Source - Jacobin Italia

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Letture giacobine
Articolo di Redazione Jacobin Italia L’estate è quasi al suo culmine e, imitando un po’ la rivista sorella statunitense, abbiamo pensato di raccogliere alcuni suggerimenti di lettura per le vacanze (per chi riesce a farle). Abbiamo chiesto di indicare libri senza alcuna schematizzazione, ognuno e ognuna hanno indicato quel che è sembrato loro più interessante. Si va così dai Italo Calvino ai gialli di Grazia Varesani, dalla working class literature della Gkn alla riflessione su cosa è stato il Pci e così via. Buona lettura e buone vacanze.  Luca Casarotti Propongo tre testi: Valentina Pisanty, Antisemita; Umberto Eco, Il costume di casa; Italo Calvino, Una pietra sopra. Ci sono diversi percorsi di lettura possibili, credo non solo nella mente di questo lettore empirico, seguendo i quali l’elenchino qui sopra si compone come da sé e chiede di essere proseguito. Lo spazio m’impone d’indicarne uno soltanto. Questi libri costituiscono insieme un manuale operativo di scrittura saggistica. Materia del manuale è il nesso di politica e cultura nella storia occidentale del secondo Novecento. Il metodo insegnato consiste in ciò: che lo stile (voce media, potendo essere sia buono sia cattivo stile) è lo strumento con cui l’intellettuale partecipa al dibattito pubblico; e che lo stile risulta dalla solidità dei concetti espressi e dalla padronanza della lingua usata per esprimerli. Lorenzo Zamponi Vivere nell’Italia di Giorgia Meloni impone di leggere sul fascismo, sui suoi oppositori e su come sia possibile resistere. Parto citando una graphic novel ripubblicata un paio d’anni da Tunué: I solchi del destino, in cui Paco Roca ricostruisce in forma romanzata ma documentata le peripezie degli esuli repubblicani spagnoli dopo la sconfitta della guerra civile, e in particolare l’epopea della Nueve, compagnia dell’esercito di De Gaulle composta in maggioranza da repubblicani spagnoli e prima unità militare alleata a entrare a Parigi il 20 agosto del 1944. Un’epica dell’antifascismo nella sua dimensione internazionale, di riconquista di una patria perduta e di un futuro da ricostruire, senza trascurare dolori e sconfitte. Sulle difficili resistenze del presente, suggerisco Iperpolitica. Politicizzazione senza politica, di Anton Jäger, tradotto l’anno scorso da Nero: un saggio denso quanto agile sulla politica del XXI secolo come magma individualizzato che mangia ogni ambito della vita umana, senza però farsi mai strumento collettivo in grado di cambiare davvero l’esistente. Infine, a chiudere un anno di libri, articoli e film su Berlinguer, mi permetto di segnalare a chi, colpevolmente, non l’ha ancora letto, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del Pci di Lucio Magri: una lettura di parte, critica e appassionata, della via italiana al socialismo. Probabilmente la cosa migliore mai scritta sul tema. Antonio Montefusco Un breve libro, ma a due voci e con una copertina feroce. È Milena Agus, Luciana Castellina, Guardati dalla mia fame,.  Nel marzo 1946, ad Andria in Puglia, è previso il comizio del mitico Giuseppe di Vittorio, caso unico di bracciante diventato segretario della Cgil. Uno sparo, però, irrompe sulla folla. È uno sparo che tenta di mettere fine a quella che doveva essere la celebrazione di una tregua nella lotta che divide i braccianti e agrari. La battaglia contro il latifondo è uno dei punti più esacerbati della contraddizione di classe nell’Italia uscita dalla guerra. I contadini entrano nel palazzo dei ricchi proprietari terrieri del paese, dove vivono le sorelle Porro, che vengono trucidate. Milena Agus – una delle più acute e perturbanti scrittrici italiane – ci racconta la storia dal loro punto di vista, quella di donne ricche e inconsapevoli, prese in una quotidianità indifferente e a tratti ascetica. Luciana Castellina – fondatrice del Manifesto e protagonista della storia comunista – ci spiega il contesto in cui nasce questa storia apparentemente minima, che i giornali quasi non registrarono. Il titolo viene da una citazione del poeta palestinese Darwish: «Guardati dalla mia fame e dalla mia ira». La domanda che rimane aperta ci interroga ancora: «Nella catastrofe, se si vuole che il mondo stia in piedi, bisogna avere la forza di rivoltarlo come un guanto. Sì o no?» Sembra una vicenda lontana, così siderale rispetto alla Puglia delle Spa e dei lettini sulla spiaggia. È difficile trovarne una che interroga più in profondità sul tema della violenza, sulle guerre di dominio, sulla lotta di classe, oggi, nell’Italia di Meloni, nel mondo di Trump e Netanyahu. Carlotta Caciagli Un tema che non è un tema ma un crimine, una ferita, un girone infernale che si ripete diverso e uguale a se stesso da decenni, di cui però, fin troppo spesso, si dimentica la dimensione storica e strutturale e si finisce per parlarne in termini fuorvianti: pietistici e sensazionalistici da un lato, cinici e ipocriti dall’altro. I tre libri che consiglio non parlano di Palestina, ma parlano dalla Palestina. Non trattano un tema ma danno, si prendono e restituiscono una voce a chi sta in quell’altrove. Tre libri che in comune non hanno niente – genere letterario, stile narrativo, intento – ma che si assomigliano per l’unica cosa che conta davvero quando si scrive: l’onestà e la profondità con le quali si sceglie di raccontare una storia. Il primo libro non ha probabilmente bisogno della mia raccomandazione: Ogni Mattina a Jenin, di Susan Abulhawa. Un racconto in prima persona di una vita e di una terra che arriva come un pugno nello stomaco una pagina dopo l’altra. Un racconto che fa sentire l’odore degli ulivi e la dignità della resistenza, proprio quando questa non potrebbe essere altro che una scelta di vita per se e un atto di responsabilità verso gli altri. Il secondo libro, ancora Feltrinelli, è Il Racconto di un muro, di Nasser Abu Srour, detenuto dal 1993 in un carcere israeliano. Un romanzo che qualcuno, sbagliando, ha definito un esempio di letteratura di prigionia. Ma Il Racconto di un Muro è molto più universale di così: è un romanzo semplicemente bellissimo, scritto in modo eccelso che commuove e coinvolge oltre misura. Terzo: Apartheid in Palestina, di Gabriel Traetta. Questo saggio fa in un linguaggio semplice l’analisi storica dei soprusi e abusi che hanno portato alla questione palestinese così come viene raccontata oggi. Un libro che ha l’enorme merito di mettere nero su bianco le responsabilità internazionali e che può diventare uno strumento utilissimo per far fronte ai temuti e odiati dibattiti pubblici.  Nessuno di questi tre libri banalizza ragionamenti, speranze e sentimenti. Semplificano, se necessario, ma mantengono intatto uno sguardo complessivo e dettagliato insieme. E così facendo tracciano i confini: fra una letteratura che serve a chi la scrive e una a servizio di chi la legge.  Giulio Calella Di giorno è uno scrittore di romanzi noir, di notte è addetto alle pulizie nella metropolitana di Buenos Aires. Lui è Kike Ferrari, e presto lo pubblicheremo nella collana di letteratura working class edita da Alegre. Intanto vi consiglio di leggere l’unico suo libro finora tradotto in italiano, Da lontano sembrano mosche): una sola giornata al mare e non riuscirete mai a staccare gli occhi dalla pagina. Odio di classe allo stato puro. A proposito di lotta di classe nel XXI secolo, è assolutamente da leggere Questo lavoro non è vita, in cui Dario Salvetti del Collettivo di fabbrica Gkn racconta a Gea Scancarello la storia, le pratiche e le parole della lotta più lunga del movimento operaio: la lotta che non possiamo permetterci di perdere. Infine, a poche settimane dalla sua scomparsa, mi torna alla mente il libro che mi consigliò Goffredo Fofi una dozzina d’anni fa, una volta saputo che non l’avevo ancora letto: Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge (Edizioni E/O, postfazione di Goffredo Fofi). L’autobiografia dello scrittore anarchico russo che, una volta scoppiata la rivoluzione, decise che non sarebbe stato «né contro i bolscevichi né neutrale, sarei stato con loro, ma liberamente, senza abdicare al pensiero né al senso critico». Maturò così un’originale idea di marxismo libertario, che negli anni successivi finì per scontrarsi drammaticamente con lo stalinismo. Scontro che racconta in questo libro, insieme alle centinaia di vicende e personaggi con cui entrò in contatto diretto nei primi quarant’anni del Novecento. Lasciandoci la sensazione che un’altra rivoluzione è possibile. Marco Bertorello Propongo quattro gialli/noir, mi sembrano letture compatibili in particolare con la calura estiva dovuta al crescente disastro ecologico. Massimo Carlotto, L’oscura immensità della morte. Sandrone Dazieri, Uccidi i ricchi. Grazia Verasani, Iris di marzo, Ayatsuji Yukito, I delitti della casa decagonale. I libri di Verasani e Dazieri fanno parte di una serie di indagini che si sviluppano in precedenti pubblicazioni. Segnalo, dunque, i due appena usciti, ma forse sarebbe meglio seguire l’ordine di pubblicazione a partire dall’affacciarsi di questi investigatori, per comprendere meglio le loro storie, i personaggi che fanno da sfondo alle loro indagini. Nulla impedisce, comunque, di partire dall’ultimo libro per poi, incuriositi, ripartire dal primo. Il libro di Carlotto, come viene detto nel retro di copertina, è un richiamo al Conte di Montecristo, alla sua brama di vendetta, aggiornato ai tempi moderni. Un uomo che vuole vendicare la tragica, e per certi versi accidentale (o folle e inspiegabile) morte di moglie e figlio durante una rapina in una gioielleria. L’occasione è la malattia inguaribile dell’assassino, il quale chiede di poter vivere i suoi ultimi giorni fuori dalla galera. Un movente, quello della vittima sopravvissuta, che innesca un meccanismo di ritorsione e morte studiato a lungo e implacabile, che trasforma la vittima in carnefice. Un libro che mette a fuoco gli imperanti temi securitari, la retorica sulle vittime e i limiti del carcere come luogo di recupero o di condanna. Un romanzo breve, intenso e crudo. Dazieri da un po’ di tempo ci ha consegnato una nuova figura di detective: l’ex vicequestore Colomba Caselli, con un passato che gli ha prodotto ferite difficili da ricucire. Nella nuova indagine si occupa, da ex poliziotta (con tutti i vantaggi e svantaggi del caso), di una serie di omicidi di super milionari a cui fanno seguito dei post con lo slogan: «Uccidi i ricchi». Una trama che sembra indicare apparentemente una specie di giustiziere sociale. Ma la Caselli è poliziotta (o meglio ex) che non si ferma alle apparenze. Interessante è poi la catalogazione della classe d’appartenenza delle vittime, definite come quelli che, a differenza che in passato, «possiedono letteralmente il mondo». Giorgia Contini è il personaggio bolognese di Grazia Versani. Investigatrice privata che intreccia legami professionali e sentimentali con poliziotti in servizio. Le sue sono indagini non eclatanti, ma perciò più autentiche. Casi umani, nel senso proprio del termine, più a misura di un’umanità spesso sbandata. Nel suo ultimo caso la Contini viene assoldata da una madre per sorvegliare il proprio figlio adolescente che è entrato in una baby gang. Il caso si fa drammatico quando viene trovato il corpo di una giovane di cui gli appartenenti alla baby gang erano quasi tutti invaghiti. Un’occasione per investigare nei mondi giovanili della periferia di una città al contempo ricca e povera. Infine un giallo giapponese, pubblicato lo scorso anno, dal sapore classico per gli appassionati del genere. Una sorta di edizione del Sol Levante dei Dieci piccoli indiani di Agatha Christie. Ambientato in un’isola deserta dove un gruppo di giovani facenti parte di un circolo del crime dell’Università K decidono di trascorrere una settimana in una strana abitazione composta da dieci lati. Un’isola dove l’anno precedente si erano verificati delitti rimasti irrisolti che hanno fatto da traino per l’insolita vacanza. Dopo la prima notte uno dei giovani viene trovato ucciso. Da quel momento una serie di richiami ai classici del giallo invera la storia, fino a giungere a un finale sorprendente. Un riadattamento intrigante dal sapore insolito e lontano. Salvatore Cannavò Due libri che guardano alla storia e al mondo intorno a noi e una gemma lasciata da Goffredo Fofi. Cambiare la vita? di Gilles Vergnon è una storia del socialismo europeo dal 1875 a oggi. Non che del socialismo europeo, dell’Internazionale socialista e delle parabole della socialdemocrazia non si sappia già tutto. Ma è utile rileggere le gesta socialdemocratiche perché il libro non fa sconti sui fallimenti e gli errori e aiuta a far capire, soprattutto a chi quella storia la conosce meno o per nulla, come la sinistra europea sia arrivata all’attuale tasso di inanità e di complicità con un sistema che in passato, sia pure a parole, diceva se non di voler abbattere almeno di trasformare. E, ad esempio, la storia tra il 1912 e il 1914 in cui l’Internazionale socialista si avviluppa su sé stessa discutendo inutilmente di uno sciopero generale europeo contro la guerra parla ancora all’attualità. La critica radicale a tutto ciò che esiste di Andrew Feenberg è un libro che varrebbe la lettura solo per il titolo. Si tratta di una ricostruzione del pensiero e opera di Herbert Marcuse, filosofo decisivo nell’era della contestazione, uno degli esponenti più movimentisti ed eclettici della Scuola di Francoforte riproposto anche a partire dalle memorie personali dell’autore che ripercorre i vari momenti di formazione del pensiero marcusiano: dall’interpretazione giovanile di Marx, alla lettura di Heidegger, Hegel e Freud alla critica della tecnologia. Un Marcuse sempre vispo nella critica al capitalismo crisi climatica compresa. La gemma di Goffredo Fofi è invece la sua piccola enciclopedia su I grandi registi della storia del cinema. Ci sono quasi tutti e ci sono soprattutto quelli che meno vengono considerati e che invece hanno dato un contributo decisivo al cinema raccontati dal punto di vista critico e militante di Fofi che oltre a essere a rimbrottare la sinistra libertaria e marxista era un fine critico cinematografico, tra i più originali e meno conformi e che in questo libro consente di costruire una conoscenza complessiva. L'articolo Letture giacobine proviene da Jacobin Italia.
Il boomerang coloniale
Articolo di Miguel Mellino «È un magnifico accordo! È giusto andare incontro alle sue esigenze, auguri e tante buone cose, presidente!». Queste le parole di Ursula von der Leyen nella conferenza stampa congiunta dopo la sigla di un accordo commerciale ed energetico di felice e manifesto vassallaggio economico e politico da parte della Ue nei confronti degli Stati uniti di Trump. Un accordo firmato nel campo da golf personale di Trump in Scozia: una scena che basta soltanto guardarla, senza bisogno di suoni o parole, per capire il rapporto materiale e simbolico di sottomissione (anche di genere) che ne è alla base. Le parole di von der Leyen appartengono alla stessa «grammatica generativa», per ricordare il Chomsky linguista, di quelle pronunciate da Mark Rutte dopo l’accordo tra paesi europei e Nato per l’aumento al 5% del Pil della spesa militare: «È logico che l’Europa paghi le armi che Stati uniti invia in Ucraina. Sei straordinario, Donald, solo tu!». Ma di tutta l’imbarazzante «fraseologia della servitù» espressa da von der Leyen e Rutte, e in presenza fisica di Trump (non a distanza, vale la pena sottolinearlo!), vi è un «atto linguistico» del segretario generale della Nato che ci appare, al tempo stesso, il più rivoltante ma anche il più sintomatico: «Sometimes, Daddy has to use a Strong a Language». Si tratta di un «atto linguistico», un’azione espressa in parole secondo il linguista J. Austin, che esprime nel modo più efficace la natura del «sovranismo» europeo. In primo luogo delle ultradestre, certo, di «Patrioti», «sovrani» e «conservatori» di Europa, che si autopromuovono a partire da questo concetto; ma anche la Ue ne è attraversata sin dalla sua costituzione materiale tra Maastricht e Schengen, pur se in modi diversi e più ibridi, come ci ricorda ogni giorno la commissione von der Leyen, la più a destra della storia. Questa sottomissione volontaria di Rutte nell’invocare il «nome del padre» ci mostra in modo eloquente una certa «trasparenza del male». Lo ricordiamo, per Baudrillard, la trasparenza del male non significava che il male fosse più chiaro, ma, al contrario, che esso si fosse dissolto nella visibilità, nella banalizzazione tipiche delle società mediatizzate postmoderne contemporanee. Il male, dunque, non è più visibile come tale, poiché si è mimetizzato con il sistema, con la norma, con una nuova accezione del bene. LA TRASPARENZA DEL MALE Mettere sulla filigrana della scena di von der Leyen l’ignobile deferenza di Rutte a Trump ha l’effetto di una risonanza magnetica: ci mostra nella sua trasparenza scheletrica la vera ossatura dei «sovranismi» europei. Si tratta di sovranismi reattivi – fondati sulla naturalizzazione della condizione servile nei confronti del Signore, per dirla con e contro Nietzsche – poiché appare già depotenziato in partenza dalla forza reale delle potenze con vere ambizioni «sovrane» nell’attuale congiuntura globale, segnata dalla guerra e da un caos sistemico oramai strutturale: Stati uniti, certo, ma anche Cina, Russia e perfino Israele, braccio armato (tuttora) coloniale dell’ex impero occidentale in Medioriente. Nessuna autonomia politica, tanto meno economica: questo pseudo-sovranismo europeo – intendendo questo termine in senso meramente descrittivo, non come un giudizio di valore negativo rispetto agli altri sovranismi e quindi al di fuori di ogni «campismo» – scarica tutta la sua «violenza sovrana» soltanto su oppressi e dissidenti: «diversi», poveri, migranti, rifugiati, detenuti, lavoratori, senza-casa, precari, attivisti, militanti e studenti. Deregolazione, dunque, assalto autoritario alle repubbliche liberal-borghesi, potere assoluto al capitale, alla finanza, alle corporation, alle piattaforme, ai grandi monopoli e proprietari; subordinazione, iper-sfruttamento, securitarismo, violenza razziale, pugno duro col resto. È questo ciò che significano oggi «riarmo» e «filo-atlantismo» nel linguaggio tanto delle ultradestre europee quanto dell’attuale Ue: sembianti orwelliani che stanno per accumulazione capitalistica a briglia sciolta, punitivismo, sottomissione assoluta al complesso militare-finanziario-penitenziario statunitense, sostegno incondizionato al progetto genocida del sionismo, ma anche alla guerra dell’occidente bianco e cristiano contro l’irreversibile declino della propria egemonia globale. Da qui la paranoia della grande sostituzione etnico-razziale nel continente, l’insistenza quasi eugenetica sul cosiddetto «inverno demografico» bianco, ma soprattutto la nostalgia del colonialismo e del fascismo che attraversa questi pseudo-sovranismi europei: due esercizi del potere fondati, non a caso, sulla supremazia assoluta dell’Europa, per ricordare Fanon, ma anche sulla restaurazione morale e patriarcale dell’autorità, ovvero – stando invece a Lacan, Adorno, Pasolini e altri – sull’estrazione di un perverso «surplus di godimento» dalla sopraffazione fisica e psichica di corpi già disarmati o resi inermi dalla violenza sovrana. Sta qui, forse, uno degli usi della psicoanalisi, tutto da indagare, per l’analisi politica delle sempre più repressive politiche migratorie e securitarie. LA PARABOLA DI RUTTE COME GENEALOGIA DELLA COMMISSIONE VON DER LEYEN La stessa parabola di Rutte dunque aggiunge trasparenza alla trasparenza. Ex membro del management della Unilever, divenuto leader del Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (Vvd) nei Paesi bassi nel 2006 e primo ministro tra il 2010 e il 2023, la carriera politica del segretario della Nato, voluto da Trump e Biden, rappresenta un caso paradigmatico nell’ascesa di questo pseudo-sovranismo trasversale europeo, pur se nella sua versione liberal-razziale Nord-Europea. Tra i sostenitori più severi di una Ue «frugale», significante che condensava un razzismo coloniale «anti-mediterraneo» di tipo calvinista verso i paesi del Sud dell’Europa, Rutte ha caratterizzato il suo pragmatismo di governo attraverso questa combinazione di austerità, riduzione del welfare, libero mercato, finanza, detassazione di profitti, redditi, imprese e deregolamentazione degli investimenti esteri (l’Olanda è oggi un paradiso fiscale) con securitarismo, islamofobia, intransigenza verso poveri, migranti e rifugiati: un dispositivo di potere costruito a livello discorsivo come parte di una crociata occidentale contro la barbarie non-europea. Il Vvd di Rutte è arrivato al centro della scena politica nel clima di islamofobia successivo a due tragici eventi: gli omicidi del leader Lgbt di estrema destra Pim Fortuyn (2002), uno dei primi «omo-femo-nazionalisti” del continente, critico della società multiculturale, dell’Islam, della casta tecnocratica della Ue e del politicamente corretto, e quello del regista Theo Van Gogh (2004), autore del polemico cortometraggio Submission, in cui denunciava l’oppressione delle donne musulmane ritraendo il Corano su un corpo nudo. È così che Rutte e il Vvd hanno cercato di consolidare un consenso di governo riversando la forza del sovranismo su migranti, rifugiati e olandesi non-bianchi. Ancora sintomatica la «politica della crudeltà», riprendendo il fortunato concetto di R. Segato, espressa dai loro provvedimenti anti-immigrazione: riduzione dei ricongiungimenti familiari, creazione di Cpr fuori dalla Ue, potenziamento dei Cpr in patria, ricorso a pressioni diplomatiche (come il taglio dei visti) per costringere i paesi terzi a rimpatriare gli espulsi, taglio delle prestazioni sociali per i non-olandesi, istituzione dell’obbligo di integrazione linguistica e culturale con corsi a pagamento a carico degli stessi migranti, esclusione dei sussidi di chi non supera i test, pressioni sulla Ue per rafforzare Frontex e per rendere più celeri le espulsioni. Va detto che nel 2022, dopo una lunga pressione dei movimenti antirazzisti locali e come effetto transnazionale della lotta antirazzista di Black Lives Matter negli Stati uniti, il governo Rutte ha riconosciuto e chiesto scuse, in nome dello stato olandese, per il passato coloniale del paese e per il suo ruolo nella schiavitù. Al gesto formale di riconoscimento, non è seguito alcun impegno dello Stato nel pagamento di riparazioni storiche o nella lotta materiale al razzismo strutturale contemporaneo. Enunciato in questo modo, dunque, come notato da diversi movimenti antirazzisti olandesi, il gesto sta più per una strategia di decolonial-washing che non per una qualche reale discontinuità con il passato coloniale. È stato lo stesso Rutte a confermare questa persistente colonialità, con un atto affermativo rimasto famoso e degno di «Daddy»: «Chi non si adegua ai valori olandesi, se ne dovrà andare». Inutile aggiungere che la parabola di Rutte appare come una genealogia storica quasi perfetta della commissione Von der Leyen. GLI PSEUDO-SOVRANISMI EUROPEI E IL BOOMERANG COLONIALE Cosa muove questi valori olandesi, ce lo racconta in modo suggestivo Gloria Wekker, antropologa afro-olandese, in White Innocence. Paradoxes of Colonialism and Race (2016). Wekker identifica un paradosso al centro dell’identità nazionale olandese: da una parte, la passione, l’intensità e persino l’aggressività che la razza, nelle sue intersezioni con genere, sessualità e classe, suscita nella popolazione bianca, dall’altra il predominio nelle proprie auto-narrazioni della sua negazione, estraneità e disconoscimento. Sta qui l’operatore simbolico al cuore di ciò che Wekker chiama «innocenza bianca». Questo «fantasma della razza», questo «boomerang coloniale» – per stare alla proposta dello storico del diritto coloniale e imperiale anglo-ghanese Kojo Koram in Uncommon Wealth. Britain and the Aftermath of Empire (2022) – non tiene in ostaggio soltanto il simbolico olandese: agita invece l’intero spettro degli pseudo-sovranismi europei. Qualunque riferimento all’Italia è qui puramente voluto. Il godimento della crudeltà, dell’autoritarismo, della violenza, del militarismo e del razzismo appare qui come un rovescio perfettamente simmetrico della dimensione del declino europeo nel mondo: non è che una sublimazione coloniale della propria impotenza. *Miguel Mellino insegna studi postcoloniali all’Università di Napoli L’Orientale. Tra i suoi libri, Post-Orientalismo. Said e gli studi postcoloniali (Meltemi, 2009), Governare la crisi dei rifugiati (Derive Approdi, 2019) e Marx nei margini. Dal marxismo nero al femminismo postcoloniale (Alegre, 2020). Ha curato l’edizione italiana di Black Marxism di Cedric Robinson (Alegre, 2023). L'articolo Il boomerang coloniale proviene da Jacobin Italia.
Oltre il biocapitalismo
Articolo di Luca Mandara Il problema storico che sta all’origine e definisce il compito dell’eco-marxismo è fondare de jure quella che Paul Guillibert, nel suo Sfruttare i viventi. Un’ecologia politica del lavoro recentemente tradotto dal francese per Ombre Corte, definisce «un’ecologia di classe», per un nuovo progetto eco-socialista. Per farlo, il marxismo più aggiornato, come quello del ricercatore francese, si confronta con gli studi eco-femministi, decoloniali, ecologisti, formulando una teoria omnicomprensiva dei molteplici rapporti di dominio (di classe, di genere, di razza, inter-specifico) che articolano oggi la società capitalistica. VERSO IL BIOCAPITALISMO Negli anni Sessanta-Settanta, mentre la comunità scientifica denunciava i «limiti della crescita», alcuni pensatori marxisti hanno fatto propria la scoperta ecologica dell’impossibilità di una crescita infinita senza intaccare risorse, processi e equilibri biofisici che fino ad allora avevano permesso la vita degli esseri umani e di diverse altre specie. Emancipati dall’orizzonte produttivistico condiviso anche dal socialismo «reale», dal canto loro, questi pensatori hanno a loro volta emancipato l’ecologismo da una concezione astorica e sacrale della natura, da proteggere, conservare, ripristinare quale è sempre stata senza considerare i «costi» sociali. L’idea marxiana che, invece, la «natura» sia un prodotto storico (di una storia naturale e sociale) e che questa produzione non sia unica ma si modifichi storicamente, rende il rapporto con la natura innanzitutto produttivo e politico, cioè esito di conflitti storici. Da scienza dei processi biofisici, l’ecologia diventa così «ecologia politica», che studia la questione dei rapporti col non-umano a partire dalla questione dei rapporti di forza tra umani.  Nell’eco-marxismo questi rapporti sono rapporti tra classi in lotta a causa del carattere della produzione. Quella capitalistica è finalizzata all’accumulazione crescente di capitale mediante lo sfruttamento del lavoro «vivo» salariato e della natura in generale oltre i limiti della loro capacità di riprodurre la propria energia vivente. Poiché lo sfruttamento del lavoro umano pone un limite «naturale» alla durata della giornata lavorativa – la riproduzione della forza lavoro stessa richiede del tempo – il capitale tende a ridurre il valore dei beni salario in vari modi, come impiegare le macchine in agricoltura. Agricoltura meccanizzata e urbanizzazione, a loro volta, causano una «frattura metabolica» del «ricambio organico» tra uomo e natura di cui già Marx considerava le nefaste conseguenze: perdita di fertilità della terra, inquinamento delle città, proliferazione di malattie, riduzione dell’età media, ecc. La critica ecologista è stata arricchita da quella femminista secondo la quale anche la riproduzione intra-umana non è un fatto naturale ma il prodotto di un’attività storica: il lavoro «domestico» femminile. Per pensatrici come Silvia Federici, quest’attività non viene «contabilizzata» nei costi poiché la produzione capitalistica è fondata sul salario, che apparentemente lascia libero il lavoratore nei suoi rapporti riproduttivi. In verità, tali rapporti sono organizzati da forme e istituzioni di dominio sulla donna che rendono la riproduzione conforme e funzionale alla produzione capitalistica. La donna serve gratis la sua attività di crescita ed educazione dei figli, forza lavoro futura, di cura degli anziani, socialmente necessaria ma non ripagata. A sua volta se ne avvantaggia la riproduzione della forza lavoro maschile. Come sottolinea Nancy Fraser nel suo Capitalismo Cannibale, la logica intrinseca dello sfruttamento di genere non è venuta meno con l’integrazione delle donne nel mercato del lavoro. In Occidente, anzi, si è esteso e incrociato sempre di più con motivi «razziali»: il lavoro domestico viene appaltato ad altre donne più povere, soprattutto straniere. Anche la questione razziale ha una sua componente ecologica. La critica decoloniale ha mostrato che il capitale tende a ridurre i costi dei beni salario anche sfruttando manodopera nelle «colonie» in rapporti non salariati, schiavili, servili o malamente salariati, oltre che appropriandosi violentemente delle risorse e impiegare il modello distruttivo della piantagione a monocoltura.  Infine, come evidenziato dall’ambientalismo, anche il non-umano è attivo nel generare gli elementi necessari alla produzione e riproduzione umana (aria respirabile, acqua potabile, terreno coltivabile ecc.), e anche questa attività non viene ripagata da alcun valore. Questo porta diversi eco-marxisti a estendere la categoria di lavoro alla natura non-umana o a parte di essa, come nel caso di Guillibert, e a estendere l’uso dei concetti marxiani sui rapporti tra capitale e lavoro al rapporto capitale-natura. Il ricercatore francese, ad esempio, parla di «sussunzione totale della vita» al capitale per indicare la produzione di una nuova natura del capitale, fatta di Ogm e altro, già adeguata e conforme al regime dell’accumulazione. Attraverso la brevettazione della conoscenza, vengono messi a valore processi e relazioni tra viventi e tra questi e non-viventi danneggiando la loro capacità di rigenerazione. È la fase del «biocapitalismo», che smentisce certe concezioni della natura alla base delle critiche moralistiche alla sofferenza animale che accentuano una passivizzazione della natura sconosciuta al capitale. Quest’ultimo si caratterizza piuttosto per «un’intensificazione patologica, distruttiva e alienata della produttività della natura in nome del profitto». Verso un comunismo dei viventi La critica ecologista deve quindi mirare al dominio stesso del capitale e alle sue molteplici forme: tra divisione di classe in fabbrica, divisione di genere in famiglia, divisioni razziali nella piantagione, divisioni inter-specifiche c’è differenza, ma anche una radice comune. È il capitalismo come sistema che «mira all’accumulazione attraverso lo sfruttamento del lavoro e la svalorizzazione permanente delle condizioni oggettive di vita», ossia di quella «natura» che non è affatto un’entità astorica, ma «l’insieme delle realtà svalutate nel capitalismo, quelle che sono oggetto di un’appropriazione gratuita», e per lo più violenta.  La violenza intra-specifica ed inter-specifica necessaria al capitalismo è perciò tra le cause storiche del dissesto ecologico. Essa è, inoltre, uno strumento fondamentale per costringere il non-umano ai tempi dell’accumulazione, come dimostrano i molteplici casi di resistenza animale. Chiaro che un progetto eco-socialista non può quindi limitarsi alla semplice transizione energetica, né alla «giusta» redistribuzione dei suoi costi sociali. Se l’origine è il dominio, e questo ha origine nel rapporto tra produzione e riproduzione internazionale, allora solo una rivoluzione di questi rapporti può condurre a una società «sostenibile». Assunti i limiti alla crescita; assunta la centralità del momento della riproduzione sociale oltre quello della produzione di beni, sorge nell’eco-marxismo la corrente della Degrowth Communism inaugurata da Kohei Saito e appoggiata dal «comunismo dei viventi» di Guillibert, secondo la quale una «decrescita» può essere ottenuta quando, rivoluzionati i rapporti di proprietà e le finalità della produzione (dall’accumulazione alla soddisfazione dei bisogni umani e non), le attività produttive vengono messe al servizio di quelle riproduttive, meno energivore (o, come scrive Emanuele Leonardi, neghentropiche) per il maggiore impiego di energia umana. SIAMO PRONTI PER IL BIOTARIATO? Detto del progetto, resta da interrogare la questione del chi per esso. Secondo alcuni la trasformazione della composizione «tecnica» del lavoro nel biocapitalismo deve portare a ripensare la classe nei termini operaisti della sua composizione «politica», introducendovi ora il non-umano. Léna Balaud parla ad esempio di «composizione ecologica della classe operaia»; Jason Moore di «proletariato ecologico o ‘biotariato’»; Guillibert, di un’«ecologia di classe» che «si costituisce a partire dalle resistenze animali alla messa a lavoro […] dalle quali sviluppare lotte e nuove composizioni».  Su questo punto mi pare persistere però una certa vaghezza e una certa confusione di priorità che contraddice, invece, la precisione con cui la critica eco-marxista riesce a cogliere le molteplici forme di sfruttamento. Chi formula queste ipotesi di alleanze inter-specifiche nella lotta politica, fonda le sue proposte su una revisione del concetto di lavoro che, mi pare, estende troppo la categoria dimenticando la fondamentale differenza che passa tra lavoro umano e attività non-umana: la storicità. Anche la natura ha una sua storia, ma quella umana è caratterizzata dal fatto che gli uomini modificano le forme della loro relazione con la natura non-umana; che producendo una «natura» producono la stessa produzione; che, a causa di fattori non-naturali, come la nascita delle classi, il passaggio tra forme di produzione è stato mediato da rivoluzioni politiche, per lo più violente. Fenomeni su cui agiscono condizioni naturali non-umane, certo, ma anche fattori che non troviamo nel mondo non-umano ma sono, appunto, nuovi, storici.  Da cui i dubbi sull’estendibilità di concetti della critica dell’economia politica di Marx – come sussunzione, lavoro, alienazione – alla «natura» o alla «vita». Il rischio è che, nel merito di illuminare l’utilizzo capitalistico del non-umano, appaia una sussunzione diretta al capitale dell’ente non-umano, che lascia nell’ombra il fatto che tale sussunzione è resa possibile solo mediante la sussunzione del lavoro umano, sia vivo, sia morto, cioè oggettivato nello strumento/macchina così come nella conoscenza che viene applicata durante il processo. Il punto della sussunzione della «natura» resta, quindi, la riduzione del valore del lavoro umano mediante la riduzione del valore delle merci che rientrano nel suo salario; e la lotta per la giornata lavorativa normale è, necessariamente, ciò che la produzione scatena «da sé» e da cui bisogna partire per ogni attività politica.  La questione è anacronistica solo se non si guarda al livello internazionale di questa lotta. Qui mi pare esserci un altro limite dell’eco-marxismo, che spesso coglie il carattere internazionale della divisione del lavoro, ma lo perde quando si tratta di passare all’analisi politica della «composizione di classe». Ci si focalizza molto sulla «nostra» esperienza di alleanza tra lavoro e ambiente, ma poco spazio è lasciato a quei movimenti extra-occidentali che da tempo uniscono le due questioni a quella della «sovranità» sul proprio territorio dovendolo sottrarre al dominio delle potenze imperialistiche occidentali.  La sovranità, invece, appare spesso solo nella sua versione destrorsa. Guillibert, ad esempio, denuncia il nuovo compromesso eco-razzista che giustifica politiche migratorie restrittive in nome della sovranità su un territorio dalle risorse scarse. Ci si dimentica, però, che la perdita di sovranità nazionale è stato uno dei fattori che ha contribuito al dominio sugli stessi popoli europei dei cosiddetti mercati finanziari globali (leggi monopoli anglo-americani) che distruggono e si appropriano della terra anche in Occidente, come dimostra drammaticamente il caso ucraino. Inoltre, ci si dimentica di quei popoli che sono privi di sovranità, sia formalmente (vedi i palestinesi), sia realmente (vedi i popoli soggetti a governi «fantoccio»), la cui lotta per una sovranità formale e reale è una lotta di liberazione non solo politica, ma anche potenzialmente ecologica.  Lo scriveva Herbert Marcuse già nel 1972 a proposito della guerra in Vietnam, infatti, l’«ecocidio» è un’arma di «genocidio» perché uccide non solo i viventi di oggi, ma le fonti naturali per la nascita e lo sviluppo autonomo delle generazioni a venire. Quella vietnamita – e oggi potremmo dire quella gazawi – era per lui una «liberazione ecologica rivoluzionaria» che «le bombe hanno lo scopo di prevenire». Prova ne è la scomparsa mediatica di Greta Thunberg dopo le sue prese di posizione radicali sul genocidio palestinese.  Da questo punto di vista, un ripensamento a sinistra del concetto di sovranità è una sfida che l’eco-marxismo deve affrontare. Ha buoni maestri, a partire da Vladimir ‘Ilic. Ma anche prove concrete che sta già avvenendo, come mostrano le recenti nazionalizzazioni delle risorse in Mali, Niger e Burkina Faso, dove ha permesso ingenti investimenti statali nella produzione tessile locale, oltre che una migliore redistribuzione della ricchezza con evidenti successi anche economici. Senza contare la sperimentazione del popolo del Rojava di una società laica, democratica, ecologica, senza divisioni di genere. Credo quindi che il problema dell’unità internazionale intra-umana per una lotta anti-imperialista sia una priorità ecologica rispetto a quella inter-specifica.  Valorizzare attraverso una nuova teoria del lavoro la «rivolta animale», può avere un’importante funzione simbolica e morale: conoscere la loro sofferenza e ribellione può stimolare il medesimo bisogno negli uomini che soffrono dello sfruttamento e dell’alienazione. Ma questo piano morale-sensoriale-sentimentale, dall’indubbio valore, resta qualitativamente diverso dalla dimensione politica. Come, infatti, si organizza una «rivolta animale»? Non sarebbe tale organizzazione anch’essa una imposizione contro cui l’animale potrebbe fare resistenza?  Chiarire le priorità rafforzerebbe, senza intaccare, il merito e la sfida profonda che, a mio modo di vedere, è stata posta dal sorgere dell’eco-marxismo: restituire al marxismo quella dimensione utopica perduta dopo la fine della «grande narrazione» produttivistica-prometeica, senza la quale nessun movimento può «abolire lo stato di cose presenti». Questo movimento è fatto di uomini e donne; a loro volta mossi da bisogni, desideri e coscienze. Immaginare un altro oltre le forme cannibali di soddisfazione e percezione del mondo capitalistico, è necessario per spezzare la presa su quella dimensione soggettiva del desiderio che occorre incanalare nella costruzione vissuta «in prima persona» di una società pacificata nei rapporti inter- e intra-specifici. *Luca Mandara insegna filosofia e storia nei licei e collabora con le Università di Napoli e della Basilicata, dove si occupa di teoria critica e di questione ecologica. Partecipa al movimento per la sanità pubblica e alle iniziative di altre organizzazioni politiche attive a Napoli. L'articolo Oltre il biocapitalismo proviene da Jacobin Italia.
Un secolo di umiliazione europea
Articolo di Ingar Solty L’Unione europea ha raggiunto qualcosa di storico. Sono trascorsi 55 anni tra la prima e la seconda Pace di Thorn, che nel 1466 sancì la sconfitta totale dei Cavalieri Teutonici contro il Re polacco. Ci sono poi voluti 26 anni fatali e orribili dal Trattato di Versailles del 1919 all’Accordo di Potsdam del 1945 perché la Germania perdesse il suo diritto all’autodeterminazione. Sono trascorsi circa 21 anni tra la Prima e la Seconda Guerra dell’Oppio, combattute dalle potenze coloniali europee nel XIX secolo per imporre le più brutali condizioni commerciali alla loro colonia cinese. Oggi, alla Commissione europea sono bastati appena 9 mesi per dichiarare due volte la propria resa incondizionata. In questo caso, non è stato nemmeno necessario uno scontro a fuoco. La prima dichiarazione di resa era stata pronunciata all’unisono con gli Stati Uniti. Quando gli stati capitalisti di entrambe le sponde del Nord Atlantico hanno ritenuto necessario introdurre misure protezionistiche per impedire ai concorrenti cinesi di entrare nei rispettivi mercati nazionali dei veicoli elettrici (così come dei pannelli solari e di altre tecnologie verdi), il segnale era stato evidente. L’impero Ue aveva preso questa decisione alla fine di ottobre 2024. Con questo messaggio: dato che non siamo più in grado di espanderci nel mercato interno cinese con i nostri veicoli elettrici, e visto che le auto elettriche Made in China Build Your Dreams (Byd) a prezzi accessibili stanno per inondare i nostri mercati interni, dovremmo almeno proteggere questi da una schiacciante concorrenza. Questa mossa protezionistica la diceva lunga su quanto si fosse indebolita la posizione dell’Europa. Nella Strategia di Lisbona, annunciata nel 2000, l’Ue aveva espresso l’ambizione di diventare la regione economica più competitiva al mondo. Con la Germania al timone, mirava a essere la maggior esportatrice dell’economia mondiale. L’Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) e il suo predecessore, l’Accordo Generale sulle Tariffe Doganali e il Commercio (Gatt), erano stati fondati dai leader occidentali per creare un’economia globalizzata per conto delle multinazionali occidentali dominanti e più competitive. Il libero scambio è una forma di imperialismo, e le ex potenze colonizzatrici eccellevano in questo. Ma ora è chiaro che la situazione sta cambiando. La Cina sta arrivando dove i l’Unione sovietica non è arrivata: a raggiungere e risalire la catena del valore e la gerarchia della divisione internazionale del lavoro. Tra i paesi del G8, la Cina è oggi l’ultimo difensore del Wto e, a quanto pare, dal punto di vista dell’imperialismo occidentale, qualcosa non ha funzionato nel quarto di secolo successivo al 2001, data dell’adesione di Pechino al Wto, sebbene ciò sia avvenuto nelle più dure condizioni immaginabili, imposte dalle potenze occidentali. La strategia di uscita cinese dalla crisi finanziaria globale, incentrata sulla pianificazione strategica dell’elettrificazione dell’economia e sulla creazione di campioni nazionali attraverso una coraggiosa politica industriale, si era dimostrata di gran lunga superiore alla strategia «frega il tuo vicino» basata sull’austerità, adottata sia dagli Stati uniti di Barack Obama che dall’Ue durante la crisi dell’euro. La Cina è uscita dalla crisi come un rivale ipercompetitivo nel settore dell’alta tecnologia, come una forza pari o dominante in molte tecnologie future, dall’intelligenza artificiale ai Big Data alle comunicazioni mobili 5G e 6G, e in particolare alle tecnologie verdi. Anche quando l’Occidente si è reso conto di quanto fosse ipercompetitiva la Cina, la Bidenomics, il Green Deal dell’Ue e la politica economica del cancelliere tedesco Olaf Scholz hanno cercato di battere Pechino al suo stesso gioco. La strategia di emulazione non ha avuto successo, soprattutto in Europa. La prima resa incondizionata ha riconosciuto questo: se non posso più derubarti, almeno posso proteggere il mio spazio. Ora arriva la seconda resa incondizionata. Gli occidentali, e soprattutto gli europei, non sono più i migliori in brevetti, macchinari, efficienza economica, infrastrutture pubbliche funzionanti, medaglie olimpiche o soddisfazione popolare. Ma almeno le ex potenze colonizzatrici trionfano moralmente sul resto del mondo (anche se sostengono una guerra genocida, pensando che il resto del mondo non se ne accorgerà). Con la stessa superiorità morale, le élite europee si sono comportate con alterigia dopo il trionfo di Donald Trump nel novembre 2024. La stampa europea lo ha ridicolizzato. “Sta distruggendo gli Stati Uniti, sta distruggendo l’economia mondiale”, si diceva. Ma ora chi ride per ultimo? SE TRUMP DICE DI SALTARE, L’UE CHIEDE QUANTO IN ALTO La resa incondizionata è stata accompagnata da un avvertimento. Dopo l’inizio della guerra in Ucraina, i paesi europei della Nato hanno annunciato la loro disponibilità a investire il 2% del Pil in futuri armamenti. Tre anni dopo, improvvisamente è stato applicato un obiettivo del 5%. D’ora in poi, la Germania investirà un euro su due del bilancio federale nell’acquisto di armi e infrastrutture pronte per la guerra, nel tentativo di costruire – come ha affermato il cancelliere Friedrich Merz – «l’esercito convenzionale più forte d’Europa». Dietro questa decisione c’erano forse nuove valutazioni del rischio? La Russia è improvvisamente 2,5 volte più minacciosa di quanto non fosse dopo l’invasione dell’Ucraina? Certo che no. La logica è tanto banale quanto eloquente: Trump ha chiesto il 5%, quindi gli europei stanno pagando il 5%. Ciò che serve è una divisione transatlantica del lavoro contro la Cina. Considerando che ampie fasce della spesa per gli armamenti andranno a riempire le casse dei maggiori produttori di armi, che peraltro sono americani, questo equivale a un importante pacchetto di stimolo militare-keynesiano per gli Stati Uniti. Inoltre, gli europei in questo modo hanno dato a Trump la possibilità di estendere la sua politica degli «accordi» a Giappone, Filippine, Australia e Nuova Zelanda, chiedendo loro di spendere altrettanto e di rafforzare ulteriormente il complesso militare-industriale americano. Si potrebbe supporre che, con tanta buona volontà e lealtà all’alleanza atlantica, gli europei si sono messi nelle condizioni di raggiungere un «accordo» positivo con Trump. Lui fa «accordi», quid pro quo. Di conseguenza, il governo tedesco ha affermato che un massiccio riarmo avrebbe avuto lo scopo di placare Trump nella disputa commerciale e dissuaderlo dall’imporre dazi doganali elevati all’Ue, come ha annunciato il ministro degli Esteri Johann Wadephul. Il super-atlantista Merz si è recato negli Stati uniti all’inizio di giugno ingraziandosi il presidente Usa, che intanto minacciava guerra a Panama e in Groenlandia, voleva annettere il Canada e dichiarava guerra all’Iran. Merz gli ha regalato una mazza da golf speciale e un certificato di nascita del nonno tedesco di Trump, parlando di «buoni rapporti» tra i due. Anche l’ex premier olandese Mark Rutte, oggi Segretario generale della Nato, si è distinto per la sua particolare ossequiosità in un messaggio personale fatto trapelare dallo stesso Trump. Tuttavia, se gli europei speravano che le loro dimostrazioni d’affetto sarebbero state ricambiate dagli Stati uniti, questa convinzione è stata presto delusa. In sostanza, l’«accordo» Nato è stato semplicemente il presagio della seconda resa incondizionata, avvenuta il 27 luglio.. A metà luglio, Trump aveva annunciato per la prima volta un dazio generale del 30% sulle importazioni dall’Ue, in aggiunta ai dazi già in vigore per l’intero settore. I dazi sarebbero entrati in vigore due settimane dopo, il primo agosto. TRATTATO DISEGUALE Quando Trump è arrivato a Turnberry, in Scozia, dove avrebbe dovuto incontrare la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ha annunciato che l’incontro sarebbe durato al massimo un’ora. Aveva altri impegni importanti, come qualche partita a golf. L’incontro è durato in effetti così poco, prima che Trump e von der Leyen comunicassero il loro accordo. La Commissione europea si era impegnata a spendere circa mille miliardi di dollari in armi, per aiutare gli americani nel loro tentativo di contenere la Cina. Alcune di queste armi saranno donate al presidente ucraino Volodymyr Zelensky, nella sua ormai impossibile guerra di autodifesa – e sempre più di reclutamento forzato – che presumibilmente si concluderà con il presidente russo a dettare le condizioni di pace. La leadership dell’Ue ha inoltre voluto ringraziare gli Stati uniti per aver presumibilmente affossato l’infrastruttura energetica strategica Nord Stream II, ostacolando così gli acquisti di gas dalla Russia da parte dell’Europa. Si è ora impegnata ad acquistare gas da tecnologia fracking statunitense per un valore di 750 miliardi di dollari, ripartiti nei prossimi tre anni. Infine, l’Ue si è impegnata a investire ingenti capitali esteri diretti negli Stati uniti, per un volume di 600 miliardi di dollari. Non è chiaro come la Commissione dovrebbe costringere le aziende private a scopo di lucro a impegnarsi a delocalizzare la produzione negli Stati uniti. Allo stesso tempo, data l’enorme differenza nei prezzi dell’energia industriale su entrambe le sponde dell’Atlantico – i prezzi dell’energia in Germania, ad esempio, sono circa il triplo di quelli statunitensi e sette volte superiori a quelli cinesi – non sono necessari ulteriori incentivi per la delocalizzazione dei capitali. L’Inflation Reduction Act di Joe Biden, con i suoi requisiti a base locale, gli ingenti tagli fiscali per l’1% più ricco rappresentati dal Big Beautiful Bill di Trump e la deregolamentazione ambientale per un’energia ancora più economica sono incentivi sufficienti per una fuga di capitali ancora più massiccia dalle capitali europee a più alto consumo energetico, soprattutto nei settori manifatturiero industriale e farmaceutico. Due anni consecutivi di crescita negativa in Germania la dicono lunga. In cambio di questi generosi doni offerti a Trump dai funzionari dell’Ue, i capitali statunitensi possono esportare gratuitamente nel Mercato comune europeo – l’Ue ha «aperto i suoi paesi a dazi zero», si è vantato Trump – mentre le aziende con sede nell’Ue che cercano di accedere al mercato interno degli Stati uniti devono pagare tasse di importazione del 15%. Questa è solo l’aliquota base; vari settori, come l’industria siderurgica e dell’alluminio, si trovano ad affrontare dazi devastanti del 50%. Ecco dunque «the deal». Dopo aver sbaragliato von der Leyen, Trump ha così condiviso la scena con lei per annunciarlo, e i leader dell’Ue si sono presentati per una foto ricordo con ampi sorrisi e i pollici alzati. In realtà, non si tratta affatto di un accordo, ma della formale «Dichiarazione di dipendenza» dell’Europa. Trump, che non si tira mai indietro di fronte ai superlativi, ha potuto, a ragione, definirla «la più grande di tutte». Ha imposto all’Europa lo stesso tipo di «trattato» che le potenze europee avevano costretto la Cina a ingoiare dopo le Guerre dell’oppio. Von der Leyen ha parlato di un «buon affare», avendo evitato la richiesta massimalista di Trump dei dazi al 30%; il cancelliere tedesco Merz lo ha elogiato come migliore del previsto, elogiandone la straordinaria capacità negoziale nel proteggere le case automobilistiche e farmaceutiche tedesche da danni ancora maggiori. È vero, gli interessi tedeschi sono stati considerati – ed è per questo che i rappresentanti di altri Stati membri dell’Ue ora si lamentano giustamente di essersi cacciati in questo pasticcio solo a causa del surplus delle partite correnti della Germania nei confronti degli Stati uniti. Tuttavia, non è un buon affare nemmeno per il capitale tedesco. I dazi originariamente pagati dalle case automobilistiche tedesche erano di circa il 2%. Un aumento di 13 punti percentuali non promette certo prospettive per un settore già in difficoltà. DIPENDENZA EUROPEA, MOLTIPLICATA PER QUATTRO Le due rese incondizionate dell’Europa rivelano i reali rapporti di forza nell’economia mondiale. La domanda fondamentale è: perché Trump ha avuto successo nei confronti dell’Europa con la stessa strategia che ha fallito così miseramente nei confronti della Cina? Trump è noto per il suo approccio transazionale alla politica, che gli permette di concludere accordi basandosi sulle sue carte da poker. Quando si è scontrato con la Cina, Trump non aveva carte vincenti da giocare. Pechino aveva tutti gli assi nella manica: dazi di ritorsione del 125%, restrizioni all’esportazione di terre rare – da cui dipendono le aziende automobilistiche e della difesa statunitensi – restrizioni all’importazione di film di Hollywood, divieti di importazione di aerei Boeing e sanzioni speciali contro le aziende statunitensi. Chiunque si aspettasse che la Cina facesse marcia indietro nella guerra commerciale con gli Stati Uniti si è sbagliato. Invece, ha dimostrato la sua forza. Trump è stato costretto a ritirarsi. Dopo il Trump 1.0 e le misure protezionistiche di Biden contro Pechino, ciò ha dimostrato la sovranità economica appena acquisita dalla Cina e il massiccio spostamento dell’equilibrio di forze dell’economia mondiale, dal Nord e dall’Ovest verso l’Est e il Sud. Ha mostrato i limiti del tentativo degli Stati Uniti di separare la Cina – il principale partner commerciale di oltre 120 paesi – dal resto del mondo. La seconda resa incondizionata dell’Europa mostra il profondo cambiamento nell’equilibrio di forze transatlantico. Ovviamente, quando gli Stati Uniti hanno annunciato una «partnership nella leadership» per la Germania e gli europei dopo la fine della vecchia Guerra Fredda, permaneva un divario nella loro forza relativa. Eppure, gli Stati uniti hanno preso sul serio l’impero Ue. Il tentativo di George W. Bush di controllare il rubinetto mondiale del petrolio contro tutti i potenziali rivali, era diretto anche contro l’Ue. All’epoca, attraverso l’allargamento a Est, l’Ue stava diventando il più grande mercato comune del mondo, brandendo la nuova moneta comune, l’euro, come potenziale alternativa al dollaro. Pertanto, l’impero americano riuscì a impedire che un allargamento dell’Europa orientale avvenisse al di fuori della struttura di potere Nato degli Stati uniti sull’Europa. La guerra in Ucraina ha intensificato lo squilibrio nei rapporti di potere nord-atlantici. Da ciò è emerso un nuovo atlantismo asimmetrico e una quadruplice dipendenza dell’Europa dagli Stati Uniti. In primo luogo, l’annullamento della simbiosi energetica tra Europa e Russia ha reso l’Europa dipendente dal gas da fracking statunitense e dalle infrastrutture dei terminali di gas naturale liquefatto controllati dagli Stati uniti. In secondo luogo, l’Ue è stata indebolita economicamente e resa dipendente dal mercato interno statunitense, che Trump ora sfrutta con tanto successo per ricattare gli europei. Non si tratta di un’idea nuova: è esattamente il modo in cui Ronald Reagan costrinse il rivale giapponese alla resa totale negli anni Ottanta, innescando decenni di lenta crescita. L’economia Ue, e in particolare l’economia di esportazione della Germania, è oggi in rovina, con scarse aspettative di crescita nonostante il massiccio keynesismo militare. La nuova dipendenza dell’Europa dal gas da fracking statunitense non è solo un disastro climatico rispetto persino al gas e al petrolio russi, ma anche molto più costosa. Inoltre, le élite dell’Ue hanno indebolito l’economia europea con diciotto cicli di sanzioni anti-Russia che si sono solo ritorte contro di loro, avendo sopravvalutato la forza europea. La guerra economica degli Stati uniti, che mira a separare l’Europa dall’enorme mercato interno cinese attraverso la politicizzazione delle catene di approvvigionamento – anche sanzionando le aziende private europee quando commerciano con la Cina utilizzando componenti americani – ha reso ancora più potente la leva dell’accesso all’altrettanto enorme mercato interno statunitense. Di fatto, nel 2024 gli Stati uniti hanno addirittura sostituito la Cina come principale mercato di esportazione per la Germania, per la prima volta dal 2015. In terzo luogo, l’Ue è diventata anche geopoliticamente dipendente dagli Stati Uniti. Nel nuovo scontro tra blocchi che gli Stati uniti stanno cercando di imporre al mondo, il pesce più grosso è quello che possiede settecento basi militari in tutto il pianeta e controlla la Nato come la più grande alleanza militare mondiale. Su questa base, gli Stati uniti stanno cercando aggressivamente di salvaguardare il predominio occidentale in un’economia mondiale radicalmente cambiata. In quarto luogo, il tentativo di usare la potenza militare come ultima risorsa di supremazia significa che il paese che ne trae vantaggio è quello che ospita i cinque maggiori produttori di armi al mondo, e non l’Ue. In altre parole, alla dipendenza energetica, economica e geopolitica dell’Europa si aggiunge anche una dipendenza militare-tecnopolitica. L’«accordo» dettato dagli Stati uniti ai suoi vassalli europei non fa che mettere a nudo questo atlantismo asimmetrico. UN ALTRO MODO Quindi, non c’erano alternative? Nel breve termine, le élite dell’Ue avrebbero potuto pensare alle carte vincenti che avevano in mano. Eppure, le tasse sui monopoli americani dell’IT e del capitalismo di piattaforma sono state abolite ancor prima dell’inizio dei negoziati. I leader dell’Ue hanno giocato correttamente, sperando nella clemenza. A lungo termine, quelle stesse élite avrebbero potuto opporsi alla nuova spartizione del mondo da parte degli Stati uniti. Avrebbero potuto cercare autonomamente di attenuare la tensione nella guerra in Ucraina. Le opportunità si sono presentate numerose. Proprio per perseguire i propri interessi, l’Ue avrebbe potuto ricercare un nuovo accordo di pace e sicurezza per l’Europa e l’Asia, comprese Russia e Cina. Invece, le sue élite si sono immerse in un mondo fantastico di imminenti invasioni russe e di una nuova corsa agli armamenti, che sconvolgerà l’Europa economicamente, socialmente, politicamente e culturalmente. Sì, la dipendenza dell’Europa dagli Stati uniti è indubbiamente significativa; le risorse di Washington per punire una dichiarazione d’indipendenza europea non sono da sottovalutare. Ma è anche vero che il potere degli Stati uniti nel mondo sta diminuendo. L’Ue non è stata ben consigliata a lasciarsi spingere dagli Usa a uno scontro economico e militare con la Cina. In realtà sembra che gli europei condividano maggiori interessi con la Cina e persino con il Sud del mondo. Le élite dell’Ue avrebbero potuto accettare il nuovo multipolarismo come un dato di fatto e prendere l’iniziativa di contribuire a creare un nuovo ordine mondiale multilaterale che prevenga i suoi molteplici rischi in termini di guerre economiche e di altro tipo. Le élite dell’Ue avrebbero potuto vedere l’ascesa dei Brics come un’opportunità. Invece, l’adesione degli Stati europei ai Brics è fuori questione. Entrare in una «rivalità sistemica» con Pechino nel 2019, e perseguire questa linea da allora, ha significato schierarsi dalla parte del Grande Fratello americano. Ha anche significato sostenere e soccombere al tentativo degli Stati uniti di bloccare l’ascesa della Cina e del Sud del mondo. Isolati nel mondo, i leader europei si sono ridotti alla mercé di Washington. Eppure gli Stati uniti hanno dimostrato di non essere un fratello maggiore protettivo. Hanno mostrato agli europei il volto prepotente che mostrano in tutto il mondo da almeno un secolo. Con il nuovo atlantismo asimmetrico, l’Europa viene trattata come un vassallo. Per completare la loro umiliazione, i leader europei continuano a sorridere perché pensano che chi dice «a» debba dire anche «b». Tuttavia, come ha insegnato Bertolt Brecht, questo non è vero: possiamo anche riconoscere che la prima ipotesi, «a», era sbagliata. Ma per riconoscerlo, ci vorranno altri leader, provenienti da un equilibrio politico completamente diverso all’interno dell’Europa stessa. *Ingar Solty è ricercatore senior in politica estera, di pace e di sicurezza presso l’Istituto per l’analisi sociale critica della Fondazione Rosa Luxemburg a Berlino. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Un secolo di umiliazione europea proviene da Jacobin Italia.
Hulk Hogan, delatore e razzista
Articolo di Carl Beijer Hulk Hogan, un disastro umano assoluto e il più importante wrestler professionista mai esistito, è morto a settantun anni. Togliamoci subito di torno questa seconda parte, perché mentre la maggior parte del mondo sa che è vero, i veri appassionati di wrestling spesso lo negano completamente. E Hogan, ovviamente, è interamente da biasimare: ha passato gli ultimi decenni a implorare chiunque gli prestasse attenzione di tirare lo scarico per una storia che lui ha gettato nel water. Ed è lì che rimarrà la sua eredità, troppo grande per essere gettata nel water e troppo disgustosa per essere lasciata altrove. Dal punto di vista tecnico, Hogan era un wrestler mediocre, un uomo che aveva solo una dozzina di mosse sul ring ma che le faceva sempre funzionare. All’apice della sua carriera era una valanga di carisma alimentato dalla cocaina, ma col tempo i suoi promo si sono trasformati in una noiosa prova di forza a colpi di slogan. Il trucco di Hogan si adattava perfettamente alla cultura del wrestling da cartone animato degli anni Ottanta e Novanta, e dopo di allora ha dato vita per anni a un impressionante turn heel [così si dice quando un personaggio buono, nelle messe in scena del wrestling, diventa cattivo, Ndt], ma alla fine dell’era Bush si era completamente trasformato in un caso di nostalgia anacronistico. Eppure, ancora oggi Hulk Hogan rimane uno dei nomi più riconosciuti al mondo. Negli anni Ottanta, ha quasi da solo trasformato il wrestling professionistico da curiosità regionale che si esibiva nelle palestre delle scuole superiori e nelle fiere di contea in un’industria globale multimilionaria (e alla fine miliardaria) di dollari. Hogan ha fatto a gara con il Papa per far entrare più persone negli stadi. Aveva il suo cartone animato, il suo show live action e i suoi film. Era una celebrità di serie A in un’epoca in cui altri wrestler di primo livello avrebbero potuto faticare a vendere biglietti nella propria città natale. Ric Flair era un wrestler più affermato, Dusty Rhodes era migliore al microfono e André the Giant era un atleta più impressionante, ma è stato l’uomo Hogan a rendere il wrestling quello che è. Era anche, a detta di tutti, un essere umano assolutamente patetico e riprovevole. Il suo grande momento di infamia, ovviamente, rimarrà per sempre il famigerato audio razzista in cui, be’, ha dichiarato al mondo di essere un razzista. Quell’incidente gli è costato un temporaneo allontanamento dalla Wwe e l’espulsione dalla Hall of Fame, finché l’altro grande nemico del wrestling professionistico, Vince McMahon, non gli ha dato il bentornato. I fan non lo hanno mai fatto. Nell’ultima apparizione di Hogan in un programma televisivo di wrestling all’inizio di quest’anno, è stato fischiato fuori dall’arena. Ma il razzismo non è stato l’unico fattore devastante per l’eredità di Hogan. Nel corso degli anni, memorie e ricordi trapelati dallo spogliatoio hanno rivelato un lato della sua carriera che era sempre stato nascosto al pubblico. Era un arrivista spietato ed egocentrico che si è messo in proprio – un termine del settore per indicare i wrestler che promuovono il proprio marchio a spese di tutti gli altri membri della promotion. Hogan ha ripetutamente vanificato incontri da sogno contro avversari che riteneva inferiori alle sue capacità, come Jake The Snake Roberts e Bret The Hitman Hart. Insisteva per vincere i titoli anche quando non aveva alcun interesse a difenderli nei match. Fingeva un infortunio nel tentativo di screditare la leggenda della Wwe The Undertaker e farlo passare come un wrestler insicuro. E quando gli avversari proponevano incontri o sviluppi della trama che lo facevano apparire meno di un supereroe invincibile e virtuoso, lui rispondeva sempre con la stessa battuta: «Questo non funziona per me, fratello». Hogan nel corso degli anni si è rivelato anche un bugiardo compulsivo. Storicamente, i wrestler professionisti sono sempre stati bugiardi; il loro unico compito è confondere il confine tra finzione e realtà e presentarsi al pubblico come personaggi larger than life. Ma Hogan non mentiva per il gusto di intrattenere; spesso mentiva solo per il gusto di mentire. E nel corso degli anni, le bugie si sono trasformate in bugie sempre più assurde e infantili in stile «mio zio lavora alla Nintendo». Hogan ha affermato di essere stato reclutato da diverse squadre di baseball, dai Metallica e dai Rolling Stones, e da Darren Aronofsky per interpretare il ruolo principale in The Wrestler. Sosteneva che Mike Tyson avesse paura di combattere contro di lui. Raccontava bugie su bambini e colleghi morenti; nella mia bugia preferita, affermava di aver attraversato i fusi orari così spesso da riuscire in qualche modo a lavorare quattrocento giorni in un solo anno. Qualcuno potrebbe dire che era difficile distinguere la realtà dalla finzione con Hogan, ma non è proprio così: era estremamente facile. Tutto quello che dovevi fare era avere presente che mentiva sempre. Da qui in poi le cose non fanno che peggiorare. Hulk Hogan è un delatore: lui, personalmente, è il motivo per cui i wrestler professionisti non sono mai riusciti a formare un sindacato. Hulk Hogan è il motivo per cui abbiamo perso Gawker e ha rappresentato la punta di lancia per le aggressive ambizioni mediatiche della mafia di PayPal. E in una delle sue ultime apparizioni pubbliche, Hulk Hogan ha appoggiato Donald Trump alla Convention nazionale repubblicana del 2024. Hogan ha regalato agli appassionati di wrestling alcuni momenti davvero iconici sul ring, e ha anche reso il nostro mondo significativamente peggiore. La sua faida del 1990 contro John Earthquake Tenta mi ha insegnato a tenere testa ai bulli. Ha affermato di aver incontrato Gesù una dozzina di volte nel corso della sua carriera, quindi forse è riuscito ad arrivare in paradiso. Ma siccome Hulk Hogan è un bugiardo, immagino che non lo sapremo mai. *Carl Beijer scrive su carlbeijer.com. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Hulk Hogan, delatore e razzista proviene da Jacobin Italia.
Il modello Milano, oltre le inchieste
Articolo di Alessandro Coppola Le inchieste sulla  gestione dell’urbanistica e dell’edilizia a Milano hanno portato in primo piano il tema del governo delle trasformazioni urbane. È l’occasione per fare il punto criticamente, al di là dei risvolti giudiziari, sul cosiddetto «modello Milano» di governo urbano.  La riduzione giudiziaria dei fenomeni sociali e politici è fenomeno ormai consolidato in Italia e non è tanto funzione delle caratteristiche dell’azione giudiziaria, bensì soprattutto dei gravissimi deficit degli attori politici e culturali nel politicizzare questioni che, appunto, finiscono per politicizzarsi solo per via giudiziaria. Se invece la questione milanese intendiamo politicizzarla, possiamo muovere da diverse prospettive.  Prima di tutto, si tratta di capire chi ci ha guadagnato, da un modello di sviluppo basato sulla valorizzazione immobiliare, quali gruppi sociali sono stati coinvolti e quali esclusi. Per poi approfondire il modello di governo che ha reso possibile tutto ciò nella fase post–expo, e le possibili alternative in campo. VINCENTI E PERDENTI DEL MODELLO MILANO La prima prospettiva, ormai consolidata, è quella relativa al modello di sviluppo – o meglio dire di accumulazione – della città e degli squilibri distributivi che ha generato. Si tratta di un modello nel quale l’accumulazione per via fondiaria e immobiliare ha assunto un peso crescente fino a diventare il principale fattore strutturante dell’intera economia urbana (e più precisamente il fattore cui gli altri settori economici devono pagare un contributo crescente). Un modello che vede alcuni gruppi sociali vincenti, altri naturalmente perdenti, e nel mezzo una sempre più difficile definizione di cosa sia l’interesse pubblico, o meglio collettivo.  Fra i vincenti vi sono sicuramente le élite economiche e finanziarie che si sono riposizionate a presidio di quello che David Harvey definisce quale il secondo circuito del capitale, ovvero quello immobiliare, ma anche una parte cospicua di ceti medi e superiori che, in modi diversi, hanno potuto partecipare agli imponenti processi di valorizzazione immobiliare che si sono prodotti in questi due decenni. Infatti, il grande capitale organizzato non è come ovvio l’unico attore di questa fase dell’evoluzione di Milano, pensarlo è errore comune di rappresentazioni manichee di come si sia strutturata questa fase della traiettoria della città (e delle città). La proprietà diffusa, e in particolare quella di valore elevata concentrata fra i ceti medi e superiori che a Milano hanno un peso specifico ben più rilevante che altrove, rappresenta il lato tribunizio, di massa, di questo modello di accumulazione. Com’è ovvio, pensare che il 70% delle famiglie residenti in proprietà siano tutte parte dei vincenti, e soprattutto vincenti nello stesso modo, è infondato: fra gli stessi proprietari, a Milano e ancor di più fra questa e la sua area metropolitana, le diseguaglianze si sono allargate, complice anche un sistema fiscale che programmaticamente ignora le dinamiche di mercato. Tuttavia, non si può non considerare il vantaggio economico e simbolico che parte dei ceti medi e superiori locali hanno tratto da questa fase del capitalismo urbano. Al di là dei vantaggi finanziari, l’immaginario di una città moderna, di fatto tendenzialmente esclusiva ma simbolicamente attraente perché tecnologicamente avanzata, sostenibile alla micro-scala dell’alloggio o del vicinato, e che assicura una persistente valorizzazione degli investimenti ha avuto e tuttora esercita un forte carica egemonica su un ampio spettro di classi sociali. Ed è tale carica egemonica a rendere sempre complessa la visibilizzazione delle implicazioni negative di tale modello, anche per i ceti che ne traggono qualche vantaggio finanziario immediato.  Nel concreto, i gruppi sociali vincenti di questo ciclo li troviamo fra i proprietari di abitazioni in zone in via di forte valorizzazione – perché le avevano comprate prima, o perchè le hanno ereditate – o perché disponevano di redditi elevati o patrimoni cospicui, che hanno permesso loro di acquistare immobili che realisticamente andranno continuamente apprezzandosi nel tempo. Con un prezzo medio delle compravendite realizzate in città ormai arrivato a 400.000 Euro (Dato Omi-Agenzia delle Entrate, 2025), il disporre di un patrimonio cospicuo ha fatto di Milano – in una misura senza precedenti – la città che meglio illustra la centralità crescente dei patrimoni nella riproduzione sociale, tendenza che come noto coinvolge i capitalismi di tutto il Nord Globale ma che in Italia diventa estrema per via della stagnazione dell’economia e della dinamica dei salari.  Per restare a Milano oggi occorre essere parte dei ceti superiori oppure dei ceti medi patrimonializzati, ovvero i ceti medi che ereditano un alloggio oppure il capitale per acquistarlo: essere ceto medio dal punto di vista esclusivamente dei redditi o del capitale culturale non è più sufficiente per accedere alla proprietà. Tuttavia, e questo va sottolineato, la città proprietaria ha bisogno che vi siano popolazioni mobili per la sua stessa riproduzione e valorizzazione. E questa è la fonte principale del conflitto sociale, in gran parte implicito, fra rigidità del modello proprietario e l’altra dimensione essenziale del capitalismo urbano contemporaneo, ovvero la sua necessità strutturale sia di lavoro cognitivo sia di lavoro nei servizi a basso valore aggiunto. Lavoro che – considerate le sue condizioni di strutturale precarietà e i bassi redditi – vive invece prevalentemente in affitto. E anche, in quota consistente, non residente.  La democrazia locale quindi, non solo a Milano, è sempre più una democrazia proprietaria, che di fatto esclude centinaia di migliaia di abitanti, perché non residenti o irregolari, i quali sono prevalentemente in affitto (la base di legittimazione delle amministrazioni comunali a Milano corrisponde, fra forme di esclusione de jure e astensionismo di massa dei ceti popolari, a una frazione ampiamente minoritaria della città reale). In altre parole: tutti gli abitanti creano valore, solo una parte se ne appropria, e ancora meno decidono come governarne la creazione e distribuzione.   LA CAPITALE MORALE DELLA RIPRODUZIONE DI CLASSE PER VIA  IMMOBILIARE Su Milano si sono riversate grandi masse di investimenti immobiliari, sempre di più organizzati nella forma di tecnologie finanziarie avanzate – fra le quali, i Real Estate Investment Trust (Reit), che raccolgono capitali di diversa provenienza – ma, non dimentichiamolo, anche di una quota crescente del risparmio nazionale delle famiglie di ceto medio-superiore italiane. L’arrivo di quote crescenti di giovani qualificati ha portato con sé gli investimenti immobiliari aggregati delle loro famiglie: in un paese particolarmente familista come l’italia il cosiddetto brain-drain significa anche capital-drain intergenerazionale, da territori periferici a territori centrali. Quindi, dal punto di vista dei meri benefici finanziari che discendono dalla remunerazione dei patrimoni immobiliari, il blocco sociale del ciclo immobiliare espansivo di Milano è molto ampio e trans-scalare perché unisce una forte base locale che potremmo definire nativa, a una quota ovviamente minoritaria ma significativa di ceti medio-superiori del resto del paese e infine una serie di attori finanziari e immobiliari di medie e grandi dimensioni.  La città è diventata il terreno principale della riproduzione di classe per via immobiliare dei ceti medio-superiori dell’intero paese. Considerato il tradizionale policentrismo di quest’ultimo –  Roma, fino alla crisi del 2008, esercitava una capacità attrattiva pari o superiore a quella di Milano – si tratta di un grande fatto sociale. Sebbene, in relazione a questi ultimi, si faccia molta retorica su Milano porta degli investimenti globali, il dato forse più importante degli ultimi vent’anni è in realtà la nazionalizzazione di Milano, e in particolare della sua borghesia. Alzando lo sguardo alla scala nazionale, si capisce bene chi siano i perdenti di questo processo: gli altri territori urbani che hanno iniziato a soffrire questa sovra-polarizzazione su Milano (circostanza che spiega una crescente insofferenza, anche al Nord, fra i pezzi di borghesia che decidono di non milanesizzarsi). NON  C’È UN’UNICA STRADA PER GOVERNARE LE TRASFORMAZIONI URBANE  Se questo è vero non bisogna però commettere l’errore di sottovalutare l’impatto che i medi e grandi attori del capitale finanziario e immobiliare hanno avuto sul cambiamento del modello di governo della città.  La capacità di tale capitale di plasmare i processi sociali e organizzativi, a partire da quelli istituzionali, è stato forse il principale fattore di cambiamento della politica della città. Il capitale finanziario-immobiliare implica rapidità, tempestività, permanente capacità di adattamento, e più questo si fa tendenzialmente transnazionale – come effettivamente capitato a Milano negli ultimi anni – e più, naturalmente, è definito dalla sua mobilità, o ancora più precisamente, dalla propaganda della sua mobilità e dalla conseguente minaccia di andare altrove. Di fronte a esso, sebbene in un quadro assai costretto e con capacità d’azione assai limitata, chi controlla le amministrazioni locali può percorrere varie strade. La prima è quella di lasciare che la logica di tale capitale sia fattore egemonico di governo sgombrando il campo da quasi qualsiasi mediazione, se non quelle rimovibili solo a condizione di un deciso e risolutivo cambiamento dell’ordine politico (è il motivo per cui le petro-monarchie costituiscono il contesto ideale per il grande capitale finanziario immobiliare). La seconda al contrario è mobilitare le istituzioni locali per fare l’opposto di quanto la mobilità del capitale richiederebbe, ovvero rallentare, selezionare e diversificare. Che significa, essenzialmente, condizionarne e quindi contenderne l’egemonia: promuovendo discussioni pubbliche al fine di imporre criteri di selezione degli investimenti privati; istituendo contro-poteri istituzionali che possano contrastarne il monopolio dei processi di trasformazione urbana; imponendo forme di forte prelievo pubblico sul valore generato dalle trasformazioni urbanistiche per impiegarlo in investimenti che vadano in direzioni opposte a quelle che la sua logica di accumulazione invetiabilmente preferisce. La terza e ultima strada consiste nell’impedire loro l’accesso, preservando il monopolio di attori immobiliari di vecchio tipo – quelli che potremmo definire palazzinari relativamente localizzati e non molto finanziarizzati – o percorrendo strade molto radicali, quali quelle del congelamento di qualsiasi attività edilizia. Questa terza strada può rivelarsi problematica, perché in quanto meramente difensiva può avere effetti distributivi paradossali: avere un sistema immobiliare dominato da palazzinari tradizionali, come è il caso di altre città italiane, non è garanzia di maggiore equità distributiva, e le politiche di decrescita attraverso il congelamento dell’attività edilizia – come dimostrano molti casi specie negli Usa – si sono spesso rivelate funzionali alle strategie di preservazione del valore immobiliare e dell’esclusività sociale di città e territori. Per questa ragione, quando forze progressiste hanno ottenuto il controllo di amministrazioni locali, hanno solitamente battuto la seconda strada, diversificando il campo degli attori immobiliari in direzione del rafforzamento di attori pubblici e cooperativi, e contrastando i comportamenti speculativi sul mercato attraverso nuove regolazioni. E, attraverso tutto questo, rendendo visibili all’opinione urbana i processi dell’economia immobiliare e quindi i processi di pianificazione, al fine di renderli contendibili. Come si vede, sono queste strategie eminentemente politiche in quanto istituenti, nel senso che intendono modificare il campo degli attori e trasformare gli istituti e le logiche attraverso le quali si realizzano le trasformazioni urbane. Sono quindi strategie che affermano anche un determinato modello di governo, contestualmente a un diverso modello di accumulazione. In altri tempi, questo tipo di strategia sarebbe stata definita riformista, ma oggi sarebbe definita – specie in Italia – con pseudo-concetti quali ideologica o massimalista, circostanza che dà la misura di come si sia ristretto il campo delle opzioni politiche percepite come politicamente accettabili. Mentre, a essere definito riformista, è bizzarramente la scelta della passività politica di fronte al dispiegarsi delle logiche del capitale, piccolo, medio e grande che sia. IL POST-EXPO. MODELLI DI ACCUMULAZIONE E MODELLI DI GOVERNO A Milano, il significato del post-Expo – spesso presentato quale spartiacque delle magnifiche e progressive sorti del ciclo immobiliare ascendente – risiede piuttosto nel suo costituire la giuntura critica nella quale si è risolutamente scartata l’ipotesi di un modello di governo riformista (nell’accezione che ne ho dato sopra).  In quel frangente critico, la città – e la classe dirigente che la governava – poteva prendere strade diverse, e scelse quella che più chiaramente riconosceva l’egemonia del capitale finanziario e immobiliare vedendovi il principale fattore di sviluppo e governo della città. Ma tale egemonia aveva necessità di un modello di governo sempre più verticale e sempre più latamente tecnocratico, e facente leva da una parte su network sempre più sofisticati di attori privati, e dall’altra su una crescente tecnicizzazione degli stessi esecutivi politici. Tecnicizzazione che ha raggiunto il suo apice nel corso di questo mandato consiliare, ma che era stata già avviata in modo deciso con l’elezione di Giuseppe Sala (a suo modo un «tecnico». Questo avveniva peraltro in un contesto nel quale negli anni precedenti l’enfasi francamente liberista sul mercato e la sussidiarietà, espressione di una destra molto coesa e culturalmente attrezzata quale quella lombarda degli anni Novanta e Duemila, aveva già devoluto quote crescenti di decisioni e politiche ad attori economici professionalmente assistiti.  In questo quadro, il salto di scala – sia nazionalizzazione sia internazionalizzazione – del capitale coinvolto in operazioni immobiliari a Milano ha condotto alla formazione di attori e network con capacità organizzative e competenze largamente superiori a quelle degli attori pubblici che, nel frattempo, né si rafforzavano né si innovavano. La massa enorme di investimenti arrivata a Milano, nel solco delle politiche di sostanziale dumping promosse sia a livello cittadino sia regionale, ha così largamente ecceduto la capacità dell’amministrazione comunale di trattarli. Ed è parso naturale che una parte crescente di questi fosse devoluta – attraverso l’espansione e diversificazione di strumenti di partenariato pubblico-privato – a dei meccanismi di pressoché totale esternalizzazione e automazione decisionale, che hanno contribuito all’ulteriore svuotamente dei poteri delle istituzioni locali.  Tale svuotamento ha contribuito a indebolire la legittimità e necessità di attori collettivi, a partire dai partiti: se gli oggetti che dovrebbe trattare, avendo devoluto una quota crescente di decisioni all’esterno, si assottigliano e restringono, la politica non dispone più di una funzione chiara e in particolare della sua funzione «istituente». Il sempre più largo ricorso a funzionari o professionisti senza partito nelle amministrazioni, circostanza apparentemente paradossale in presenza di un partito di maggioranza reputato forte e radicato (a Milano), è stata una manifestazione potente di queste evoluzioni. Inserendo tecnici, professionisti ed esperti di ogni tipo – che, diversamente dalla retorica che li disincarna, sono assai incarnati in legittimi sistemi di potere – gli esecutivi politici acquisiscono non solo degli individui competenti ma anche dei network di relazione e il capitale politico che ne deriva, che come evidente non deriva dall’attività politica ma da altri tipi di attività.  Nella microfisica degli interessi questi network e capitali diventano forze potenti, molto difficili da scalfire, specie se la politica le cede il posto e se nel resto della società vi sono pochi attori e processi che ne contendano il potere. Il dato forse più rilevante nelle vicende di Milano è la scomparsa degli attori politici organizzati e della loro capacità di intervenire in modo strutturato, organizzando l’opinione e la società da una parte e dando una forma accettabile agli interessi dall’altra, nel disegno delle politiche della città. A essersi manifestata è una forma di autopoiesi della società civile, nella versione liberista che abbiamo imparato a conoscere.  LA PARTECIPAZIONE DEBOLE   Questo processo, combinato con la crescente complessificazione e oscurità dei meccanismi e degli strumenti delle politiche pubbliche, contribuiscono peraltro a  una progressiva alienazione dell’opinione pubblica – e di certi ceti e gruppi sociali in particolare – dalle scelte urbane. Tutto questo può accadere mentre le stesse amministrazioni, anche a causa dell’indebolimento degli attori politici tradizionali, investono su politiche partecipative di cui tuttavia fanno un uso molto selettivo e strategico. Amministrazioni che possiamo considerare progressiste o municipaliste promuoveranno meccanismi di partecipazione proprio sulle poste in gioco più rilevanti, e nelle quali la riproduzione del potere dei network esistenti è particolarmente potente. Governi urbani che progressisti invece non lo sono, viceversa, apriranno questi canali su poste in gioco di minore rilevanza per l’economia politica delle città e per le quali i citati network sono scarsamente rilevanti e strutturati e quindi politicamente non molto contesi. In questa diarchia, in fondo, sta la natura insorgente o non insorgente del governo urbano, che per l’appunto risiede nell’aprire o viceversa chiudere campi e network degli attori urbani.  A Milano, nonostante il cambio politico del 2011 fosse stato espressione di una significativa mobilitazione popolare, è stata scelta la seconda strada, con politiche latamente partecipative che hanno riguardato non la posta in gioco principale (l’urbanistica, il modello di sviluppo e di accumulazione della città) bensì oggetti meno rilevanti (ad esempio, alcuni spazi pubblici) e che hanno coinvolto prevalentemente i ceti medi e superiori.  All’origine delle inchieste, oltre a mobilitazioni di comitati territoriali, vi sono state anche forme di mobilitazione di singoli proprietari che hanno visto negli interventi di densificazione edilizia una minaccia per il godimento dei loro diritti di proprietà e della qualità della vità in conflitto con i diritti di proprietà di chi sarebbe andato a vivere in quegli interventi. Certo, ci sono stati gli studenti con il loro accampamento per il diritto all’abitare, nonché l’emergere di nuovi attori e mobilitazioni sulla casa che non hanno precedenti recenti, tuttavia il campo degli attori in campo appare piuttosto limitato. Quindi, la domanda fondamentale che occorre farsi è quali siano i gruppi sociali e gli interessi di cui, in negativo, si nota l’assenza in tutta la questione Milano. E non sono i cittadini, genericamente intesi. Sono soprattutto alcuni gruppi sociali – i nuovi ceti popolari, nella loro varietà e articolazione – i cui livelli di partecipazione al governo urbano sono giunti a Milano al punto più basso dal 1945 a oggi. Non è sempre stato così, e non è un destino. Ma per fare in modo che non lo sia serve un lavoro sociale e politico di grande cura e di lungo periodo. E da cui dipende la possibilità che il governo delle città assuma caratteri insorgenti e non quelli tecnocratici. Il tema dell’abitare e del governo dei processi urbani in generale rappresenta un terreno di mobilitazione e partecipazione molto difficile a cui tuttavia va riconosciuto, oggi più che mai, inevitabile centralità. *Alessandro Coppola insegna pianificazione e politiche urbane presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. L'articolo Il modello Milano, oltre le inchieste proviene da Jacobin Italia.
Più lavoro e austerità per la Francia
Articolo di Harrison Stetler Il governo di François Bayrou riuscirà a superare il 2025? Il primo ministro francese sembrava dubitarne il 15 luglio scorso, quando con un discorso di fuoco e fiamme ha illustrato i suoi piani per un rigoroso bilancio di austerità per il 2026. Parlando martedì scorso da una tribuna intitolata Il momento della verità, Bayrou ha chiesto al parlamento francese, rimasto in stallo, di adottare un pacchetto di tagli alla spesa e aumenti delle entrate. Vuole persino eliminare due festività nazionali nel tentativo di far «lavorare di più» i francesi. Quando sarà in discussione in autunno, si prevede che questo piano deciderà il destino della carica di primo ministro di Bayrou, e aumentano le speculazioni su un possibile scioglimento dell’Assemblea nazionale – con conseguenti nuove elezioni – in caso di sconfitta. Ogni componente dell’Assemblea nazionale ha qualcosa da ridire sul progetto di bilancio di Bayrou, che si tratti di piccole intrusioni nelle linee rosse imposte dalla destra in materia di aumenti fiscali, o dei ben più drastici attacchi ai servizi pubblici e alle prestazioni sociali che la sinistra si è impegnata a bloccare. Con l’obiettivo di 40 miliardi di euro di risparmi netti per il prossimo anno fiscale, l’impulso principale del quadro di bilancio di Bayrou è quello di placare le preoccupazioni dei mercati del debito e delle istituzioni europee sulle finanze dello Stato francese. Secondo Bayrou, la Francia è con le spalle al muro. «Siamo diventati dipendenti dalla spesa pubblica», ha avvertito il primo ministro, definendo debito e deficit una «maledizione» per la società francese. Secondo lo scenario apocalittico che ha disegnato, la Francia, seconda economia dell’Eurozona, si trova ora sul ciglio di una spirale debitoria in stile greco che potrebbe presto portare alla subordinazione del paese a istituzioni finanziarie esterne. «Ogni secondo che passa, la Francia si accolla altri 5.000 euro di debito – ha detto il premier al consesso di giornalisti, deputati e funzionari governativi che hanno assistito al suo discorso – Non abbiamo altra scelta che assumerci le nostre responsabilità, poiché questa è l’ultima tappa prima del baratro». Si stima che nel 2025 il debito francese costerà oltre 55 miliardi di euro. Questa cifra è raddoppiata dal 2020, a causa dell’aumento dei tassi dei titoli di Stato francesi e dell’impennata della spesa pubblica durante la crisi del Covid-19 e del costo della vita. Il pagamento degli interessi ammonta a quasi il 10% del bilancio statale. TAGLI ALLA SPESA L’obiettivo dichiarato di Bayrou è di portare il rapporto deficit/Pil della Francia al 4,6% entro la fine del 2026, in calo rispetto al 5,8% registrato all’inizio del 2025. Si tratta comunque di un livello ben al di sopra dell’obiettivo di deficit del 3% previsto dalle regole di bilancio dell’Unione europea. Tuttavia, con l’attività economica in calo a causa delle forti turbolenze globali, vi è un rischio considerevole che un ridimensionamento della spesa pubblica possa di fatto aggravare la situazione economica del paese. Il fulcro del piano di Bayrou è una significativa riduzione della spesa pubblica, per un totale di circa 28 miliardi di euro sui 43,8 miliardi di euro di risparmi totali. Gli enti locali sono chiamati a effettuare tagli di bilancio per 5,3 miliardi di euro. Per limitare il numero totale di dipendenti pubblici impiegati dallo Stato, Bayrou auspica una graduale eliminazione di molti incarichi governativi, con un funzionario in pensione su tre non sostituito da nuove assunzioni. I pensionati e i percettori di sussidi sono particolarmente colpiti. La quota maggiore di risparmi proviene dal congelamento della spesa automatica sotto forma di erogazioni di sussidi e pensioni. Pur evitando di imporre tasse speciali ai pensionati più ricchi, il piano di Bayrou prevede un congelamento di un anno dell’adeguamento all’inflazione per tali sussidi, che dovrebbe ammontare a poco più di 7 miliardi di euro di risparmi. Non tutte le voci del bilancio statale sono destinate a essere ridotte il prossimo anno. Su espressa richiesta del presidente Emmanuel Macron, le linee guida del bilancio di Bayrou prevedono un aumento di 3,5 miliardi di euro per il Ministero della Difesa, con un ulteriore aumento di 3 miliardi di euro previsto nel 2027. Quando Macron è entrato in carica nel 2017, il bilancio della Difesa ammontava a 32 miliardi di euro. Oggi supera i 50 miliardi di euro e si prevede che salirà a 64 miliardi di euro entro il 2030. L’aumento della spesa per la difesa del prossimo anno sarà più che compensato dai 4,2 miliardi di euro di entrate statali che si stima deriveranno dalla cancellazione di due festività nazionali: il lunedì di Pasqua e la festa della Vittoria in Europa dell’8 maggio. Attaccato sia dalla sinistra che dall’estrema destra, Bayrou sta spacciando la mossa come un tentativo di «riconciliare i francesi con il lavoro». In questo modo, alimenta la falsa narrazione secondo cui il francese medio lavora considerevolmente meno dei suoi coetanei europei. Un lavoratore francese occupato lavorerà infatti cento ore in più in un dato anno rispetto al suo omologo tedesco, secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse). Con undici giorni festivi, la Francia è già al di sotto della media dell’Unione europea. Linee rosse Inchiodato dall’ossessione di non aumentare le tasse della sua coalizione centrista-conservatrice, Bayrou è stato cauto nell’evitare qualsiasi cosa che potesse ricordare una nuova tassazione. Le sue proposte per nuove entrate vedrebbero la fine di alcune scappatoie, congelando allo stesso modo le modifiche per l’adeguamento all’inflazione nel calcolo delle aliquote fiscali. In totale, si stima che le misure di entrata dovrebbero fruttare poco meno di 16 miliardi di euro. Eppure, anche questi modesti aggiustamenti hanno suscitato lamentele da parte di figure chiave della coalizione di Bayrou. Laurent Wauquiez, leader del partito di centro-destra Républicains all’Assemblea nazionale e tecnicamente alleato di Bayrou, chiede un bilancio 2026 che trarrebbe «il 100%» dei risparmi dai tagli alla spesa. L’elemento più importante del progetto di bilancio di Bayrou è ciò che non include. La destra e il centro spesso si lamentano del fatto che, tra i paesi Ocse, la Francia attinga alla quota più elevata del reddito nazionale sotto forma di entrate fiscali o contributi previdenziali. Eppure, questo è di per sé indicativo di un certo esaurimento del modello di tassazione e spesa alla base dello stato sociale del secondo dopoguerra, e del fatto che le vere riserve di ricchezza e reddito non vengano tassate. A giugno, il Senato ha bocciato una proposta di buon senso volta a tassare i patrimoni più consistenti del Paese. La cosiddetta «tassa Zucman», dal nome dell’economista francese Gabriel Zucman, avrebbe stabilito un’imposta del 2% sui patrimoni di valore superiore a 100 milioni di euro. La misura era stata approvata quest’inverno: grazie all’astensione del Rassemblement national di estrema destra e dei suoi alleati, il Nouveau front populaire di sinistra è riuscito a superare numericamente la coalizione di governo di Bayrou. Contando su appena milleottocento famiglie, si stimava che la tassa Zucman avrebbe generato circa 20 miliardi di euro di entrate annue. Il Senato ha bloccato l’iniziativa. OPPOSIZIONE O STABILITÀ? Tutto è pronto perché il bilancio di Bayrou incontri una forte resistenza quando verrà discusso in autunno, dopo la pausa estiva. Senza la maggioranza all’Assemblea nazionale, il premier dovrà quasi certamente ricorrere a uno speciale potere costituzionale, il famigerato articolo 49.3, nella speranza di aggirare un voto di sfiducia. Farlo, tuttavia, esporrebbe il suo governo a un voto di sfiducia potenzialmente fatale. Lo scorso dicembre, il predecessore di Bayrou, Michel Barnier, è stato destituito durante un voto di bilancio simile, avendo proposto analoghi blocchi delle erogazioni pensionistiche che avevano spinto il Rassemblement national ad appoggiare la mozione di sfiducia del Nfp. Settimane dopo, all’inizio di febbraio, l’estrema destra e il Partito socialista di centrosinistra si sono astenuti dal voto di sfiducia sul bilancio 2025 rielaborato da Bayrou. Per ora, i vertici di entrambi gli schieramenti stanno cercando di coltivare un’ambiguità strategica prima che la battaglia per il bilancio 2026 si intensifichi davvero. Il Rassemblement national rimane bloccato dalla necessità sia di apparire come una forza di opposizione, sia di evitare di alienare coloro che nel mondo aziendale anelano alla stabilità. A questa tensione si aggiunge la rabbia per la condanna per appropriazione indebita della leader di lunga data Marine Le Pen, avvenuta all’inizio di questa primavera, che allo stato attuale le impedirebbe di candidarsi alla carica per cinque anni. Questa sentenza potrebbe spingere il suo partito alla cautela, per timore di provocare uno scioglimento e elezioni anticipate che potrebbero seguire il crollo del governo Bayrou. Oppure potrebbe incoraggiare il partito a impegnarsi per aggravare la crisi francese, per rimettere insieme i pezzi in seguito. Più in generale, la leadership di estrema destra sta criticando duramente una legge di bilancio che, a suo dire, non fa abbastanza per ridurre la spesa sociale per la popolazione immigrata in Francia. «Se François Bayrou non cambia la sua legge di bilancio, voteremo la sfiducia», ha scritto Le Pen su X poco dopo il discorso del premier di martedì. Se questa volta il Rassemblement national si rivoltasse contro Bayrou, la sua ultima linea di difesa sarebbe il Parti Socialiste. Eppure, nelle ultime settimane, questa forza di centro-sinistra ha virato di nuovo verso l’opposizione, dopo il fallimento del conclave sulla riforma delle pensioni di Bayrou. Queste discussioni erano state organizzate in nome della revisione della bozza del controverso aumento dell’età pensionabile di Macron per il 2023, ma si sono presto arenate. La speranza di Bayrou ora è che le sue piccole modifiche alle scappatoie fiscali e un eccezionale contributo di «solidarietà» da parte dei redditi più alti siano sufficienti ad attirare il Partito socialista dalla sua parte. Tuttavia, il leader del partito, Olivier Faure, ha cercato di moderare queste aspettative. «Allo stato attuale, l’unico esito possibile è un voto di sfiducia», ha dichiarato Faure. Forse anche gli alleati di Bayrou sono tentati di gettare la spugna. Il premier si ritrova al minimo storico dei consensi. Nel frattempo, mentre la presidenza di Macron entra nel suo crepuscolo, i partiti della coalizione di Bayrou si contendono una posizione nella battaglia per la successione. C’è poca disciplina tra i partiti di centro in lotta. Circa il 59% dei francesi vorrebbe un nuovo primo ministro, secondo un sondaggio Ipsos pubblicato il 18 luglio. Al momento, il 44% considera un nuovo scioglimento e elezioni anticipate come la via d’uscita migliore dall’impasse. *Harrison Stetler è un insegnante e giornalista freelance. Lavora a Parigi. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Più lavoro e austerità per la Francia proviene da Jacobin Italia.
Pastasciutta e libri, antifascisti
Articolo di Luca Casarotti Oggi in tutt’Italia si ripete il gesto di festa della famiglia Cervi per la caduta del Crapa pelada, del Pasta e fagioli, del (non ancora, ma entro un paio d’anni) Salmone. Su queste stesse pagine Carlo Greppi ha ragionato del perché la tradizione della pastasciutta antifascista sia così viva (e qui tradizione s’intende per una volta in senso proprio e non abusivo). Qualcuno obietterà che c’è un paradosso: della pastasciutta originaria ci manca, direbbe un Aristotele antifascista, la causa finale. Che caduta possiamo mai festeggiare noi oggi, nel 2025, in tempo d’estrema destra governante e avanzante, dagli Usa a Israele, dal Giappone a mezz’Europa, isole e Penisola comprese? Ma l’antifAristotele risponderebbe prontamente:  > per intanto, la caduta del futuro Salmone di Predappio è stata la causa finale > della pastasciutta del ’43, ma non ci dimentichiamo che è la causa formale > anche del nostro pentolone odierno: senza quella, niente spaghetti a > Gattatico, e quindi niente ripetizione posteriore della prima festa. Ma anche dopo che l’antifAristotele ci ha obbligato a ripassare la sua teoria della causalità, noi restiamo col dubbio. Cosa stiamo andando a festeggiare, di preciso? Stiamo solo rievocando l’inizio palese della fine del fascismo? Certo è questo un fatto che ben merita una festa: per sé, e per tutto ciò che n’è venuto. Ma certo è pure che, in questo tornante della storia e della nostra biografia collettiva, a contorno della pasta serviamo non solo la festa, ma anche una frustrazione cocente: e noi stiamo insieme attorno a un tavolo per non dovercela inghiottire da soli, davanti a uno schermo o negli altri modi più o meno tossici in cui facciamo finta di non essere da soli.  In realtà quest’articolo non doveva parlare della pastasciutta antifascista. Doveva parlare di cosa sarebbe bene fare per non cedere del tutto al modus vivendi della frustrazione, e di libri che sostengono questo sforzo: ci arriviamo, fidatevi.  È fuor di dubbio che il leviatano di neodestra (o di destra alternativa, o quale che sia il nome della reazione contemporanea) è particolarmente antiumano e fa paura. Altrettanto indubbio è che, anche solo al livello della speranza o dell’utopia, chiunque gli si opponga ne cerca un qualche punto debole in cui attaccarlo. Un primo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti il sopra-o-sotto-valutare le forze nemiche, che appariranno dunque imbattibili nel primo caso o effimere nel secondo. Discusso, invece, è quanto peso abbia la cultura nell’apprezzamento della strategia nemica, e di conseguenza nell’ipotizzare la strategia controffensiva. Se il fascismo avesse o meno una cultura è stata a lungo in Italia una questione aperta, per ragioni molteplici. Ha pesato il giudizio di Benedetto Croce, che come tutte le posizioni crociane ha orientato in un modo o in un altro la cultura italiana novecentesca; hanno pesato le letture troppo schematiche del rapporto tra struttura economica e sovrastruttura culturale, che rischiano sempre di ridurre l’incidenza reciproca tra le due all’azione unilaterale della struttura sulla sovrastruttura, e quindi di concepire una politica culturale non all’altezza della cultura. E poi ha pesato, com’è giusto che sia, anche un motivo retorico: è stato giusto che la propaganda antifascista abbia screditato il fascismo negando tra l’altro la consistenza della sua cultura. Giusto, a patto di riconoscere questo come appunto un motivo della contesa politica, e non come un presupposto storiografico: i due domini, della politica e della storiografia, spesso s’intrecciano, e gli intrecci bisogna saperli riconoscere anche dove si celano, ma restano comunque domini distinti. Un secondo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti l’integralismo della politica, cioè la pretesa sloganistica che tutto sia politico. Pretesa a cui corrisponde l’incomprensione della (o la fuga dalla) politique politicienne, con il rischio d’esserne gabbati o inconsapevolmente fagocitati. A furia di dire che tutto è politica, sembra che solo la politica non lo sia. Dicevamo del trattamento che la cultura di destra riceve a sinistra. Non è per caso che l’indagine più originale in proposito sia venuta da uno studioso sui generis, il Furio Jesi che i cultura-di-destrologi, incluso chi scrive, non mancano mai di citare: da buon intellettuale torinese, Jesi cresce nell’ambiente fervido e di sana intransigenza antifascista che è il post-azionismo della sua città: l’ambiente dei Bobbio e dei Galante Garrone. Entra quindi nella redazione di Resistenza, il periodico dell’associazione Giustizia e libertà. Ma poi rompe con GL, quando l’associazione rimprovera alla redazione la linea innovativa impressa al giornale: istruttivo, (intendo istruttivo anche per noi, riguardo a due modi non ancora pacificati d’intendere l’antifascismo) è l’articoletto che redattrici e redattori della nuova Resistenza pubblicano su Belfagor per dar conto della frattura.  Sta di fatto che sono la dottrina onnivora di Jesi e quest’eterodossia rispetto alla generazione d’antifascisti precedente a consentirgli di eleggere l’indagine sulla cultura di destra a tema sia della sua ricerca sia della sua militanza. Non è nemmeno un caso se gli studi alla Jesi abbiano avuto pochi epigoni. Un po’ è per via dell’originalità dell’autore, che è un’originalità vera, cioè difficile da eguagliare se non per imitazione. Ciò non significa, dato che effettivamente ne sono stati scritti, che non siano stati scritti libri fondamentali sull’evoluzione della destra tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Un po’ però è anche per via dell’oggetto stesso d’indagine: la cultura di destra non è per niente retrocessa, né ha trascurato d’intonarsi ai media che la diffondono. Ma resta al fondo, in quell’area, una certa fissità del canone d’idee-forza, parole d’ordine, autori e testi di riferimento. Un conto è ritenere, erroneamente, che il fascismo e ciò che n’è disceso non abbiano una cultura, e dunque che non valga la pena occuparsene. Altro conto è ritenere, a ragione, che la cultura fascista sia esigua. Il che non esime dallo studiarla. E se forse ancora manca un lavoro che dissezioni la fase reazionaria attuale con la stessa risolutezza e ambizione teorica di Cultura di destra (ma la cultura di destra non offre molte occasioni per scriverne di nuovi, data la ripetitività di cui dicevamo), senz’altro non mancano i contributi che fanno buon uso dello strumentario fornito da Jesi per studiare qualcuno dei suoi volti. Giuliano Santoro e Wu Ming 1, ad esempio, lo hanno fatto quando hanno demistificato la serie di luoghi comuni implicati dall’enunciato «né di destra né di sinistra»; Leonardo Bianchi quando ha osservato il populismo di destra della seconda metà del decennio scorso; di nuovo Leonardo Bianchi e di nuovo, più esplicitamente, Wu Ming 1 quando hanno scritto del cospirazionismo di QAnon e di altri fenomeni paragonabili; e altri esempi ancora si potrebbero fare. L’ultimo libro di Valerio Renzi, Le radici profonde. La destra italiana e la questione culturale (Fandango, 2025), non si rifà direttamente a Jesi, non lo cita mai, anche se per certi versi lo presuppone. Non per lo stile, affatto diverso dal conoscere per citazioni che Jesi, evocando Walter Benjamin, rivendicava a sua cifra, e dagli esiti vertiginosi a cui conduceva quello stile. In comune, con la saggistica di Jesi e con altri libri d’intellettuali militanti che hanno affrontato il tema, questo lavoro ha invece almeno due intenti: confrontare le statuizioni teoriche dell’estrema destra con gli esiti pratici della sua azione culturale, e concepire l’inchiesta sulla destra insieme come un esercizio di professione e di militanza («giornalista e attivista» sono i due predicati con cui Renzi si qualifica). A riprova della fissità e ristrettezza della cultura d’area, già Jesi, che scriveva alla fine degli anni Settanta, si era soffermato su alcuni dei testi che anche Valerio Renzi opportunamente oggi prende a campione per illustrare gli orientamenti teorici della destra radicale: Orientamenti, per inciso, è il titolo di un opuscolo di Julius Evola, spesso ripetuto nei nomi dei centri studi neofascisti e nella loro pubblicistica. Un esempio sono gli scritti di Adriano Romualdi, del quale Jesi con impeccabile spietatezza rilevava, oltre al filonazismo patente, anche il più latente suo vezzo piccolo borghese, da intellettualino salottiero. Jesi ci presentava il Romualdi editore e apologeta delle SS, pure piuttosto maldestro nell’apologia; Renzi ce lo presenta, e le due facce naturalmente si coimplicano, come divulgatore Evoliano e come uno dei primi a mettere in questione la linea culturale del Movimento sociale italiano. Romualdi, tra l’altro protagonista di una delle svariate aggressioni fasciste a Pier Paolo Pasolini,  muore nel 1973. Poi, in fine di quel decennio, sarebbe venuta la generazione dei Marco Tarchi e dei Campi Hobbit, a contestare la dirigenza missina e a importare dalla Francia le indicazioni strategiche di Alain de Benoist e del gruppo che a lui fa capo, il Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne (acronimo Grece, a proposito di manipolazione del mito: il francese per Grecia differisce solo nell’accentazione). Di qui lo scontro tra gl’intellettuali d’area che Renzi ben ricostruisce, sulla nostalgia del fascismo come mito incapacitante. Chissà se Marcello Pera, quando da presidente del Senato ha detto lo stesso dell’antifascismo, che appunto è un mito incapacitante, ha voluto usare di proposito la medesima espressione. Proprio l’accresciuta influenza di Benoist tra i riferimenti teorici d’estrema destra è l’aggiornamento più sostanzioso rispetto al tempo della mappatura di Jesi. Un’influenza cresciuta fino allo sdoganamento della sua presenza nel dibattito generalista: prima nella Francia degli anni Ottanta, complici Le Figaro e pure l’Académie Française; poi nell’Italia meloniana, dov’è stato ospite d’onore al Salone del libro; e negli Usa trumpiani, dov’è tra i maestri di pensiero dell’estrema destra, non diversamente da quel che succede al di qua dell’Atlantico. Un aggiornamento, rispetto alla precedente linea Spengler-Evola-Eliade, che è però più di nomi e modi di fare reclutamento che di pensiero: viene da Benoist e dai suoi la parola magica «metapolitica», che sta sulla bocca e nella penna d’ogni militante formato sul manuale del buon militante estremadestro, come quello scritto dall’ideologo di Casaggì e Azione studentesca Marco Scatarzi, Essere comunità, che Valerio Renzi esamina nel suo libro. Precisamente da questa linea, la linea del pensiero antiegualitario che da Spengler a Benoist giunge ai loro ripetitori per uso di partito (alla Scatarzi o, su altri lidi, alla Gabriele Adinolfi), deriva il differenzialismo che Renzi giustamente riconosce a tratto più marcato anche dell’odierna cultura di destra, governativa e non. Differenzialismo, cioè diversità inconciliabile, tra sessi, etnie, culture. L’opposto dell’uguaglianza, che ha nel suo fine il superamento della separazione. Il differenzialismo è davvero il tratto che dalle statuizioni teoriche si mantiene nella concreta pratica di governo della destra italiana:  le Indicazioni Valditara, nei limiti consentiti dal burocratese che conviene a un documento ministeriale (anzi, persino oltre la misura imposta dal tipo di testo), sono l’espressione programmatica di questa linea di condotta. E lo scazzo Giuli / Galli della Loggia il rivelatore contraltare comico. Per il resto, non si può fare a meno di notare che alla magniloquenza dei teorici d’area corrisponde un’arte del governo ben più triviale, ma non meno repressiva. Lo iato più vistoso, Mimmo Cangiano ci insiste molto, è tra il ribellismo antisistema vagheggiato dalla fazione spiritualista della destra e il modo in cui questa, quando diventa fazione di governo, si accomoda docilmente sotto l’ala del capitale. Ma è nel costume, o se vogliamo nello spazio delle guerre culturali, che la cultura di destra italiana si mostra retrograda in tutta evidenza. Retrograda anche rispetto al nazionalpopolare, tanto da sdegnarsi delle labbra di Rosa Chemical su quelle di Fedez nel sabato sera più visto di Raiuno. E Valerio Renzi, che coglie il suggerimento, intitola «contro Sanremo» il capitolo in cui discute del versante oscurantista dell’evo post-berlusconiano. Sì, ma perché vi ho parlato di spaghetti e di libri? Che c’entrano?  Vi potrei dire che il libro di Valerio Renzi mi è molto piaciuto: è una messa a punto esaustiva e comprensibile per i non addetti ai lavori, e un buon corso di aggiornamento per gli addetti (o un ripasso per i più secchioni). Quindi volevo parlarne. Siccome però volevo parlare anche di cose come il senso di solitudine e di frustrazione nella militanza, che almeno a me capita sempre più spesso di avvertire, ne ho approfittato per prendere due piccioni-argomenti con una fava-articolo. Ma c’è un motivo più serio dell’ego scrivente. Io sono tra coloro che pensano che la cultura di destra va studiata. È chiaro che c’è un rischio: dedicare tempo allo studio dell’avversario sottrae tempo a noi, al lavoro politico per la nostra parte, a mettere a punto una risposta che non dipenda dalla strategia altrui. Addirittura, perché succede anche questo, continuando a studiare l’avversario si potrebbe finire a subirne la fascinazione. Tuttavia resta decisivo un fatto, che è verificato dall’antifascismo storico, quello che oggi ci fa mettere sul fuoco il pentolone di spaghetti. Noi capiamo cosa vogliamo e per cosa lottiamo, a patto che ci sia chiaro, di una chiarezza sia razionale sia emotiva, cosa ci fa ritenere l’avversario un avversario. Prendiamo la mistica del martirio, del sacrificio per l’ideale quando tutto è perduto. Che ci sia del fascino nel suo retaggio romantico è difficile negare. Ma noi sappiamo che l’immagine dell’uomo tra le rovine, custode sopravvissuto della causa sconfitta, è la scena madre dell’esistenzialismo fascista dopo il ’45. Sappiamo che quell’immagine riesce consolatoria ai fascisti: sia perché, da fascisti, credono nella gerarchia ontologica tra gli uomini, sia perché dà loro un senso all’emarginazione in cui la sconfitta li ha relegati. Sappiamo, infine, quali propositi si siano ingenerati, nell’Italia del secondo Novecento, tra i devoti di quella mistica. Ragione per la quale dovremmo evitare d’accogliere con leggerezza l’esaltazione del bel gesto simbolico, o peggio del sacrificio martire (quasi sempre altrui). Un terzo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti l’estetica virilistica e velleitaria dello scontro per lo scontro, quando a essa corrisponde l’assoluta incapacità di sostenere il manifestarsi del conflitto reale. *Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki, è autore di L’antifascismo e il suo contrario (Alegre, 2023). L'articolo Pastasciutta e libri, antifascisti proviene da Jacobin Italia.
Revisionismo, controllo e militarizzazione
Articolo di Michele Lucivero Da diversi anni ormai l’insegnamento, derubricato semanticamente ad apprendimento, è entrato all’interno di una riflessione che apparentemente è ammantata di ragioni pedagogiche, ma in realtà risulta completamente asservita al mercato e a logiche neoliberiste che tendono a valorizzare la misurazione e la standardizzazione dei prodotti finali. Questa omologazione ideologica degli alunni e delle alunne è il risultato della messa a punto di un sottile dispositivo di controllo dell’educazione, di cui i docenti, nell’ubriacatura della novità didattica, pedagogica e tecnologica, finiscono per divenire complici, diventando mere esecutori materiali, valutatori di un processo di apprendimento scritto altrove e da altri soggetti, estranei alla crescita intellettuale che deve proliferare all’interno delle scuole e delle università.  Distratte e distratti dall’urgenza di rincorrere l’innovazione pedagogica e la tecnica didattica all’ultimo grido per rendere più accattivante e ammaliante l’oggetto dell’apprendimento e raggiungere la specifica competenza da certificare, gli e le insegnanti smarriscono il senso politico ed esistenziale del progetto educativo e vengono spinti ad abdicare alla consapevolezza di essere soggetti fondamentali nel passaggio dei ragazzi e delle ragazze alla vita adulta, come mostra in maniera magistrale Gert J.J. Biesta nel suo Riscoprire l’insegnamento. E proprio in questo vuoto progettuale dallo slancio utopistico, quale dovrebbe essere il fine e, al tempo stesso, la postura della professione docente, si è insinuato nella scuola in maniera beffarda un programma di addestramento che ha delle profonde analogie con retaggi del passato, con circostanze che in Italia, e anche altrove, abbiamo già vissuto e che come uno spettro preoccupante ritorna sotto spoglie nuove e anche piuttosto evidenti. Che la scuola pubblica sia sotto attacco è un’evidenza empirica che non ha bisogno di essere dimostrata. Per capirlo basterebbe solo passare in rassegna le pseudoriforme degli ultimi 25 anni, tutte orientate a trasformare la scuola nell’avamposto ideologico del neoliberismo, svenduta, sia nella semantica quotidiana, tra crediti, debiti, prodotti finali e meriti, sia nella gestione affaristica dirigenziale, alla quadruplice radice del principio di ragione capitalistica che si concretizza nei settori farmaceutico, digitale, energetico e militare. Tuttavia, negli ultimi anni in Italia il dispositivo di controllo all’interno della scuola pubblica è andato incontro a un’accelerazione, una vera e propria ingerenza sistematica e asfissiante, tesa, da un lato, a far passare una linea ideologica ben determinata a uso e consumo del personale più accondiscendente e ligio, addestrandolo a dovere, dall’altro, a intimidire e sanzionare chi mostrava capacità critiche e intolleranza alle pressioni governative, mettendolo a tacere. Da docenti sensibili e attenti alla direzione intrapresa dalla scuola pubblica abbiamo potuto constatare sin dall’ottobre del 2022 l’abitudine a utilizzare una strana e pressante comunicazione tra centro e periferia, tra Ministero dell’Istruzione e del Merito e singole istituzioni scolastiche. Si tratta di una comunicazione unidirezionale fatta di lettere e missive che invitano di volta in volta a celebrare ricorrenze particolari, che indicano la direzione interpretativa di determinati periodi storici, che offrono surrettiziamente, infine, prospettive ideologiche sul ruolo della stessa scuola, esautorando di fatto il lavoro dei e delle docenti e inaugurando una fase alienante e psicotica che altrove abbiamo definito come regime di Psicoistruzione. Procedendo in ordine sparso nella disamina di questo stile epistolare adottato dal Ministero, potremmo citare l’istituzione e la riesumazione del Giorno della Libertà, ricordato agli studenti e alle studentesse con un’apposita lettera dallo stesso Giuseppe Valditara. Già istituito in Italia nel 2005 dal governo Berlusconi «quale ricorrenza dell’abbattimento del muro di Berlino, evento simbolo per la liberazione di Paesi oppressi e auspicio di democrazia per le popolazioni tuttora soggette al totalitarismo» (Art. 1, comma 1, Legge 15 aprile 2005, n. 61), il Giorno della Libertà era, di fatto, finito nel dimenticatoio, almeno fino all’avvento del nuovo governo di destra. In questa lettera di mezza paginetta il Ministro, mediante il ricorso a una didattica d’occasione fatta di date da segnare all’interno di un nuovo calendario civile, pretende di tracciare in maniera netta il confine tra libertà e oppressione, anche in questo caso legittimando come unico orizzonte possibile per la democrazia l’assetto neoliberista. Sarebbe questo l’unico ordine in grado di garantire libertà e giustizia, ma in tal modo viene giustificata l’azione disinvolta dei meccanismi capitalistici del XXI secolo, soprattutto rispetto al quadro dei valori liberali che essa afferma di voler tutelare.  Ora, al di là della continuità storica tra liberalismo e fascismo, che occorrerebbe ancora una volta richiamare alla memoria, varrebbe la pena qui rimandare alla versione più aggiornata di tale commistione, quella che si cela dietro La maschera democratica dell’oligarchia (Laterza 2014), citando Luciano Canfora e Gustavo Zagrebelsky. Per rendere palese il maldestro tentativo da parte del Governo e del Ministero dell’Istruzione e del Merito di controllare l’universo simbolico che si genera nelle scuole, operando, al tempo stesso, un sistematico revisionismo storico, si potrebbe far riferimento alle parole pronunciate dal Presidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa nel marzo 2023. In quella occasione La Russa riuscì a sostenere che l’episodio scatenante l’eccidio delle Fosse Ardeatine da parte dei tedeschi poteva essere sostanzialmente evitato dai partigiani, infatti: «È stata una pagina tutt’altro che nobile della Resistenza: quelli uccisi furono una banda musicale di semi-pensionati e non nazisti delle SS, sapendo benissimo il rischio di rappresaglia su cittadini romani».  Assistiamo ormai da diversi anni a questa urgenza di riscrivere, mistificandola, la storia italiana. Non si tratta di casi sporadici, ma vi è un attacco sistematico nei confronti di tutti quegli storici e quelle storiche che tentano di raccontare le pagine più buie della storia italiana. Appena si cerca di fare luce su alcuni eventi con dati, testimonianze, reperti e ricostruzioni accreditate con il metodo della ricerca storica, scatta l’intimidazione politica, la diffamazione a mezzo stampa.  E, purtroppo, di questo clima intimidatorio, che impedisce di svolgere in maniera critica il proprio lavoro, ne abbiamo fatto le spese personalmente, dal momento che abbiamo subito un’interrogazione parlamentare (qui i dettagli) per il solo fatto di aver invitato nella nostra scuola, il Liceo Scientifico Leonardo da Vinci di Bisceglie, lo storico Eric Gobetti a presentare il suo libro E allora le foibe?. E questa ossessione censoria nei confronti dei convegni in cui si tratta delle vicende del confine orientale si è abbattuta anche a Vicenza il 4 marzo 2023, quando è stata negata una sala comunale per lo svolgimento dell’incontro sulle Foibe, e a Orvieto il 14 febbraio 2023 in occasione del Convegno organizzato dal Cesp (Centro Studi per la Scuola Pubblica), in cui è intervenuta direttamente la sottosegretaria all’Istruzione Paola Frassinetti, che ha chiesto di annullare l’incontro con gli storici Alessandra Kersevan e Angelo Bitti, inducendo la dirigente dell’istituto in cui si sarebbe dovuto svolgere l’incontro a revocare la disponibilità della sala, costringendo gli organizzatori a cercare solo il giorno prima un’altra sede. Altrettanto preoccupanti sono i tentativi di intervenire direttamente da parte del Ministero dell’Istruzione e del Merito sulla manualistica scolastica. Abbiamo denunciato con preoccupazione e sgomento nel marzo del 2025 su Roars la grave ingerenza in un testo di Scienze sociali in lingua inglese in uso negli istituti professionali del gruppo Zanichelli (Revellino et al., Step into Social Studies, Clitt 2023). A pagina 95 le autrici avevano inserito una scheda con un riadattamento di un articolo della Ong Human Rights Watch sulla revisione operata dal decreto-legge 130/2020 del governo pentastellato Conte II sul decreto 113/2018 a firma di Salvini del governo precedente Conte I. La scheda, nonostante riportasse la fonte, non è piaciuta al Ministero, che «ha segnalato il caso» alla casa editrice e questa ha prontamente obbedito, ritirando tutte le copie in commercio, rimuovendo la scheda dalla versione online, sostituendo nel cartaceo il caso incriminato con il testo della legge 130/2020, «senza commenti di parte», e inviato a tutti i dirigenti delle scuole che avevano adottato il libro una lettera sottoscritta dalla Direttrice Generale (qui tutti i particolari della vicenda). Meno accondiscendenti sono stati, invece, gli autori, le autrici e l’editore di Trame del Tempo, il manuale di storia accusato nel maggio 2025 da parte della deputata di Fratelli d’Italia Augusta Montaruli di aver indebitamente attribuito una sorta di continuità tra il fascismo e il partito al governo, la cui direzione è affidata a Giorgia Meloni, cioè lo stesso partito al quale la deputata Montaruli, che chiede ispezioni e accertamenti presso l’Associazione italiana editori, appartiene. Se Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi, Carlo Greppi e Marco Meotto, storiche e storici di professione, autori e autrici del manuale, hanno preferito non intervenire nella polemica, in questo caso è stato direttamente l’editore, Alessandro Laterza, erede di una storica tradizione antifascista che ha in Benedetto Croce il suo antesignano, che non si è lasciato intimidire e ha dichiarato: «Senza ricamarci troppo: siamo nell’anticamera della censura e della violazione di non so quanti articoli della Costituzione», chiudendo in maniera epica la querelle con Augusta Montaruli. Eppure, e forse proprio per questo non piace al Governo, il manuale Trame del Tempo ci era risultato particolarmente gradito. Analizzando una quindicina di manuali per il triennio delle scuole secondarie di secondo grado in cerca di una narrazione storica che non fosse marcatamente colonialista e riflettesse in maniera critica il nostro passato, anche con riferimenti espliciti a Edward Said e all’orizzonte postcoloniale, proprio quello di Ciccopiedi, Colombi, Greppi e Meotto riportava un giudizio molto positivo. Ma, si sa, la direzione presa dal Ministero con le nuove Indicazioni Nazionali per il curricolo della Scuola dell’infanzia e Scuole del Primo ciclo di istruzione vira verso un arretramento interpretativo di marca chiaramente colonialista che, nonostante sia stato ampiamente criticato dalla Società Italiana di Didattica della Storia, potrebbe già aver intimorito qualche editore più attento all’aspetto economico piuttosto che a quello educativo. Tra revisionismo storico e militarizzazione dell’istruzione si colloca, invece, l’abitudine invalsa dal 2023 di celebrare in pompa magna il 4 novembre come la Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate, invitando nelle scuole a vario titolo Esercito, Carabinieri e Marina Militare oppure conducendo intere scolaresche all’interno delle caserme per svolgere cerimonie plateali di alzabandiera, intonazione dell’inno nazionale e altre manifestazioni piuttosto muscolari del ruolo e delle capacità delle Forze Armate. La celebrazione del 4 novembre è stata, di fatto, istituita con una legge approvata il 1° marzo 2023, affinché si celebri la «difesa della Patria», il «ruolo delle Forze Armate» e si facciano conoscere agli studenti alle studentesse le loro attività.  L’evidente propaganda militarista di tale celebrazione ha mobilitato studenti, studentesse, docenti, genitori e anche l’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università, che in un momento particolarmente critico per i nostri tempi, con una guerra mondiale alle porte e con l’innalzamento della spesa militare al 5% del Pil nazionale, hanno mostrato la loro totale indignazione sia per i dieci milioni di morti della Prima guerra mondiale, che il 4 novembre vorrebbe evocare, sia per le vittime di tutte le guerre e dei genocidi in corso. Ma il punto è che le celebrazioni ufficiali del 4 novembre fanno parte di un’insistente propaganda bellica che promana direttamente dalle istituzioni governative, che cerca di assuefarci all’idea che la guerra sia inevitabile, che i genocidi siano «difesa», che il riarmo e le spese militari siano necessarie per la sicurezza e che i giovani debbano arruolarsi per diventare dei soldati.  Un capitolo a parte costituisce il ricorso sistematico alla sanzione, espressione più alta del paradigma del controllo, del «sorvegliare e punire» foucaultiano, nei confronti di docenti che osano esprimere pubbliche critiche verso il Governo e i suoi apparati. Proprio in occasione della ricorrenza del 4 novembre la collega Elena Nonveiller, docente del Liceo Foscarini di Venezia, viene denunciata all’amministrazione dell’Istruzione per violazione del «codice di comportamento» dei dipendenti pubblici entrato in vigore nel 2023. La sua colpa sarebbe quella di aver scritto su Facebook «Frecce tricolori di me…a», in occasione dello show del reparto dell’Aeronautica Militare sui cieli del capoluogo veneto, una spettacolarizzazione militaresca pericolosa, costosissima e inquinante per la popolazione. Peggio è andata al collega Christian Raimo, sospeso per tre mesi dall’insegnamento, con una decurtazione del 50% dello stipendio, perché reo di aver criticato il Ministro Giuseppe Valditara durante un dibattito pubblico sulla scuola. Per tutte queste ragioni abbiamo ritenuto fondato parlare di segnali evidenti di un fascismo eterno, parafrasando l’espressione di Umberto Eco. Una forma di Ur-fascismo che si manifesta ciclicamente, con più o meno evidenza, in assoluta continuità con determinate fasi di crisi del capitalismo. Potremmo elencare in successione: il culto della tradizione, mediante l’ossessione occidentalista; il rifiuto della critica e il sospetto per la cultura, e su questi punti potremmo analizzare la fenomenologia dello spirito che parla attraverso gli ultimi due ministri della Cultura, Gennaro Sangiuliano e Alessandro Giuli; l’attacco al pacifismo cui fa seguito una cultura della morte, che è una cultura della guerra, portata fin dentro le scuole, le università e la società civile per cercare di normalizzarla, renderla familiare, accettabile e preparare le guerre di domani, facendo impennare le spese militari al 5%, quando le scuole e le università rimangono fatiscenti, insicure e impraticabili nei mesi estivi nelle zone più calde del paese.  La militarizzazione delle scuole e delle università, epifenomeno della fascistizzazione del nostro paese, risponde a un piano ben architettato dal Ministero della Difesa per aggredire i luoghi in cui sono presenti i giovani e fare arruolamento, come si può leggere nel Programma della Comunicazione del Ministero della Difesa del 2019 e in quello più aggiornato del 2025. A leggere questi documenti non si va molto lontano da quanto scriveva nel 1938 il prof. Eugenio Grillo in La cultura militare nelle scuole medie, un testo giuridico in cui si commentava il Regio decreto del 15 luglio 1938-XVI, n. 1249, recante Norme per l’insegnamento della Cultura Militare nelle scuole medie: «L’insegnamento della Cultura Militare nelle scuole ha scopo integrativo. È inteso, cioè, a concorrere alla preparazione del cittadino-soldato. Il compito affidato alla scuola civile in questo settore, la cui importanza diventa sempre più evidente, non è tanto quello di darci dei tecnici nel senso letterale della parola e neppure di creare dei professionisti, quanto quello eminentemente educativo di alimentare, rafforzare e rendere consapevole nei giovani lo spirito militare, che è oggi una delle loro caratteristiche migliori».  Insomma, messi tutti in fila, oggi come un secolo fa, i segni di una chiara fascistizzazione della società civile, a partire dalla scuola, sono piuttosto evidenti. Non vederli è il sintomo di una diffusa e colpevole indifferenza, di cui, però, come educatori ed educatrici, dovremmo mettere a parte gli studenti e le studentesse, giacché gli anticorpi della Resistenza vanno lentamente esaurendosi e si rischia di finire come le rane bollite. * Michele Lucivero è dottore di ricerca in Etica e antropologia. Storia e fondazione presso l’Università del Salento e insegna Filosofia e storia al liceo Da Vinci di Bisceglie. Giornalista pubblicista, cura il blog Agorà. La filosofia in Piazza ed è promotore dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. L'articolo Revisionismo, controllo e militarizzazione proviene da Jacobin Italia.
La lunga storia antisionista della sinistra ebraica
Articolo di Benjamin Balthaser La storica Karen Brodkin racconta che il socialismo era «egemonico» nella vita degli ebrei statunitensi prima della Guerra fredda. Non nel senso che ogni ebreo americano fosse socialista, ma piuttosto nel senso che una «visione operaia» e «anticapitalista» era una posizione politica familiare, persino dominante, degli ebrei statunitensi delle prime ondate di immigrazione ebraica di massa negli anni Ottanta dell’Ottocento e la Paura rossa della fine degli anni Quaranta del Novecento. Queste posizioni si materializzarono in organizzazioni comunitarie di ampia base, sindacati, pubblicazioni socialiste e partiti di sinistra fondati nelle comunità ebraiche o in organizzazioni non ebraiche con partecipazione ebraica su larga scala. L’International Ladies’ Garment Workers’ Union (Ilgwu) e l’Amalgamated Clothing Workers of America (Acwa) non solo si formarono con una schiacciante maggioranza di lavoratori ebrei, ma si svilupparono anche attraverso scioperi militanti e costruirono una cultura che andava ben oltre il luogo di lavoro, nelle sale da ballo, nelle cooperative edilizie e nelle pubblicazioni yiddish di sinistra. Il Partito socialista godeva di un sostegno pressoché ineguagliabile tra i lavoratori ebrei, con Eugene Debs che ricevette quasi il 40% dei voti ebrei nel 1920, rispetto a meno del 4% dei voti della popolazione generale. Victor Berger, compagno di corsa di Debs e uno dei politici socialisti più popolari negli Stati uniti, era ebreo, così come Meyer London, deputato che si definiva socialista. Uno dei grandi equivoci sulla consistente sinistra ebraica dell’inizio e della metà del XX secolo (un errore ripetuto da Brodkin tra gli altri) è che il socialismo ebraico americano fosse un’importazione dall’Europa orientale. L’affermazione piuttosto ragionevole di Brodkin, e in effetti ciò che ritengo sia di buon senso tra gli ebrei statunitensi e gli storici della sinistra, è che il socialismo ebraico sia nato dal crogiolo dell’antisemitismo zarista e di una Haskalah tardiva, alimentata da una classe operaia iper-istruita seppur sottoccupata. Se questo può essere vero per l’arrivo del Bund all’inizio del XX secolo, per l’emergere della sinistra ebraica statunitense di fine Ottocento, secondo lo storico Tony Michels, c’era poco socialismo ebraico da importare. Come sostiene Michels, il movimento operaio e socialista ebraico precede di due decenni i movimenti operaio e socialista dell’Europa orientale; «l’ebreo non è sempre stato radicale; l’ebreo era diventato radicale a New York e in altre città americane». In parte, suggerisce Michels, ciò è dovuto ai contatti degli ebrei con i lavoratori radicali tedeschi statunitensi, che portarono con sé testi dell’Oyfklerung del socialismo tedesco, tra cui quelli di Karl Marx, Friedrich Engels, Ferdinand Lassalle e Wilhelm Liebknecht. L’osservazione storica di Michels rappresenta una critica a un presupposto molto più diffuso, secondo cui il socialismo ebraico è un fenomeno monogenerazionale e che, dopo l’assimilazione, gli ebrei socialisti si sono trasformati in liberal. Niente di più lontano dalla verità: piuttosto, il movimento del socialismo ebraico dagli anni Ottanta dell’Ottocento agli anni Quaranta del Novecento fa pensare a una crescente radicalizzazione man mano che gli ebrei si assimilavano negli Stati uniti e si sentivano più a loro agio nel loro ambiente. In effetti, il movimento comunista degli anni Trenta e Quaranta fu, come osservò Michael Denning, un movimento di immigrati «etnici statunitensi» in gran parte di seconda e terza generazione, piuttosto che di arrivi più recenti. Il movimento comunista fu anche, per molti aspetti, il culmine della sinistra ebraica negli Stati uniti, con il Partito comunista che all’epoca contava in media quasi centomila iscritti, oltre la metà dei quali ebrei. Dato l’elevato turnover del partito, ciò avrebbe significato che centinaia di migliaia di ebrei statunitensi entrarono e uscirono dai ranghi dell’organizzazione. Tuttavia, la portata e la portata del Partito comunista statuitense andavano ben oltre i suoi iscritti, estendendosi ai numerosi sindacati affiliati, alle organizzazioni per i diritti civili, alle organizzazioni anti-imperialiste e pacifiste e alle organizzazioni culturali nell’orbita del partito. L’ala sinistra del Congress of Industrial Organizations (Cio), del National Negro Congress, dell’American League Against War and Fascism, del Civil Rights Congress, del Jewish People’s Fraternal Order e di altri gruppi fece sì che milioni di statunitensi fossero compagni di viaggio del Partito o membri attivi di organizzazioni ad esso collegate. Ciò seguì e contribuì a produrre il più grande riallineamento della politica di massa nella storia Usa: una coalizione di liberal bianchi, sindacati, organizzazioni per i diritti civili, persone non bianche ed ebrei statunitensi. L’alleanza è un fondamento così profondo della vita statunitense moderna che, se comincia a sgretolarsi, genera confusione. In altre parole, il momento culminante della sinistra ebraica Usa coincise con il senso comune della politica di sinistra e contribuì a crearlo. Il movimento comunista degli anni Trenta rivendicava lo slogan del Fronte Popolare, «Il comunismo è l’americanismo del XX secolo», ma molti storici del comunismo e della storia ebraica hanno notato che il movimento degli anni Trenta e Quaranta era tutt’altro che assimilazionista. Come scrive Brodkin, «gli operai ebrei non accettavano l’idea che un’identità ebraica fosse periferica rispetto ai loro interessi di classe operaia» come i socialisti ebrei di fine Ottocento e Novecento. Descrivendo lo stesso fenomeno un decennio dopo il periodo descritto da Brodkin, Matthew B. Hoffman e Henry F. Srebrnik sostengono che il «comunismo ebraico» negli Stati uniti «era una combinazione di socialismo e nazionalismo ebraico laico». In effetti, leggendo la stampa di sinistra degli anni Trenta, l’«assimilazione» era intesa come un anatema per il socialismo; non solo qualcosa che un ebreo socialista non avrebbe voluto fare, ma un progetto concepito per contrastare il socialismo e indebolirlo. Come scrive Alexander Bittelman, uno dei principali redattori e teorici del Partito comunista tra la fine degli anni Trenta e gli anni Quaranta: > Tutti sanno che le forze non democratiche nella vita ebraica americana sono o > assimilazioniste… o nazionaliste-reazionarie. Gli assimilazionisti sono del > tutto contrari alla costruzione di una vita ebraica negli Usa o cercano di > ridurre la comunità ebraica a un gruppo religioso, il che equivale a negare la > vita ebraica. E su questo punto, i nazionalisti reazionari, che negano la > possibilità di costruire una vita ebraica nella diaspora (il Goluth), assumono > la stessa posizione degli assimilazionisti. Vale a dire: o si oppongono del > tutto alla costruzione di una vita ebraica negli Usa – il che è praticamente > la stessa cosa – vogliono confinarla a una comunità religiosa. Per Bittelman, l’alternativa all’«assimilazionismo» e al «nazionalismo reazionario» (ovvero il sionismo) sono i «valori ebraici progressisti». Proprio come «tikkun olam» una generazione dopo, «valori ebraici progressisti» nel lessico della sinistra ebraica degli anni Trenta e Quaranta si riferisce a una cultura laica di socialdemocrazia, antirazzismo e diversità culturale, espressa attraverso la tradizione ebraica. Come ha articolato lo studioso Yuri Slezkine, delle tre risposte ebraiche all’antisemitismo nel XX secolo – l’immigrazione nelle Americhe, l’emigrazione in Israele e la Rivoluzione bolscevica (ovvero assimilazione, nazionalismo o socialismo) – il socialismo è rimasto di gran lunga la risposta più popolare alla «questione ebraica» tra l’inizio e la metà del XX secolo. In questo senso, allora, il comunismo non era una forma di assimilazione, ma piuttosto un’alternativa ad essa. Naturalmente, questo solleva la domanda: cosa c’era negli Stati uniti che permise il fiorire del socialismo ebraico? Sebbene questa possa essere una domanda sovradeterminata, è chiaro che i socialisti ebrei esprimevano il loro impegno politico attraverso un linguaggio di identificazione etnica e solidarietà razziale; anzi, questi tendevano a essere inscindibili. Come scrive Amelia Glaser nella sua completa storia della poesia yiddishkeit di sinistra negli Stati uniti, parte dell’acculturazione degli ebrei di sinistra negli Stati uniti avvenne attraverso il linguaggio della solidarietà e dell’identificazione razziale. I poeti statunitensi che scrivevano in yiddish spesso trasponevano il linguaggio dei pogrom in storie di linciaggi e paragonavano le sofferenze degli afroamericani a quelle degli ebrei nella Zona di Residenza. I poeti di lingua yiddish traducevano persino l’idioma e gli stili poetici neri nei loro scritti. Sebbene tali forme di prestito e identificazione potessero far pensare a una sorta di menestrello di sinistra, esprimevano una critica alla modalità di Al Jolson di versare lacrime ebraiche attraverso il blackface. Piuttosto che esprimere il dolore ebraico attraverso la trasposizione, queste poesie erano un modo per comunicare l’oppressione degli afroamericani ad altri ebrei in un idioma che potessero comprendere. In una mossa analoga, il romanzo Jews Without Money del 1930 dello scrittore e editore Mike Gold, ambientato a metà secolo, presenta come eroe un ebreo dalla pelle scura e dai capelli ricci – soprannominato dalla comunità con la parola che inizia con la N. Piuttosto che considerarlo un’appropriazione, direi che Gold presenta questo personaggio per rifiutare una «teleologia dell’assimilazione» e abbracciare la solidarietà con gli altri statunitensi emarginati. Sebbene ci siano molte altre ragioni per cui il socialismo ebraico ha prosperato negli Stati uniti, tra cui una maggiore atmosfera di libertà rispetto alla Russia zarista (seppur spesso circoscritta), suggerirei che sia piuttosto la sinistra Usa ad essersi prestata a un’espressione della politica etnica come politica di liberazione socialista. Negli Stati uniti, a differenza dell’Europa, la solidarietà razziale era un’espressione di radicalismo. Bittelman, da teorico del Partito comunista, tentò di schematizzare l’identità ebraica ashkenazita e il suo rapporto con le persone di colore non ebree in tutto il mondo all’interno di un quadro marxista e intersezionale dopo la Seconda guerra mondiale. Bittelman concepisce inizialmente la vita ebraica ashkenazita negli Stati uniti come esistente all’interno di un quadro «nazionalista borghese» che cerca di incorporare la «borghesia ebraica» negli obiettivi del capitalismo globale dominato dagli Stati uniti e di offrire una forma di «assimilazione» subordinata alle masse ebraiche. Bittelman prosegue poi affermando che la razza negli Stati uniti non è semplicemente un epifenomeno di classe; piuttosto, «esiste negli Stati uniti un peculiare sistema di oppressione dei popoli, solitamente definiti minoranze, che è un sistema di persecuzione e discriminazione contro i popoli». In altre parole, gli Stati uniti non sono solo un paese capitalista che sopravvive grazie allo sfruttamento del lavoro, ma sono anche l’erede dell’Impero britannico all’esterno e il prodotto dell’insediamento e della schiavitù all’interno. Pur rifuggendo una rigida gerarchia di oppressione, Bittelman descrive comunque l’oppressione degli afrostatunitensi come simile alla colonizzazione, definendola un’«oppressione nazionale» analoga alla colonizzazione delle Filippine e di Porto Rico all’interno della «Cintura Nera del Sud» e un regime di oppressione e discriminazione in tutto il resto degli Stati uniti. Bittelman descrive un sistema di oppressione razziale che in ultima analisi serve gli interessi del capitalismo, pur ponendo gli «anglosassoni» come gruppo dominante e sottoponendo etnie bianche quali «polacchi, russi, italiani, ebrei e altri» a svariate forme di esclusione. Bittelman prosegue suggerendo che gli ebrei si distinguano da questo quadro generale nella misura in cui «l’antisemitismo stesso» è una forma di «oppressione e discriminazione nazionale» meno sistemica dell’oppressione subita dai neri, ma al tempo stesso più acuta e più importante per le forze della «reazione imperialista» rispetto alle forme generali di esclusione sociale subite dai non «anglosassoni». In questo contesto, è nell’interesse degli ebrei statunitensi allearsi con il «popolo nero» che lotta per la propria «liberazione nazionale» all’interno della Black belt e costituisce una «forza d’avanguardia contro l’intero sistema imperialista di discriminazione e oppressione nazionale negli Stati uniti». È logico, quindi, che nella sua analisi del ruolo dei socialisti ebrei negli Stati uniti, emerga una critica del sionismo dalla visione generale del mondo della sinistra ebraica. Pertanto, per Bittelman, l’identità ebraica americana è legata principalmente alle sue condizioni negli Stati uniti e alle sue solidarietà vissute con altre «nazionalità oppresse», in particolare afroamericani e popolazioni del mondo colonizzato. La teoria di Bittelman circa il rapporto tra ebrei statunitensi e sionismo deriva dalla sua teorizzazione generale di razza e capitalismo come formazioni transnazionali, collegate attraverso circuiti di forma militare ed economica. Se il sionismo è una forma di imperialismo, non solo è direttamente antagonista dei palestinesi, ma è anche contrario agli interessi personali degli ebrei della classe operaia. Bittelman ammette che gli ebrei formino un «gruppo nazionale» nello Yishuv, l’insediamento ebraico pre-statale nella Palestina mandataria. Ma il loro carattere nazionale, la loro lingua, il loro territorio e la loro cultura nazionale non garantiscono agli ebrei in Palestina il diritto di formare uno stato esclusivamente ebraico. Come scrive Bittelman: > La soluzione sionista alla questione palestinese, essendo antidemocratica e > reazionaria e orientata alla collaborazione con l’imperialismo contro il > popolo arabo, mette in pericolo la sicurezza dello Yishuv e tende a > trasformare il popolo ebraico in complici e partner dell’oppressione e dello > sfruttamento imperialista. Bittelman non era il solo a considerare il sionismo una forma di imperialismo negli anni Trenta e Quaranta; in effetti, questa era la visione di buon senso della sinistra. Non solo il sionismo, come aveva previsto con precisione Hannah Arendt, avrebbe cacciato centinaia di migliaia di palestinesi e messo una minoranza di ebrei contro un intero subcontinente di vicini arabi, ma si sarebbe allineato con l’imperialismo britannico e statunitense e con gli interessi borghesi della classe dirigente ebraica. Bittelman parlava a nome della maggior parte degli ebrei statunitensi di sinistra, tra cui luminari come Mike Gold, Albert Einstein, Leon Trotsky, Muriel Rukeyser e molti altri, quando scrisse che il sionismo era un anatema per i «valori ebraici progressisti». L’antisionismo sembrava ben integrato nella vita quotidiana degli ebrei statunitensi. Come ha affermato sinteticamente Robert Gessner, negli Stati uniti «circa l’1% degli ebrei è sionista». Per citare Stuart Hall a proposito di Antonio Gramsci, le idee «non si limitano mai al nucleo filosofico» della loro esistenza; per la loro presenza «organica» nei movimenti e nelle comunità, «devono toccare il senso comune pratico e quotidiano». È importante sottolineare che l’antisionismo ebraico è emerso organicamente, in senso gramsciano, dall’impegno socialista già esistente degli ebrei negli Stati uniti. Se la sinistra ebraica statunitense si sia «convertita» velocemente al sionismo non è avvenuto grazie all’abilità militare israeliana, ma grazie al sostegno dell’Unione sovietica alla Partizione in seno alle Nazioni unite. Eppure, durò poco sia per l’Unione sovietica che per la sinistra ebraica americana. Quando Israele tornò alla ribalta nel 1967, la risposta della New left fu sorprendentemente coerente con quella della sinistra ebraica della generazione precedente. Il Partito socialista dei lavoratori (Swp) trotskista rimase coerente sulla questione palestinese durante il nadir degli anni Cinquanta, per molti membri della dirigenza degli Students for a Democratic Society (Sds) ci fu un processo di riapprendimento. Quando lo Student Nonviolent Coordinating Committee (Sncc) nel 1968 si schierò a sostegno della nascente Organizzazione per la Liberazione della Palestina (Olp), i leader dell’Sds sentirono di dover essere sostenuti. Susan Eanet-Klonsky, che era nella dirigenza dell’Sds e lavorava presso la sede nazionale di Chicago, disse di aver ricevuto una pila di opuscoli e libri «sulla questione palestinese» da compagni più anziani e di aver intrapreso per la prima volta uno studio sulla questione. Scrivendo diversi articoli per il giornale della Sds, New Left Notes, Eanet-Klonsky inquadrò Israele e Palestina in modo molto simile a quanto avevano fatto i comunisti degli anni Trenta, come una conquista imperialista «analoga alla fuga dei primi coloni in America… verso una terra già occupata dal popolo indiano». Quando, cinquant’anni dopo, Jewish Voice for Peace lanciò la campagna Deadly Exchange per denunciare il razzismo sia dello stato di polizia statunitense che dello stato di apartheid israeliano, si stava articolando una tradizione centenaria di collegamento tra sionismo, violenza razziale e imperialismo. Sebbene in entrambi i casi le condizioni e il contesto potessero essere nuovi, la concezione transnazionale della razza da parte della sinistra è rimasta una costante. Una tale concettualizzazione della razza non è un fenomeno nuovo, ma emerge piuttosto dalle solidarietà e dalle articolazioni di una tradizione molto più lunga della sinistra ebraica statunitense. Sulla questione del sionismo e della solidarietà con altri gruppi etnici oppressi e minoranze religiose, esiste un filo rosso che va dal Partito comunista all’Sds, al Collettivo Chutzpah, alla Nuova Agenda Ebraica (Nja) e a Jewish Voice for Peace. In effetti, si possono persino rintracciare tali linee evolutive attraverso singoli individui e famiglie. Jewish Voice for Peace, Jews for Racial and Economic Justice (Jfrej) e Democratic Socialists of America (Dsa) sono organizzazioni intergenerazionali, e molti dei fondatori e attivisti provengono da famiglie di sinistra multigenerazionali, tra cui Melanie Kaye/Kantrowitz, la cui carriera si estende dalla Nja alla Jfrej; David Duhalde, un socialista ebreo nella Dsa i cui genitori sono esuli dal Cile; e Molly Crabapple, pronipote di un noto membro del Bund. In questo senso direi che la sinistra ebraica non è periferica rispetto all’identità ebraica, ma piuttosto parte integrante della comprensione delle attuali divisioni e opposizioni all’interno della comunità ebraica, così come della continua presenza di ebrei autoidentificati e di organizzazioni ebraiche nelle proteste di piazza contro l’ultima guerra di Israele. Queste vicende sono tutt’altro che accademiche. Mentre oggi le istituzioni ebraiche di destra, dall’American Jewish Committee all’Anti-Defamation League e all’Hillel International, tentano di soffocare il dibattito pubblico americano sul sionismo e sul continuo esodo dei palestinesi dalla loro terra, la memoria viva della sinistra ebraica non solo è una risorsa per gli ebrei statunitensi, ma può anche indicare la strada da seguire per coloro che desiderano sfidare tali istituzioni sulla base delle proprie basi culturali. A differenza delle teorie sulla «scomparsa» della sinistra ebraica o dell’interesse per la sinistra ebraica americana come forma di «nostalgia», va ricordato che gli ebrei di sinistra non erano semplicemente individui coraggiosi, ma rappresentanti di comunità radicate e prospettive di classe, parte di una più lunga storia di lotta di classe, antimperialismo e assimilazione alle modalità dominanti di «bianchezza» e potere. Per quanto questa sia una storia culturale della «sinistra ebraica», la sinistra ebraica è inseparabile dalla più lunga storia della sinistra radicale, di cui la sinistra ebraica è stata parte attiva e influente. Naturalmente, questo non significa che la sinistra americana (ebraica) sia stata infallibile (anzi, la cieca adesione alla politica estera dell’Unione sovietica è stata un disastro per la Palestina e per la credibilità del comunismo americano): le sue sconfitte sono principalmente il risultato del terreno accidentato della lotta di classe, non di contraddizioni interne. Le due Paure rosse, il Cointelpro e l’allineamento delle istituzioni ebraiche liberali con le inquisizioni della destra hanno giocato un ruolo sproporzionato nell’affermare il predominio del sionismo sulla politica ebraica e statunitense. Ma va ricordato che le lotte del passato sono emerse e si sono combattute su un terreno non del tutto diverso da quello che ci troviamo ad affrontare oggi: una superpotenza imperialista contro gli interessi della maggioranza globale. Il mio intervento non si basa sull’idea che gli ebrei di sinistra fossero eccezionali, lungimiranti o cosmicamente visionari, ma piuttosto sul fatto che tali sinistre siano emerse dagli interessi e dalle lotte quotidiane della gente comune in un mondo grottescamente ingiusto. In quanto tali, i primi ebrei di sinistra hanno costruito una sinistra ebraica – e una critica del sionismo – a partire dal terreno autoctono degli Stati uniti: un terreno in cui l’oppressione razziale, una borghesia rapace, un bilancio militare gonfiato e standard di vita precari persino per le persone istruite sono la norma piuttosto che l’eccezione. Gli ebrei statunitensi, come tutti quelli che fanno parte del 99%, hanno motivi per combattere tali formazioni nella loro lingua, in una lingua comune, nella propria lingua in comune con gli altri. *Benjamin Balthaser è professore associato di letteratura multietnica statunitense presso l’Università dell’Indiana, South Bend. Di recente ha scritto Citizens of the Whole World: Anti-Zionism and the Cultures of the American Jewish Left (Verso, 2025), dal quale è tratto questo testo, che è comparso anche su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo La lunga storia antisionista della sinistra ebraica proviene da Jacobin Italia.
Il pallone discriminato
Articolo di Andrea Ponticelli, Gabriele Granato In Svizzera sta andando in scena l’Europeo di calcio femminile, un torneo decisamente in crescita rispetto all’edizione del 2022 che vide trionfare l’Inghilterra, e che ci parla di un calcio femminile in continua espansione sotto ogni punto di vista. Non a caso, già prima dell’inizio della competizione i numeri erano da record: 600.000 biglietti venduti su una disponibilità totale di circa 720.000; 22 partite già sold-out in prevendita (tutte quelle della fase finale più diversi match della fase a gironi) e circa 500.000.000 potenziali telespettatori da tutto il mondo. Numeri che assumono un valore ancora più importante se messi a confronto con il recente Mondiale per Club, fortemente voluto da Infantino, che ha fatto registrare stadi semivuoti e una media spettatori di 39.500 nonostante la Fifa abbia ribassato il costo dei biglietti o li abbia addirittura regalati. Le partite delle azzurre sono state guardate da milioni di persone, con il record di 2,3 milioni di telespettatori e telespettatrici in occasione dei quarti di finale giocati – e vinti – contro la Norvegia. Numeri da capogiro che assumono un valore ancora maggiore se si considera che il calcio femminile, nonostante tutto, continua a scontrarsi con un ostacolo tanto antico quanto radicato nella nostra società: il patriarcato. Nonostante l’aumento della popolarità, la qualità del gioco e l’impegno delle atlete, il gender gap nel mondo del pallone rimane sconcertante. Ed è ora di dirlo chiaramente: questo gap non è frutto di minore talento o minore spettacolarità, ma del sistema patriarcale che ha storicamente marginalizzato lo sport femminile. UN SISTEMA COSTRUITO SUL MASCHILE Il calcio, da sempre, è stato concepito come terreno di espressione della virilità, dell’agonismo maschile, dell’identità patriarcale. Come sottolineato da un’analisi pubblicata su Jacobin già nel 2015, la Fifa stessa, per decenni, ha trattato il calcio femminile con aperto disinteresse, quando non con disprezzo. Per esempio, nel 2004, Sepp Blatter suggeriva che le calciatrici dovessero indossare «shorts più attillati» per attrarre più pubblico. Una dichiarazione che riassume perfettamente la visione sessista dell’establishment calcistico che perdura ancora oggi e che si riflette in un atteggiamento che ha avuto conseguenze devastanti dal punto di vista della parità di genere in ogni sua sfaccettatura.  Le atlete professioniste, pur dedicando le stesse ore di allenamento e affrontando gli stessi rischi fisici dei colleghi uomini, guadagnano una frazione dei loro stipendi. Secondo Social Media Soccer, durante la Coppa del Mondo femminile 2023, le giocatrici hanno ricevuto premi pari a circa un quarto di quelli maschili nel torneo del 2022. L’intero montepremi è passato dai 28 milioni di dollari del 2019 ai 105 del 2023, un aumento, sì, ma ancora lontano dai 440 milioni riservati agli uomini in Qatar.  Durante la Coppa del Mondo femminile 2023 in Australia e Nuova Zelanda, i dati di ascolto sono stati da record. In Australia, la semifinale tra le padrone di casa e le Lioness inglesi è stata, ad esempio, seguita da 11,5 milioni di persone. La finalissima tra Spagna e Inghilterra è stata, invece, vista da oltre 13 milioni di persone nel solo Stato Spagnolo; da circa 6 milioni in Inghilterra e da circa 500 mila persone in Italia, nonostante qui sia stata trasmessa su Rai Sport e non su una rete generalista come fatto dai principali paesi europei (e comunque gli ascolti della partita hanno superato quelli delle reti generaliste Rai2 e Rai3). Si è trattato di uno degli eventi sportivi più visti dell’anno. Eppure, anche davanti a questi risultati, le differenze salariali e contrattuali permangono. Secondo alcuni studi, le Federazioni nazionali mostrano resistenze sistemiche all’equiparazione salariale, legandola ancora alla «sostenibilità economica». Discorso simile per i presidenti delle società come dimostrato di recente da Aurelio De Laurentiis, presidente del Napoli, che nel corso di un talk al Giffoni Film Festival ha candidamente affermato che, se non ci sono i soldi neanche per la serie A, B e C maschile, figuriamoci come si possano trovare per quella femminile, dimostrando che si continua a ignorare l’impatto del capitale culturale e simbolico che il calcio femminile sta accumulando. È la riproduzione ideologica del patriarcato nel linguaggio manageriale. IL CASO DEL CALCIO ITALIANO In Italia, il calcio femminile ha fatto passi avanti importanti, soprattutto negli ultimi anni e in particolar modo dal 2022 quando è stato introdotto il professionismo per la Serie A. Ma il gender gap permane, come si può immediatamente notare mettendo a confronto gli stipendi delle calciatrici e quelli dei calciatori.  Secondo i dati più recenti, gli stipendi delle calciatrici italiane oscillano tra i 14.400 euro lordi annui per le più giovani e un massimo di circa 30.000-40.000 euro lordi per le giocatrici più esperte e di vertice, con qualche eccezione di top player che arriva a 200.000 euro. Cifre irrisorie se pensiamo che un calciatore medio della Serie A maschile guadagna diverse centinaia di migliaia di euro all’anno, con i top player che guadagnano milioni e milioni di euro l’anno. Un gap enorme ma soprattutto inaccettabile. La visione patriarcale della società e dello sport, però, non ha ripercussioni solo in termini di gap salariale ma anche in tantissimi altri aspetti come sottolineato, ad esempio, dall’ex campionessa della nazionale femminile Patrizia Panico: «penso che nel calcio sia radicata una grave forma di maschilismo tale da escludere le donne, non soltanto per quanto concerne il ruolo di allenatore, ma da tantissime altre figure professionali quali: preparatore atletico, medico, direttore sportivo, team manager, direttore generale, addetto stampa e molti altri ruoli. Nelle squadre professionistiche ma anche, purtroppo, nelle dilettantistiche raramente si trovano figure femminili, è questione di mentalità, di una cultura retrograda. Personalmente conosco moltissime donne molto più competenti dei loro colleghi uomini». A rendere ancora più evidente la disparità tra calcio maschile e femminile, è la sproporzione negli investimenti strutturali. I club maschili, soprattutto nelle serie maggiori, possono contare su centri sportivi all’avanguardia, staff tecnici multidisciplinari, strutture mediche e logistiche di altissimo livello. Al contrario, molte squadre femminili, anche in Serie A, faticano a trovare campi in buone condizioni per allenarsi. Mentre i diritti televisivi del campionato maschile fruttano centinaia di milioni di euro l’anno – basti pensare che la Serie A maschile ha sottoscritto contratti da oltre 900 milioni per il triennio 2024-2027 – il calcio femminile italiano ha visto solo di recente una timida apertura in questo senso, con i primi accordi televisivi arrivati nel 2022 e con cifre estremamente contenute. Secondo un’indagine dell’osservatorio Figc, oltre il 70% dei club femminili non dispone di un centro sportivo proprio e deve affittare spazi a ore. E non è un caso se più di recente due delle stelle della Nazionale, Cantore e Caruso, hanno parlato proprio della necessità di portare avanti una battaglia per la parità di genere che non si traduce solo in uguaglianza di stipendi: «dobbiamo lavorare tutte insieme per ottenere le stesse opportunità – non gli stipendi – dei colleghi. La parità è avere accesso alle loro stesse strutture e a determinati diritti che non ci vengono ancora riconosciuti». Perché la discriminazione di genere non si manifesta solo in un divario economico ma anche in uno simbolico: investire significa riconoscere valore e in Italia – come altrove – il valore viene ancora assegnato secondo logiche patriarcali che mettono al centro il maschile, e relegano il femminile ai margini, considerandolo meno importante, meno «meritevole» di infrastrutture e risorse. NON È QUESTIONE DI QUALITÀ, MA DI POTERE Il discorso che giustifica le enormi differenze tra calcio maschile e femminile appellandosi ai «numeri del mercato» – come audience televisiva, introiti da sponsor o vendite dei biglietti – è profondamente fuorviante e ideologico. Questi numeri non sono neutri, ma il risultato di decenni di disinvestimento strutturale, culturale e mediatico nel calcio femminile. Non sono il segnale di uno scarso interesse «naturale», bensì le conseguenze concrete di precise scelte politiche e culturali, dettate da un sistema patriarcale che ha deciso chi merita la visibilità, il denaro e l’accesso ialle risorse, e chi invece deve accontentarsi di briciole.  Come ha spesso ribadito la filosofa e attivista Silvia Federici, la svalutazione del lavoro femminile – sia esso retribuito o domestico, professionale o sportivo – è una strategia precisa attraverso cui il patriarcato mantiene il controllo del potere economico e simbolico. Questa logica si ripropone con forza anche nel mondo del calcio: quando una calciatrice professionista guadagna 20.000 euro all’anno, mentre un calciatore di Serie B può arrivare tranquillamente a cifre dieci volte superiori, non si tratta di una differenza basata sul «merito» o sulla «resa economica». Si tratta di una gerarchia imposta, in cui il valore delle donne viene sistematicamente svalutato e reso invisibile.  Il patriarcato non ha solo impedito alle donne di accedere al calcio ai massimi livelli; ha anche costruito una narrazione secondo cui lo sport femminile sarebbe «meno competitivo», «meno attraente» e, dunque, meno degno di essere visto, seguito, pagato. È una forma di controllo sociale mascherata da analisi economica, una giustificazione moderna per una disparità antica. E questa logica non riguarda solo il calcio: la stessa struttura si ripete nel mondo del lavoro, nell’arte, nella scienza, nella politica, ovunque le donne osino reclamare spazio, voce e dignità. Il punto non è cosa producono o quanto «rendono»: il punto è che, in un sistema di potere maschile, alle donne viene ancora negato il diritto di valere quanto gli uomini. QUALE VIA D’USCITA? La lotta per l’equiparazione salariale e di trattamento nel calcio femminile non può limitarsi ai soli confini dello sport. Il calcio è riflesso fedele della società in cui viviamo, che resta profondamente patriarcale e maschilista. Per cambiare il calcio, bisogna cambiare la società, e viceversa. Il patriarcato si manifesta in modo sistemico in molteplici aspetti della vita quotidiana: dalle discriminazioni salariali nel mondo del lavoro alle difficoltà di accesso ai ruoli apicali, dalla violenza di genere alle norme sociali che ancora relegano le donne al ruolo di caregiver primarie, limitando la loro libertà e autonomia economica. In Italia, ad esempio, la differenza salariale di genere supera ancora il 20% e soltanto il 35% delle posizioni manageriali è occupato da donne. Questo svantaggio strutturale si ripercuote anche nello sport, dove il riconoscimento economico e mediatico delle atlete resta minimo. Angela Davis, filosofa e attivista afroamericana, sottolineava come la discriminazione di genere non sia un fenomeno isolato, ma una struttura di potere che intreccia razza, classe e genere in modo indissolubile. Per Davis, la lotta delle donne contro il patriarcato dev’essere necessariamente una lotta contro tutte le forme di oppressione, e la conquista di pari diritti economici e sociali rappresenta un passaggio fondamentale verso una società più giusta. Nel calcio, questo significa che la battaglia per salari equi, investimenti strutturali e visibilità non può essere una rivendicazione esclusivamente sportiva: è parte di una più ampia lotta contro quei sistemi che definiscono il valore delle donne come inferiore a quello degli uomini. Bisogna combattere dentro lo spogliatoio come nelle federazioni, ma anche sui posti di lavoro, nelle scuole, nelle redazioni giornalistiche così come nel mondo della politica e dell’attivismo. Il patriarcato si manifesta, infatti, in maniera tangibile e quotidiana: le donne vengono discriminate a livello di salario e spesso costrette ad accettare contratti precari o part-time, anche quando possiedono le stesse qualifiche e competenze degli uomini; sono quasi sempre le donne a sobbarcarsi il lavoro di cura dei figli e degli anziani, un impegno che limita le possibilità di carriera e la piena autonomia economica; la loro rappresentanza politica ed economica è insufficiente, con pochi accessi ai ruoli decisionali. Si pensi che su 18 membri del Consiglio Federale della Figc, ad esempio, solo tre sono donne. In ambito sportivo, poi, persistono forti stereotipi di genere che dipingono le donne come meno competitive o meno interessate allo sport, rafforzando così l’idea che il calcio femminile sia un prodotto di serie B.  Contrastare tutte queste dinamiche significa smontare i meccanismi di potere che mantengono tali disuguaglianze. Come affermava Bell Hooks, la liberazione delle donne è inseparabile dalla trasformazione delle strutture sociali in cui vivono. Nel calcio femminile, questo si traduce nella necessità di investimenti seri e duraturi, che non si limitino a campagne di facciata utili più alla Federazione per mostrarsi al passo con i tempi che a una reale lotta alle disparità di genere; nella realizzazione di politiche federali capaci di eliminare i tetti salariali ingiusti e favorire la parità; nella creazione di un racconto mediatico che presenti il calcio femminile come uno sport di alto livello, non come un prodotto «minore»; e infine in un’educazione di genere diffusa, capace di cambiare mentalità fin dalla giovane età ed evitare, ad esempio, che si ripetano episodi come quello occorso qualche giorno fa a Pedro Rodríguez, calciatore della Lazio, inondato di insulti sessisti e omofobi sotto al post della foto con la moglie e il figlio che per festeggiare il suo ottavo compleanno ha indossato una tiara e un vestitino con le spalline. Superfluo aggiungere che nessun rappresentante della Figc né tanto meno della Lega Calcio ha espresso solidarietà al calciatore o condannato gli insulti. Solo in questo modo la battaglia per eliminare il gap salariale e le discriminazioni di genere nella loro totalità potrà essere veramente efficace e duratura. Il calcio femminile può allora diventare non solo un simbolo di emancipazione, ma anche un motore di trasformazione culturale in una società ancora troppo dominata da logiche patriarcali. * Andrea Ponticelli, attivista da più di dieci anni nelle lotte di Napoli e provincia, è tra i principali promotori del progetto Calcio&Rivoluzione. Gabriele Granato, attivista sociale, frequentatore di stadi e collezionista di t-shirt da gioco, è appassionato di sport e politica ed è tra i fondatori di Calcio&Rivoluzione. L'articolo Il pallone discriminato proviene da Jacobin Italia.
Il nuovo Deep State tecnologico
Articolo di Paolo Gerbaudo Negli inebrianti anni Novanta neoliberisti, il tecno-ottimismo raggiunse i suoi estremi più imbarazzanti. Intrisi del fatuo immaginario di quella che Richard Barbrook ha definito «ideologia californiana», lavoratori del settore tecnologico, imprenditori e ideologi tecno-visionari hanno identificato la tecnologia digitale con un’arma per la liberazione e l’autonomia personale. Questo strumento, proclamavano, avrebbe permesso agli individui di sconfiggere l’odiato Golia rappresentato dallo Stato, allora ampiamente individuato nei fallimentari colossi del blocco sovietico in implosione. Per chiunque abbia una conoscenza superficiale delle origini della tecnologia digitale e della Silicon Valley, questa avrebbe dovuto essere, fin dall’inizio, una convinzione ridicola. I computer furono un prodotto degli sforzi bellici dei primi anni Quaranta, sviluppati come mezzo per decodificare messaggi militari criptati, con Alan Turing notoriamente coinvolto a Bletchley Park. L’Eniac, o Electronic Numerical Integrator and Computer, considerato il primo computer multiuso utilizzato negli Stati uniti, fu sviluppato per compiere calcoli applicati all’artiglieria e per supportare lo sviluppo della bomba all’idrogeno. Come sosteneva notoriamente G.W. F.  Hegel, la guerra è lo Stato nella sua forma più brutale: l’attività in cui la forza dello Stato viene messa alla prova contro quella di altri Stati. Le tecnologie dell’informazione sono diventate sempre più centrali in questa tipica attività statale. Qualcuno potrebbe ancora credere al mito della Silicon Valley nata spontaneamente dagli hacker che saldavano circuiti nei loro garage. Ma la realtà è che non avrebbe mai preso vita senza il supporto infrastrutturale dell’apparato di difesa statunitense e dei suoi appalti pubblici, che garantiscono la redditività commerciale di molti prodotti e servizi che oggi diamo per scontati. Tra questi rientra anche la stessa Internet, con la Darpa – l’Agenzia per i Progetti di Ricerca Avanzata del Dipartimento della Difesa – responsabile dello sviluppo della tecnologia della commutazione di pacchetto che è alla base dell’architettura di comunicazione del web ancora oggi. Vero: da questa incubazione nel settore militare, la Silicon Valley si è gradualmente evoluta concentrandosi principalmente su scopi civili, dai social media all’e-commerce, dal gaming alle criptovalute e alla pornografia. Ma non ha mai reciso il legame con gli apparati di sicurezza. Le fughe di notizie di Prism del whistleblower Edward Snowden nel 2013 hanno rivelato una profonda e quasi incondizionata cooperazione tra le aziende della Silicon Valley e gli apparati di sicurezza dello Stato come la National Security Agency (Nsa). La gente si è resa conto che qualsiasi messaggio scambiato tramite le grandi aziende tecnologiche, tra cui Google, Facebook, Microsoft, Apple, ecc., poteva essere facilmente spiato con accesso diretto tramite backdoor: una forma di sorveglianza di massa con pochi precedenti nella sua portata e pervasività, soprattutto negli Stati nominalmente Democratici. Le fughe di notizie hanno suscitato indignazione, ma alla fine la maggior parte delle persone ha preferito distogliere lo sguardo dalla sconvolgente verità che era stata svelata. In ogni caso, ora il cordone ombelicale tra lo Stato securitario e la Silicon Valley è visibile come non mai. Il ritorno di Donald Trump non solo ha favorito un’alleanza tra l’estrema destra e le Big Tech che fino a poco tempo fa pochi consideravano possibile, ma ha anche offerto l’opportunità per l’ascesa di un nuovo tipo di Stato che mira a consolidare questo nuovo blocco di potere. Potremmo descriverlo come il «Big Tech Deep State». Quello che viene chiamato «stato profondo» – l’apparato di sorveglianza e repressione che si trova al centro di ogni Stato moderno, al di sotto del più accattivante apparato ideologico superficiale costituito da parlamenti, media o chiese – è ora profondamente intrecciato con queste tecnologie della comunicazione. Precedentemente spacciate per strumenti di liberazione e autonomia, si rivelano mezzi di manipolazione, sorveglianza e controllo dall’alto. Un presidente Repubblicano, Dwight D. Eisenhower, ha notoriamente messo in guardia contro i rischi dell’apparato militare-industriale, avvertendo della creazione di un centro di potere autonomo e dell’interferenza che avrebbe potuto tenere sul processo democratico. Ora dovremmo preoccuparci dello strapotere del complesso militare-informatico – per usare un termine già proposto nel 1996 dal politologo John Browning e dal direttore dell’Economist Oliver Morton. Esso esprime un rapporto sempre più stretto tra la Silicon Valley e il deep state, che rischia di sventrare ciò che resta delle nostre democrazie. IL COMPLESSO MILITARE-INFORMATIVO Il 13 giugno 2025, si è svolto uno strano rituale militare alla Conmy Hall della Joint Base Myer-Henderson Hall in Virginia. Un gruppo di dirigenti tecnologici di alcune delle più importanti aziende della Silicon Valley, tra cui Shyam Sankar, direttore tecnico (Cto) di Palantir; Andrew Bosworth, Cto di Meta; Kevin Weil, direttore dei prodotti di OpenAI; e Bob McGrew, consulente del Thinking Machines Lab ed ex direttore della ricerca di OpenAI, si sono presentati in uniforme militare davanti a un folto gruppo di soldati. Hanno prestato giuramento come tenenti colonnelli dell’esercito, nell’ambito del neocostituito Distaccamento 201: l’Executive Innovation Corps (Eic) dell’Esercito. L’iniziativa è stata presentata nel tipico gergo neoliberista come parte dello sforzo per «sfruttare le competenze private» a vantaggio del «settore pubblico». Ma la realtà è molto più sconcertante. Quest’assunzione in servizio segnala che non esiste una netta barriera tra il settore privato e quello pubblico: il figliol prodigo della tecnologia digitale potrebbe essersi a lungo allontanato dalle sue radici militari, ma ora sta tornando a casa. Perché? Perché sono, in generale, i militari a pagarne i conti. Il caso più estremo è quello dell’azienda di sorveglianza e intelligence Palantir. Quasi la metà dei suoi ricavi proviene da appalti governativi, tra cui il Dipartimento della Difesa e le agenzie di intelligence, oltre alle forze armate di vari alleati della Nato. Nonostante il tentativo dell’azienda di diversificare le sue fonti di reddito verso usi più commerciali, è probabile che rimanga fortemente legata agli appalti pubblici, soprattutto con il continuo aumento delle tensioni globali e dell’autoritarismo. Nei primi tre mesi del 2025, i suoi appalti governativi sono aumentati del 45%, mentre la sua valutazione a Wall Street è cresciuta di oltre il 200% dall’elezione di Trump. Palantir è stata per molti versi un’apripista per il Deep State delle Big Tech. Quando fu fondata nel 2003 dall’amico intimo di Elon Musk, Peter Thiel (anche lui sudafricano), insieme a Stephen Cohen, Alexander Karp e Joe Lonsdale, l’azienda ottenne finanziamenti iniziali da In-Q-Tel, la divisione di venture capital della Cia, allineando di fatto l’azienda all’apparato di sicurezza dello Stato fin dal suo inizio. Il suo servizio consiste fondamentalmente nel fornire una versione più sofisticata della sorveglianza di massa che le fughe di notizie di Snowden hanno rivelato oltre un decennio fa. In particolare, si propone di supportare l’esercito e la polizia nell’identificazione e nel tracciamento di vari obiettivi, a volte anche umani. Ecco perché si chiama Palantir: ne Il Signore degli Anelli di JRR Tolkien, i Palantiri sono sfere di cristallo magiche utilizzate per vedere a distanza. Questa metafora della «pietra che vede» incarna l’intenzione dell’azienda di offrire servizi in grado di svelare i modelli nascosti in grandi quantità di dati e fornire «intuizioni fruibili» a diverse agenzie. Un esempio è il servizio più famoso offerto da Palantir, chiamato Gotham. Utilizzato da Cia, Fbi, Nsa e forze armate di altri stati alleati degli Stati uniti, offre funzionalità di analisi di schemi e modellazione predittiva, che collegano persone, i loro account telefonici, veicoli, registri finanziari e posizioni. Ma la «visione algoritmica» può essere utilizzata con successo anche sul campo di battaglia. I servizi di intelligenza artificiale di Palantir sono già stati utilizzati per identificare obiettivi di bombardamento in Ucraina. Sebbene l’azienda neghi con veemenza il suo coinvolgimento diretto nel sostegno al genocidio a Gaza, è stato riferito che alcuni dei suoi strumenti più avanzati sono stati forniti a Israele dall’ottobre 2023. Data la segretezza dell’azienda, l’entità di questo coinvolgimento rimane difficile da verificare in modo indipendente. Ma non sarebbe una grande sorpresa: in effetti, la collaborazione tra Palantir e il governo israeliano è così forte che le due parti hanno firmato una partnership strategica all’inizio del 2024. La relatrice delle Nazioni unite sulla Palestina, Francesca Albanese, ha incluso Palantir tra le aziende che traggono profitto dal genocidio. Oltre alle guerre all’estero, Palantir è molto attiva anche sul fronte interno, come dimostra la sua consolidata collaborazione con l’Immigration and Customs Enforcement (Ice), intensificatasi ulteriormente dopo l’ascesa al potere di Trump. Il suo software è stato utilizzato per la sorveglianza e il tracciamento in tempo reale di individui, agevolando le incursioni nei luoghi di lavoro e nelle abitazioni, come quelle sempre più frequenti sotto la presidenza di Trump. In breve: Palantir è una società il cui vero e proprio business è supportare lo Stato securitario nelle sue manifestazioni più brutali: nelle operazioni militari che portano a ingenti perdite di vite umane, anche tra i civili, e nel brutale controllo dell’immigrazione, che terrorizza ampie fasce della popolazione residente negli Stati uniti. Purtroppo, Palantir è solo una parte di un più ampio complesso militare-informativo, che sta diventando l’asse portante del nuovo «Stato Profondo delle Big Tech». Diverse aziende simili sono emerse negli ultimi anni. Forse la più distopica è Anduril Technology, specializzata in «sistemi autonomi», ovvero l’intelligenza artificiale applicata agli armamenti. È stata fondata da Palmer Luckey, un imprenditore che in precedenza aveva inventato il visore per la realtà virtuale Oculus Rift. Si definisce un «sionista radicale»; è stato un precoce sostenitore del Maga (Make America’s Good Aging) e già nel 2016 ha ospitato diverse raccolte fondi per Trump. Anduril (che ha ancora una volta un nome tolkieniano) si concentra su una varietà di servizi basati sull’intelligenza artificiale per il settore della difesa, come il monitoraggio automatizzato di confini e infrastrutture, il drone per munizioni Altius e sistemi di realtà aumentata per i soldati. Attualmente ha una valutazione di oltre 30 miliardi di dollari. Queste aziende rappresentano il peggio sia del capitalismo che dell’intervento statale. Operano in settori poco trasparenti, dove la concorrenza è pressoché nulla, e vivono di appalti militari – un settore praticamente privo di trasparenza e notoriamente preda di corruzione e pesanti forme di interferenza politica. Un paradosso ironico, dato che i loro magnati, come Thiel, si definiscono libertari contro lo Stato. In realtà, sono così intrecciate con lo Stato che sono più facilmente interpretabili come escrescenze finanziarizzate dell’apparato di sicurezza statale che come aziende private realmente autonome. CONTRO L’IMPERO TECNOLOGICO Non solo aziende come Palantir e Anduril sono diventate nuovi strumenti dello Stato securitario, contribuendo alla guerra all’estero e al duro controllo della polizia in patria, ma ora non fanno più mistero di tutto questo, tentando perfino di presentare le loro operazioni come ispirate da grandi ideali. Nel suo recente libro Technological Republic, l’Ad e filosofo di Palantir, Karp, ha elogiato il ritorno della Silicon Valley alle sue origini. Ex liberal, Karp ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Istituto per la Ricerca Sociale della Goethe-Universität Frankfurt, sede della Scuola di Francoforte – l’istituzione nata dal gruppo guidato da Theodor W. Adorno e Max Horkheimer, e più recentemente associata ad alti esponenti del post-marxismo liberale come Jürgen Habermas – che per un breve periodo ha persino ricoperto il ruolo di mentore accademico di Karp prima che gli venisse assegnato un supervisore diverso. Mentre i fondatori della Scuola di Francoforte concepivano le scienze sociali come un terreno di indagine critica a sostegno dell’emancipazione umana, Karp ha utilizzato questa conoscenza per fare qualcosa di piuttosto diverso: elaborare una giustificazione ideologica del perché la Silicon Valley dovrebbe abbracciare lo stato di sicurezza. Nel suo libro, Karp critica la Silicon Valley per essersi concentrata troppo sulla fornitura di servizi ai consumatori, trascurando i propri doveri nei confronti dello Stato e i relativi obiettivi geopolitici, in particolare nel contesto del crescente confronto con la Cina. Auspica che internet si allontani dalla «dolcezza» di emoji e selfie su Instagram e abbracci un’etica marziale di sacrificio e patriottismo, in un panorama popolato da sistemi d’arma controllati dall’intelligenza artificiale, droni autonomi, robot da combattimento e altre tecnologie distopiche in stile fantascientifico. Ciò è giustificato dal «patriottismo», ma di un tipo che per puro caso si sposa a doppio filo con gli interessi economici di Karp e dei suoi simili. Karp vede «l’unione tra Stato e industria del software» come una questione necessaria per la sopravvivenza di entrambi. Vengono evocati vari nemici esterni per accrescere il senso di pericolo, tra cui Russia e Cina, accusate entrambe di minacciare le democrazie occidentali. Sembra che il terrorismo psicologico sulle autocrazie sia l’unico tema liberale che Karp abbia conservato del suo passato atteggiamento habermasiano. Nel caso di Palantir, questa collaborazione «patriottica» con il governo è solo una mascherata disonesta: un riflesso della necessità materiale di un’azienda che dipende in larga misura dagli appalti statali. Per tutti noi, le cui vite non dipendono dagli appalti della difesa, dagli alti e bassi delle azioni di Palantir o dallo sviluppo di una tecnologia militare micidiale, dovrebbe essere giunto il momento di rendersi conto che il complesso militare-informatico rappresenta una grave minaccia per ciò che resta delle nostre democrazie. Questo tipo di alleanza di interessi rappresenta in genere una grave minaccia per la democrazia e la pace, come denunciato persino da Eisenhower alcuni decenni fa. Ripristinare la democrazia nelle società occidentali sotto la minaccia del crescente autoritarismo e garantire la pace in un mondo dilaniato dalla guerra richiede di sradicare il potere dilagante di questi giganti securitari. Significa consegnare alla pattumiera della storia il nuovo e pervasivo «stato profondo» che essi hanno creato. *Paolo Gerbaudo è sociologo presso l’Università Complutense di Madrid e associato all’istituto Alameda. È autore di Controllare e proteggere, il ritorno dello Stato (Nottetempo) e I partiti digitali (Feltrinelli). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Il nuovo Deep State tecnologico proviene da Jacobin Italia.