Source - Jacobin Italia

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«Contro la destra serve complessità»
Articolo di Caparezza, Jacopo Custodi Michele Salvemini, in arte Caparezza, non ha bisogno di molte presentazioni: da oltre vent’anni è una delle voci più originali della musica italiana. Rapper in continua evoluzione, ha un pubblico vasto e fedele che lo ha seguito attraverso concept album sempre nuovi, in cui si mescolano linguaggi, generi musicali e immaginari. Album che somigliano più a degli universi narrativi che a semplici dischi. Il più recente, Orbit Orbit, uscito il 31 ottobre, è accompagnato da un fumetto scritto da lui, vecchio sogno adolescenziale finalmente portato a compimento. È uno dei pochi musicisti italiani contemporanei capaci di tenere insieme successo commerciale, sperimentazione artistica e impegno politico. Le sue canzoni continuano a risuonare nei cortei e nelle manifestazioni in tutta Italia, senza che lui si sia mai appiattito sugli stereotipi estetici e linguistici del «cantante di sinistra». Ogni volta che pubblica un nuovo disco scala le classifiche e buca il mainstream, per poi tornare volentieri nell’ombra, lontano dall’opinionismo permanente dei social e dalla ricerca ossessiva di visibilità. Lo abbiamo incontrato nel suo studio a Molfetta, pochi giorni dopo le elezioni regionali pugliesi, segnate anche da piccole polemiche locali per via di alcuni politici che hanno contrapposto i seggi vuoti alle file lunghissime per il firmacopie di Caparezza in città. Con lui abbiamo parlato di libertà, di musica, di pathosfera e di politica. Il 31 ottobre è uscito il tuo nuovo album, Orbit Orbit, per la prima volta accompagnato anche da un fumetto che lo complementa. È un’opera ibrida che sembra chiudere una trilogia: Prisoner 709 parlava della prigionia mentale, Exuvia della fuga, Orbit Orbit della libertà. Che tipo di libertà racconti e quanto ti sembra davvero raggiungibile? Quando si parla di libertà si apre subito un vaso di Pandora, perché ogni idea di libertà si porta dietro anche le sue contraddizioni. Chi è davvero libero, quale società è davvero libera? Quella occidentale o quelle che si contrappongono a quella occidentale? Come misuriamo la libertà? Insomma, entriamo subito in un ginepraio. Io mi sono sempre sentito un «prigioniero della Terra» – come lo siamo tutti – perché ho sempre visto il pianeta come una bella galera da cui non si può fuggire, e la forza di gravità come una specie di braccialetto elettronico. Allora mi sono chiesto: qual è stata, nella mia vita, una vera forma di libertà? Perché alla fine il disco è molto personale. L’unica risposta evidente era l’immaginazione. Per me l’immaginazione è una forma autentica di libertà: in nessun contesto puoi vietare a una persona di immaginare qualcosa di migliore o di peggiore.  L’unico vincolo, l’unica contraddizione, è che l’immaginazione agisce prendendo come punto di riferimento la realtà. Per spiegarmi uso un esempio di Karl Jaspers, filosofo tedesco che ha studiato Van Gogh e ha concluso che il suo atto creativo fosse una reazione alla malattia. Secondo Jaspers l’atto creativo è come una perla: così come la conchiglia crea la perla, così l’essere umano crea l’opera d’arte. Ma la conchiglia crea la perla quando dentro entra un granello di sabbia o qualcosa che la infastidisce: per anestetizzare quel dolore lo ricopre di madreperla e nasce la perla. Tutte le perle hanno dentro qualcosa di disturbante. Nel mio caso la realtà è la cosa disturbante, l’immaginazione è la madreperla e la perla è l’opera – in questo caso Orbit Orbit – che metto al mondo. Quindi per me l’immaginazione è una forma di reazione alla realtà: è libertà ma è anche resistenza. Non credo sia una libertà «pura», nel mio caso è proprio una forma di resistenza. E Orbit Orbit è, nel fumetto, l’onomatopea dell’immaginazione: ecco perché l’album si chiama così. L’orbita è movimento ma anche una ripetizione intorno a un centro. Per un progetto che parla di libertà, ti interessava di più l’idea di fuga dal sistema o quella di imparare a muoversi dentro i suoi campi gravitazionali? Bisogna imparare a muoversi dentro. È così anche nel fumetto: le tavole si chiamano «gabbie» e la libertà si esercita proprio all’interno di queste gabbie. La fuga, per me, era il tema di Exuvia, l’album precedente, e rappresentava il passaggio da uno stato all’altro. In parte è successo davvero, perché a un certo punto sono diventato sceneggiatore di fumetti, quindi questa transizione si è compiuta. Ma mi sono reso conto che la fuga assoluta non è possibile. L’immaginazione deve saper convivere con la realtà e muoversi all’interno di queste micro e macro gabbie. Nel tuo ultimo album c’è una bellissima canzone in cui parli di come abbiamo perso empatia, di come siamo usciti dalla «pathosfera». Secondo te come si rientra nella pathosfera? È una domanda dalla risposta difficile, perché il mio è più un desiderio che una ricetta. Mi sono accorto che, man mano che cresciamo, tutto ciò che ci circonda diventa sempre più insostenibile. Per salvarmi, per non essere continuamente ferito, mi sono reso conto che iniziavo anch’io a costruire delle barriere intorno a me, a far finta di non vedere, ad anestetizzarmi, a uscire dalla pathosfera. È un errore, ma penso sia un errore che accomuna tante persone oggi, nell’era dei social, dove sei costantemente sotto attacco da chiunque. E spesso le stesse persone che attaccano sono quelle che non riescono a reggere i colpi quando li subiscono. Allora ti difendi creandoti una corazza di cinismo, che però è molto pericolosa, perché quando perdi la fiducia nell’umanità è un attimo che perdi la tua di umanità. Il vero pericolo è diventare insensibili: non riconoscere più le cose e le persone belle che hai intorno. Ma puoi riconoscerle solo se accetti anche la loro parte negativa. Credo che questa sia una grande lezione della vita, che ho imparato nel mio giro di boa di cinquantenne. Quindi, per rientrare nella pathosfera, bisogna tornare a essere empatici, ma l’empatia è un atto violento, nel senso che quando ti metti davvero nei panni dell’altro non è facile sopportarne il peso e le contraddizioni. Bisogna accettare di fare a pugni con la realtà e con quello che ci fa male, invece di anestetizzarci. So che ci sono anche persone un po’ deluse dalla mia «virata» su queste tematiche, dopo dischi considerati più politici. Ma per me la politica non è per forza fare il tribuno del popolo, anche i sentimenti rientrano nella politica, anzi direi che la politica del sentimento è quella più autentica, più forte, più coinvolgente. Questa introspezione è qualcosa che ti accomuna ad altri grandi artisti impegnati – penso a Zerocalcare – che come te partono spesso da sé stessi per parlare del mondo. È un po’ un segno dei tempi secondo te? Abbiamo bisogno di partire dalle esperienze autobiografiche per parlare della collettività? Questa è una cosa che, nel mio caso, è avvenuta crescendo. Quando ero giovane mi sentivo parte integrante di un mondo che si muoveva nel presente. Poi a un certo punto dentro di me è cominciato a fare capolino il passato. Non so per quale motivo, forse perché c’è sempre meno futuro. E in qualche modo il passato ti ricorda che sei stato tante cose diverse, hai avuto varie vite. Così ho iniziato a vedermi come un viaggio e non più come un ragazzo che vive nel suo contesto sociale, che lotta per il suo presente e per un futuro migliore collettivo. Ho cominciato ad analizzare tutte le tappe del mio viaggio, che non è fatto soltanto di posti bellissimi, è fatto anche di posti orrendi, come tutte le vite di ciascuno di noi. E questa cosa probabilmente è una necessità, io la vedo come una necessità adulta. Sentivo che non volevo più parlare, che non volevo più puntare il dito, ma volevo rivolgerlo verso di me, per capire che cosa è successo nella mia vita. Questo non significa che abbia smesso di pensare alla collettività, semplicemente ho pensato che prima di salire sul pulpito dovessi capire meglio chi sono io sul pulpito. Perché poi diventa più credibile quello che dici dal pulpito. Una domanda soprattutto per i lettori americani che ti leggeranno: in un’intervista hai raccontato che il primo album che hai comprato era dei Run Dmc e anni dopo, ormai affermato, hai anche collaborato con Darryl McDaniels. Che influenza ha avuto il rap americano – e più in generale la musica statunitense – su di te? Il rap americano è stato l’epifania della mia vita musicale. Da piccolo non ho mai avuto il desiderio di diventare un cantante, perché ero molto introverso – e sono ancora molto introverso, anche se ho fatto un lavoro su di me. Da bambino il mio desiderio era diventare fumettista, perché mi immaginavo dentro una stanza, fuori dall’ambiente circostante, solo io e la mia fantasia. Poi a un certo punto succede qualcosa: vedo in tv You Be Illin’ dei Run Dmc. L’immagine di questi tre ragazzi in tuta che fanno rap, con uno di loro che ottiene suoni muovendo i vinili – e io a casa avevo un sacco di vinili di mio padre – mi colpisce tantissimo. Era come usare un oggetto per qualcosa per cui non era «nato», un po’ come Zappa quando in una trasmissione si mette a suonare le ruote di una bicicletta. In più da bambino ero affascinato dal suono delle parole: adoravo gli scioglilingua. Vedere quella cadenza ritmica, quel modo di parlare in modo musicale, è stata una folgorazione sulla via di Damasco. Non sapevo neanche che quello fosse rap, né chi fossero davvero quei tre. Sono andato in un negozio di dischi a Molfetta a chiedere insistentemente l’album dei Run Dmc che conteneva You Be Illin’. Non c’era internet, il disco arrivava dall’America e non era distribuito in Italia, così sono tornato in quel negozio un’infinità di volte per vedere se fosse arrivato. Quando finalmente è successo, mi ricordo benissimo di me davanti alla cassa, col proprietario che indugiava a fare lo scontrino e io che non vedevo l’ora di correre a casa per ascoltarlo tutto. Per me il rap americano è stato il Big Bang.  Ovviamente parlare di «rap americano» è dire tutto e niente, perché è partito in un modo ed è diventato tutt’altro. Io, per esempio, non ho mai subito il fascino del gangsta rap: lì un certo tipo di atteggiamento ha cominciato a non piacermi più. Ma con i Run Dmc, e poi con gruppi come Public Enemy e Beastie Boys, ogni nuovo disco era come aprire una scatola di giocattoli. Ho iniziato a pensare che potessi provare a fare anch’io rap quando ho sentito per la prima volta Frankie hi-nrg, uno che aveva trovato un modo per tradurre in italiano quella stessa forza comunicativa. Un’altra cosa che interessa ai lettori di Jacobin è capire come siamo passati dall’Italia del più grande Partito comunista d’Europa a un paese governato da Giorgia Meloni. Tu che lavori sull’immaginario e sulle emozioni collettive, come vivi questa fase politica? Cosa racconta, secondo te, del nostro paese? Credo che il Partito comunista italiano sia stato il partito più credibile e più serio di tutti. Era un partito in cui c’era anche della poesia, non so come dire… Oggi invece viviamo in un paese che secondo me non è di destra, ma è populista, in cui c’è una disaffezione verso la complessità. C’è proprio un rifiuto della complessità a livello generale, non solo in politica. Ma è sbagliato, perché la vita è la cosa più complessa che esiste. Oggi quando c’è un problema complesso – pensiamo alle emigrazioni – la risposta semplice è quella che attecchisce. La famosa politica di pancia funziona di più perché approfondire è faticoso, ma se ti rifiuti di approfondire stai impoverendo anche il meccanismo cerebrale che ti porta a evolverti come persona. E così si comincia a vivere in una società manichea. Non penso però che sia un problema solo italiano, lo vediamo anche negli Stati uniti. È proprio un problema generale, alimentato forse anche dal web, in cui le notizie diventano semplicemente un titolo da clickbait e gli algoritmi alimentano le polarizzazioni. Questo sta impoverendo il dialogo, sta impoverendo l’approccio alla vita. Il semplicismo è il grave problema di questo momento storico. E non era così nel passato: per esempio le lettere che Van Gogh scriveva al fratello Teo (a un certo punto sono andato in fissa per Van Gogh) erano di una profondità e di una valenza narrativa fortissima. Si ambiva alla complessità, ora si ambisce al semplicismo, che attenzione non è la semplicità. La semplicità è un valore, soprattutto nella divulgazione, è il semplicismo il problema. Negli ultimi anni si è molto discusso a sinistra del rapporto fra cultura e politica. Da un lato abbiamo visto come incentrare la politica sulla dimensione culturale possa produrre fenomeni problematici come le culture wars; dall’altro, in Italia sappiamo fin dai tempi di Antonio Gramsci quanto l’egemonia culturale sia importante per conquistare nuovi diritti. Tu da artista che nella produzione culturale non dimentica la politica cosa ne pensi di questo complicato rapporto? Partiamo dall’arte: io penso che nell’arte sia tutto lecito e lo dico in maniera lapidaria. Nell’arte non puoi assolutamente mettere paletti, di nessun tipo. Poi gli artisti si assumeranno la loro responsabilità per quello che dicono, ma l’arte è qualcosa d’altro rispetto alla comunità, alla vita, quindi diciamo che io sull’arte e sulla creatività non voglio paletti. Sono contro la cancel culture: non sono per andare a prendere cose del passato e censurarle, perché sono una testimonianza del passato e danno forza a quello che accade oggi. Oggi, se guardi un vecchio film in cui si prende in giro una categoria e lo confronti con un film di oggi, in cui si sta più attenti, capisci che è stato fatto un passo avanti. Però, se mi cancelli la testimonianza del passato, quest’evoluzione si perde. Lo stesso vale per le statue dei personaggi del passato: non sono per il loro abbattimento, ma per cambiare il modo in cui le raccontiamo. Altrimenti è come cancellare porzioni della tua vita. Io ho fatto cazzate nella mia vita, ma non posso cancellarle, altrimenti esco dalla pathosfera. Devono aver avuto un senso, anche solo quello di avermi portato a essere una persona migliore. Dovremmo guardare alla società allo stesso modo: come a un essere umano che cresce e cambia. Ovviamente, nella vita e in politica, le battaglie culturali servono e sono importanti. Però, personalmente, sono per le rivoluzioni culturali consapevoli: non che io mi sveglio e da oggi si fa così, perché in quel modo non cambi realmente e culturalmente le persone. Preferisco i piccoli passi avanti collettivi che, quando diventano consapevoli, non li tocchi più, o almeno si spera. Vieni da Molfetta e hai portato spesso nei testi e nello stile uno sguardo laterale rispetto ai canoni culturali dominanti. In che modo il fatto di venire da una città medio-piccola del sud ha modellato il tuo modo di fare cultura e le tue idee politiche? Non lo so, mi sembra che il mio approccio alla vita derivi più da come sono fatto io, dal mio carattere, che dal posto in cui sono nato. Però provo a ragionarci adesso: Molfetta è un paesone in cui sopravvive un’idea di comunità e dove non c’è ancora quell’individualismo spinto tipico dei paesi capitalisti contemporanei. Questo genera forme di aiuto e di solidarietà, e ci aiuta a stare dentro la pathosfera. Mi piace vivere qui, e questa è una zona bellissima. Ci sono però anche dei problemi, ad esempio le questioni legate alla criminalità, che proprio non sopporto per indole e che mi fanno contorcere lo stomaco. I miei miti non saranno mai quelli celebrati dagli sceneggiati contemporanei. Ho anche un rapporto difficile con la religione cattolica, che qui è molto radicata. A volte, soprattutto durante le festività, la fede viene vissuta con un afflato un po’ troppo doloroso, con l’ostentazione del dolore. Durante la settimana di Pasqua vedi gente trafitta, gente che piange, gente incappucciata. Sono cose che non mi hanno fatto bene da bambino, mi hanno generato ansie e paura. Una cosa bella invece è che, al di là della religione, a Molfetta e nelle città limitrofe si tende a sdrammatizzare molto, e questo mi ha aiutato a non prendermi mai troppo sul serio, a non sentirmi un divo. Ho sempre sdrammatizzato il mio ruolo e per fortuna non mi sono mai sentito «sto cazzo» e questa cosa secondo me fa parte del modo di essere di un molfettese. Che rapporto hai oggi con la parola «sinistra»? È ancora una bussola o è diventata una categoria troppo confusa? Io in tutta la mia vita ho sempre votato Rifondazione comunista [a Molfetta Rifondazione si presenta ancora col proprio simbolo e alle ultime elezioni comunali il suo candidato ha preso l’8,1%, NdR]. Sono nato in una famiglia che più o meno orbitava politicamente intorno alla Democrazia cristiana, quindi non ho avuto un imprinting comunista, semplicemente mi sono avvicinato a Rifondazione guardando quello che facevano i ragazzi del partito qui a Molfetta. Mi sono appassionato a loro e quindi ho sempre votato per Rifondazione. I ragazzi di Rifondazione erano quelli che facevano le cose più interessanti, erano i più sinceri e i più onesti. Difficilmente potrei votare per il centrosinistra oggi, che mi sembra troppo di centro, troppo di stampo democristiano. Qual è il tuo album preferito?  Il mio album preferito è sempre l’ultimo che ho fatto, perché è il più fresco ma anche perché ogni nuovo album per me è come se fosse una morte da celebrare. Quando pubblico un disco mi libero di pensieri che in maniera frustrante ho faticato a mettere su carta per anni e quindi per me è una morte da festeggiare. Forse è l’imprinting religioso e molfettese che ritorna! Ultima domanda: non so se lo sai, ma Zohran Mamdani prima di diventare sindaco di New York faceva il rapper. Quando ti vedremo candidato sindaco di Molfetta? Mai! Ho molto rispetto verso la politica e non sono uno di quelli che dice che i politici sono tutti dei ladri. Non sono per i semplicismi: tra le persone che scelgono di fare politica c’è sempre qualcuno che ha dentro un fuoco vero, e questo va riconosciuto. Come nella musica: c’è chi ha quel fuoco, solo che magari non lo trovi nella playlist di Spotify, devi andarlo a cercare. La politica la prendo molto seriamente e, proprio perché la prendo seriamente, so che non ho quel fuoco. Nel tempo sono stato corteggiato più volte per entrare in qualche lista. Ho sempre rifiutato, anche per rispetto della politica. Non ne avrei le competenze e, soprattutto, non ne ho il desiderio. Servono persone a sinistra mosse da una passione autentica. Ne conosco, ne ho viste gravitare in quell’ambito. Non esiste l’integerrimo, tutti fanno errori, ma se qualcuno ha un fuoco reale, e lo fa perché ci crede, allora bisogna mandare avanti quella persona lì. Sono alla ricerca di persone così.  *Jacopo Custodi è ricercatore in Scienze Politiche presso la Scuola Normale di Pisa. Ha curato Comunismo e questione nazionale. Madrepatria o Madre terra? (Meltemi, 2021) e Le parole e il consenso. Come battere la destra a partire dalle parole che usiamo ogni giorno (Castelvecchi, 2021) e scritto Un’idea di paese (Castelvecchi, 2023). Michele Salvemini dopo gli esordi come Mikimix, che lui stesso definisce «cantante insignificante, dal cui autodisgusto nacque il sé stesso odierno», diventa Caparezza. Da allora ha pubblicato nove album, l’ultimo dei quali si intitola Orbit Orbit. 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Attualità della pianificazione
Articolo di Matteo Gaddi, Nadia Garbellini Produttività e competitività vengono spesso presentate come categorie neutrali, semplici strumenti tecnici per interpretare le prestazioni dell’economia. Questa presunta neutralità è però una costruzione ideologica: serve a trasformare scelte politiche in vincoli oggettivi e a spostare sulle lavoratrici e sui lavoratori il peso degli squilibri macroeconomici. Per ripensare un’alternativa occorre quindi innanzitutto smontare questi concetti che, sotto una veste tecnico-contabile, reggono l’architettura del capitalismo contemporaneo. In particolare va preso atto che quest’ultimo, dallo shock seguito alla scelta di Richard Nixon, nel 1971, di far saltare il sistema di cambi fissi basati sul dollaro americano in vigore dalla fine della Seconda guerra mondiale, si è caratterizzato per la fortissima apertura commerciale e finanziaria. Solo questa mutazione profonda delle economie di mercato ha posto al centro della scena i concetti di produttività e competitività, dato che in una simile configurazione del capitalismo la crescita economica è stata indissolubilmente legata ai surplus commerciali (neomercantilismo) e finanziari (differenziali dei tassi d’interesse). Tuttavia, l’ennesima riconfigurazione dei mercati cui stiamo assistendo suggerisce che non si trattava certo di caratteristiche naturali delle economie capitaliste. In questo senso, assumere invece quelle specifiche caratteristiche istituzionali come date una volta e per tutte (e, quindi, insistere aprioristicamente su produttività e competitività) diviene un errore grave per un buon economista, e diventa imperdonabile per un economista «eterodosso» o «progressista».  L’IDEOLOGIA DELLA PRODUTTIVITÀ L’indicatore canonico della produttività – il valore aggiunto reale per ora lavorata – viene utilizzato come se misurasse l’efficienza fisica del lavoro. Quest’equivalenza, tuttavia, è un artificio teorico derivato da un impianto concettuale costruito esplicitamente per servire una visione dell’economia centrata sulla massimizzazione del profitto. La contabilità della crescita neoclassica descrive un’economia chiusa, che produce un unico bene (anche composito) finale, uguale nel tempo e nello spazio; in cui il capitale (fisso e circolante) non è prodotto ed è quindi trattato come un fattore primario (e quindi scarso). La cosiddetta distribuzione funzionale, cioè quanta parte del reddito nazionale (cioè del valore aggiunto) va ai salari e quanta ai profitti,  in questo schema discende dalle condizioni di equilibrio, dove per equilibrio si intende una situazione in cui il profitto è massimizzato. È un dato tecnico, che dipende dai prezzi relativi dei fattori e dalla tecnologia in uso. Qualsiasi deviazione da questa distribuzione crea inefficienze, e dunque non esiste margine per il conflitto sociale. Adottare una metrica che discende da questo apparato teorico significa dunque adottarne la prospettiva, o il suo presunto significato «oggettivo e naturale» semplicemente si dissolve. La produttività infatti è diventata uno dei principali strumenti ideologici per legittimare politiche di compressione salariale e di disciplinamento della forza lavoro: se la produttività non cresce, non possono crescere i salari; se i salari crescono «troppo», si perde competitività; se si perde competitività, si compromette la crescita. È una catena di causalità rovesciata, che serve a naturalizzare rapporti di forza sfavorevoli. Da anni, inoltre, il tema della produttività viene utilizzato dalle istituzioni europee per mettere in discussione la contrattazione collettiva, che a loro avviso andrebbe superata a favore di quella decentrata. Quest’ultima consentirebbe, secondo tale visione, di legare ex post salari e produttività, così da contenere i primi e stimolare la seconda. Un esempio emblematico è la lettera del 5 agosto 2011 inviata da Mario Draghi e Jean-Claude Trichet a Silvio Berlusconi, allora Presidente del Consiglio. In quel documento – che anticipò la caduta del governo nel dicembre successivo – si chiedeva di «riformare ulteriormente il sistema di contrattazione salariale collettiva, permettendo accordi a livello d’impresa […] e rendendo questi accordi più rilevanti rispetto ad altri livelli di negoziazione». La Commissione europea e il Consiglio dell’Ue hanno più volte sostenuto con decisione la necessità di un più stretto legame tra salari e produttività, da ottenere tramite il decentramento della contrattazione. Particolarmente significative, in questo senso, sono le raccomandazioni del Consiglio dell’Ue (2013) sul Programma Nazionale di Riforma dell’Italia, basate su un Documento di Lavoro della Commissione. Vi si affermava che la perdita di competitività dell’Italia richiedeva aggiustamenti nella fissazione dei salari e che la dinamica salariale non aveva riflettuto il deludente andamento della produttività, contribuendo a un aumento del costo del lavoro per unità di prodotto. Il documento sottolineava il ruolo dominante della contrattazione nazionale, ritenuta un ostacolo all’allineamento dei salari alle condizioni economiche locali: un modello salariale definito sulla base dell’inflazione attesa sarebbe incompatibile con l’esigenza di recuperare competitività. Da qui la raccomandazione di «stabilire un quadro per la determinazione dei salari che permetta un migliore allineamento dei salari alla produttività». Queste indicazioni sono state ribadite sistematicamente dal Consiglio dell’Ue dal 2014 al 2019, configurando un vero e proprio fuoco di sbarramento volto a spostare il baricentro della contrattazione dal livello nazionale a quello aziendale, con l’obiettivo dichiarato di legare più strettamente salari e produttività. Su queste, fragili, premesse, il presunto ristagno della produttività italiana viene accettato come un dato incontestabile persino da molti economisti eterodossi, che utilizzano l’indicatore standard senza interrogarsi sulle sue implicazioni. Questa posizione finisce per riprodurre la stessa logica che dichiara di voler superare: rimane intatto l’assunto secondo cui i salari devono inseguire la produttività; che il paese debba colmare un presunto ritardo competitivo attraverso processi di upgrading tecnologico; che lo sviluppo dipenda dalla selezione delle imprese più efficienti. In definitiva, resta l’idea che, nel mondo plasmato dalle politiche neoliberiste, l’innovazione tecnologica possa disarticolare il conflitto tra capitale e lavoro, rendendo possibile conciliare gli interessi di entrambi; si tratta di un modo per neutralizzare il conflitto sociale con la promessa di un equilibrio armonico garantito dal progresso tecnico. Il valore aggiunto reale per ora lavorata, però, non misura l’efficienza fisica del lavoro, poiché si calcola deflazionando grandezze monetarie tramite indici di prezzo basati sulle ipotesi irrealistiche menzionate sopra. Ciò che questo indicatore cattura è piuttosto la capacità di valorizzazione del capitale, il valore monetario che riesce a generare – e di cui poi si può appropriare – per ogni ora di lavoro. Sostenere che sia necessario vincolare gli aumenti salariali alla produttività così misurata – oppure, nella versione «illuminata», sostenere che aumentare i salari è vantaggioso per le imprese perché consente di aumentare la produttività, cioè estrarre ancora più plusvalore relativo così da recuperare interamente ciò che concedono – significa accettare un presupposto profondamente regressivo: se la crescita dei salari nominali segue da vicino quella della produttività così calcolata, la quota salari non può che ridursi anno dopo anno in ragione del tasso di inflazione. Di fatto, è una forma di indicizzazione al ribasso, che incorpora la compressione salariale nel metodo stesso di calcolo. Che questa impostazione venga da Confindustria è del tutto comprensibile; che venga fatta propria anche dagli economisti eterodossi – che oltretutto pretendono sovente di spiegare al sindacato cosa dovrebbe fare – è un problema politico. UN APPROCCIO NOMINALE Una volta chiarito che ciò che stiamo davvero misurando è la capacità di valorizzazione del capitale, sarebbe molto più corretto considerare direttamente il valore aggiunto nominale per ora lavorata, che la misura senza sottostimarla sistematicamente. Adottando questo approccio, la performance italiana appare molto meno disastrosa (per le imprese) di quanto sostengano commentatori, analisti e organizzazioni padronali: la dinamica della produttività nominale mostra che la capacità di valorizzazione dell’economia italiana non è affatto tale da giustificare la moderazione salariale. L’aumento della capacità di valorizzazione del capitale è una buona notizia per le imprese, ma ovviamente non per i lavoratori. Un aumento del valore aggiunto nominale non implica che il sistema produttivo stia diventando più moderno, meno inquinante o con caratteristiche più desiderabili sotto qualche profilo sociale. La valorizzazione aumenta anche e soprattutto in settori stagnanti, in contesti di precarizzazione, di esternalizzazioni, di abbassamento degli standard occupazionali o grazie a semplici movimenti nei prezzi relativi – spesso trainati strategicamente dalle grandi imprese oligopolistiche. In altre parole, che il capitale riesca a estrarre più valore dal lavoro non è né un segnale di progresso tecnologico né una misura della qualità dello sviluppo. Scambiarlo per un segnale di modernizzazione significa confondere l’interesse del capitale con quello collettivo e riprodurre la narrazione che si vorrebbe criticare. C’è poi un ulteriore effetto collaterale di questa metrica: usare il valore aggiunto come misura del «progresso tecnico» significa adottare una definizione estremamente ristretta di innovazione. In questo schema, infatti, è innovazione solo ciò che aumenta la capacità del capitale di estrarre valore. Tutti gli altri miglioramenti – riduzione della fatica, ergonomia, sicurezza, minori emissioni, uso più efficiente delle risorse, qualità del lavoro, ecc. – semplicemente non esistono. Non vengono registrati, né contano come progresso. È una concezione della tecnologia modellata sul punto di vista del capitale. La critica alla produttività porta direttamente alla critica della competitività, divenuta negli ultimi decenni il vero principio ordinatore delle politiche economiche europee. L’Unione europea è stata costruita come una macchina trainata dalle esportazioni: l’obiettivo è competere sui mercati globali comprimendo i costi, primo fra tutti quello del lavoro, a scapito della domanda interna.  La ricerca della competitività appare così come un destino inevitabile: bisogna specializzarsi nelle fasi ad alto valore aggiunto, scalare la catena del valore – tutto a scapito dei concorrenti internazionali e delle classi lavoratrici. Ma il paradigma della competitività non è un vincolo naturale: è una scelta politica. È la scelta di subordinare il benessere interno alle esigenze delle imprese esportatrici; di orientare la politica economica verso la difesa dei margini del capitale; di comprimere salari e diritti in nome della «resilienza» del sistema. È una scelta che ha impoverito i lavoratori, indebolito il tessuto produttivo, ridotto la capacità dello Stato di indirizzare l’economia. E che ha prodotto, come conseguenza, la deindustrializzazione: i settori cosiddetti «ad alto valore aggiunto», infatti, non sono altro che le fasi pre e post produzione; «scalare la catena del valore» significa quindi specializzarsi in queste fasi e delocalizzare le fasi manifatturiere, quelle a più alta intensità di lavoro.  Tale modello, per inciso, si è retto su un presupposto ben preciso: la disponibilità di merci a basso costo provenienti dal Sud del mondo, che ha permesso a lavoratrici e lavoratori europei, impoveriti da decenni di stagnazione salariale, di mantenere standard di vita accettabili. Non si tratta di un’aberrazione del capitalismo, ma di una sua caratteristica strutturale: un equilibrio del genere implica la perpetuazione del sottosviluppo altrui, e si scontra frontalmente con qualsiasi pretesa di pace, cooperazione o solidarietà internazionale. E, soprattutto, quel mondo non esiste più. I paesi emergenti – a cominciare dalla Cina – hanno ormai acquisito capacità produttive e tecnologiche tali da spezzare definitivamente l’asimmetria che aveva permesso all’Europa di compensare la compressione salariale con beni a basso costo. Un esempio lampante di questo cambiamento l’ha offerto la grottesca vicenda dell’impresa cinese Nexperia, la cui roboante nazionalizzazione da parte del governo olandese ignorava un piccolissimo dettaglio: l’intera produzione è delocalizzata in Cina. Il risultato, tragicomico, è sotto gli occhi di tutti: il governo olandese, dopo aver espropriato un paio di inutili uffici amministrativi nella città olandese di  Nijmegen, è ritornato mestamente sui suoi passi e ha annullato il provvedimento. UNA DOMANDA ALTERNATIVA In altre parole, il vecchio modello competitivo non è solo ingiusto: è anche insostenibile e non più funzionante, se non al prezzo di un drastico impoverimento delle classi lavoratrici e quindi di un aumento vertiginoso delle disuguaglianze. Una strada alternativa esiste, e passa per il rafforzamento della domanda interna mediante due leve fondamentali: un aumento della quota salari (ad esempio tramite il rafforzamento e l’intensificazione della contrattazione collettiva, l’indicizzazione dei salari nominali all’inflazione, il controllo dei prezzi, l’introduzione di un salario minimo, ecc.), che espande immediatamente i consumi, e un massiccio programma di investimenti pubblici, indispensabile per realizzare la transizione sociale ed ecologica e per (ri)costruire capacità produttiva nei settori strategici: energia e trasporti nel campo della transizione ecologica, impianti/apparati per Tlc/Ict in quella digitale (che non non è un fine in sé, ma deve essere a supporto di obiettivi sociali e ambientali); nonché nelle industrie di base e nelle filiere di produzione degli input intermedi al fine di garantire la loro completezza in termini di capacità produttiva. In particolare, è possibile dimostrare che una distribuzione dei redditi tale da aumentare la quota salari media dall’attuale 50% a poco più del 70% sarebbe, in linea teorica, in grado di generare un potere d’acquisto equivalente a quello ora rappresentato dalle esportazioni. Ovviamente, questo non significa che una semplice politica (re)distributiva potrebbe sostenere un modello di crescita alternativo a quello fondato sulla competitività esterna: si tratta di una condizione necessaria ad aprire spazi per una profonda trasformazione della struttura economica europea, ma non sufficiente a realizzarla. In questo senso, le politiche keynesiane sono inefficaci, poiché non consentono di modificare la struttura produttiva esistente. Per farlo, occorre piuttosto il ritorno della pianificazione come strumento centrale. Pianificare non significa imporre dall’alto un modello dirigista, ma orientare in modo consapevole l’evoluzione del sistema produttivo, coordinando investimenti pubblici, transizione ecologica, politiche industriali e obiettivi di giustizia sociale. Significa decidere collettivamente quali capacità produttive sviluppare, quali filiere riconvertire, quali attività espandere o ridimensionare, in funzione di un progetto di benessere condiviso e non della redditività immediata del capitale. È questa la condizione indispensabile per liberare il potenziale della domanda interna, ricostruire autonomia produttiva e rendere possibile un’economia orientata alla dignità del lavoro, alla sostenibilità e all’uguaglianza. Pianificare, naturalmente, significa restituire un ruolo centrale alla proprietà pubblica delle imprese nei settori strategici, che devono agire come soggetti pubblici e non riprodurre le logiche di massimizzazione del profitto tipiche dei soggetti privati. Una trasformazione di questo tipo implicherebbe l’abbandono del modo di produzione capitalistico e l’avvio di un percorso verso forme socialiste di organizzazione. Nelle condizioni politiche attuali ciò evidentemente non è immediatamente realizzabile, ma resta il punto d’orizzonte verso cui orientare il nostro agire. *Matteo Gaddi è responsabile del Centro Studi Fiom-Cgil. Nadia Garbellini è professoressa associata presso il Dipartimento di Studi Linguistici e Culturali dell’Università di Modena e Reggio Emilia e membro del Forum Nazionale Economia della Cgil. Roberto Lampa è attualmente professore associato presso il Dipartimento di Economia e Diritto dell’Università di Macerata, Docente del Dottorato in Economia Politica dell’Universidad Nacional de San Martín (Unsam), Buenos Aires e Membro del Forum Nazionale Economia della Cgil. Dal 2013 al 2022 è stato ricercatore senior presso il Conicet argentino e docente dell’Universidad de Buenos Aires (Uba). Insieme a Giovanni Carnevali, Giacomo Cucignatto, Lorenzo Esposito, Joseph Halevi, Roberto Polidori e Gianmarco Oro, è autore del libro Tornare alla Pianificazione. Politiche industriali dopo la Globalizzazione. (Punto Rosso, 2025). L'articolo Attualità della pianificazione proviene da Jacobin Italia.
I furbetti del sovranismo
Articolo di Salvatore Cannavò Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di Monte dei Paschi (Mps) la mano pubblica è indicata chiaramente. Più che pubblica è una mano di governo, di potere, che obbedisce non certo alla logica dell’interventismo nazionale, pure spesso rivendicato dalla propaganda della destra una volta sociale. E le impronte lasciate sull’operazione, che ora vengono passate al vaglio dei magistrati, indicano che esiste ancora in Italia un conflitto tra poteri che non nascondono la loro vocazione sovranazionale – nel senso di autonomia totale dai poteri nazionali e quindi dagli Stati – e poteri che invece, anche per la loro debolezza, preferiscono la coperta dello Stato e l’appoggio politico per garantirsi maggiori spazi ei profitti. In questa diatriba, però, non si ravvisa uno scontro ideologico degno di nota, non si intravede insomma il portato di una cultura a vocazione nazionale che abbia a cuore il tessuto sociale, il ruolo pubblico, la democratizzazione dei poteri. Tutt’altro, lo scontro di potere è fine a sé stesso con le conseguenze evidenti sul piano politico ed economico.  IL SOSTEGNO DEL MEF Il ruolo del governo in questa vicenda è stato evidenziato dai magistrati. Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di Mps, in cui sono indagati l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, il presidente di Luxottica e Delfin Francesco Milleri e l’ad di Mps, Luigi Lovaglio, accusati di aver «concertato» insieme la vendita delle quote Mps da parte del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) a soggetti privati con l’obiettivo futuro di organizzare la scalata al «tempio» finanziario milanese Mediobanca, il Mef «non è oggetto di accertamento» in quanto «non è persona fisica e non può commettere reati». Ma, hanno informalmente precisato dalla Procura, anche se il ministero «non commette reati» avrebbe però dato un «sostegno» all’operazione. In questo ginepraio di dichiarazioni rese a mezza bocca, il termine che rimane sul tavolo, e che aiuta a dare il senso di questa complessa operazione, è proprio «sostegno». La dismissione del novembre 2024, quindi, avrebbe rappresentato per l’accusa uno dei «tasselli» della più ampia «strategia coordinata» tra Delfin e Caltagirone, con l’avallo di Lovaglio, per arrivare al controllo di Mediobanca, attraverso Mps e a cascata, dunque, anche di Generali. A corollario di questo interessamento politico delle sorti di Mediobanca e del ruolo che Mps avrebbe dovuto svolgere nel rinnovamento della finanza italiana c’è anche un altro particolare. I tre consiglieri indipendenti di Mps, Annapaola Negri Clementi, Paolo Fabris De Fabris e Lucia Foti Belligambi, hanno infatti dichiarato che le loro dimissioni «sono state richieste o imposte dal Mef o, in un caso, dal deputato della Lega» Alberto Bagnai «che aveva detto di esprimersi per conto» del Tesoro. Non solo il Mef, di Giancarlo Giorgetti, ma anche il parlamentare leghista più attivo sul fronte della finanza e con un approccio decisamente «sovranista», come conferma la sua lunga battaglia per l’uscita dell’Italia dall’euro (peraltro spesso adottando argomenti non banali). Le dimissioni dei consiglieri Mps, che erano stati eletti nella lista del Mef, hanno lasciato a suo tempo adeguato spazio ai due soci di minoranza, Delfin e Gruppo Caltagirone, per «entrare nella cabina di regia» dell’istituto di Rocca Salimbeni. Da lì in avanti si organizza la scalata a Mediobanca che prenderà corpo con il voto determinante dei sette consiglieri espressione del Mef e dei nuovi cinque consiglieri. Un piano di cui, per ammissione alla Consob dello stesso amministratore delegato di Mps, il ministero dell’Economia era stato informato. Non si può sapere come finirà l’inchiesta, ma non è questo il dato importante. Alla luce dei fatti accertati, delle dichiarazioni rese, il ruolo politico del governo Meloni in questa riorganizzazione bancaria è evidente a chi vuol vedere. E di questo, infatti, si discute negli ambienti che conoscono le dinamiche bancarie e finanziarie, italiane e internazionali, e negli ambienti della politica. Quale governo, del resto, riuscirebbe a resistere alla tentazione di dotarsi di un sistema bancario il più possibile amico? Non è stato inchiodato il governo D’Alema, nel 1999, alla famosa espressione di «palazzo Chigi, unica merchant bank in cui non si parla inglese» coniata da Guido Rossi?  Non c’è solo il potere che ne deriva in termini di leva finanziaria, ma anche la garanzia di avere un interlocutore stabile nella gestione del risparmio italiano, decisivo ai fini di una collocazione ottimale dei titoli di Stato. Non a caso, uno dei problemi insiti nello scontro bancario riguarda il controllo di Generali dove il suo amministratore delegato, espressione della vecchia gestione, Philippe Donnet, ha lavorato a lungo insieme alla francese Natixis per creare «un operatore globale da 1.900 miliardi di masse gestite, al nono posto a livello mondiale e leader nell’asset management in Europa con 4,1 miliardi di ricavi».  La caratteristica dell’operazione, come si intuisce, è quella di portare la gestione, e quindi la capacità di influenzare operazioni, sul risparmio gestito fuori dalla portata dei vari governi e di collocarla su scala sovranazionale e in mani rigorosamente tecniche. La logica del capitalismo globale, né più né meno, quella che generalmente viene favorita e garantita dalle politiche dell’Unione europea e della Banca centrale europea che ai governi, spesso, non risponde nemmeno al telefono.  Di fronte a questi scenari, la cultura economica della destra al governo ha sempre detto di voler favorire il ruolo dello Stato, senza avventurarsi mai, però, nelle pieghe di un vero intervento pubblico. L’ipotesi che, per resistere nelle tempeste dell’economia globalizzata, gli Stati debbano dotarsi almeno di un grande istituto bancario pubblico e tornare ad avere la decisione sulle politiche finanziarie, a partire dal tasso di sconto, è cosa che ormai è espunta dal dibattito pubblico e di fatto riguarda fondamentalmente solo la Cina, spiegandone gran parte dei successi economici. L’approccio di Giorgetti e dei suoi collaboratori, invece, è piuttosto quello di fare da protezione a un progetto «amico», al di là del grado di rispondenza al governo, soprattutto un progetto di potere e non certamente in grado di garantire una reale alternativa alle dinamiche perverse della finanza mondiale. Ma in ogni caso, ammantato di patriottismo e di un grado di sovranismo che non ha risparmiato armi e misure audaci per vincere. Come l’utilizzo del cosiddetto golden power, prerogativa governativa a tutela di istituti o aziende considerate vitali ai fini del patrimonio nazionale, che è stato opposto alla scalata di Unicredit su Bpm, uno degli istituti bancari di area leghista e uno degli attori dell’operazione su Mediobanca. O alla benevolenza con cui si guarda la sostanziale scalata di Poste Italiane e Tim dove il vertice della prima è ancora di nomina politica (e si potrebbe continuare con le azioni della Cassa Depositi e Prestiti o la delega assoluta lasciata a colossi come Eni e Enel). Quello che ha ispirato il governo nella sua azione politica-economica è stata la reiterata lotta tra un supposto perimetro nazionale della finanza pubblica contro una dimensione sovranazionale additata come nemica mortale in quanto appannaggio di altri centri di potere. Attorno alla Mediobanca della vecchia gestione Nagel, infatti, si sono saldati i grandi fondi speculativi come Blackrock e Vanguard, le grandi banche JP Morgan e Morgan Stanley, il gruppo assicurativo francese Axa e molti altri, non sufficienti a fermare l’operazione messa a punto in casa senese. Che invece ha potuto solleticare un nuovo «orgoglio nazionale», ma fondamentalmente attirato dai margini di profitto e di potere conseguente, di figure come il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, il pilota del successo internazionale di ExilorLuxottica, Mauro Milleri, o il patròn di Bpm, Giuseppe Castagna.  IL SOVRANISMO LIBERISTA Se la scalata organizzata dalla  «progressista»  Mps alla Antonveneta fu all’insegna dei «furbetti del quartierino», espressione coniata dall’immobiliarista Stefano Ricucci, finito poi anche in prigione, oggi si potrebbe parlare di «furbetti del sovranismo», di un personale politico che si nasconde dietro la difesa delle prerogative nazionali, per non dire della Patria, ma non mette in moto nessuna leva nazionale degna di questo nome. Come le già citate banca pubblica o controllo dei tassi di interesse (mentre prova a spostare il controllo dell’oro dalle prerogative della Bce a quelle del governo nazionale). Un sovranismo furbo che non esce dalle coordinate del liberismo imperante e che per farlo inquina anche il rispetto delle regole che pure i vari governi si sono dati, senza rimettere davvero in discussione l’ordine globale.  Basta una controprova per rendere chiaro il significato di un sovranismo liberista che sembra un ossimoro ma che è sempre più il filo a piombo che lega l’attuale destra vincente in Europa e nel mondo. L’attaccamento alle prerogative nazionali scompare quando in ballo ci sono i destini dell’Ilva. L’1 dicembre i lavoratori sono di nuovo entrati in sciopero con l’obiettivo di cercare di salvare lo stabilimento di Taranto, i suoi livelli di produzione pur in un quadro di decarbonizzazione. Il progetto di tenere insieme il lavoro e la salute, l’ecologia e l’economia sembra piuttosto complicato, i soggetti deputati a farlo, anche a sinistra, anche in ambito sindacale, non hanno sempre l’approccio corretto, ma quale soggetto se non una struttura pubblica a pieno controllo statale e con meccanismi di partecipazione e co-decisione operaia e territoriale potrebbe affrontare seriamente i problemi? Cosa, se non la città di Taranto, e di Genova, insieme alla sua comunità operaia, potrebbe davvero indicare la strada di una rigenerazione possibile?  Eppure, al solo sentir parlare di nazionalizzazione il governo Meloni potrebbe metter mano alla pistola, per utilizzare una celebre espressione. Curiosa contraddizione per chi dice di fare gli interessi della propria nazione. Ma su questo punto il discrimine tra una sinistra di classe e quel che resta della destra sociale è fortunatamente ancora evidente. Peccato che la sinistra esistente, quella che contende alla destra il governo nazionale, da queste orecchie ci sente anche meno. Nella partita bancaria che abbiamo descritto, infatti, dove si è schierato il Partito democratico? Ovviamente con la finanza globale di Mediobanca. Difficile stabilire dove sia la padella e dove sia la brace.  *Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme, 2023). L'articolo I furbetti del sovranismo proviene da Jacobin Italia.
L’assalto alla Stampa e la guerra informativa
Articolo di Alberto Manconi In questi giorni, un coro unanime si è scagliato contro l’azione dentro al quotidiano La Stampa svolta da un centinaio di giovani a Torino staccatisi dal corteo per lo sciopero generale dello scorso venerdì 28 novembre.  Comprensibilmente, il fatto che la redazione di un quotidiano – peraltro, come fatto notare da molti, non certo il peggiore nel modo di trattare il genocidio in Palestina – sia diventato bersaglio diretto di un’azione del genere, ha impressionato gli stessi operatori dell’informazione più sensibili. Tanto più che quel giorno la categoria dei giornalisti era in sciopero per il proprio contratto e per poter svolgere seriamente la propria professione.  Certamente, possiamo dire che a Torino venerdì scorso si è svolta un’azione che si è rivelata non utile e non intelligente, e che come prevedibile è stata utilizzata dal sistema mediatico e politico complessivo per rendere invisibile l’intero fine settimana di scioperi e manifestazioni contro la finanziaria di guerra e per denunciare che in Palestina non c’è nessuna «pace» e il genocidio continua. Questo articolo però muove dall’impressione – non inedita, ma certamente singolare negli ultimi mesi che hanno mostrato le prime crepe del Governo Meloni – provata di fronte alla condanna così dura e ampia che tale azione ha suscitato nel dibattito pubblico. Sottolineo la parola condanna perché tale termine, insieme a quello di assalto, è stato quello decisamente più in voga per riferirsi a tali fatti. «Condanno l’assalto a La Stampa» è stata l’espressione più utilizzata, anche tra gli operatori dell’informazione e della cultura che più si sono schierati per Gaza negli ultimi due anni. I toni sono giunti a incredibili accuse di «squadrismo» e «fascismo», e per capire il livello a cui sono arrivati basti leggere l’editoriale di Antonio Polito sul Corriere della sera che scaglia epiteti di ogni tipo contro Francesca Albanese, definita la «maestrina estremista», manipolando ad arte le sue dichiarazioni, come hanno fatto del resto in molti. Secondo gli stessi canali social de La Stampa quella di venerdì scorso è stata un’«irruzione» all’interno degli uffici della redazione in quel momento vuota per l’adesione allo sciopero da parte dei giornalisti. Una volta dentro, come si evince dalle immagini, i cento manifestanti hanno buttato a terra dei documenti e fatto alcune scritte sul muro in una stanza piena di altri oggetti di maggior valore, in primis i computer, che non sono stati in alcun modo danneggiati.  Se ascoltiamo invece i dibattiti e le dichiarazioni degli ultimi giorni, incontriamo lo stesso piano discorsivo e gli stessi toni nel descrivere l’«assalto» a La Stampa e gli «assalti» quotidiani dell’esercito israeliano a Gaza, che tra l’altro persino nella prima settimana della «pax trumpiana» ha ucciso vari giornalisti e ne ha uccisi centinaia dopo il 7 ottobre. Si finiscono così per confondere azioni e parole, vernice e bombe, cadaveri e fogli, in un vortice infinito di equivalenze senza alcun senso e contesto.  Ma da dove deriva una reazione così spropositata? «L’appello alla causa palestinese può creare una miscela esplosiva», scrive sempre Polito sul Corriere. La Palestina continua a essere la pietra dello scandalo. Editorialisti, leader politici e istituzionali sembrano letteralmente impazziti di fronte al fatto che la causa palestinese susciti così tanta solidarietà e movimento, al punto che di fronte al primo errore o parola sbagliata di una parte dei manifestanti si lanciano in accuse a corpo morto, provando  a personalizzare l’attacco contro chi ha rappresentato pubblicamente questo sentimento solidale con la Palestina.  In tutto questo si perde il contesto politico dell’inefficace azione a La Stampa, contesto caratterizzato da una settimana molto rilevante per Torino e per il relativo movimento di solidarietà alla Palestina, dovuto all’incarceramento in un Cpr dell’Imam di San Salvario Mohamed Shahin per un reato d’opinione. Shahin è ora in attesa di essere deportato in Egitto, un paese – come dimostrano le vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki – autoritario e pericoloso per i dissidenti ma fondamentale, insieme all’italia, per il controllo del Mediterraneo all’interno dello scacchiere geopolitico che unisce Stati uniti e Israele. Il tentativo di deportazione di questo padre di due figli residente in Italia da 21 anni per aver contestualizzato in modo discutibile il 7 ottobre, ma senza assolutamente giustificare l’attacco di Hamas, è portato avanti direttamente dal governo. La procura di Torino, infatti, non ha trovato alcun elemento per ipotizzare una violazione del codice penale, neanche un’istigazione a delinquere. E lo stesso vescovo di Pinerolo ha lanciato un appello pubblico in sua difesa. Tuttavia, l’onorevole Augusta Montaruli, amica di Giorgia Meloni e nota ai più per una condanna per peculato e per aver letteralmente abbaiato in diretta Tv, ha chiesto a gran voce l’espulsione dell’imam di Torino, trovando il favore del ministro dell’interno Matteo Piantedosi. Si tratta di un tentativo non solo di espellere, ma di spaventare in modo particolare le persone razzializzate che hanno avuto un ruolo decisivo nell’emersione del primo movimento, quello per la Palestina, in grado di durare e di mettere in difficoltà il governo Meloni. Il 9 Ottobre, giorno della manifestazione incriminata per le dichiarazioni di Shahin, La Stampa cita l’imam solo en passant. Poi però assume un ruolo forte in questa vicenda: l’11 ottobre esce col titolo «Il 7 ottobre non fu violenza ma resistenza, bufera sulle parole dell’imam in piazza Castello». Poche ore dopo, si unisce il Corriere della sera che aggiunge «Fdi ne chiede l’espulsione». E qui inizia il processo mediatico e politico per cui Shahin ora rischia la deportazione.  Il contesto politico generale è questo, e dovremmo sapere che la valanga di sproporzionate condanne dell’azione a La Stampa è fatta ad arte per legittimare molte altre condanne contro semplici prese di posizione – come dimostra oggi l’appello a revocare le cittadinanze onorarie a Francesca Albanese – ma anche condanne legalmente ben più gravi che potrebbero arrivare anche per le azioni svolte dai movimenti degli ultimi mesi, ad esempio l’occupazione di varie strade e autostrade per bloccare il paese contro il genocidio.  Se prendiamo sul serio i rischi di autoritarismo di cui pure parlano ogni giorno molti operatori di stampa, insieme a sindacati, organizzazioni della cooperazione internazionale e alcune organizzazioni politiche, non si dovrebbe far fatica a riflettere sulle conseguenze che possono avere i toni di condanna usati. Quella del giornalista è una figura professionale fondamentale per qualsiasi idea minima di democrazia o di controllo del potere politico. Una categoria lavorativa che spesso lavora precariamente, che è messa in questione dai vari passaggi tecnologici che riguardano la sfera mediatica e che arriva malconcia alla sfida che l’intelligenza artificiale pone a tutta la classe professionale. Ma soprattutto, e più concretamente nell’attuale congiuntura politica, è una figura che quando fa il proprio mestiere con solerzia rischia grosso, come dimostra proprio la Palestina, ma anche gli attacchi diretti contro Sigfrido Ranucci. Questa categoria, però, è stata spesso sfigurata in Occidente – e in Italia in particolare – dal ruolo maggioritario svolto dall’informazione con il ritorno della guerra in Europa e con il genocidio a Gaza. Questa delegittimazione degli operatori dell’informazione ricade purtroppo su tutti e tutte. Mette spesso sullo stesso piano chi si assume grossi rischi per fare informazione libera e di qualità con chi si offre come ripetitore e difensore strenuo della linea dettata dalle principali «firme» e agenzie stampa che determinano l’agenda e le parole chiave contribuendo a militarizzare tutto. A partire dal dibattito pubblico. Se una delle critiche condivisibili all’azione di Torino è quella di aver fatto di tutta l’erba un fascio, siamo certi che la condanna corale e sproporzionata di quell’azione non contribuisca a esasperare l’idea che esista una «casta» giornalista corporativa? Un rischio le cui conseguenze finiscono per ricadere soprattutto sulle figure più scomode che fanno un prezioso lavoro giornalistico giorno per giorno. Per questo stupiscono le prese di posizione di quanti tra quest’ultimi si sono appiattiti sui termini assurdi per descrivere quanto avvenuto a Torino propinati dai media mainstream, perché l’obiettivo è espellere l’ormai temutissima solidarietà al popolo palestinese dal dibattito pubblico, come si espelle l’Imam Shahin per un reato d’opinione stabilito dal governo. L’estrema destra al governo dimostra di conoscere la nozione di rapporti di forza: attaccano chi li contrasta e difendono, sempre, la loro parte e chi potrebbe unirvisi. È giusto che noi evitiamo di essere come soldati in guerra, e che segnaliamo liberamente ciò che non si condivide. Ma non si possono negare le guerre che vengono fatte sulla nostra pelle. Tra queste c’è anche la guerra informativa, e anch’essa determina i rapporti di forza in cui ci troviamo.  *Alberto Manconi è dottorando presso l’Università di Losanna, si occupa di attivismo climatico e partecipa al movimento Insorgiamo, di solidarietà al Collettivo di Fabbrica ex-Gkn, e al percorso degli Stati Generali della Giustizia Climatica e Sociale. L'articolo L’assalto alla Stampa e la guerra informativa proviene da Jacobin Italia.
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