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Francesca Albanese: “La sopravvivenza della Palestina sarà la nostra riabilitazione”
Riprendiamo dal sito di Reti Solidali un articolo di Maurizio Ermisino su un incontro avvenuto a Roma con Francesca Albanese, ambasciatrice ONU in Palestina, per la presentazione del suo libro “Quando il mondo dorme” La solidarietà è la declinazione politica dell’amore, secondo la Relatrice Speciale dell’ONU per la Palestina. Per Albanese l’obbligo di prevenire il genocidio è scattato con l’istanza del Sudafrica alla Corte di Giustizia di gennaio 2024. Il sacrificio della Palestina deve essere un’occasione. Possiamo uscirne distrutti o migliori. Genocidio. Pulizia etnica. Apartheid. Le parole sono importanti. E usare le parole giuste per raccontare che cosa sta accadendo oggi in Palestina, nella Striscia di Gaza, è sempre più importante. L’incontro con Francesca Albanese, Relatrice Speciale dell’ONU per la Palestina, di ieri sera al MONK a Roma, per presentare il libro Quando il mondo dorme (Rizzoli, 2025), è stato in questo senso illuminante. In un giardino gremito di folla, con altrettante persone rimaste fuori, Francesca Albanese ha parlato a cuore aperto, con quella “dolorosa gioia”, come la definisce lei, che è  raccontare una situazione terribile con la consolazione della condivisione della denuncia.  Ogni volta è straziante, un dolore collettivo, ma c’è l’obbligo di non fermarsi e di riflettere per cambiare un sistema e di provare a costruire il domani che vogliamo. «Mi si chiedeva perché è così importante chiamare quello che sta accadendo a Gaza “genocidio” e perché dire che Israele sta commettendo crimini di guerra e crimini contro l’umanità non è sufficiente» si è chiesta Francesca Albanese. «Se andate dal medico con il cancro e vi dice che avete la febbre, ha sbagliato la diagnosi. Se anche si dovesse condannare la leadership israeliana per crimini di guerra, si fallirebbe la soluzione del problema fondamentale. Non è solo lo Stato di Israele, ma il Sionismo come ideologia predicata sulla realizzazione di uno Stato di soli ebrei in Palestina, che vuol dire che non lo è per tutti gli altri popoli. Il genocidio è l’intenzione di distruggere un gruppo in quanto tale. Ed è quello che Israele sta facendo con atti di uccisione, con l’inflizione di condizioni di vita calcolate per distruggere: se togli l’acqua, il tetto sopra la testa, il cibo, il carburante, se distruggi tutti gli ospedali, se impedisci alle persone l’accesso a qualsiasi cosa per vivere, il risultato è questo. Ormai siamo al di là: nelle ultime settimane sono morte 147 persone, la maggior parte bambini, la maggior parte neonati, per mancanza di viveri. Se anche domani cessassero di piovere le bombe sui palestinesi rinchiusi in quel ghetto che Israele ha creato nel 1948, il genocidio c’è già stato. E chiamarlo genocidio ci dà la misura di quella che è stata la nostra responsabilità». «La cosa fondamentale della convenzione sul genocidio è la prevenzione» continua. «Abbiamo già fallito. L’obbligo di prevenire il genocidio è scattato quando la Corte di Giustizia internazionale ha ricevuto, nel gennaio del 2024, l’istanza del Sudafrica, a cui si sono uniti altri 14 Paesi». «Passo dopo passo facciamo la cosa giusta. Sicuramente non saremo peggio di come siamo adesso» FERMARE L’ECONOMIA DEL GENOCIDIO La grande ipocrisia è quella di tanti Paesi, tra cui l’Italia, che hanno continuato a intrattenere rapporti politici e commercial con Israele. «Un governo può rendersi complice» afferma Francesca Albanese. «Ma noi cittadini possiamo dire no, basta. Ai comuni che mi danno la cittadinanza onoraria io dico: se volete che l’accetti dovete bandire il Made in Israel. A chi è stressato per quanto zucchero ci sia nelle marmellate per i propri figli dico: usate lo stesso zelo per vedere quali prodotti vanno a finanziare direttamente l’economia dell’occupazione che si è trasformata in economia di genocidio. Tanti studenti hanno monitorato le relazioni dei loro atenei con Israele: vanno tagliate senza se e senza ma perché uno Stato accusato di apartheid, genocidio, crimini di guerra non è uno Stato con cui si possono avere relazioni. Fareste oggi una relazione con il Sudafrica al tempo dell’apartheid? La fiction per cui c’è un Israele buono ed uno cattivo deve finire. È Israele che è accusato di crimini: da oggi non si commercia più, non si trasferiscono armi né know-how, non si fa ricerca neutra con uno Stato accusato di crimini internazionali». FRANCESCA ALBANESE: NELLA SOPRAVVIVENZA DEI PALESTINESI CI SARÀ LA NOSTRA RIABILITAZIONE Queste richieste sono arrivate alla politica italiana, che non ha risposto. Cosa si può fare per sensibilizzarla? «Loro sono quello che sono. Nel 2027 dovrete valutare se questa gente merita di rimanere al potere oppure no» risponde, tra gli applausi, Francesca Albanese. «Credo molto nel valore della politica, per me è una parola con la P maiuscola. Capisco i giovani che fanno cittadinanza attiva. Questa deve essere la nuova declinazione della politica. Il sacrificio della Palestina ci deve dare questo: non usciremo da questa fase nello stesso modo in cui siamo entrati. Possiamo uscirne distrutti o uscirne migliori. Prendiamo il dolore di questo momento come quello di un parto: si soffre, si spinge per portare alla luce qualcosa di nuovo. Una frase che ho mutuato e che uso spesso è: la solidarietà è la declinazione politica dell’amore. Questo è un momento di solidarietà in cui ci si ritrova: so che l’amore per me è un amore di riflesso per il popolo palestinese. Che è un popolo dolce e buono. Se lavoriamo tutti insieme non solo il genocidio si fermerà. Non solo i palestinesi si ricostruiranno come fanno del 1948. Ma nella loro sopravvivenza ci sarà la nostra riabilitazione, quella dal peccato originale di noi occidentali, cioè 500 anni di colonizzazione. La declinazione politica dell’amore è questa: dobbiamo tornare ad essere buoni. Lo dobbiamo a noi stessi, alla società che vogliamo lasciare ai nostri figli e nipoti». IL MONDO NON SI CAMBIA A CEFFONI In questi anni Israele, con gli Stati complici, sta mettendo in atto un esercizio lucido della cattiveria. Nel senso di “captivus”, cioè “chiuso”, qualcuno che non è nemmeno in grado di vedere il male che sta facendo. In che modo oggi noi occidentali possiamo sensibilizzare e avere il coraggio e l’intelligenza di fare quel passo indietro rispetto al mondo? «Ci sono tante cose che dobbiamo imparare a fare, ma prima dobbiamo disimparare» risponde Francesca Albanese. «Dobbiamo dismettere certi automatismi. Abbiamo l’ansia da prestazione. Invece di saltare alle conclusioni, alle soluzioni, alla destinazione, dovremmo pensare al processo. E nel frattempo dobbiamo ascoltare. È fondamentale ascoltare perché ascoltare significa capire». Nel libro si legge un episodio particolare, un momento in cui anche Francesca Albanese ha provato un senso di vergogna. «Quando ero in Palestina, già 15 anni fa, Israele arrestava una media di 500-700 bambini all’anno, tra i cinque e i dodici anni e, se un adulto interveniva, ci stava che non tornasse a casa. Nel 2012 mi chiedevo: perché dobbiamo scrivere lettere ad Israele chiedendogli che si rispettino i diritti della convenzione del fanciullo quando arrestano i bambini e li portano nelle corti militari? Ma perché stiamo qui a normalizzare l’abominio? Con il tempo sono riuscita a staccarmi da quel processo di convenienza. Per me era insopportabile il peso della coscienza, sapere quello che potevo o non potevo fare da funzionario delle Nazioni Unite. Il mondo si cambia se si fa la cosa giusta ad ogni passo. Bisogna creare consapevolezza sulla Palestina, di cui si sa ancora troppo poco. Ho avuto un tremore quando un farmacista stava vendendo un prodotto Teva. Se mi dite “voglio fare qualcosa” cominciate a non venderli più. Ma, nei confronti degli ebrei, ammettiamo il garbo, la dolcezza, l’eleganza. Perché il mondo non si cambia a ceffoni». PALESTINA: IL BANCO DI PROVA DEL RISPETTO DELLA LEGALITÀ Cosa dovrebbero fare gli Stati? Come ha scritto ieri Francesca Albanese su X, non dovrebbero solo riconoscere lo Stato di Palestina, fare gesti simbolici, prendere le distanze da Israele. Dovrebbero sanzionare Israele, imporre un embargo totale alle armi, spezzare l’assedio inviando navi, sospendere tutti gli accordi commerciali, indagare e perseguire chi ha commesso crimini nei territori palestinesi occupati. La risposta è sempre: “ma siamo amici di Israele”. «Non si può vituperare la parola amicizia in questo modo» commenta Francesca Albanese. «Se hai un amico che sbaglia, gli dai uno scappellotto. Prendi delle misure perché la persona che ami non sbagli più. Qui si sta parlando di violenza estrema. Un popolo va immaginato come un corpo. Quante ferite si possono infliggere ad un corpo per decenni? E quanta comprensione si può chiedere a questo un corpo e all’anima che lo abita? Con il politico con cui ho parlato c’era proprio una posizione ideologica: “come ti aspetti che noi interrompiamo le relazioni con uno Stato come Israele?” Uno stato così indecente con un esercito così immorale io non me lo ricordo in un Paese che si dice democratico. Negli ultimi anni ho visto cose incredibili. E non è che i palestinesi prima se la passassero bene: già nel 2013 le Nazioni Unite denunciavano maltrattamenti, torture e stupri su minori nelle carceri israeliane. Dove eravamo noi? Dove eravamo nel 2022 quando i pogrom nei confronti dei villaggi palestinesi si moltiplicavano? Per quel viceministro degli affari esteri che mi diceva “non possiamo interrompere le relazioni con lo Stato di Israele” ho pensato: “o vi convinceremo noi o il vostro popolo, alle prossime elezioni voi non ci sarete”. La Palestina sta diventando il banco di prova del rispetto della legalità di cui abbiamo bisogno tutti quanti. Oggi non si può passare e stare in silenzio sul corpo di 20mila bambini». FERMARE IL TRAFFICO D’ARMI Dobbiamo fermare il traffico di armi, raccontare chi le fa. «Altra Economia ha fatto inchieste sulla Leonardo spa, partecipata dal 30% dello Stato italiano, che partecipa alla produzione degli F35 in modalità Beast Mode, in modo da portare una quantità di bombe in grado di distruggere un intero territorio, con il danno di 8 nucleari. Tutti abbiamo un potere e dobbiamo esercitarlo adesso. I portuali di Genova e di Ravenna sono stati i primi a dare l’allarme perché in questi porti si trasferivano armi verso Israele». BISOGNA CURARE L’ANIMA DI UNA TERRA Ci si chiede quale possa essere il processo di transizione verso un futuro che possa portare a una pacifica convivenza tra i due popoli. «Ci sono tanti strumenti per immaginare il futuro» riflette Francesca Albanese. «Possiamo vederlo come la destinazione di qualcosa che vogliamo costruire. C’è una parola che non compare nel vocabolario di noi occidentali: è “healing”, “cura”. Bisogna curare l’anima: c’è un trauma incredibile in quella terra». «Prima di tutto vanno portati i diritti» conclude. «Passo dopo so facciamo la cosa giusta. Sicuramente non saremo peggio di come siamo adesso». Redazione Italia
Manifesto degli insegnanti per Gaza
Riceviamo da Tiziana Guidi, una delle promotrici e volentieri pubblichiamo questo importante documento. In fondo alla lettera al Ministro Valditara si trovano i riferimenti per contatti a informazioni. La scuola è il luogo dove si sviluppano abilità, conoscenze e competenze, e dove si apprendono i veri valori della vita. Oggi il nostro ruolo di educatori non ha senso e non è credibile se non prendiamo una posizione netta contro la risoluzione violenta dei conflitti e il genocidio in corso a Gaza ed in Cisgiordania Non si può rimanere indifferenti di fronte al dramma che sta vivendo la popolazione palestinese e in particolare per le sofferenze indicibili dei bambini e dei ragazzi. La Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, approvata nel 1989 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, stabilisce quali sono i diritti inviolabili di bambine, bambini e adolescenti e i doveri degli adulti nei loro confronti: nulla di tutto ciò oggi è possibile in Palestina e Cisgiordania. Ad oggi ai bambini palestinesi  viene negato: il diritto all’istruzione e allo sviluppo il diritto alla protezione dalla violenza e dagli abusi il diritto a un ambiente sicuro e sano, ma soprattutto il diritto all’esistenza! Lanciamo un appello al mondo della scuola invitandolo a sottoscrivere questo documento che così riassume la nostra posizione: Condanniamo la violenza e le violazioni dei diritti umani Ribadiamo l’inalienabilità del diritto all’istruzione e allo sviluppo per tutti i bambini e le bambine palestinesi. Denunciamo la grave crisi umanitaria che avrà conseguenze devastanti a breve ed a lungo termine sulla salute fisica e mentale della popolazione In nome di ciò chiediamo: L’immediato cessate il fuoco e la protezione dei civili. Il riconoscimento dello Stato di Palestina e l’applicazione immediata della Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza Il ripristino dei confini antecedenti al 1967, come da risoluzione n. 242 dell’ONU L’immediata cessazione di invio di armi allo Stato d’Israele ed il divieto di qualsiasi collaborazione militare con esso da parte del governo italiano Insieme per una pace giusta e duratura. Promotori e primi firmatari: Tiziana Guidi, Francesca Russo e Alberico Mitrione. Adesioni: Associazioni: La Comunità per lo sviluppo umano- Av, Irpinia in movimento, Insieme per Avellino e l’Irpinia, Unicef- Avellino, L’Angolo delle storie, ASD Taekwondo – Avellino, Controvento, Arci Saviano, Aps Cuore al centro, Pax Christi-AV, Archeoclub d’Italia-Avellino, Zia Lidia Social Club, La mela di Odessa, L’albero vagabondo, Il Bucaneve – edizioni e saggio, Info@Irpinia, Radio Arci Masaniello, L’Albero della vita, Edizioni Disvelare. Gruppi musicali, teatrali e di danza: I Lumanera, Teatro 99 posti, La Bottega del Sottoscala, Puck Teatral, Il Teatro di Gluck, Teatro d’Europa, Barabba Blues, Cantiere Danza, Emian, Muovimenti, Vernice fresca, Teatro Arci Saviano.  Pagine e gruppi FB: Avellino Rinasce, Collettivo Hurriya, Occhi di un Mondo Altro, La Comunità per lo sviluppo umano- Italia, Poesis,  Marcia Mondiale per la Pace e la Nonviolenza. Sindacati: ANIEF Avellino, FLC-CGIL Il Vescovo di Avellino Monsignor Aiello Le promotrici del manifesto hanno inoltre inviato una lettera aperta al Ministro Valditara: Gentile Ministro Valditara, di fronte  all’immane tragedia che sta colpendo il popolo palestinese non si può non provare un indicibile dolore. Chi le scrive appartiene al mondo della scuola e per noi educatori, in questi mesi, pensare di aver davanti dei giovani, dei bambini e degli adolescenti che possono godere di cibo, istruzione, accoglienza, protezione, assistenza sanitaria, mentre ai loro coetanei palestinesi oggi è negato persino il semplice diritto all’esistenza, è stato fonte di disagio e malessere: ha attanagliato le nostre coscienze condannando spesso le nostre notti all’insonnia. Da questo è nato il “Manifesto degli insegnanti per Gaza”, dalla necessità di non voltarsi dall’altra parte e di ribadire che quei sacrosanti diritti dei bambini e degli adolescenti, affermati nel 1989 dalla Convenzione che li consacrò, non possono continuare ad essere calpestati.  Così come avviene per il diritto all’autodeterminazione dei popoli, sancito nei trattati di pace al termine della 1* Guerra Mondiale proprio da un presidente americano, Woodrow Wilson,  nei suoi 14 punti,   e che  è oggi disatteso e messo all’angolo quando si parla dello Stato Palestinese. Eppure il rispetto, tra gli Stati come nelle relazioni, non può nascere senza  il riconoscimento dell’altro.   L’iniziativa del “Manifesto degli insegnanti per Gaza” è nata spontaneamente da un gruppo di tre docenti, alla fine di maggio, praticamente ad attività didattica  conclusa, ma nonostante ciò si è estesa a macchia d’olio: dai docenti agli allievi, poi ai loro genitori, al mondo della cultura ed alla società nelle componenti più varie, confermando quella naturale trasversalità che il nostro mondo scolastico ha nelle comunità.                                  Ha finito per coinvolgere in poco più di un mese più di mille persone, 20 Associazioni, oltre 70 tra scrittori, musicisti, artisti, gruppi teatrali, musicali e di danza, diverse pagine FB, un’agenzia stampa, due sindacati ed il sostegno del nostro Vescovo, Monsignor Aiello. Apparteniamo a una piccola città campana in un area interna qual è l’Irpinia, che è certo terra di gente testarda, ma siamo persone comuni, senza alcun superpotere e se tutto questo è stato possibile è perché il nostro disagio trovava rispondenza nel cuore di molti,  si leggeva negli occhi dei tanti che cercavano un modo per poter dire “non nel mio nome”. Perché “la libertà è l’obbedienza alla verità interiore”. C’è una strada obbligata perché le violenze in Medio Oriente si plachino da ogni parte, e questa passa dal riconoscimento dello Stato della Palestina, poiché soltanto dando pari dignità ai due popoli che abitano quei territori essi potranno intraprendere un dialogo autentico e costruttivo.  Abbiamo ascoltato la premier Meloni dire che sarebbe “prematuro” tale riconoscimento e ci viene spontaneo chiederci: quale tempo viene considerato congruo perché la Palestina veda riconosciuto il suo diritto all’autodeterminazione? 77 anni sono un tempo considerato troppo breve? Noi crediamo di no. Così come crediamo necessaria la non collaborazione con lo Stato d’Israele fino a quando non cessi la sua politica di genocidio. Pertanto, gentile Ministro Valditara, le chiediamo di esercitare il suo peso all’interno del governo italiano affinché  l’Italia, seguendo l’esempio del Vaticano e delle altre potenze europee che lo hanno già fatto, riconosca lo Stato di Palestina ed interrompa ogni rapporto di partenariato con Israele fino a quando non muti la sua politica. Professoresse Tiziana Guidi e Francesca Russo. Informazioni di contatto: kefinovanta@yahoo.it francesca.ing.russo@gmail.com    Redazione Italia
Riconoscimento dello Stato di Palestina e solidarietà in Italia
Ci sono 14 Stati disponibili al riconoscimento dello Stato di Palestina. Dopo Francia e Regno Unito, ora anche Finlandia, Australia, Portogallo, Germania e Canada annunciano che a settembre riconosceranno lo Stato di Palestina in occasione dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite a New York. Lo scorso maggio, l’Assemblea dell’Onu, con un voto di 143 favorevoli, 9 contrari (Argentina, Repubblica Ceca, Ungheria, Israele, Stati Federati di Micronesia, Nauru, Palau, Papua Nuova Guinea, Stati Uniti) e 25 astensioni, ha stabilito che lo Stato di Palestina è qualificato per l’adesione alle Nazioni Unite. L’Italia del governo delle destre è un fanalino di coda, in compagnia di Ungheria e Micronesia. In Italia, il successo dell’iniziativa di Milano davanti alla sede del consolato USA, organizzata da “Maiindifferenti, ebrei per la pace” e altre associazioni non ha trovato la meritata copertura mediatica,  forse perché non ci sono state vetrine rotte o scontri. Potete trovare il link alla diretta social clicca! Il Comune di Venezia ha votato un documento per il riconoscimento dello Stato di Palestina e di boicottaggio alle istituzioni israeliane. Il Consiglio Comunale di Trofarello (To), su proposta avanzata dall’associazione Cuoche e Sarte Ribelli, impegnata su temi sociali e nel sostegno ai bambini di Gaza con le adozioni a distanza, ha approvato  l’interruzione delle relazioni commerciali e istituzionali con il governo israeliano fino al totale cessate il fuoco totale e permanente. Il Centro studi Paolo e Rita Borsellino esprime apprezzamento per l’iniziativa di solidarietà a favore dei bambini della Striscia di Gaza, promossa proprio in questi giorni dal Dirigente scolastico dell’Istituto Comprensivo Paolo e Rita Borsellino, dott. Maurizio Carandini. L’istituto di Valenza (AL), infatti, ha deciso di dedicare “nel corso di questa estate, un’ora al giorno alla memoria dei bambini uccisi o ridotti alla fame nella Striscia di Gaza, a partire dal 28 luglio”. Di tutte queste mobilitazioni e iniziative, la stampa scorta mediatica del genocidio non dà informazioni. Rivendichiamo 60 mila kefieh in Senato, una per ogni civile palestinese ucciso dall’esercito israeliano a Gaza.   ANBAMED
Compagnie di navigazione nel panico dopo le minacce dello Yemen di intensificare gli attacchi
Londra – Presstv.ir. Un’ondata di panico ha investito le compagnie di navigazione che utilizzano rotte marittime vicino allo Yemen, dopo che il Paese arabo ha minacciato un’intensificazione degli attacchi contro navi legate al regime israeliano, nell’ambito della sua campagna di solidarietà con la Palestina. Un articolo pubblicato martedì da Lloyd’s List, prestigiosa rivista di notizie marittime, ha riferito che gli armatori stanno sempre più evitando le rotte nel Mar Rosso e in altri corridoi marittimi regionali, due giorni dopo l’annuncio yemenita di una nuova fase di attacchi contro navi collegate a Israele nella regione. L’articolo cita dichiarazioni di importanti compagnie di navigazione greche, tra cui Ariston Navigation, Intercargo e Safe Bulkers, che hanno annunciato la decisione di sospendere le spedizioni nella regione. “Nessuno vuole correre rischi per la vita e la proprietà”, ha dichiarato Angeliki Frangou, amministratrice delegata di Navios, aggiungendo che le sue navi “opteranno per rotte prive di rischi”. Frangou ha riferito che la compagnia ha predisposto nuovi contratti con i clienti, che consentono la deviazione delle rotte, aggiungendo che evitare il Mar Rosso è ormai indispensabile, anche a causa degli elevati costi assicurativi legati a quella rotta. Il rapporto segue la dichiarazione del movimento Houthi Ansarullah, al potere nello Yemen, secondo cui prenderà di mira le navi mercantili appartenenti a qualsiasi compagnia che intrattenga rapporti commerciali con porti israeliani, a prescindere dalla nazionalità o destinazione, in una nuova fase della sua campagna di solidarietà con i palestinesi di Gaza nella loro lotta contro il regime israeliano. Lo Yemen prende di mira le navi legate a Israele dal novembre 2023, un mese dopo l’inizio dell’assalto israeliano a Gaza. Il Paese arabo ha dichiarato che porrà fine agli attacchi nella regione solo quando Israele avrà completamente cessato la sua guerra genocida contro i palestinesi. Traduzione per InfoPal di F.L.
Il dilemma della cautela: l’inerzia del Cile di fronte al genocidio a Gaza e il coraggio del Brasile
Mi rivolgo a Lei, Signor Presidente. Mentre il Brasile fa un passo avanti con sanzioni decise, la classica cautela del presidente Boric si rivela un’inerzia che condanna il Cile a essere un semplice spettatore di fronte al passaggio storico del genocidio. Questo editoriale analizza criticamente la differenza tra le risposte di Cile e Brasile di fronte al genocidio a Gaza. Sostiene che, mentre il Brasile impone sanzioni militari e diplomatiche come espressione di una leadership audace e pragmatica, la posizione cilena, ancorata a una cautela divenuta inerzia, rappresenta una rinuncia al dovere morale. L’inazione del Cile non è una strategia diplomatica sostenibile. La recente apertura al dibattito sul riconoscimento della Palestina nei Paesi occidentali evidenzia l’inutilità di tale cautela. Il governo Boric e il Parlamento cileno devono rispondere all’imperativo storico e unirsi a un fronte comune in grado di fermare il genocidio. Lo stesso presidente Boric ha formalmente definito i fatti di Gaza un “genocidio”. Questo riconoscimento verbale colloca il Cile, almeno a parole, dalla parte giusta della storia, ma tale atto politico e morale, inizialmente coraggioso, impone una conseguenza logica: agire con coerenza. Non c’è più spazio per invocare la cautela tradizionale come giustificazione dell’inazione o dell’eccessiva moderazione. Una volta nominato il crimine, viene tracciata una linea che obbliga ad agire con i fatti. La notizia che il Brasile ha imposto sanzioni decise contro Israele — sospendendo le esportazioni militari, ritirando il proprio ambasciatore e aderendo al caso presso la Corte Internazionale di Giustizia — è un faro che illumina l’oscurità dell’inazione e uno specchio in cui il Cile deve guardarsi. Il Brasile non si è limitato alla condanna verbale. Le sue azioni — la sospensione delle esportazioni militari, la rottura dei canali diplomatici e la partecipazione attiva alla Corte — dimostrano una leadership disposta a sostenere costi concreti per esercitare una pressione reale. Il Brasile pone la vita di migliaia di palestinesi al di sopra della convenienza politica e del profitto commerciale. Chiama l’America Latina a unirsi per fermare ciò che è stato chiaramente definito un genocidio. Il Cile ha compiuto alcuni passi, come il ritiro temporaneo del proprio ambasciatore, il sostegno a iniziative parlamentari che mettono in discussione il commercio con prodotti provenienti da insediamenti illegali, nonché dichiarazioni forti in forum multilaterali. Ma quando chi governa ha definito i fatti come genocidio, queste risposte risultano chiaramente insufficienti. La responsabilità principale ricade sul presidente Boric e sul Congresso, che devono superare i calcoli politici ed economici che finora hanno frenato un’azione più incisiva. Paesi tradizionalmente allineati all’Occidente — compresi alcuni con stretti legami con Israele — stanno inviando segnali inequivocabili che lo status quo non è più sostenibile. Il dibattito sul riconoscimento dello Stato di Palestina non è più un tabù nemmeno in nazioni come il Canada, il che sottolinea l’inconsistenza della cautela cilena. L’unica “perdita” reale sarebbero tensioni diplomatiche e alcuni costi commerciali che impallidiscono di fronte alla gravità del crimine. La storia giudicherà duramente coloro che sono rimasti nella comoda zona dell’inazione mentre continuava la barbarie. La cautela, in questo contesto, non è prudenza ma rinuncia e il suo prezzo sarà storico e morale. Signor Presidente, lei ha già riconosciuto che ciò che accade a Gaza è un genocidio. E quella parola cambia tutto. Ogni successiva cautela — per pressioni economiche, calcolo elettorale o timore di ritorsioni — diventa indifendibile di fronte a quell’azione. La storia non giudicherà il suo bilancio diplomatico, ma se è stato all’altezza del crimine che lei stesso ha denunciato. Questo editoriale non chiede impulsività, ma coerenza. Non si tratta di agire per pressione, ma di fare ciò che è giusto — perché è già stato detto che ciò che accade è inaccettabile. Il Congresso, che ha giustamente ascoltato il grido della società civile, deve comprendere che la paralisi è anch’essa una forma di complicità. In questo passaggio storico, alcune ambiguità costano vite. Se il Cile, dopo aver ammesso il genocidio, continua a scegliere la cautela, sarà l’umanità intera a pagare questo passaggio storico con il sangue — come è sempre accaduto quando si è taciuto di fronte all’orrore. Rispettosamente, Claudia Aranda Claudia Aranda
Due diciottenni israeliani finiscono in prigione per il rifiuto di partecipare al genocidio a Gaza
Questa mattina, i diciottenni Ayana Gerstmann e Yuval Pelleg si sono rifiutati di arruolarsi nell’esercito israeliano. Gerstmann è stata condannata a 30 giorni di prigione militare, mentre Pelleg è stato condannato a 20 giorni. Prima di entrare nella base di arruolamento di Tel HaShomer, la Rete Mesarvot ha organizzato una manifestazione a sostegno dei due giovani obiettori di coscienza, con la partecipazione di decine di ex obiettori, di familiari e del deputato della Knesset Offer Cassif. Ayana Gerstmann – Dichiarazione di rifiuto Mi chiamo Ayana Gerstmann, ho 18 anni e la legge israeliana mi impone di arruolarmi. Ho deciso di rifiutare, poiché la mia morale mi obbliga a farlo e ho scelto di agire di conseguenza. Sono cresciuta in una famiglia che parlava spesso del fallimento morale del servizio militare. Eppure da ragazzina non capivo bene cosa fosse il fallimento morale del servizio militare di cui mia madre parlava spesso. Non avevo idea di cosa stesse accadendo intorno a me, quali fossero i territori e quali le occupazioni. Ricordo che anni fa ho partecipato alla cerimonia della Giornata di Gerusalemme della mia scuola – ho ballato, cantato e recitato testi nazionalistici senza nemmeno immaginare che ci fosse un problema con la celebrazione gioiosa di ciò che ci veniva mostrato come “l’unificazione di Gerusalemme – la capitale eterna”. Un anno dopo la mia ignoranza politica è andata in frantumi. Nei giorni precedenti la Giornata di Gerusalemme, ci venne assegnata una ricerca sui luoghi importanti di Gerusalemme. Oggi mi è chiaro che l’obiettivo era quello di rafforzare le mie tendenze nazionalistiche, ma il risultato è stato l’opposto. Ho letto di Gerusalemme Est e per la prima volta l’ho vista come era rappresentata nel sito web di B’Tselem. Improvvisamente ho aperto gli occhi su ciò che si nascondeva dietro le celebrazioni dell’orgoglio nazionale a cui avevo partecipato un anno prima: l’occupazione e l’oppressione. Improvvisamente, e in un colpo solo, mi sono trovata davanti la profonda sofferenza di milioni di persone, che prima non sapevo nemmeno esistessero, la cui libertà viene schiacciata giorno dopo giorno, ora dopo ora, dal regime di occupazione. Da quel momento, è cresciuta la consapevolezza che non posso assolutamente far parte del sistema militare che applica il regime di occupazione e che rende la vita dei palestinesi miserabile. Non farò parte di un sistema che espelle abitualmente comunità, uccide innocenti e permette ai coloni di appropriarsi delle loro terre. Dal 7 ottobre questa consapevolezza ha raggiunto il suo apice a causa delle azioni dell’esercito a Gaza. Dall’inizio della guerra, decine di migliaia di donne e bambini sono stati uccisi e centinaia di migliaia sono stati sfollati dalle loro case, costretti a vivere in campi profughi, privati della loro dignità e affamati. Questa catastrofe umanitaria è il risultato delle azioni dell’esercito, il risultato di una guerra che dura da quasi due anni e che ha perso i suoi obiettivi da tempo. Da due anni vedo lo spargimento di sangue come risultato di una guerra di vendetta senza speranza. Vedo decine di migliaia di bambini gazawi che nascono e crescono nella disperazione, nella morte e nella distruzione che formano un circolo infinito di odio, vendetta e omicidio. Vedo centinaia di giovani della mia età che vengono uccisi perché mandati dallo Stato a continuare in eterno questo circolo. Vedo una guerra che mette in pericolo la vita degli ostaggi. E non posso rimanere in silenzio di fronte a queste cose. Non posso tacere in una società in cui il silenzio ha preso il sopravvento. Non ho il privilegio di stare in silenzio, quando so che tutti intorno a me lo hanno fatto a lungo. La società israeliana ha visto l’occupazione per sei decenni e sta chiudendo gli occhi. La società israeliana vede i bambini gazawi uccisi nei bombardamenti e chiude gli occhi. La società israeliana vede l’esercito commettere le peggiori atrocità morali e decide di tacere. La società israeliana non è pronta a riconoscere le atrocità che il suo esercito sta commettendo contro gli innocenti, perché sa che una volta che lo farà, non sarà in grado di affrontare il senso di colpa. Invece di invocare la propria moralità e opporsi alle atrocità, la società israeliana mette a tacere ogni accenno alla propria immoralità, giustifica tutto ciò che non può essere messo a tacere ed etichetta come malvagia qualsiasi opposizione alla guerra, per paura di essere etichettata come tale, se oserà guardare la verità. Durante la guerra ho sentito innumerevoli volte l’affermazione ”Non ci sono innocenti a Gaza” – e sono inorridita. Vedo questa affermazione normalizzarsi sempre di più. Vedo persone davvero convinte che nemmeno il più piccolo bambino di Gaza sia innocente e che quindi non meriti alcuna pietà. E io rispondo: Un bambino è sempre innocente! Anch’io da bambina ero innocente, quando ho partecipato alle cerimonie della Giornata di Gerusalemme. Non potevo scegliere diversamente quando ho letto i testi nazionalisti che mi era stato detto di leggere, ignorando completamente le sofferenze palestinesi. Un bambino inconsapevole non può fare le sue scelte e quindi è innocente. Ma ora, essendo maturata, la mia innocenza non è incondizionata. Per questo so che se decidessi di rimanere in silenzio, ora che sono consapevole delle sofferenze inflitte a milioni di persone dall’esercito, sarei complice del crimine. Oggi so che non posso tacere di fronte alla sofferenza. Non posso tacere di fronte alle uccisioni e alla distruzione. E oggi so che arruolarsi nell’esercito è peggio del silenzio: è collaborare con un sistema che fa del male a milioni di persone. Per questo mi rifiuto, e lo faccio a gran voce. Non collaborerò e non farò parte del silenzio che permette di commettere le peggiori atrocità in mio nome. Come cittadina di questo Paese dico chiaramente: la distruzione di Gaza – non in mio nome! L’occupazione – non in mio nome! Mi rifiuto di rimanere in silenzio, nella speranza che la mia voce apra gli occhi di altri nella nostra società e risvegli la loro consapevolezza di ciò che viene fatto in loro nome – fino a quando neanche loro potranno più rimanere in silenzio”. Yuval Pelleg – Dichiarazione di rifiuto Mi chiamo Yuval Pelleg e oggi mi rifiuto di arruolarmi. Come tutti noi, ricordo bene le atrocità del 7 ottobre e l’inizio della guerra di distruzione. Ricordo anche le parole di Tal Mitnick, che poco tempo dopo si rifiutò di arruolarsi e disse che la guerra non avrebbe portato alcun progresso, ma solo morte e distruzione. Sono passati 22 mesi e le sue affermazioni si sono rivelate vere. Gli obiettivi ufficiali della guerra – smantellare il dominio di Hamas e restituire gli ostaggi – non sono stati raggiunti. Sotto le dichiarazioni di “porteremo la sicurezza” e di “vittoria totale”, tuttavia, si nasconde una sinistra verità: il vero obiettivo che sta guidando la guerra, quello che non si trova nelle note ufficiali, era e rimane la vendetta. Una vendetta che ha causato l’uccisione di molte decine di migliaia di gazawi, tra cui bambini che il 7 ottobre non erano nemmeno nati, la distruzione totale della Striscia di Gaza e la distruzione di ogni speranza. Mentre assisto ai crimini commessi dall’esercito israeliano contro il popolo palestinese a Gaza e in Cisgiordania, si rivela un fatto spiacevole riguardo all’arruolamento in un esercito che pretende di proteggermi in quanto ebreo: si tratta di un’azione incompatibile con i principi fondamentali della vita e dell’uguaglianza per tutti gli esseri umani, e dell’adesione a un sistema la cui essenza è l’oppressione, l’occupazione e la distruzione. Un tempo speravo di dare un contributo importante alla società attraverso il servizio militare. Ho studiato informatica e volevo entrare nell’intelligence, imparare nell’esercito e poi trovare un buon lavoro nell’alta tecnologia. Purtroppo, ogni linea rossa che avrei potuto immaginare (e molte altre che non mi sono mai passate per la testa) è stata oltrepassata. Non si possono scusare o giustificare i crimini che lo Stato di Israele ha commesso negli ultimi due anni, e in generale in tutta la sua storia. La conclusione è chiara: rifiutare di arruolarsi non è solo un diritto, ma un obbligo, e il primo passo per migliorare la vita di tutti quelli che vivono in questa terra. Dobbiamo capire che il genocidio di Gaza non sta avvenendo in modo casuale o per una scelta “sfortunata” nell’elezione dei leader. È il risultato di lunghi processi di fascistizzazione dell’area e una logica conclusione derivata dai principi fondamentali del sionismo. Lo Stato di Israele ha acquisito esperienza nei crimini e nel terrore fin dalle prime fasi della sua fondazione, e oggi la loro portata e la loro accettazione da parte della società sono più ampie che mai. Da un lato l’ignoranza della morale e del diritto internazionale è sempre stata familiare allo Stato, dall’altro siamo chiaramente nel mezzo di un declino – è lecito supporre che se Nathan Alterman scrivesse “Al Zot” (una poesia del 1948 che critica i crimini di guerra israeliani) oggi verrebbe considerato un traditore e gli direbbero: “Vai a Gaza”. Giustamente, l’IDF non è considerato a livello internazionale un esercito morale, e tantomeno “l’esercito più morale del mondo”. Le sue azioni e le sue aspirazioni – uccisioni di massa di bambini, fame indotta e persino piani per istituire un campo di concentramento – cioè un genocidio – ispirano odio e disgusto, e se mettiamo da parte il nazionalismo e il tribalismo è facile vedere che la rabbia, l’odio e l’opposizione non sono reazioni radicali e certamente non antisemite, ma piuttosto morali, minime e giustificate in risposta ai crimini di cui sopra. Nonostante tutti i suoi crimini, le nazioni del mondo continuano a rifornire la macchina di distruzione israeliana con armi e finanziamenti. Presto sarò imprigionato per il mio rifiuto di partecipare al massacro e mi appello a voi, popoli del mondo: intensificate la lotta! Unitevi a me e resistete alla distruzione e al genocidio con tutta la vostra forza. Infine, voglio ricordare che qui non si tratta di me. Si tratta della distruzione, delle persone uccise, del dialogo che è stato portato all’estinzione e della giustizia che è stata sepolta sotto le macerie di Gaza. Mi sforzo di prendere parte a una lotta per la vita, l’uguaglianza e la libertà. In questa lotta, una cosa è chiara: io e l’esercito siamo agli antipodi. Ecco perché mi rifiuto di arruolarmi. Mesarvot
Gaza, MSF: “Lanci di aiuti inutili e dannosi: governo italiano non cada nell’errore”
Sull’ipotesi che il governo italiano organizzi lanci aerei di aiuti umanitari su Gaza, annunciata ieri dal Ministro degli Esteri, Medici Senza Frontiere (MSF) avverte che questi lanci sono inefficaci e pericolosi e costringono le persone a rischiare la propria vita per cercare cibo. La soluzione più efficace, dignitosa e su ampia scala è aprire i varchi di terra dove tutto è già pronto per entrare, ed è l’unica strada da percorrere. “L’utilizzo dei lanci aerei per la consegna di aiuti umanitari è un’operazione cinica e inutile; il governo italiano non deve cadere in questo errore. Le strade ci sono, i camion ci sono, il cibo e i medicinali ci sono: tutto è pronto per l’ingresso degli aiuti a Gaza, che si trovano a pochi chilometri di distanza dal confine. Quel che serve è che le autorità israeliane decidano di facilitarne l’ingresso nella Striscia ed è su questo che il governo deve fare pressione: accelerare le procedure di autorizzazione, permettere l’ingresso di beni su larga scala e coordinarsi per consentire una raccolta e distribuzione degli aiuti sicura. Solo così potremo iniziare a risolvere il problema della devastante carestia a cui stiamo assistendo” dichiara la dott.ssa Monica Minardi, presidente di MSF.  Gli aiuti aerei riescono a trasportare molto meno delle 20 tonnellate di aiuti che può contenere un camion. Attualmente 2 milioni di persone sono intrappolate in un piccolo lembo di terra che rappresenta il 12% dell’intera Striscia. Se qualcosa atterra in quest’area ristretta, ci saranno inevitabilmente dei feriti. Se invece gli aiuti atterrano in zone che Israele ha messo sotto ordine di evacuazione, le persone saranno costrette a entrare in aree militarizzate, mettendo ancora una volta a rischio la propria vita pur di ottenere del cibo.       Medecins sans Frontieres
Genova, nuova vittoria dei portuali: nessuno sbarco per la nave carica di armamenti
Mobilitazione per la Palestina e contro la logistica delle armi. A Genova questa mattina i portuali del collettivo Calp, insieme al sindacato Usb, hanno annunciato che tre container contenenti materiale bellico, destinati a La Spezia e trasportati dalla nave Cosco Pisces, non verranno sbarcati né a Genova né a La Spezia. La compagnia Evergreen ha deciso di farli rientrare direttamente verso l’Estremo Oriente, dove erano stati inizialmente caricati. La decisione segue le ampie proteste portate avanti dai lavoratori portuali in questi mesi presso gli scali liguri: “Questa decisione rappresenta un risultato concreto dell’azione sindacale e della pressione esercitata da USB, che aveva proclamato 24 ore di astensione dal lavoro per il 5 agosto al terminal PSA Genova Prà”, scrivono i Calp che ribadiscono con forza: “Non lavoreremo per la guerra“. Redazione Italia
Più di venti rabbini arrestati in Campidoglio per una protesta contro il blocco israeliano di Gaza
Più di venti rabbini sono stati arrestati martedì in Campidoglio mentre occupavano l’ufficio del leader della maggioranza repubblicana John Thune per protestare in modo nonviolento contro il blocco di Gaza da parte del governo israeliano. I manifestanti rappresentano 750 rabbini e membri del clero ebraico e oltre 23.000 ebrei che hanno firmato una dichiarazione che chiedeva aiuti alimentari immediati a Gaza. Provengono da tutte le confessioni della fede ebraica. “Fermate queste morti per fame! Siamo qui come ebrei, perché la nostra religione ci impone di essere qui e di resistere!” ha gridato l’attivista Deborah Zavos mentre veniva portata via dalla protesta di martedì in manette. Democracy Now!
Dichiarazione sulle atrocità in escalation a Gaza e in Cisgiordania – Questo è genocidio
In quanto movimento binazionale di palestinesi e israeliani impegnati nella nonviolenza e nell’uguaglianza, Combatants for Peace rilascia questa dichiarazione urgente alla luce della crescente crisi umanitaria e politica a Gaza e in Cisgiordania: In risposta alla continua politica di carestia a Gaza e all’accelerazione della pulizia etnica delle comunità palestinesi in Cisgiordania, siamo costretti a parlare chiaramente: questo è un genocidio e deve essere fermato. Non usiamo questa parola alla leggera. Come sottolineato nel recente rapporto di B’Tselem, ” Il nostro genocidio “, ciò a cui stiamo assistendo non è semplicemente un fallimento nel proteggere la vita dei civili, ma la sua deliberata distruzione, autorizzata dallo Stato. A Gaza, più di 60.000 persone sono state uccise, tra cui migliaia di bambini. Famiglie muoiono di fame e interi quartieri sono stati ridotti in macerie. Israele ha sistematicamente e deliberatamente distrutto oltre il 70% degli edifici di Gaza, danneggiato o distrutto il 94% degli ospedali e spazzato via l’89% delle scuole. Gli aiuti sono ostacolati, l’acqua è tagliata e i civili vengono colpiti mentre cercano di raggiungere il cibo. Non si tratta di un disastro naturale: è una scelta politica deliberata volta a distruggere le condizioni di vita dei civili. In Cisgiordania le restrizioni alla circolazione sono peggiorate drasticamente, con posti di blocco che si moltiplicano, strade chiuse senza preavviso e interi villaggi tagliati fuori da ospedali, scuole e mercati, il tutto mentre intere comunità rurali palestinesi vengono sfollate da coloni armati e unità militari che lavorano in tandem. Nella Valle del Giordano, sulle colline a sud di Hebron e nei distretti settentrionali, case sono state incendiate, fonti d’acqua avvelenate, bestiame ucciso e persone costrette a fuggire. Proprio ieri sera, Awdah Hathaleen, un noto e amato attivista della comunità di Umm al-Khair, è stato ucciso a colpi d’arma da fuoco in un altro attacco omicida da parte di coloni. Settimane prima, Sayfollah Musallet è stato picchiato a morte nel villaggio di Sinjil mentre difendeva la terra della sua famiglia dall’invasione dei coloni. Questi non sono atti isolati. Fanno parte di una strategia chiara e documentata per allontanare i palestinesi dalla loro terra: ciò che il diritto internazionale riconosce come pulizia etnica. Riconosciamo anche il dolore e l’angoscia delle famiglie israeliane i cui cari rimangono tenuti in ostaggio a Gaza. Questi ostaggi devono essere restituiti illesi ora o, se necessario, devono ricevere una degna sepoltura. La loro immensa sofferenza non può essere ignorata. Ma non può nemmeno giustificare la fame e l’uccisione di massa di un’intera popolazione civile. Allo stesso tempo, migliaia di prigionieri politici palestinesi rimangono imprigionati nelle carceri israeliane, in condizioni disumane e degradanti. Molti hanno sopportato anni senza processo, in isolamento o senza accesso alla giustizia. Il loro rilascio deve essere parte di qualsiasi risoluzione politica giusta e duratura. Qualsiasi percorso significativo verso la pace deve affrontare l’intera portata delle violazioni dei diritti umani in questo conflitto, tra cui l’uso sistematico di detenzioni illegali e punizioni collettive contro i palestinesi, e il trauma, l’insicurezza e la persecuzione dei civili subiti dagli israeliani. La giustizia deve essere estesa a tutti coloro che vivono qui, senza eccezioni. Come palestinesi e israeliani che hanno scelto di percorrere la via della nonviolenza, anche in tempo di guerra, invitiamo tutte le persone di coscienza, all’interno e all’esterno delle nostre società, a parlare apertamente. Ad agire. A rifiutare la complicità e a respingere le menzogne che ci dicono che non c’è altra via. Restiamo impegnati per la pace, la nonviolenza e gli uni verso gli altri. Questo impegno affonda le sue radici nella convinzione che l’occupazione debba finire e che la giustizia non sia un sogno, ma un’esigenza. Solo allora potremo iniziare a riparare ciò che è stato distrutto e a costruire il futuro che sappiamo essere possibile: un futuro in cui palestinesi e israeliani vivano in libertà e uguaglianza, guidati da un impegno condiviso per la nonviolenza e l’umanità. In solidarietà e speranza, Combattenti per la pace.   Traduzione in italiano di Daniela Bezzi per Pressenza Italia Combatants for Peace