Letture giacobine
Articolo di Redazione Jacobin Italia
L’estate è quasi al suo culmine e, imitando un po’ la rivista sorella
statunitense, abbiamo pensato di raccogliere alcuni suggerimenti di lettura per
le vacanze (per chi riesce a farle). Abbiamo chiesto di indicare libri senza
alcuna schematizzazione, ognuno e ognuna hanno indicato quel che è sembrato loro
più interessante. Si va così dai Italo Calvino ai gialli di Grazia Varesani,
dalla working class literature della Gkn alla riflessione su cosa è stato il Pci
e così via. Buona lettura e buone vacanze.
Luca Casarotti
Propongo tre testi: Valentina Pisanty, Antisemita; Umberto Eco, Il costume di
casa; Italo Calvino, Una pietra sopra. Ci sono diversi percorsi di lettura
possibili, credo non solo nella mente di questo lettore empirico, seguendo i
quali l’elenchino qui sopra si compone come da sé e chiede di essere proseguito.
Lo spazio m’impone d’indicarne uno soltanto. Questi libri costituiscono insieme
un manuale operativo di scrittura saggistica. Materia del manuale è il nesso di
politica e cultura nella storia occidentale del secondo Novecento. Il metodo
insegnato consiste in ciò: che lo stile (voce media, potendo essere sia buono
sia cattivo stile) è lo strumento con cui l’intellettuale partecipa al dibattito
pubblico; e che lo stile risulta dalla solidità dei concetti espressi e dalla
padronanza della lingua usata per esprimerli.
Lorenzo Zamponi
Vivere nell’Italia di Giorgia Meloni impone di leggere sul fascismo, sui suoi
oppositori e su come sia possibile resistere. Parto citando una graphic novel
ripubblicata un paio d’anni da Tunué: I solchi del destino, in cui Paco Roca
ricostruisce in forma romanzata ma documentata le peripezie degli esuli
repubblicani spagnoli dopo la sconfitta della guerra civile, e in particolare
l’epopea della Nueve, compagnia dell’esercito di De Gaulle composta in
maggioranza da repubblicani spagnoli e prima unità militare alleata a entrare a
Parigi il 20 agosto del 1944. Un’epica dell’antifascismo nella sua dimensione
internazionale, di riconquista di una patria perduta e di un futuro da
ricostruire, senza trascurare dolori e sconfitte.
Sulle difficili resistenze del presente, suggerisco Iperpolitica.
Politicizzazione senza politica, di Anton Jäger, tradotto l’anno scorso da Nero:
un saggio denso quanto agile sulla politica del XXI secolo come magma
individualizzato che mangia ogni ambito della vita umana, senza però farsi mai
strumento collettivo in grado di cambiare davvero l’esistente.
Infine, a chiudere un anno di libri, articoli e film su Berlinguer, mi permetto
di segnalare a chi, colpevolmente, non l’ha ancora letto, Il sarto di Ulm. Una
possibile storia del Pci di Lucio Magri: una lettura di parte, critica e
appassionata, della via italiana al socialismo. Probabilmente la cosa migliore
mai scritta sul tema.
Antonio Montefusco
Un breve libro, ma a due voci e con una copertina feroce. È Milena Agus, Luciana
Castellina, Guardati dalla mia fame,.
Nel marzo 1946, ad Andria in Puglia, è previso il comizio del mitico Giuseppe di
Vittorio, caso unico di bracciante diventato segretario della Cgil. Uno sparo,
però, irrompe sulla folla. È uno sparo che tenta di mettere fine a quella che
doveva essere la celebrazione di una tregua nella lotta che divide i braccianti
e agrari. La battaglia contro il latifondo è uno dei punti più esacerbati della
contraddizione di classe nell’Italia uscita dalla guerra. I contadini entrano
nel palazzo dei ricchi proprietari terrieri del paese, dove vivono le sorelle
Porro, che vengono trucidate. Milena Agus – una delle più acute e perturbanti
scrittrici italiane – ci racconta la storia dal loro punto di vista, quella di
donne ricche e inconsapevoli, prese in una quotidianità indifferente e a tratti
ascetica. Luciana Castellina – fondatrice del Manifesto e protagonista della
storia comunista – ci spiega il contesto in cui nasce questa storia
apparentemente minima, che i giornali quasi non registrarono. Il titolo viene da
una citazione del poeta palestinese Darwish: «Guardati dalla mia fame e dalla
mia ira». La domanda che rimane aperta ci interroga ancora: «Nella catastrofe,
se si vuole che il mondo stia in piedi, bisogna avere la forza di rivoltarlo
come un guanto. Sì o no?»
Sembra una vicenda lontana, così siderale rispetto alla Puglia delle Spa e dei
lettini sulla spiaggia. È difficile trovarne una che interroga più in profondità
sul tema della violenza, sulle guerre di dominio, sulla lotta di classe, oggi,
nell’Italia di Meloni, nel mondo di Trump e Netanyahu.
Carlotta Caciagli
Un tema che non è un tema ma un crimine, una ferita, un girone infernale che si
ripete diverso e uguale a se stesso da decenni, di cui però, fin troppo spesso,
si dimentica la dimensione storica e strutturale e si finisce per parlarne in
termini fuorvianti: pietistici e sensazionalistici da un lato, cinici e ipocriti
dall’altro. I tre libri che consiglio non parlano di Palestina, ma parlano dalla
Palestina. Non trattano un tema ma danno, si prendono e restituiscono una voce a
chi sta in quell’altrove. Tre libri che in comune non hanno niente – genere
letterario, stile narrativo, intento – ma che si assomigliano per l’unica cosa
che conta davvero quando si scrive: l’onestà e la profondità con le quali si
sceglie di raccontare una storia.
Il primo libro non ha probabilmente bisogno della mia raccomandazione: Ogni
Mattina a Jenin, di Susan Abulhawa. Un racconto in prima persona di una vita e
di una terra che arriva come un pugno nello stomaco una pagina dopo l’altra. Un
racconto che fa sentire l’odore degli ulivi e la dignità della resistenza,
proprio quando questa non potrebbe essere altro che una scelta di vita per se e
un atto di responsabilità verso gli altri. Il secondo libro, ancora Feltrinelli,
è Il Racconto di un muro, di Nasser Abu Srour, detenuto dal 1993 in un carcere
israeliano. Un romanzo che qualcuno, sbagliando, ha definito un esempio di
letteratura di prigionia. Ma Il Racconto di un Muro è molto più universale di
così: è un romanzo semplicemente bellissimo, scritto in modo eccelso che
commuove e coinvolge oltre misura. Terzo: Apartheid in Palestina, di Gabriel
Traetta. Questo saggio fa in un linguaggio semplice l’analisi storica dei
soprusi e abusi che hanno portato alla questione palestinese così come viene
raccontata oggi. Un libro che ha l’enorme merito di mettere nero su bianco le
responsabilità internazionali e che può diventare uno strumento utilissimo per
far fronte ai temuti e odiati dibattiti pubblici.
Nessuno di questi tre libri banalizza ragionamenti, speranze e sentimenti.
Semplificano, se necessario, ma mantengono intatto uno sguardo complessivo e
dettagliato insieme. E così facendo tracciano i confini: fra una letteratura che
serve a chi la scrive e una a servizio di chi la legge.
Giulio Calella
Di giorno è uno scrittore di romanzi noir, di notte è addetto alle pulizie nella
metropolitana di Buenos Aires. Lui è Kike Ferrari, e presto lo pubblicheremo
nella collana di letteratura working class edita da Alegre. Intanto vi consiglio
di leggere l’unico suo libro finora tradotto in italiano, Da lontano sembrano
mosche): una sola giornata al mare e non riuscirete mai a staccare gli occhi
dalla pagina. Odio di classe allo stato puro.
A proposito di lotta di classe nel XXI secolo, è assolutamente da leggere Questo
lavoro non è vita, in cui Dario Salvetti del Collettivo di fabbrica Gkn racconta
a Gea Scancarello la storia, le pratiche e le parole della lotta più lunga del
movimento operaio: la lotta che non possiamo permetterci di perdere.
Infine, a poche settimane dalla sua scomparsa, mi torna alla mente il libro che
mi consigliò Goffredo Fofi una dozzina d’anni fa, una volta saputo che non
l’avevo ancora letto: Memorie di un rivoluzionario di Victor Serge (Edizioni
E/O, postfazione di Goffredo Fofi). L’autobiografia dello scrittore anarchico
russo che, una volta scoppiata la rivoluzione, decise che non sarebbe stato «né
contro i bolscevichi né neutrale, sarei stato con loro, ma liberamente, senza
abdicare al pensiero né al senso critico». Maturò così un’originale idea di
marxismo libertario, che negli anni successivi finì per scontrarsi
drammaticamente con lo stalinismo. Scontro che racconta in questo libro, insieme
alle centinaia di vicende e personaggi con cui entrò in contatto diretto nei
primi quarant’anni del Novecento. Lasciandoci la sensazione che un’altra
rivoluzione è possibile.
Marco Bertorello
Propongo quattro gialli/noir, mi sembrano letture compatibili in particolare con
la calura estiva dovuta al crescente disastro ecologico. Massimo Carlotto,
L’oscura immensità della morte. Sandrone Dazieri, Uccidi i ricchi. Grazia
Verasani, Iris di marzo, Ayatsuji Yukito, I delitti della casa decagonale.
I libri di Verasani e Dazieri fanno parte di una serie di indagini che si
sviluppano in precedenti pubblicazioni. Segnalo, dunque, i due appena usciti, ma
forse sarebbe meglio seguire l’ordine di pubblicazione a partire
dall’affacciarsi di questi investigatori, per comprendere meglio le loro storie,
i personaggi che fanno da sfondo alle loro indagini. Nulla impedisce, comunque,
di partire dall’ultimo libro per poi, incuriositi, ripartire dal primo.
Il libro di Carlotto, come viene detto nel retro di copertina, è un richiamo al
Conte di Montecristo, alla sua brama di vendetta, aggiornato ai tempi moderni.
Un uomo che vuole vendicare la tragica, e per certi versi accidentale (o folle e
inspiegabile) morte di moglie e figlio durante una rapina in una gioielleria.
L’occasione è la malattia inguaribile dell’assassino, il quale chiede di poter
vivere i suoi ultimi giorni fuori dalla galera. Un movente, quello della vittima
sopravvissuta, che innesca un meccanismo di ritorsione e morte studiato a lungo
e implacabile, che trasforma la vittima in carnefice. Un libro che mette a fuoco
gli imperanti temi securitari, la retorica sulle vittime e i limiti del carcere
come luogo di recupero o di condanna. Un romanzo breve, intenso e crudo. Dazieri
da un po’ di tempo ci ha consegnato una nuova figura di detective: l’ex
vicequestore Colomba Caselli, con un passato che gli ha prodotto ferite
difficili da ricucire. Nella nuova indagine si occupa, da ex poliziotta (con
tutti i vantaggi e svantaggi del caso), di una serie di omicidi di super
milionari a cui fanno seguito dei post con lo slogan: «Uccidi i ricchi». Una
trama che sembra indicare apparentemente una specie di giustiziere sociale. Ma
la Caselli è poliziotta (o meglio ex) che non si ferma alle apparenze.
Interessante è poi la catalogazione della classe d’appartenenza delle vittime,
definite come quelli che, a differenza che in passato, «possiedono letteralmente
il mondo».
Giorgia Contini è il personaggio bolognese di Grazia Versani. Investigatrice
privata che intreccia legami professionali e sentimentali con poliziotti in
servizio. Le sue sono indagini non eclatanti, ma perciò più autentiche. Casi
umani, nel senso proprio del termine, più a misura di un’umanità spesso
sbandata. Nel suo ultimo caso la Contini viene assoldata da una madre per
sorvegliare il proprio figlio adolescente che è entrato in una baby gang. Il
caso si fa drammatico quando viene trovato il corpo di una giovane di cui gli
appartenenti alla baby gang erano quasi tutti invaghiti. Un’occasione per
investigare nei mondi giovanili della periferia di una città al contempo ricca e
povera.
Infine un giallo giapponese, pubblicato lo scorso anno, dal sapore classico per
gli appassionati del genere. Una sorta di edizione del Sol Levante dei Dieci
piccoli indiani di Agatha Christie. Ambientato in un’isola deserta dove un
gruppo di giovani facenti parte di un circolo del crime dell’Università K
decidono di trascorrere una settimana in una strana abitazione composta da dieci
lati. Un’isola dove l’anno precedente si erano verificati delitti rimasti
irrisolti che hanno fatto da traino per l’insolita vacanza. Dopo la prima notte
uno dei giovani viene trovato ucciso. Da quel momento una serie di richiami ai
classici del giallo invera la storia, fino a giungere a un finale sorprendente.
Un riadattamento intrigante dal sapore insolito e lontano.
Salvatore Cannavò
Due libri che guardano alla storia e al mondo intorno a noi e una gemma lasciata
da Goffredo Fofi. Cambiare la vita? di Gilles Vergnon è una storia del
socialismo europeo dal 1875 a oggi. Non che del socialismo europeo,
dell’Internazionale socialista e delle parabole della socialdemocrazia non si
sappia già tutto. Ma è utile rileggere le gesta socialdemocratiche perché il
libro non fa sconti sui fallimenti e gli errori e aiuta a far capire,
soprattutto a chi quella storia la conosce meno o per nulla, come la sinistra
europea sia arrivata all’attuale tasso di inanità e di complicità con un sistema
che in passato, sia pure a parole, diceva se non di voler abbattere almeno di
trasformare. E, ad esempio, la storia tra il 1912 e il 1914 in cui
l’Internazionale socialista si avviluppa su sé stessa discutendo inutilmente di
uno sciopero generale europeo contro la guerra parla ancora all’attualità.
La critica radicale a tutto ciò che esiste di Andrew Feenberg è un libro che
varrebbe la lettura solo per il titolo. Si tratta di una ricostruzione del
pensiero e opera di Herbert Marcuse, filosofo decisivo nell’era della
contestazione, uno degli esponenti più movimentisti ed eclettici della Scuola di
Francoforte riproposto anche a partire dalle memorie personali dell’autore che
ripercorre i vari momenti di formazione del pensiero marcusiano:
dall’interpretazione giovanile di Marx, alla lettura di Heidegger, Hegel e Freud
alla critica della tecnologia. Un Marcuse sempre vispo nella critica al
capitalismo crisi climatica compresa. La gemma di Goffredo Fofi è invece la sua
piccola enciclopedia su I grandi registi della storia del cinema. Ci sono quasi
tutti e ci sono soprattutto quelli che meno vengono considerati e che invece
hanno dato un contributo decisivo al cinema raccontati dal punto di vista
critico e militante di Fofi che oltre a essere a rimbrottare la sinistra
libertaria e marxista era un fine critico cinematografico, tra i più originali e
meno conformi e che in questo libro consente di costruire una conoscenza
complessiva.
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