Ambiente, disastro climatico

Bresso, no aeroporto commerciale:non ci fermeremo nonostante il dietrofront di Enac Servizi Srl
“Non crediamo alle rassicurazioni date da Enac Servizi Srl e riteniamo le nostre preoccupazioni fondate e legittime. Ecco perché andremo avanti con la nostra protesta e abbiamo deciso di lanciare una raccolta firme in tutti i Comuni interessati dal traffico aereo intorno a Bresso. – dichiara il Comitato Difesa Parco Nord No Aeroporto Commerciale – Inoltre, entro gennaio inviteremo tutte le istituzioni, i Sindaci, Enac ed Enac Servizi Srl ad una assemblea pubblica sulla difesa del Parco Nord e del Protocollo del 2007”. Il Comitato Difesa Parco Nord – No Aeroporto Commerciale, alla luce delle audizioni di ieri in Regione Lombardia, ribadisce la sua completa contrarietà alla Regional Air Mobility e a qualsiasi violazione del Protocollo d’Intesa del 2007 relativo all’Aeroporto di Bresso “Franco Bordoni Bisleri”. Al fianco del Comitato, ieri mattina erano presenti all’audizione il Sindaco di Bresso Simone Cairo, il Vice Sindaco di Cusano Milanino Mario Zanco e di Cinisello Balsamo Giuseppe Berlino, il Presidente di Parco Nord Milano Marzio Marzorati, il promotore del Comitato Difesa del Parco Nord Arturo Calaminici, l’Assessore Elena Grandi del Comune di Milano e i rappresentanti di Città Metropolitana di Milano, che hanno espresso in maniera univoca le loro preoccupazioni sull’impatto che questa eventuale decisione avrebbe per l’inquinamento acustico, ambientale e per la sicurezza dei comuni limitrofi già densamente abitati. Gli auditi hanno, inoltre segnalato l’aumento dei voli dallo scalo milanese. “Sull’aeroporto di Bresso è, inoltre, attualmente in vigore il protocollo d’intesa firmato nel 2007 e sottoscritto da molti enti, tra cui la presidenza del Consiglio dei Ministri, il Ministero dei Trasporti, la Provincia di Milano e i Comuni coinvolti. – ha precisato il Sindaco di Bresso Simone Cairo – Tale protocollo esclude opere o interventi che potenzino ulteriormente la capacità di traffico aereo”. Il Protocollo di intesa è attualmente in vigore dal 31 luglio 2007 ed esclude tassativamente opere o interventi che configurino un potenziamento della capacità di traffico. Lo stesso Piano di Riassetto Aeroportuale, redatto dall’ENAC nel 2005, sottolineava come lo scopo fosse intervenire senza produrre impatti significativi sul territorio circostante ed escludendo qualsiasi modifica dell’utilizzo dell’infrastruttura o incremento di traffico e quindi anche di inquinamento acustico o atmosferico. A sottoscrivere quel documento furono: Presidenza del Consiglio dei Ministri, Ministero dei Trasporti, Provincia di Milano, Agenzia del Demanio, Ente Nazionale Aviazione Civile (ENAC), Comuni di Bresso, Cinisello Balsamo e Milano, Consorzio Parco Nord Milano. “Il Parco Nord risponde ai bisogni dei cittadini e alle esigenze di biodiversità. – ha aggiunto Marzio Marzorati, Presidente del Parco Nord Milano – L’anno scorso è stato frequentato da 3 milioni di visitatori. La natura ha assunto un ruolo pubblico. Se Bresso dovesse diventare uno scalo commerciale ci sarebbero conseguenze sulla fruizione del parco e anche sull’ambito residenziale”. “Non esiste nessuna richiesta né progetto che preveda di aprire l’aeroporto di Bresso al traffico commerciale. Le notizie che sono state diffuse nelle scorse settimane sono infondate. Quello che esiste è uno studio realizzato dalla Fondazione PWC Italia che ha esaminato le potenzialità di questa area per lo sviluppo di vari servizi sul territorio, come per esempio il trasporto sanitario di farmaci di nuova generazione con droni a propulsione elettrica e a idrogeno e il trasporto di organi e materiale biologico. Servizi per i quali sono in essere collaborazioni con aeroporti già operativi su questo fronte e con ospedali che sarebbero interessati a fruire di questi servizi”. Così si è difeso l’Amministratore Unico di Enac Servizi Srl Marco Trombetti che però ha firmato con Enac un contratto di programma dal 2025 al 2027 che prevede che dal 1° febbraio 2026 l’aeroporto di Bresso sarà affidato in gestione totale alla sua società la cui missione principale è quella di sviluppare la Regional Air Mobility (RAM), una rete nazionale di scali di aviazione generale come quello di Bresso. Qui un passaggio del documento: 𝐋’𝐞𝐫𝐨𝐠𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 (dei finanziamenti a Enac Servizi Srl) 𝐞̀ 𝐭𝐞𝐬𝐚 𝐚 […] 𝐚 𝐬𝐯𝐢𝐥𝐮𝐩𝐩𝐚𝐫𝐞 𝐞 𝐚 𝐬𝐨𝐬𝐭𝐞𝐧𝐞𝐫𝐞 𝐥𝐞 𝐩𝐨𝐥𝐢𝐭𝐢𝐜𝐡𝐞 𝐧𝐞𝐜𝐞𝐬𝐬𝐚𝐫𝐢𝐞 𝐩𝐞𝐫 𝐢𝐧𝐜𝐞𝐧𝐭𝐢𝐯𝐚𝐫𝐞 𝐥’𝐢𝐦𝐩𝐥𝐞𝐦𝐞𝐧𝐭𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐫𝐨𝐭𝐭𝐞 𝐝𝐢 𝐑𝐞𝐠𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥 𝐀𝐢𝐫 𝐌𝐨𝐛𝐢𝐥𝐢𝐭𝐲, 𝐢𝐧 𝐩𝐚𝐫𝐭𝐢𝐜𝐨𝐥𝐚𝐫𝐞 𝐬𝐮𝐠𝐥𝐢 𝐚𝐞𝐫𝐨𝐩𝐨𝐫𝐭𝐢 𝐝𝐢 𝐜𝐮𝐢 𝐚𝐥𝐥’𝐚𝐫𝐭. 𝟒, 𝐩𝐫𝐞𝐬𝐞𝐧𝐭𝐚𝐧𝐝𝐨 𝐚𝐝 𝐄𝐍𝐀𝐂 𝐮𝐧 𝐩𝐢𝐚𝐧𝐨 𝐝𝐞𝐥𝐥𝐞 𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐢 𝐧𝐞𝐜𝐞𝐬𝐬𝐚𝐫𝐢𝐞. Questo progetto aprirebbe gli aeroporti demaniali statali territoriali a voli commerciali nell’ambito della mobilità aerea territoriale tramite l’utilizzo di velivoli di massimo 19 passeggeri con un raggio d’azione che varia dai 300 a 600 chilometri.   Redazione Italia
Un’Italia policentrica e il fermento delle città intermedie. I dati del Rapporto di Mecenate 90
Sono 157 le città intermedie individuate nel Rapporto ricomponendo la geografia territoriale del nostro Paese – 73 nel Nord Italia, 44 nel Mezzogiorno e 40 nelle regioni del Centro –. È il primo dato tra i tanti raccolti nel secondo volume “L’Italia Policentrica. Il fermento delle città intermedie”, curato da Mecenate 90 in collaborazione con il Centro Studi delle Camere di Commercio Guglielmo Tagliacarne. Si tratta di città che producono un valore aggiunto pro-capite più alto del 16% rispetto al resto d’Italia (34.154 contro 29.534 euro nel 2022); resistono in prospettiva meglio all’inverno demografico contenendo il calo della popolazione al 4,5% tra il 2024 e il 2050 a fronte di una contrazione prevista del 7,3% della media italiana; presentano un indice di qualità della vita superiore del 7,3% rispetto alle città metropolitane e di ben il 27% più alto delle altre città del Paese. Sono città che ospitano imprese di eccellenza del Made in Italy e ad alto contenuto innovativo, città che esprimono dinamismo sociale, culturale ed economico e creano opportunità concrete per contrastare lo spopolamento e l’insufficiente dotazione di infrastrutture fisiche e digitali. Le città intermedie accolgono 10.690.518 residenti, il 18,1% della popolazione italiana (dati al 2024); 95 Comuni capoluogo non metropolitani; 33 Comuni non metropolitani con presenza o accessibilità ai servizi essenziali e un indice di offerta turistica maggiore o uguale a 4,6 posti letto ogni 100 abitanti; 29 Comuni non metropolitani, con presenza o accessibilità ai servizi essenziali, Centri di un Sistema Locale del Lavoro con specializzazione produttiva prevalentemente manifatturiera. Oltre la metà (83 Comuni) ha una dimensione demografica che va dai 50mila residenti e oltre. La città più grande è Verona con 255.298 residenti; seguono le città di Padova (207.502 residenti), Trieste (198.843 residenti), Brescia (198.259 residenti) e Parma (198.121 residenti). In termini di superficie la città più grande è Ravenna con un’estensione di 651,85 chilometri quadrati di territorio, mentre Riccione è la città con la minore superficie territoriale, pari a 17,9 chilometri quadrati. La città più densamente popolata è Monza, con 3.758 abitanti per chilometro quadrato, mentre Enna è la città che registra la minore densità abitativa, con 71 abitanti per chilometro quadrato. Dal 2010 a oggi la classifica dei tassi di crescita delle imprese ha sempre visto primeggiare le aree metropolitane, così come le città intermedie. Prendendo in considerazione le 12 regioni che presentano all’interno dei propri confini almeno un’area metropolitana si nota come in ben 8 (Piemonte, Veneto, Liguria, Emilia-Romagna, Toscana, Calabria, Sicilia e Sardegna) le città intermedie fanno registrare un tasso di crescita superiore alle aree metropolitane. Oltre che per la qualità della vita queste realtà si distinguono per una produzione di valore aggiunto pro-capite superiore alla media nazionale del 16% – 34.154 euro contro 29.534 euro, dati del 2022 – e per una capacità di resistere meglio, in prospettiva, all’inverno demografico. Si stima, infatti, che nelle città intermedie tra il 2024 e il 2050 la popolazione diminuirà del 4,5%, mentre nel resto d’Italia questa contrazione raggiungerà quota 7,3%. Gli esiti del Primo Rapporto, realizzato prima della pandemia, restituirono profili di città determinate a fare futuro, con un ben definito progetto di città e percorsi necessari per realizzarlo, con modi e forme differenti nel delineare gli obiettivi e nell’attivare azioni condivise tra Istituzioni, imprese e cittadini. Gli esiti di questo Secondo Rapporto ci consegnano profili di città determinate a creare opportunità per contrastare le vulnerabilità dovute al progressivo invecchiamento della popolazione, allo spopolamento, all’insufficiente dotazione di infrastrutture fisiche e digitali. “Pur facendo la tara della mia passione per i processi di autopropulsione della nostra società, scrive il Presidente del Comitato Scientifico di Mecenate 90, Giuseppe De Rita, devo riconoscere che, atterrando ancora una volta sulla realtà (nelle dieci città di Caltagirone, Catanzaro, Chieti, Lecco, Livorno, Macerata, Novara, Padova, Salerno, Taranto) trovo certo delle fragilità antiche e nuove, ma trovo specialmente una forte tensione a crescere e una forte “soggettualità” di sviluppo collettivo”. E il Presidente di Mecenate 90 Daniele Pitteri aggiunge: “Rispetto alle dinamiche di sviluppo dell’ultimo Novecento e del primo decennio di questo secolo, le città intermedie tendono a disegnarsi e a definirsi per differenziazione, definendo una propria ‘dimensione immateriale’ attraverso l’esaltazione dei caratteri di unicità e di tipicità, tuttavia pensando e definendo il proprio posizionamento in una dimensione internazionale che valorizza, armonizzandoli, la tensione allo sviluppo economico e la qualità della vita sociale”. Qui per scaricare la sintesi del Rapporto “L’Italia policentrica. Il fermento delle città intermedie”: https://www.tagliacarne.it/files/251127/sintesi_italia_policentrica_mecenate90.pdf Giovanni Caprio
20 anni dopo l’8 dicembre NoTav a Venaus: in mostra a Susa quell’epica stagione
Nell’ambito delle iniziative per il ventennale dei fatti avvenuti in Valsusa dal 31 ottobre all’8 dicembre 2005, si è inaugurata lo scorso week end al Castello della Contessa Adelaide di Susa una ricca mostra per rievocare non solo quell’epica giornata, ma tutto ciò che successe in Valle prima e anche dopo. Un racconto per immagini (oltre 80 le foto che il Movimento NoTav ha recuperate dagli archivi delle testate Luna Nuova e Valsusa che ringraziamo) ma non solo, perché aggirandosi tra i pannelli esposti sarà possibile rivedere quelle straordinarie “creature” con cui l’artista Piero Gilardi espresse tutta la sua solidarietà e partecipazione al nostro movimento. Il percorso della mostra segue un tragitto cronologico partendo dall’epica battaglia del Seghino (31ottobre 2005), quando popolazioni e sindaci da una parte e forze dell’ordine dall’altra si fronteggiarono: i primi per impedire l’installazione di una trivella che avrebbe significato l’avvio dei cantieri della linea TAV Torino-Lione, i secondi per scortare la trivella stessa. Quel giorno segnò una prima vittoria per il fronte della cittadinanza che insieme ai suoi amministratori si era compattamente opposta all’abuso di una decisione imposta dall’alto e in disaccordo con l’intero territorio. Ma nella notte, centinaia di mezzi di Polizia tornarono sul luogo per militarizzare il comune di Mompantero e completare l’opera. La mostra prosegue quindi con le immagini delle proteste del giorno successivo, con l’occupazione di strade e ferrovie. Fino a quella grande marcia che il 16 novembre disegnò uno straordinario serpentone da Bussoleno fino a Susa, con oltre 50.000 persone, tra loro parecchi parlamentari, esponenti politici, delegazioni da tutt’Italia… ma soprattutto noi, studenti, vigili del fuoco, medici, semplici cittadini, abitanti della Valle. Le foto documentano poi l’escalation di tensione, quando alla fine di novembre le FFOO si attestarono a Venaus per permettere a LTF (oggi TELT) di installare il cantiere per l’inizio degli scavi del tunnel di base. Di nuovo ci fu una vera e propria insurrezione popolare, che creò una situazione di stallo e presidi permanenti per alcuni giorni e notti seguenti, fino a che, nella notte fra il 5 ed il 6 dicembre, i reparti speciali della Polizia diedero l’assalto alla tendopoli dei presidianti, ferendo decine di inermi cittadini, alcuni in modo grave. Su quella notte e sui giorni che seguirono la documentazione fotografica è particolarmente emozionante, soprattutto per quell’epica giornata dell’8 dicembre, quando una moltitudine di persone, si parlerà di 60.000, marciò verso il cantiere, occupandolo e costringendo le forze dell’ordine a battere in ritirata. La mostra si conclude infine con le immagini della grande e festosa manifestazione che si tenne anche a Torino il 17 dicembre: un altro bel serpentone di 50.000 persone, tra loro anche Dario Fo, Franca Rame, Marco Paolini, che arrivati al Parco della Pellerina presero la parola. Fu quello il momento che proiettò l’opposizione al TAV a livello nazionale. Manifestazione a Torino, 17 dicembre 2005 | Foto di Enzo Gargano A corredo di questa ricca carrellata di immagini, volti e ricordi, la mostra offre una rara occasione di rivedere alcune opere ritenute disperse (e che per fortuna siamo riusciti a recuperare) del compianto Piero Gilardi, artista, ambientalista e da sempre vicino alle istanze del Movimento NOTAV. Una foto datata proprio 8 dicembre 2005 lo immortala mentre si porta sulle spalle la “nostra Talpa”, in contrarietà con “la Talpa LTF” che avrebbe dovuto scavare il tunnel nelle viscere della montagna. Oppure nella scultura intitolata Le tre scimmie, ecco rappresentata la connivenza che sostiene il potere politico, insieme a quello finanziario, per non dire della mafia. Ed ecco anche il mitico Giacu, creatura mitica e notturna, con cui per anni il “folletti” del Movimento NOTAV continuarono a disturbare il personale TELT oltre le reti, che nel 2012 Gilardi tradusse in scultura, per una marcia da Susa a Bussoleno. Molto efficace anche un lungo striscione che occupa quasi un intero muro, concepito in collaborazione con alcuni giovani NOTAV, che seguendo una linea del tempo dal ‘93 ad oggi, rievoca con molta efficacia i momenti chiave di 32 anni del Movimento. Dopo l’inaugurazione dello scorso week end, la mostra sarà nuovamente visitabile dal 5 dicembre fino al giorno 8, dalle 14,30 alle 18.00. L’ingresso è gratuito e il visitatore potrà portarsi a casa, con un’offerta volontaria, il libro riccamente illustrato dal titolo L’autunno contro, che la testata Luna Nuova pubblicò pochi mesi dopo quell’epica stagione: con testi di Tiziano Picco, Massimiliano Borgia, Claudio Rovere, Andrea Spessa, Daniele Fenoglio, Paola Meinardi, Davide Chiarbonello e oltre 300 foto a colori di Gabriele Basso, Danilo Calonghi, Alessandro Contaldo, Luca Croce, Marco Giavelli, Claudio Giorno, Renzo Miglio, Eva Monti, Norma Raimondo, Stefano Snaidero. Giorgio Mancuso
La Cop nell’Amazzonia che muore
Piogge torrenziali, manifestazioni oceaniche, la pressione delle comunità indigene che ha attraversato i corridoi dei negoziati, e persino un incendio tra i padiglioni; un susseguirsi di eventi esterni ha accompagnato il vertice. Quelle fiamme divampate nei padiglioni non sono state altro che l’annuncio di una fumata nera che sarebbe arrivata poche ore dopo.  Il documento finale della COP, la Mutirao decision, denunciava che il testo in discussione era scritto di fatto dai PetroStati, grazie alle pressioni di Arabia Saudita, Stati Uniti e Russia.   Nonostante il nome simbolico del documento finale, Mutirao, che significa lavoro comunitario per conseguire un bene collettivo, questo testo farà il bene di pochi lasciando liberi i paesi ricchi di continuare a devastare.  Nel documento finale non c’è alcun riferimento ai combustibili fossili, non vengono neppure menzionati.  Il mondo si è congedato da Belém senza un piano per abbandonare gas, petrolio e carbone tornando indietro rispetto a quanto deciso a Dubai nel 2023. Le proteste e e danze indigene diventano una mera operazione i green whashing dell’amministrazione brasiliana. Ne abbiamo parlato con Andrea Merlone, Dirigente di ricerca all’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica (INRiM) e ricercatore associato all’Istituto di Scienze Polari del CNR. Ascolta la diretta:
Brasile di Lula tra la Cop30, i territori indigeni e le promesse mancate. Intervista a Loretta Emiri
Cop30, le trame oscure del “green capitalism”, la colonizzazione dei crediti di carbonio, le false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica, la lotta per il riconoscimento dei territori indigeni amazzonici e le mancate promesse del governo Lula, ormai totalmente dipendente dal Congresso Nazionale in mano alla destra neoliberista. In questa intervista c’è tutta la passione di una ecologista e indigenista italiana che ha vissuto con gli indigeni amazzonici del Brasile e con loro ha respirato la loro lingua, la loro cultura, la loro spiritualità, la profonda connessione con la Natura, la difesa dei loro sistemi di medicina tradizionale, la lotta per la difesa dell’Amazzonia e dei territori indigeni dall’estrattivismo e dalla deforestazione. Nel 1977 Loretta Emiri si è stabilita nell’Amazzonia brasiliana dove, per 18 anni, ha sempre lavorato con o per gli indios. I primi quattro anni e mezzo li ha vissuti con gli indigeni Yanomami delle regioni del Catrimâni, Ajarani e Demini. Fra di loro ha svolto lavori di assistenza sanitaria e un progetto chiamato Piano di Coscientizzazione, del quale l’alfabetizzazione di adulti nella lingua materna faceva parte. In quell’epoca ha prodotto saggi e lavori didattici, fra i quali: Gramática pedagógica da língua yãnomamè (Grammatica pedagogica della lingua yãnomamè), Cartilha yãnomamè (Abbecedario yãnomamè), Leituras yãnomamè (Letture yãnomamè), Dicionário Yãnomamè-Português (Dizionario Yãnomamè-Portoghese). Nel 1989 è stato pubblicato A conquista da escrita – Encontros de educação indígena (La conquista della scrittura – Incontri di educazione indigena), che Loretta ha organizzato insieme alla linguista Ruth Monserrat, e che include il capitolo Yanomami di cui è autrice. Nel 1992 ha pubblicato la raccolta poetica Mulher entre três culturas – Ítalo-brasileira ‘educada’ pelos Yanomami (Donna fra tre culture – Italo-brasiliana ‘educata’ dagli Yanomami). Alcune sue poesie sono state incluse nel volume 3 della Saciedade dos poetas vivos. Nel 1997 ha pubblicato Parole italiane per immagini amazzoniche, opera che riunisce ventisette poesie; tredici sono in portoghese, lingua nella quale sono state generate, accompagnate da versioni in italiano. Nel 1994 ha pubblicato il libro etno-fotografico Yanomami para brasileiro ver. Nel 2022 ha pubblicato Educada pelos Yanomami (Educata dagli Yanomami), libro di poesie e foto scattate tra gli Yanomami. In italiano, Loretta ha pubblicato i libri di racconti Amazzonia portatile, A passo di tartaruga – Storie di una latinoamericana per scelta, Discriminati che ha ottenuto il Premio Speciale Migliore Opera a Tematica Sociale del 12º Concorso Letterario Città di Grottammare-2021; le presentazioni degli ultimi due libri sono entrate nel programma ufficiale del Salone Internazionale del libro di Torino, rispettivamente nel 2017 e 2019; invece per Amazzone in tempo reale  ha ottenuto il Premio Speciale della Giuria per la Saggistica del Premio Franz Kafka Italia 2013. Nel 2020 ha pubblicato Mosaico indigeno, che riunisce testi con taglio giornalistico sulla congiuntura indigena. Loretta è anche autrice del romanzo breve Quando le amazzoni diventano nonne, 2011, e di Romanzo indigenista, 2023. Se si riesce a sopravvivere a questa guerra non si muore più è stato divulgato in versione pdf nel gennaio del 2023. Suoi testi appaiono in blogs e riviste on-line, tra cui Sagarana, La macchina sognante, Fili d’aquilone, El ghibli, I giorni e le notti, AMAZZONIA ­– fratelli indios, Euterpe, Pressenza, La bottega del Barbieri, Sarapegbe, Atlante Residenze Creative, Cartesensibili. Nel maggio del 2018 è stata insignita del Premio alla Carriera “Novella Torregiani – Letteratura e Arti Figurative”, per la difesa dei diritti dei popoli indigeni brasiliani. Come è andata la Cop30 a Belem, in Brasile? Le conferenze climatiche sono sempre servite per stilare accordi tra capi di governo e esponenti del capitale globale. A ogni anno che passa, questa realtà è sempre più squallidamente evidente.   Tali accordi mascherano le disuguaglianze storiche e perpetuano le strutture coloniali. Ciò che cambia negli anni, sono le parole e le strategie usate per mantenere gli interessi autocratici e geopolitici determinati da coloro che detengono il potere economico. A Belem si è ripetuto il teatrino: nonostante la massiccia presenza di indigeni, comunità tradizionali, lavoratori, movimenti sociali, il processo ufficiale è stato dominato totalmente dai suddetti interessi economici. L’espressiva presenza delle minoranze e delle classi oppresse è servita, però, a mettere in evidenza, in modo eclatante, definitivo, proprio il distanziamento che c’è tra il potere costituito, asservito al capitalismo, e le popolazioni. La Cop30 in molti avevano previsto che sarebbe stata l’ennesima occasione persa, per via della prospettiva completamente eurocentrica che sembra aver preso in questi anni trattando fondamentalmente del tema del net-zero, della retorica sulla “neutralità carbonica” e delle false soluzioni tecnocratiche alla crisi climatica: quello che il presidente della Bolivia Luis Arce aveva definito “colonizzazione dei crediti di carbonio” e “capitalismo green”. Ha riscontrato anche lei questa tendenza? Rispondendo alla prima domanda, ho risposto parzialmente a questa. Ma il quesito posto merita un approfondimento a partire dalla definizione “green capitalism”. Dietro questo termine così moderno e accattivante si nasconde tutto il marciume del capitalismo selvaggio, dell’ipocrisia, del colonialismo tuttora vivo e vegeto. Ripeto: ciò che cambia sono le parole e le strategie. Vi faccio un esempio concreto parlandovi degli Yanomami, con i quali ho avuto il privilegio di vivere per oltre quattro anni nella loro patria/foresta, e di cui sono un’alleata storica. La gioielleria francese Cartier ha creato una fondazione attraverso la quale finanzia pubblicazioni e mostre che hanno a che vedere con gli Yanomami. Il territorio di questo popolo è sistematicamente violato dai cercatori d’oro; durante l’invasione organizzata nel 1987 dalle oligarchie locali, l’etnia ha rischiato l’estinzione; nel 1992 il suo territorio è stato ufficialmente omologato, ma ciò non ha fermato le invasioni; durante il governo Bolsonaro gli Yanomami hanno di nuovo rischiato di scomparire; nel marzo del 2024, il governo Lula ha ordinato la rimozione dalla Terra Indigena Yanomami dei cercatori d’oro, con la distruzione delle loro sofisticate armi e dei potenti macchinari di cui oggigiorno dispongono. Quest’ultima è stata senz’altro una iniziativa lodevole ma, storicamente, succede che i cercatori vengono allontanati per poi sempre tornare invadendo altre aree; i politici parlano di successi e conquiste, gli Yanomami continuano a denunciare le sistematiche nuove invasioni (che potrebbero essere evitate adottando provvedimenti più efficaci già identificati e ripetutamente suggeriti).  Come vogliamo definire la Cartier, potente gioielleria francese che finanzia iniziative relative gli Yanomami minacciati di estinzione proprio a causa dell’estrazione dell’oro nel loro territorio? È ipocrisia anche cercare di convincere l’opinione pubblica che l’estrazione legale dell’oro è differente da quella illegale, dato che gli habitat sono ugualmente distrutti, le popolazioni locali sono ugualmente sfruttate e si ammalano a causa dello stravolgimento dell’ambiente, mentre i capitalisti mondiali divengono più oscenamente obesi di quello che già sono.  Per non parlare di un altro fenomeno che sta sotto gli occhi di tutti, ma che nessuno affronta: professionisti (antropologi, fotografi, scrittori, e persino filosofi o pseudo-tali) che hanno raggiunto notorietà e fama internazionale, nelle loro attività sono finanziati da fondazioni simili a quella della Cartier; fondazioni create da colossi mondiali che, attraverso il “capitalismo green”, perpetuano il colonialismo. Dal gennaio del 2023, cioè da quando Lula è tornato al potere, sono impegnata in una battaglia persa: fomento la creazione di un Centro di Formazione Yanomami, che potrebbe essere facilmente creato nell’unica area del loro territorio raggiungibile attraverso la strada. Una delle finalità della proposta è quella di incentivare l’unione e la collaborazione tra i gruppi locali, storicamente nemici fra di loro, perché solo l’unione e l’organizzazione permetterà agli Yanomami di sopravvivere fisicamente e culturalmente. Un’altra finalità è quella di preparare professionalmente i giovani, affinché assumano funzioni e ruoli a tutt’oggi svolti o controllati dai bianchi, mettendoli in condizione di prendere decisioni autonomamente e dispensare gli “intermediari”, cioè le poche persone che decidono per loro. L’unione e la formazione sono strumenti di lotta che rafforzerebbero l’organizzazione e l’autonomia della società yanomami. Io penso e scrivo le stesse cose da oltre quarant’anni, ma coloro che potrebbero concretizzare la proposta della formazione rivolta a tutta il popolo, e non solo ad alcuni privilegiati individui o gruppi locali, continuano, imperterriti, a fare “orecchie da mercante”. Come si sta muovendo il governo di Lula di fronte ai temi dell’ambiente? Sta portando avanti i temi della deforestazione, della fine dell’estrattivismo e della consegna delle terre agli indigeni come aveva promesso? Naturalmente, in occasione della Cop30 Lula ha omologato alcune poche terre indigene, tanto per dare un contentino; ma ce ne sono oltre sessanta di cui il processo amministrativo è stato completato e alle quali manca solo la sua firma. Lula è potuto tornare al governo facendo accordi a dir poco “ambigui”, così che può decidere ben poco. Chi decide è il Congresso Nazionale, nel cui seno sono confluiti loschi figuri legati al governo anteriore e quindi all’estremissima destra. E il Congresso non dà tregua: mi riferisco al Progetto di Legge definito Della Devastazione; al Senato che in cinque minuti ha approvato una legge che beneficia termoelettriche a carbone; alla crescente offensiva dell’agribusiness contro i popoli indigeni, offensiva incentivata dall’indecente tesi del Marco Temporale, tesi che contraddice quanto stabilito dal STF (Supremo Tribunale Federale), e cioè che la data della promulgazione della Costituzione Federale non può essere utilizzata per definire l’occupazione tradizionale delle terre indigene. Dato che era già stato approvato nella Camera dei Deputati, il suddetto progetto di legge venne inviato a Lula che ne vietò la tesi e altri dispositivi; i veti presidenziali vennero poi rigettati dal Congresso, cosi il progetto è diventato la Legge Nº 14.701/2023. Lo scienziato Philip Fearnside, ricercatore dell’INPA (Istituto Nazionale di Ricerche dell’Amazzonia), reputa che la Cop30 sai stata caratterizzata da una generalizzata mancanza di coraggio politico per affrontare i temi centrali della crisi climatica. Nell’intervista concessa alla rivista Amazônia Real, egli afferma che la conferenza ha ignorato i combustibili fossili e non ha fatto passi in avanti per combattere la deforestazione; decisioni queste che, secondo lui, mettono a rischio immediato la sopravvivenza dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali dell’Amazzonia. Inoltre, Fearnside afferma che il Brasile sbaglia anche nella transizione energetica, mantenendo contraddizioni come l’asfaltatura della strada BR-319 e nuovi progetti di estrazione del petrolio, mentre i provvedimenti emergenziali in atto non hanno la capacità di accompagnare la velocità con cui avviene il surriscaldamento della terra. Alla vigilia della Cop30 l’Ibama (Istituto Brasiliano dell’Ambiente e delle Risorse Naturali Rinnovabili, che è un’autarchia federale) ha autorizzato la Petrobras a realizzare ricerche per rendere viabile l’esplorazione del petrolio a cinquecento km. dalla Foce del Fiume Amazonas, nel cosiddetto Margine Equatoriale, in alto mare, a confine tra gli Stati di Amapá e Pará. Mentre, appena la Cop30 si è conclusa, il Congresso ha rigettato i veti che erano stati suggeriti e ha autorizzato nuovi interventi in punti critici della strada BR-319; notizia, questa, del 27 novembre 2025. Durante la Cop30 sono successe cose che, per un spettatore esterno sembrerebbero assurde. Le proteste degli indigeni alla Cop30 sono state represse duramente. Cosa è successo precisamente? Il fatto che la Cop30 sia stata realizzata in Brasile ha permesso che un grande numero di indigeni ed esponenti di popolazioni tradizionali si facessero presenti a Belem, che è la capitale simbolica dell’Amazzonia brasiliana. La loro massiccia presenza, la coloratissima diversità culturale che li caratterizza, le manifestazioni che hanno saputo organizzare, le loro accorate dichiarazioni, che sono frutto di oltre cinquecento anni di soprusi e sofferenze, hanno messo sotto i riflettori le contraddizioni dell’attuale governo. A stento Lula si barcamena tra ciò che potrebbe fare, ma non ha il coraggio sufficiente per fare, e ciò che fa, costretto dall’estremissima destra che controlla il Congresso Nazionale. Le forze dell’ordine hanno represso i manifestanti, proprio come accade in qualsiasi altro Paese che pensa di essere democratico: le popolazioni vengono represse quando osano mettere in discussione le scelte di Stato. Txulunh Natieli, che è una giovane leader del popolo Laklãnõ-Xokleng, ha riassunto brillantemente il risultato della Cop30 dicendo che la conferenza ha esposto le contraddizioni stesse del Brasile, la cui politica è molto esterna e poco interna. Invece Luene, del popolo Karipuna, ha affermato che il Brasile potrà guidare la transizione climatica soltanto se dichiarerà l’Amazzonia “zona libera dai combustibili fossili”. Il documento finale della conferenza invita alla cooperazione globale, ma evita di citare paroline quali “petrolio”, “carbone”, “gas”; dal documento è stata esclusa anche la locuzione “eliminazione graduale”. Gli accordi firmati durante la Cop30 rivelano la squallida farsa della sostenibilità, le lobby dei fossili, dell’oro, dell’agribusiness. Nonostante siano stati fatti alcuni pontuali passi in avanti, la conferenza è terminata lasciando grandemente frustrati leader indigeni, specialisti, osservatori, cioè tutti coloro che si rifiutano di essere servi di un sistema sociale piramidale. Cosa è successo tra Raoni e Lula e perché ha fatto così scalpore? Raoni è molto amato dagli indigeni e dai loro alleati, ma è molto conosciuto anche all’estero da quando il cantante Sting lo aiutò a far uscire la problematica indigena dall’ambito brasiliano per proiettarla a livello mondiale. È un adorabile vecchietto, dai più considerato e amato come “nonno”.  Durante tutta la vita, è stato coraggioso e coerente; il tema più ricorrente nei suoi discorsi riguarda il riconoscimento e l’ufficializzazione delle terre indigene. Come può sopravvivere un popolo senza un territorio dove vivere bene e perpetuarsi? Quando Lula è stato rieletto, il giorno della cerimonia ufficiale per l’inizio del suo nuovo mandato di presidente, ha voluto Raoni accanto a sé. Ha salito la rampa che lo ha condotto nel Palazzo del Planalto, sede del Potere Esecutivo Federale, tenendo a braccetto il vecchio leader indigeno. Durante la Cop30, senza usare mezzi termini, Raoni ha manifestato la sua profonda delusione di fronte al fatto che alle solite promesse non fanno mai seguito le scelte politiche che andrebbero fatte e, naturalmente, la sua presa di posizione ha avuto una grande ripercussione sia in Brasile che all’estero. Gli indigeni, come sempre, sono solo usati, strumentalizzati. Le foto scattate a Lula al fianco di Raoni sono l’espressione visiva delle promesse mancate contrapposte alla cruda realtà dei fatti. Quale è la situazione delle popolazioni indigene amazzoniche ora e cosa bisogna cambiare? In Brasile gli indigeni dovrebbero rifiutare di farsi cooptare dal governo federale, dal momento che molto poco riescono a fare: molti di loro si sono già “bruciati”, cioè hanno deluso il movimento indigeno organizzato perché difendono o tacciono su molte scelte ambigue fatte dal governo. In Italia, quello che andrebbe fatto sarebbe smettere di definire “di sinistra” persone e governi. La sinistra esiste ancora solo attraverso i movimenti e le organizzazioni popolari. Se Lula è stato un solido leader sindacale, fondatore del Partito dei Lavoratori, non significa che per arrivare ad essere eletto e rieletto presidente di un paese continentale come il Brasile non abbia dovuto modificare principi e posizioni, non abbia dovuto allearsi alle più disparate e ambigue forze politiche. Inoltre, come spiegare il fatto che all’interno del suo partito, apparentemente, sembra non esserci nessuno in condizione di sostituirlo? Corre voce che si candiderà per l’ennesima volta; e questa, almeno per me, non è democrazia, ma il perpetuarsi di una posizione di potere. Quello che andrebbe fatto sarebbe di analizzare con più equilibrio, più attenzione, meno retorica la situazione politica brasiliana ma, soprattutto, dovrebbe essere denunciato coraggiosamente, senza mezzi termini, il “capitalismo green”, che è fortemente praticato anche da multinazionali di origine italiana. Ciò che andrebbe fatto è denunciare e porre fine al colonialismo, che continua vivo e vegeto attraverso l’invenzione di nuovi termini e nuove strategie, che sono così efficaci da ingannare individui e intere popolazioni.  Ciò che gli indigeni fanno, da oltre cinquecento anni, è resistere per esistere.   Bibliografia Amazônia Real https://amazoniareal.com.br/repercussao-da-cop30-oscila…/ Apib Oficial https://apiboficial.org/2025/10/13/as-vesperas-da-cop-povos-indigenas-cobram-demarcacao-de-terras-67-so-dependem-de-uma-assinatura-de-lula/? Mídia Ninja https://www.facebook.com/MidiaNINJA Loretta Emiri, “Amazzonia – Il piromane ha nome e cognome” https://www.pressenza.com/it/2019/09/amazzonia-il-piromane-ha-nome-e-cognome/ Centro de Formação Yanomami no Ajarani – Dossier https://drive.google.com/file/d/1O_A3dR4u28VLB_iyrj3Xpxk–xRyYkC0/view?usp=share_link Durante la privilegiata, come lei stessa sostiene, convivenza con gli Yanomami, ha raccolto oggetti della cultura materiale di questo popolo. Di particolare rilievo è il nucleo dedicato all’arte plumaria, collane ed orecchini. Per lunghi anni ha accarezzato il sogno di sistemare i materiali in luogo pubblico. Il sogno si è concretizzato all’inizio del 2001, quando il Museo Civico-Archeologico-Etnologico di Modena ha accolto i 176 pezzi della Collezione Emiri di Cultura Materiale Yanomami. Nel maggio del 2019, una parte della collezione è stata esposta al pubblico e ufficialmente inaugurata. Durante tutto il 2023 e 2024 si è dedicata, sistematicamente, al fomento della creazione del Centro di Formazione Yanomami, da strutturarsi nell’area indigena Ajarani, producendo e divulgando vari testi riuniti nel Dossier “Moyãmi Thèpè Yãno – A Casa dos Esclarecidos – Centro de Formação Yanomami – Dossiê”, Loretta Emiri, CPI/RR, 01-24. Lorenzo Poli
Extinction Rebellion blocca la convention della Difesa e dell’Aerospazio a Torino. “Difendere la Terra, non i confini”
Extinction Rebellion ha bloccato l’Aerospace and Defence Meeting, la convention internazionale su aerospazio e difesa. Una trentina di persone si sono incatenate ai cancelli, mentre tre di loro sono riuscite ad arrampicarsi su una struttura dietro il Palazzo della Regione. Il movimento denuncia il coinvolgimento delle aziende presenti nei conflitti globali e le profonde responsabilità del Governo e della Regione nel sostenere un settore che causa vittime e accelera il collasso climatico. Questa mattina, a Torino, Extinction Rebellion ha bloccato la decima edizione dell’Aerospace and Defence Meeting (ADM) all’Oval di Lingotto, una delle più importanti business convention internazionali per l’industria aerospaziale e della difesa. L’evento, che si svolge ogni due anni nella città piemontese, vede infatti riunirsi aziende e istituzioni di livello internazionale nel campo della difesa e dell’aerospazio, con l’obiettivo di “consolidare alleanze commerciali, sviluppare tecnologie avanzate e promuovere partnership strategiche nel settore militare”. Poco prima dell’apertura delle porte, un gruppo di circa 30 persone è riuscito a entrare nel cortile della struttura, incatenarsi ai pali e ai cancelli, esponendo striscioni con scritto “Difendere la Terra, non i confini” e ostacolare quindi l’ingresso alla convention. Pochi minuti dopo, tre persone sono riuscite a salire su un edificio dietro il Grattacielo della Regione, una forma di protesta già messa in atto alla precedente edizione, nel novembre 2023, e hanno appeso un enorme striscione con la scritta “Qui si finanziano guerra e crisi climatica” (lo stesso che era stato sequestrato dalla polizia due anni fa e poi dissequestrato dopo le archiviaizoni delle denunce e l’annullamento dei fogli di via da parte del TAR). “Blocchiamo nuovamente la più importante fiera italiana del settore bellico, dove vengono strette partnership e firmati accordi tra molte delle aziende i cui investimenti e profitti portano a perdita di vite umane e distruzione dei territori” commenta Pietro di Extinction Rebellion. “Un evento immorale, sostenuto dal Governo, dalla Regione e dal Comune di Torino, in aperto contrasto con i nostri stessi valori costituzionali”. Nell’ultimo decennio, nonostante secondo la Costituzione l’Italia dovrebbe “ripudiare la guerra”, la spesa militare nazionale è aumentata di circa il 30%, a discapito di quelle in sanità, istruzione e ambiente. La nuova legge di bilancio, inoltre, si appresta ad essere votata entro la fine dell’anno e prevede un ulteriore aumento di circa 10 miliardi. “Molte delle aziende che sono qui dentro – come Leonardo, Thales, Avio – sono alcune delle più grandi aziende produttrici di armi che stanno traendo profitto dall’aggravarsi delle crisi globali” aggiunge ancora Pietro. Come riporta l’ultimo report di Greenpeace, infatti, dal 2021 al 2024 le prime 15 aziende italiane produttrici di armi hanno raddoppiato i propri utili (+97%), per un totale di 876 milioni di euro di maggiori profitti. “Investire in armamenti come sta facendo il governo e sostenere eventi come questo, in questo momento storico, significa condannare a morte intere popolazioni, mettendo a repentaglio la sopravvivenza dell’umanità, della terra e delle altre specie viventi” commenta Rachele, una appesa sull’edificio dietro il Grattacielo. È ormai noto, infatti, che vi è un legame profondo tra le attività militari e l’aggravarsi della crisi ecoclimatica: il 5% delle emissioni climalteranti totali è prodotto dagli eserciti di tutto il mondo e i territori dove si combatte vengono compromessi per decenni a causa della distruzione e della permanenza nei terreni e nelle falde acquifere delle sostanze tossiche rilasciate durante i combattimento, perpetuando le sofferenze anche quando “un cessate il fuoco” è stato dichiarato. A Gaza, infatti, dal 2023 sono scomparsi il 97% delle colture arboree, il 95% degli arbusti, l’82% delle colture annuali, facendo collassare il sistema agricolo. L’acqua è contaminata da munizioni e liquami. Sessantuno milioni di tonnellate di detriti aspettano di essere rimossi, prima che la contaminazione diventi irreversibile. E in novembre, al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, Inger Andersen, direttrice esecutiva dell’UNEP (il Programma delle Nazioni Unite per l’Ambiente) ha chiesto con forza di riconoscere l’ecocidio come crimine internazionale, al pari dei crimini di guerra e contro l’umanità. “Viviamo un momento cruciale”, ha aggiunto Rachele. “Le scelte che facciamo oggi determineranno la vita delle prossime generazioni. È ora di smettere di investire nella militarizzazione e nella devastazione della Terra, e iniziare a costruire un futuro di pace, giustizia climatica e giustizia sociale”.   Extinction Rebellion
Attivismo e alberi: un amore necessario
In occasione della Festa degli Alberi, a Torino è stato proiettato The Felling, an epic tale of people power, un documentario di Jaqui Bellamy e Eve Wood, prodotto nel 2022. La proiezione è un’iniziativa del Comitato Salviamo gli alberi di corso Belgio, sorto in difesa dei 240 alberi presenti che l’amministrazione comunale decise di tagliare per sostituirli con peri cinesi, piante che anche nella maturità hanno dimensioni più contenute delle piante attualmente presenti. La motivazione del taglio addotta dagli uffici comunali consisteva in questioni di sicurezza pubblica GLI ALBERI DI CORSO BELGIO La vicenda, portata in tribunale, ha già ottenuto risposta: un’ordinanza del 2024 ha stabilito che gli alberi potranno esseri sostituiti ma i tagli verranno programmati in un arco di tempo di 5 anni e non i pochi mesi previsti dal progetto comunale. Inoltre, e non meno importante, i “nuovi” alberi non potranno essere troppo piccoli. L’ordinanza ne specifica le dimensioni minime: alte almeno 4 metri e 20 cm di diametro del fusto. Questo perché l’ordinanza ha tenuto conto del beneficio che alberate adulte portano alle zone in cui sono presenti, non solo in termini di maggior ossigenazione ma anche in rifermento alla preziosissima ombra, un bene prezioso nelle nostre città che in estate diventano sempre più roventi. Tagliare quegli alberi tutti insieme avrebbe arrecato danni alla salute degli abitanti della zona, un riconoscimento giuridico importantissimo dell’efficiente lavoro svolto dai colossi verdi. THE FELLING: IL CASO DI SHEFFIELD Una storia simile è quella di Sheffield raccontata nel documentario The Felling. Nella cittadina britannica vennero decisi abbattimenti per quasi 5000 esemplari a causa di un progetto di risistemazione di strade e marciapiedi, includendo nella lista anche esemplari perfettamente sani, alcuni ultracentenari. Il progetto era del 2012, valido per 25 anni e pari a 2,2 miliardi di sterline. La popolazione reagì numerosa, un po’ per volta diventando nel tempo una vera azione di disobbedienza civile e diffusa. All’arrivo egli operai gli attivisti si frapponevano fra alberi e motoseghe bloccando i lavori. Nel 2017 il Comune portò la questione in Tribunale che rispose con un’ingiunzione che vietava agli attivisti di ostacolare i lavori ponendosi nella zona protetta dalle transenne. Ma cosa si è disposti a fare per salvare un albero? Molto e questa storia lo dimostra. L’ingiunzione rese necessaria qualche cautela in più: bisognava trovare il modo di essere efficienti e bloccare gli operai senza violare l’ingiunzione evitando le sanzioni pecuniarie che avrebbero messo in difficoltà buona parte dei manifestanti. Gli attivisti si mobilitarono organizzando azioni strutturate e ben coordinate. Bloccando gli operai all’uscita dal deposito mezzi ad esempio. Ma qualcuno si chiese: “E se l’ingiunzione la violassimo? Cosa accadrebbe?” Dodici mesi di reclusione condonati e pagamento delle spese processuali, ecco cosa accadde. Ma la tenacia degli attivisti venne premiata. Nel 2018 gli abbattimenti vennero sospesi e nel 2021 le parti in causa sottoscrissero una nuova strategia di partenariato per la cura di alberi e strade. UN NUOVO ACCORDO ANCHE PER TORINO? Una similitudine con la storia torinese che continua anche su questo punto. Il 19 novembre è infatti stata presentata una proposta di deliberazione di iniziativa popolare per chiedere la sostituzione integrale del vigente articolo 45 del Regolamento del Verde pubblico e privato della Città di Torino. La proposta intende eliminare la possibilità di sostituzione di intere alberate senza la valutazione di pericolosità effettuata per ogni singolo albero. Un cambiamento epocale che segnerebbe il riconoscimento alla salvaguardia di ogni singolo amico verde della città e che è necessario. Sara Panarella Redazione Torino
Una critica radicale al cuore del capitalismo verde
Articolo di Jacob Nitschke, Marisol Manfredi A 3.500 metri di altitudine, il vento attraversa le montagne e le nuvole si dissolvono su una superficie che sembra infinita. Il tempo diventa denso. Le ore passano più lentamente, l’aria si respira in modo diverso, come se la vita avesse un altro ritmo. Nelle Salinas Grandes, a nord della provincia argentina di Jujuy, il vento disegna vortici su una pianura bianca che sembra non finire mai. In quel paesaggio sospeso, dove il silenzio risuona più forte di qualsiasi motore, il presente si muove al ritmo della terra e il silenzio, improvvisamente, acquista spessore: è il suono di un territorio che resiste. Lì vive Flavia Lamas, presidente dell’Assemblea del Bacino di Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc. Dal 2009, insieme ad altre 38 comunità kolla-casabinda, affronta l’avanzata delle compagnie minerarie che cercano di estrarre litio dalla salina, situata nel famoso e strategico Triangolo del Litio. In un mondo che celebra la «transizione verde» e le auto elettriche come soluzione al cambiamento climatico, Flavia ricorda che ogni batteria ha un prezzo che non si misura in euro o in dollari: si misura in acqua, in comunità, in vita. «Ci dicono che siamo il triangolo del litio e che per questo diventeremo ricchi. Ma senza acqua non c’è vita. Noi non mangiamo batterie», ci racconta Flavia quando la intervistiamo nel rifugio Santuario dei Tre pozzi, all’ingresso delle Salinas, dove per pochi soldi (2 euro) offrono un servizio di guida turistica che ci spiega come funziona la salina e come le comunità utilizzano il suo sale. Quando nel 2009 sono arrivate le prime trivelle nella zona, le comunità non sapevano cosa fosse il litio. «Abbiamo visto che la salina cominciava ad affondare, che l’acqua dolce usciva mescolata alla salamoia. È stato allora che ci siamo resi conto che qualcosa non andava», racconta Flavia. Da allora, si sono organizzati. In Argentina, fortunatamente e in risposta a tante crisi, la popolazione sa come opporre resistenza. È nata così l’Assemblea del bacino di Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc, dove hanno redatto il proprio protocollo di consultazione (Kachi Yupi o Huellas de Sal) e hanno chiesto che qualsiasi progetto rispettasse il diritto di decidere sui propri territori. La lotta non è stata facile. Nel 2023, dopo la riforma costituzionale promossa dal governatore di Jujuy, i diritti delle popolazioni indigene sono stati indeboliti. Le proteste sono state represse e molte comunità si sono divise. Alcune, spinte dalla necessità o dalla promessa di posti di lavoro, hanno accettato di dialogare con le compagnie minerarie. Altre, come quella di Flavia, hanno resistito. «Ci dicono che il progresso arriva con i camion e le macchine, ma quello che portano è disuguaglianza. Prima nessuno aveva più di nessun altro. Ora alcuni comprano automobili, altri niente. E questo distrugge la comunità», spiega. Flavia racconta di Susques, una comunità a circa 66 km più in alto rispetto a dove ci troviamo, uno dei primi villaggi della Puna dove è stata avviata l’estrazione del litio. Lì, ci racconta Flavia, «non c’è più acqua potabile durante il giorno e gli animali nascono deformi». Le comunità di Susques hanno detto loro: «Voi siete ancora in tempo, noi abbiamo già perso tutto». Questa frase riassume l’orizzonte temuto nelle Salinas: un territorio esaurito, una vita circondata dalla polvere e dalla sete. A Susques, la promessa di sviluppo si è trasformata in dipendenza. L’acqua che prima sgorgava dagli occhi della terra (ojos de la tierra ) ora arriva in bottiglie di plastica: privatizzazione, proprietà privata e individualismo sono alcune delle conseguenze che l’estrazione mineraria ha portato a Susques. Il racconto di Flavia rivela qualcosa di più profondo di un conflitto ambientale: è una lotta ontologica, una differenza su cosa significhi questo mondo e come viverci (bene). Per Flavia, il Buen Vivir non è una teoria, né solo una cosmologia che si studia, ma una pratica quotidiana. «Non si tratta di vivere bene, ma di vivere bene tutti. Se il mio vicino soffre, io non posso stare tranquilla». Il legame che Flavia ha con le Salinas è anche intimo e spirituale. «Sento una connessione con le Salinas… Quando nella mia famiglia siamo tristi, angosciati o malati, l’unica cosa che facciamo è connetterci con la natura. E così troviamo la tranquillità che un medico non può darci. Le saline fanno parte della famiglia, ed è per questo che diciamo che toccarle è come toccare una madre». Nella sua cosmovisione, la salina non è una risorsa, è una madre; un essere che vive, respira, soffre. Le parole di Flavia racchiudono una critica radicale al cuore del capitalismo verde: l’idea che la natura possa essere separata dalla vita umana e ridotta a una materia prima, a una risorsa, a un oggetto sfruttabile. Quell’idea moderna per cui l’essere umano è una cosa e la natura un’altra. Come se anche noi non fossimo natura. Il progetto del nord del mondo di «transizione ecologica» viene spesso presentato come un percorso inevitabile e benigno verso la sostenibilità. Tuttavia, il litio che alimenta la mobilità elettrica viene estratto da territori come questo, dove l’acqua è scarsa e la democrazia è fragile. In nome della decarbonizzazione, si ripropongono vecchi modelli coloniali: il Nord pianifica il suo futuro «pulito» (misurato in termini di energia e coscienza) mentre il Sud offre nuovamente la sua terra e il suo corpo (le teorie femministe sudamericane sul corpo-territorio hanno molto da offrirci su questo, se qualche lettore fosse interessato ad approfondire). Flavia lo sa. Ecco perché la sua richiesta non è rivolta a Buenos Aires e tanto meno alle istituzioni locali di Jujuy. «Andare dal governo provinciale non serve. L’aiuto deve venire dall’Europa, dove si prendono le decisioni sul litio. Lì ci sono organizzazioni per i diritti umani che possono ascoltarci». La richiesta di Flavia rompe lo schema semplicistico di un Sud vittima e di un Nord oppressore. Lei non parla a nome di un confine, ma da una molteplice interdipendenza: ecologica, politica, epistemica, ontologica. La sua voce mira a tessere alleanze con coloro che, in Europa, mettono in discussione la finzione di un progresso verde fondato sulla disuguaglianza. Nel nostro progetto accademico chiamiamo questo fenomeno «dipendenze intersezionali»: comprendere che la dipendenza non è distribuita solo tra paesi e geografie, ma anche tra modi di vita, conoscenze e ontologie. Dalle montagne andine alle istituzioni europee, le stesse gerarchie (tra natura e società, ragione e spiritualità, uomo e donna, centro e periferia, ecc.) sostengono il modello estrattivista. Romperle implica immaginare transizioni non solo energetiche, ma anche ontologiche, in cui diverse forme di sapere e di esistenza possano coesistere in modo paritario. O almeno, rompere con il modello in cui un’alternativa (presumibilmente superiore, il mainstream imposto dal Nord globale) diminuisce, irrompe, sposta e/o elimina altre forme alternative di comprendere il mondo e, di conseguenza, di relazionarsi con la natura (cioè con noi stessi). La voce di Flavia viaggia attraverso percorsi di sale e vento, ma punta al cuore del dibattito globale sulla transizione ecologica. Ci ricorda che non c’è giustizia climatica senza una giustizia più profonda: quella ontologica. Che cambiare energia non basta se continuiamo a pensare al mondo con la stessa logica. Dobbiamo aprirci a nuovi modi di pensare e comprendere il mondo: solo così arriveranno nuove soluzioni. E la transizione «verde», con la sua finzione di venderci la soluzione ai nostri problemi, basata sul cosiddetto «tecno-fix-ottimismo» – la fede cieca nella tecnologia come utopia che ci salverà da tutti i nostri problemi – in realtà sta eliminando una delle alternative in cui cercare risposte, ampliare i nostri modi di vedere, comprendere e pensare il mondo. Non potremo affrontare la crisi ecologica globale ricorrendo alle stesse logiche di estrazione, separazione e dominio che l’hanno generata. Come scrisse Audre Lorde nel 1979, «gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone»: non potremo risolvere i problemi della nostra epoca con gli stessi strumenti della nostra epoca, poiché sono stati proprio questi ultimi, in primo luogo, a creare i problemi. È quindi necessario smascherare il lato nascosto della tanto agognata e apparentemente innocua «transizione verde», poiché ancora una volta essa sposta ed elimina possibili futuri, ma anche possibili modi di comprendere il presente. Dobbiamo cambiare la cassetta degli attrezzi con cui non solo «riparare» la nostra società frammentata e divisa, ma anche ripensarla: la voce di Flavia Lamas è un invito a farlo. Non è facile, ricorda Flavia. Nell’intervista racconta come, delle 33 comunità che facevano parte della lotta, molte abbiano iniziato ad allontanarsi. «Ci sono comunità che hanno detto che non c’è più niente da fare perché abbiamo tutto contro». E spiega che, in alcuni casi, non è l’intera comunità, ma «un gruppetto di famiglie che stanno dando l’ok, ma ora basta… una volta frammentate le opinioni nella comunità, questa non è più abbastanza forte, quindi l’industria mineraria penetra». Cosa penetra e perché succede? Non è solo la transizione verde del Nord che sa vendersi molto bene, ma anche le logiche aziendali delle società minerarie. I loro sofisticati strumenti di marketing sanno come penetrare nelle comunità. Anche se con una connettività e una connessione Internet limitate – poiché solo in alcune parti del percorso è possibile accedere al 4G – le comunità ricevono (soprattutto da quando viviamo in questa era digitale) i concetti di progresso, lavoro, ascesa sociale, successo. È comprensibile: in territori dove lo Stato è assente e dove dalla colonizzazione a oggi sono stati reclusi, esclusi e ignorati (non dimentichiamo che anche le loro lingue sono state eliminate nell’omogeneizzazione colonizzatrice della lingua spagnola), la promessa mineraria appare come l’unica alternativa per unirsi al cosiddetto sistema, dove quel progresso, quell’ascesa sociale e quel successo che vengono venduti sugli schermi potrebbero finalmente fiorire. Il lavoro minerario non offre solo uno stipendio: offre simboli. Un’auto, una casa in muratura, vestiti nuovi, gioielli, un cellulare migliore. Oggetti che nella logica del capitalismo coloniale rappresentano l’«essere arrivati». E in territori impoveriti da politiche nazionali storicamente estrattive, questi segnali possono pesare più del discorso ambientale. È chiaro, quindi, riflettiamo con Flavia, che non tutte le comunità si oppongono, rimangono fedeli ai loro antenati e ai messaggi che il tata wayra (vento) e il tata inti (sole) trasmettono loro attraverso suoni impercettibili all’orecchio occidentale. Quella stessa promessa fatta dalle aziende distrugge il tessuto sociale delle comunità. Il documentario The Hidden Cost: The Other Side of the Green Transition, prodotto dalle colleghe dell’Osservatorio sul Debito Globale, mostra chiaramente ciò che Flavia sintetizza in una frase: «La comunità si rompe». Appaiono pratiche che prima non esistevano, in particolare, da una prospettiva di genere, l’alcolismo e la prostituzione. Per questo motivo, le colleghe nel loro documentario cercano di mostrare la prospettiva di genere, molto necessaria nell’estrazione del litio, perché porta cambiamenti molto forti. Per quanto riguarda la prima problematica, le donne di Susques – che, come abbiamo già detto, subiscono le conseguenze dell’attività mineraria penetrata già da 10 anni – affermano, ci racconta Flavia, che non è più sicuro uscire di notte, perché ci sono molti uomini ubriachi e violenti che vagano per le strade. Per quanto riguarda la seconda, sebbene rimandi a un dibattito molto più ampio che non possiamo affrontare in questa sede, costringe le donne a cercare altri modi per guadagnare denaro e mantenersi economicamente, soddisfacendo una domanda che, evidentemente, emerge dalla stessa logica estrattivista e individualista che l’estrazione mineraria instaura (in modo irreversibile). Questi fenomeni sono gli effetti sociali di una logica estrattivista che instaura disuguaglianza all’interno della comunità e ne altera l’universo morale, relazionale e affettivo. Dal bacino, molte voci convergono nello stesso giudizio, ci racconta Flavia: «Non vogliamo essere una zona di sacrificio». L’urgenza climatica non può legittimare transizioni energetiche che aggravano le disuguaglianze sociali, etniche e ambientali, che destabilizzano le comunità, che generano malessere e violenza. La richiesta è chiara: ascoltare i territori, difendere l’acqua, rispettare i diritti collettivi, lasciarli essere e decidere, riconoscere la loro esistenza, il loro modo di vivere e di pensare e, soprattutto, capire che con le batterie al litio ci potranno essere auto e cellulari, ma senza acqua non ci sarà nessuno che li userà o li guiderà. Flavia ci chiede di diffondere il suo messaggio in Europa. Eccoci qui, a cercare di far risuonare la sua voce in tutti gli spazi possibili. Se ti stai chiedendo come puoi aiutare, la prima risposta di Flavia è semplice e urgente: fai eco. Condividi. Mantieni viva la conversazione. Seguili su Instagram all’indirizzo @cuencadesalinasgrandes e sul loro sito web, perché ogni diffusione apre una fessura da cui entra aria. E perché diffondere è un atto politico. Alla fine della giornata, la domanda non è chi sarà il proprietario del litio, ma quale mondo continuiamo ad alimentare quando crediamo che la tecnologia da sola ci salverà. La domanda che questo articolo lascia è scomoda, ma inevitabile: a cosa serve decarbonizzare l’Europa se le montagne andine del Sud del mondo si desertificano? A cosa serve una transizione verde che richiede il sacrificio di interi territori in nome di un futuro a cui quelle popolazioni non potranno nemmeno accedere? Che tipo di giustizia climatica è quella che ha bisogno di «zone di sacrificio» (le stesse del passato, ovviamente)? Mentre le potenze del Nord parlano e celebrano l’«innovazione verde», nelle Salinas Grandes le comunità continuano a difendere qualcosa di più elementare e vero di un’auto elettrica o di un terzo cellulare in due anni: difendono l’acqua, difendono la vita. Nelle parole di Flavia, parole che l’Europa ha bisogno di ascoltare: «Senza acqua non c’è vita. Noi non mangiamo batterie». Forse questo è il messaggio più profondo che le Salinas ci restituiscono: che la transizione ecologica non sarà giusta se costruita su territori assetati; che se la transizione verde ha bisogno di territori vuoti, comunità frammentate e saline senza acqua, allora non è né transizione né verde, è semplicemente un’altra forma di estrattivismo, questa volta in nome del clima; che non ci sarà un mondo possibile se continuiamo a zittire le voci che potrebbero aiutarci a immaginarne altri; e che la Pachamama, quando parla in silenzio, ci sta dicendo che siamo ancora in tempo, ma che non ne rimane molto. *Marisol Manfredi è un’economista eterodossa argentina formatasi a Mar del Plata, Parigi e Pisa. Jakob Nitschke è un ricercatore in Economia Geografica con particolare attenzione ai temi della decolonizzazione, dei conflitti eco-sociali e dell’estrattivismo.  L'articolo Una critica radicale al cuore del capitalismo verde proviene da Jacobin Italia.
QUALITA’ DELLA VITA: BRESCIA PERDE POSIZIONI NELLA CLASSIFICA DEL “SOLE 24 ORE”. INTERVISTA A MARINO RUZZENENTI
Trento, Bolzano e Udine sono in cima alla classifica annuale “Qualità della Vita” del Sole 24 Ore, il quotidiano di Confindustria. Bologna quarta e Milano ottava; in mezzo Bergamo (quinta), Treviso (sesta), Verona (settima), Padova (nona) e Parma (decima). Firenze 36/a, Genova 43/a, Roma è 46/a, Torino 57/a. Guardando il dato locale, Brescia – città da cui trasmette Radio Onda d’Urto – peggiora: nella classifica finale perde otto posizioni rispetto al 2024 piazzandosi al 28esimo posto. Male in particolare demografia e società, cultura e tempo libero e giustizia e sicurezza. Stride, in uno dei territori più inquinati d’Italia, il primo posto assoluto nella categoria ambiente e servizi; un dato quantitativo, quello del Sole 24 Ore, basato soprattutto su fotovoltaico, trasporti e illuminazione pubblica, e non invece su qualità di aria, acqua e cementificazione. Come leggere questi dati? E’ la domanda che Radio Onda d’Urto ha posto a Marino Ruzzenenti, storico dell’ambiente e consulente del tavolo Basta Veleni Brescia. Ascolta o scarica
Superstrada del Parco del Ticino e Parco Agricolo Sud Milano: accettato il ricorso dei comitati
LEGITTIMATO DALLA CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO (CEDU) IL RICORSO PRESENTATO PER TUTELARE I DIRITTI FONDAMENTALI DEI CITTADINI E DELL’AMBIENTE. LA RESISTENZA CONTINUA. Nel luglio scorso un gruppo di cittadini aderenti ai Comitati No Tangenziale, al Circolo Legambiente Terre di Parchi e all’Associazione Parco Agricolo Sud Milano, ha presentato un ricorso alla CEDU per contestare i danni all’ambiente e al territorio, connessi alla realizzazione del progetto denominato “SS11-494 Collegamento Magenta-Vigevano”. Il ricorso denuncia la lesione del diritto alla vita e all’ambiente salubre, alla proprietà, alla ragionevole durata del procedimento subita dai ricorrenti che abitano nei Comuni di Abbiategrasso, Albairate, Boffalora, Cassinetta di Lugagnano, Robecco sul Naviglio ,vittime della imminente realizzazione della tratta A e C della superstrada sita in area protetta, inclusa in due Parchi e nella “Riserva della Biosfera MAB dell’Unesco “inserita nella RER(Rete ecologica Regionale) e nelle Aree prioritarie per la biodiversità di Regione Lombardia. Il 6 Novembre le nostre avvocate, Paola Regina, Veronica Dini e Roberta Bertolani hanno ricevuto, dalla Cancelleria della Corte Europea dei diritti dell’uomo, la comunicazione relativa al fatto che il ricorso è stato dichiarato ammissibile e sarà portato all’esame della Corte quanto prima possibile, grazie alla documentazione inviata. Il risultato è notevole visto che meno del 10% delle segnalazioni fatte alla Corte supera il filtro di accoglimento. Abbiamo lavorato a lungo con le avvocate e abbiamo potuto allegare numerosi documenti comprovanti il costante impegno dei cittadini ricorrenti in tutti questi lunghi anni. Le criticità da sempre lamentate devono essere apprezzate con ancor maggior attenzione oggi, considerato i dati sul consumo di suolo recentemente diffusi da Ispra e le conseguenti ricadute sulla salute dei cittadini derivanti dalla costante esposizione a livelli molto elevati di inquinamento atmosferico. La Superstrada, tra l’altro, dal 2014 ha perso completamente il suo scopo primario, il collegamento tra Malpensa e la Tangenziale Ovest di Milano, infatti la tratta “B”, Albairate-Tangenziale Ovest di Milano, è stata cancellata per criticità economiche e di condivisione con il territorio (Fonte Silos Camera dei Deputati 2022). Non è nemmeno stata prevista una riqualificazione da noi chiesta più volte e al suo fianco si sta realizzando una pista ciclabile. L’opera è stata autorizzata nel 2023 grazie alla nomina del Commissario Straordinario Eutimio Mucilli che, nonostante un denunciato conflitto di interessi connesso alla sua carica di Dirigente di Anas, ha concluso positivamente la Conferenza dei Servizi a dispetto del parere contrario del Parco del Ticino e del Parco Agricolo Sud Milano, di Città Metropolitana di Milano e dei Comuni di Albairate, Cassinetta di Lugagnano e Boffalora. La valutazione ambientale dell’opera (VIA), avviata nel 2005 e conclusa nel 2008, a distanza di 17 anni non è mai stata aggiornata. Le innumerevoli prescrizioni ambientali da realizzare, secondo le indicazioni del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, sono state in grandissima parte rinviate al progetto esecutivo. In tutti questi anni non sono state mai prese in seria considerazione le proposte alternative emerse nel tempo attraverso il coinvolgimento delle realtà locali. L’infrastruttura stradale permette il consumo di suolo agricolo di 1.500.000 mq, pari a circa 200 campi da calcio, di cui il 94,5 % sono costituite da aree del comparto agricolo che verranno asfaltate. Realizzata da ANAS l’immissione in possesso nei terreni espropriati alle aziende agricole nella tratta “C”, recintate le campagne e deturpato il paesaggio agricolo, abbiamo anche fatto esposto alla Commissione Nazionale dell’Unesco perché intervenga a tutela della Riserva della Biosfera denominata “Ticino Val Grande”. Ringraziamo per i contributi ricevuti e speriamo che la nostra lotta continui ad essere di esempio per tanti territori italiani. Comitati No Tangenziale del Parco del Ticino e Parco Agricolo Sud Milano Legambiente Circolo Terre di Parchi Forum Salviamo il Paesaggio