migliaia di famiglie di Gaza, in un contesto di crescenti timori di epidemie di colera e altre malattie mortali a causa della mancanza di acqua sicura.
“Olocausto palestinese”, un libro da leggere per capire e discutere
Autrice di questo saggio, appena pubblicato da Edizioni Al Hikma di Imperia, è Angela Lano, scrittrice, giornalista professionista, ricercatrice presso l’Università di Salvador de Bahia in Brasile e direttrice dell’agenzia di stampa InfoPal.it. Il testo dell’Autrice è anticipato da un’interessante prefazione di Pino Cabras e arricchito da un’appendice giuridica curata da Falastin Dawoud. Il volume è composto di 191 pagine, prezzo di copertina 14 euro e il ricavato dalle vendite finanzierà la campagna “1000 coperte per Gaza”. Il titolo si rifà a “Olocausto Americano” dello storico David Stannard che indaga sul genocidio dei nativi americani commesso dai colonizzatori europei. Questo tema fa da sfondo all’analisi dell’Autrice circa il dramma vissuto dai palestinesi dal giorno in cui iniziò l’insediamento dei pionieri del progetto coloniale sionista, basato sul suprematismo “bianco” e avente l’obiettivo di sostituirsi alla popolazione nativa utilizzando strumentalmente la narrazione biblica come fonte di un presunto diritto. La Palestina, si legge, non è solo la fonte di un immenso dolore, ma è anche “il simbolo attuale di migliaia di anni di ingiustizie, di genocidi, di pulizie etniche in nome di una superiorità razzista e suprematista” che caratterizza la “civiltà” europea, la stessa che 500 anni fa iniziò lo sterminio dei nativi americani, ed è sui resti di oltre 60 milioni di indigeni che si sono formati i democratici States, principali sostenitori di Israele, esecutore impunito del genocidio incrementale dei palestinesi . Il genocidio, afferma l’Autrice ricordando vari genocidi della storia “non è solo una componente del colonialismo occidentale: ne è il suo fondamento, da sempre” e oggi Gaza può essere definita “il capolinea dell’umanità e della legalità internazionale”. Senza l’abile e servile ammortizzatore mediatico non sarebbe stato possibile occultare l’essenza propria del progetto sionista, delle sue orripilanti pratiche disumane e della rete di complicità politiche, governative, finanziarie ed economiche che ne garantiscono l’impunità. Pagina dopo pagina cresce nel lettore la consapevolezza che gli arresti arbitrari, le illegali e continue appropriazioni di terre, le stragi di innocenti, le orrende torture dei prigionieri, il sadismo mostrato con criminale fierezza dai militari dell’IDF, l’uccisione mirata di centinaia di giornalisti, sanitari e operatori umanitari, le proposte di legge da Stato nazista, il disprezzo per la legalità internazionale e le sue  massime Istituzioni, tutto questo “non è un epifenomeno o una conseguenza accidentale dell’oppressione sionista” ma è la violenza propria, “radicata nell’ideologia del sionismo e una produzione sistematica delle mentalità colonialiste” e sarebbe un errore, afferma l’Autrice, considerare le criminali azioni commesse dall’Idf in questi due anni come reazione all’azione armata del 7 ottobre 2023 denominata Al Aqsa Flood, l’operazione guidata dall’ala militare di Hamas che viene spiegata dall’Autrice con pregevole schiettezza, nonostante la più che probabile, quanto strumentale accusa di antisemitismo. Scrive infatti Angela Lano che “Assaltando basi militari e kibbutz, i militanti palestinesi miravano a catturare il maggior numero possibile di soldati e civili israeliani” per liberare attraverso gli scambi le migliaia di palestinesi di ogni età arrestati e spesso rapiti dall’IDF in tutta la Palestina, ma spiega anche che “l’azione della Resistenza va intesa all’interno di un più ampio processo geopolitico internazionale: si tratta di una battaglia de-coloniale, di una ribellione… del popolo palestinese contro il suo centenario oppressore… contro il sionismo e i suoi coloni…”. Segue la documentazione circa  l’andamento dei fatti di quelle drammatiche ore che i nostri media hanno definito “pogrom” contro gli ebrei  arricchendo le loro narrazioni di orrori mai avvenuti, come dimostrato dalle stesse inchieste israeliane. La scelta di definire pogrom un’azione indubbiamente violenta, ma di rivolta contro l’oppressore e non di natura razzista, rivela il cedimento al razzismo, questo sì, dei sostenitori del suprematismo bianco di cui Israele è parte a pieno titolo. L’Autrice nota che i nostri media non hanno rettificato o smentito le loro precedenti accuse basate su menzogne ormai conclamate, perché lo stereotipo che vuole arabi e musulmani generalmente ignoranti e violenti consolida la percezione negativa nei loro confronti e rafforza  “l’idea di inferiorità” disumanizzando e collocando “queste popolazioni  … in posizioni subordinate e oggetto di campagne diffamatorie difficili da decostruire”. Sostanzialmente, scrive, “ci troviamo di fronte a forme neocoloniali… al suprematismo bianco e alla visione orientalista del mondo islamico…”. Pertanto l’opinione pubblica va tenuta in una bolla che le impedisca la comprensione d’insieme della disumanità razzista insita nel colonialismo d’insediamento e, quindi, di capire che è indispensabile “un processo di decolonizzazione che smantelli l’ideologia e la struttura coloniale… che smantelli il ‘Progetto Israele’.” L’autrice afferma che Hamas, insieme ad altri movimenti minori, rappresenta il rifiuto della colonizzazione della Palestina e rivendica il diritto del suo popolo all’autodeterminazione, se necessario anche con la resistenza armata, come ammesso dallo stesso Diritto internazionale. Spiega quindi al lettore che “La nascita di Hamas, a fine anni ’80, e la sua vittoria in elezioni democratiche nel 2006, il suo approccio politico e pratico verso la liberazione della Palestina” e infine l’operazione del 7 ottobre 2023, hanno riportato la questione palestinese sullo scenario globale… (sulla) necessità/diritto di ricorrere alla resistenza”. Aggiunge poi che “chi ancora sostiene che Hamas, anziché essere una genuina espressione del popolo palestinese che lotta, sia una ‘creatura/creazione di Israele’… o è in malafede o è semplicemente un prodotto umano del colonialismo occidentale duro a morire”. Paradossalmente, scrive ancora Angela Lano, l’olocausto di Gaza sta sterminando proprio i discendenti di quegli ebrei che circa 2500 anni fa avevano occupato la terra di Canaan, quelli che rimasero o tornarono in Palestina e che in parte mantennero la loro religione, in parte si convertirono al cristianesimo e, successivamente, in parte si convertirono all’Islam. Praticamente un olocausto di semiti commesso da sionisti in nome della difesa dall’antisemitismo! Del resto, la combinazione di interessi tra l’impero coloniale britannico e il progetto sionista di inizio “900 non si curava di questo, visto che “Il sionismo si definiva chiaramente come ‘ un movimento ebraico per la colonizzazione dell’Oriente’.” Olocausti e pulizia etnica, come mostra questo libro, sono una costante storica della cosiddetta civiltà occidentale e con pochi esempi, dalle leggi razziali USA prese a modello da Hitler, all’eugenetica USA, ancora utile esempio per il nazismo, ai campi di concentramento africani e al conseguente genocidio tedesco di Herero e Nama trent’anni prima che il nazismo si affermasse, all’apartheid statunitense vigente fino alla metà del secolo scorso, l’Autrice espone una poco indagata e molto amara verità: il nazismo non fu un male esterno dell’Occidente ma un suo prodotto, una filiazione del colonialismo. È “nato nel suo grembo e ancora vi alberga”: il genocidio in corso in Palestina, supportato dai suoi complici e tollerato dai loro vassalli ne è una prova, e il potere del sistema informativo di guidare ad hoc la percezione e di scegliere “un lessico che anestetizza l’orrore” ne è il sostegno ancillare. In conclusione, questo libro apre alla discussione con coraggio e onestà intellettuale e questo è uno dei motivi per cui merita di essere letto. Le prime presentazioni si avranno il 6 dicembre a Ladispoli (provincia di Roma) e il 13 a Rovato (provincia di Brescia). Patrizia Cecconi
Cisgiordania: aggressione da parte dei coloni ai danni di attivistx internazionali
Una decina di coloni israeliani, con il volto coperto, all’alba di domenica, ha fatto irruzione in un’abitazione a Ein Al-Duyuk, vicino a Jericho, che ospitava 4 attivistx internazionali che si trovano in Cisgiordania per supportare la popolazione palestinese. Dopo essere entrati, i coloni hanno aggredito le persone che stavano riposando all’interno, rubando loro i passaporti, i telefoni cellulari, e tutti i loro averi. Tre degli attivisti feriti sono cittadini italiani, mentre una quarta persona ha la cittadinanza canadese. Ascolta il racconto dell’aggressione.
Standing Together, costruire un’alternativa in Israele-Palestina
L’assemblea del 10° anniversario del movimento Standing Together ha coinvolto circa 1.500 palestinesi ed ebrei che hanno preso parte alla costruzione di un’alternativa. “In questi due giorni abbiamo visto migliaia di persone che credono nel modo in cui ci stiamo impostando un potere politico che offre un’alternativa, davanti all’estrema destra la cui strategia è separazione e paura, gestire il conflitto anziché una soluzione. Abbiamo stabilito un’alternativa politica basata sul partenariato ebraico-arabo e sulla pace israelo-palestinese. La voglia viva e calciante di cambiamento si è sentita in questi due giorni in ogni parte dello spazio, in ogni paio d’occhi che si sono incontrati.” Con queste parole, il movimento ha condiviso su Instagram l’essenza dell’Assemblea. Alon-Lee Green, il co-direttore di Standing Together, ha condiviso sui social un messaggio alla polizia israeliana, che ha fatto irruzione nella convention per minacciare e silenziare. “Hanno chiesto di rimuovere il cartello con la scritta ‘Lasciare Gaza’. Abbiamo un messaggio chiaro: non ci intimidirete. Sappiamo che quello che facciamo è per la salvezza di entrambi i popoli che vivono su questa terra. Venite qui e state venendo meno al vostro dovere nelle comunità arabe, dove organizzazioni criminali violente stanno aumentando senza paura perché sanno che voi non li arresterete… Noi siamo qui insieme, ebrei e palestinesi, per la libertà e l’uguaglianza.” Standing Together è un movimento che negli ultimi anni è cresciuto moltissimo. E’ un movimento trasversale e questa è la loro visione e missione: «Immaginiamo una società che serva tutti e tutte noi e tratti ogni persona con dignità. Una società che scelga la pace, la giustizia e l’indipendenza per israeliani/e e palestinesi, ebrei/e e arabi/e. Una società in cui tutti e tutte possiamo godere di una vera sicurezza, di un alloggio adeguato, di un’istruzione di qualità, di una buona assistenza sanitaria, di un clima vivibile, di uno stipendio dignitoso e della possibilità di invecchiare con dignità. Una società del genere è possibile — la stiamo già costruendo.» Purtroppo, Standing Together è stato accusato di “normalizzazione” dall’Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI), membro del movimento BDS e per questo è nella lista di organizzazioni da boicottare. Di fronte alle accuse di “normalizzazione” mosse dal movimento BDS, Standing Together sostiene che per costruire un reale cambiamento servono una vasta coalizione di persone e la capacità di generare potere, non una politica della purezza che impone di usare determinate parole per essere accettati. Fino al 1° ottobre 2023 la loro presenza online era minima, ma dopo il 7 ottobre è cresciuta enormemente, dando vita a un nuovo discorso pubblico. Nel gennaio 2024 PACBI ha chiesto di boicottare Standing Together, accusandola di “normalizzare”, ossia di presentare come normale ciò che avviene in un contesto di oppressione, e criticando il fatto che israeliani/e e palestinesi collaborino. Contemporaneamente, Standing Together si mobilitava contro l’annientamento a Gaza, e alcuni/e attiviste/i venivano arrestate/I dal governo israeliano. Alon-Lee afferma di comprendere le critiche sul linguaggio, ma di essere rimasto scioccato dall’accusa secondo cui il movimento servirebbe gli interessi del governo israeliano. Personalmente, riconosce l’apartheid e il diritto al ritorno, ed è parte della lotta internazionale per i diritti dei palestinesi. Allo stesso tempo,  riconosce la necessità di una strategia capace di costruire potere reale, anche parlando con chi la pensa diversamente, inclusi i soldati, senza limitarsi a dire solo ciò che si ritiene giusto, ma anche ciò che può trasformare la realtà. Rula Daood, co-direttrice di Standing Together, come palestinese cittadina di Israele descrive invece quanto sia doloroso che altri palestinesi invitino a boicottare la propria gente, pretendendo di stabilire come lei debba parlare sotto un regime oppressivo; le critiche non sono nemmeno tradotte in arabo e si presentano come un attacco che la ferisce profondamente, facendola percepire come “meno palestinese” agli occhi di altri. (The long answer, Podcast di Standing Together, Episodio del 14 novembre 2025) In questi ultimi anni di genocidio a Gaza e pulizia etnica nella Cisgiordania, Standing Together e altri movimenti congiunti di israelianə e palestinesi (come ad esempio Combatants for Peace) hanno fatto azioni di presenza protettiva, hanno organizzato e partecipato alle manifestazioni, mobilitato la società, svolto programmi di educazione, invitato all’immaginazione politica, incarnato un futuro possibile in cui i popoli che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo possano co-esistere in dignità, libertà, e sicurezza. «Perché, se vogliamo cambiare la nostra realtà, dobbiamo prima immaginarla… L’immaginazione politica è uno strumento politico. È ciò che ci permette di sollevare la testa dall’acqua per un momento e chiederci: Dove vogliamo andare? Come dovrebbero essere davvero le nostre vite su questa terra?”» (Sally Abed, nel suo discorso durante l’Assemblea) Fonti: https://www.standing-together.org/en https://ukfost.co.uk/standing-together-holds-its-10th-annual-national-convention https://www.instagram.com/reel/DRsBa2bitkg/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=NTc4MTIwNjQ2YQ== https://www.instagram.com/reel/DRmg3xEDAvo/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=NTc4MTIwNjQ2YQ== Ilaria Olimpico