Carcere, repressione, sorveglianza, migrazioni

[2025-12-06] Roma Chiama - Disarmiamoci e Disertiamo Guerre e Violenza @ Parco Sangalli
ROMA CHIAMA - DISARMIAMOCI E DISERTIAMO GUERRE E VIOLENZA Parco Sangalli - Parco sangalli (sabato, 6 dicembre 17:00) Come realtà antifascist3 di Roma Est sentiamo la necessità di prendere posizione su un’iniziativa che sta prendendo forma in queste ore. È arrivata notizia che sabato 6 dicembre alle 18, al Parco Sangalli di Torpignattara, Forza Nuova ha convocato una manifestazione con il solito pretesto della “difesa di Roma”: una narrazione tossica, costruita per alimentare paura, razzismo e divisioni, come già visto in altre loro iniziative, comprese quelle legate alla retorica della cosiddetta “remigrazione”. Come realtà antifasciste del territorio riteniamo doveroso non lasciare spazio incontestato a messaggi che dividono e colpiscono chi è più fragile. Il ruolo dei gruppi fascisti, dentro una città segnata da disuguaglianze profonde, è purtroppo sempre lo stesso: farsi braccio armato contro i poveri, spingere verso un clima di guerra sociale verso il basso. Torpignattara è un quartiere ricco di memoria storica, ma oggi soprattutto un luogo multiculturale, attraversato da famiglie, migranti, studenti, associazioni, spazi sociali, scuole, forme di mutualismo e di cultura quotidiana. Ed è proprio questa ricchezza che vogliamo difendere. Un anno fa, sempre in questo parco, si registrò un episodio di violenza ai danni di alcuni immigrati. Anche allora il territorio seppe reagire con dignità e solidarietà, affermando chiaramente che xenofobia e atteggiamenti squadristi non troveranno mai terreno fertile qui. Per questo convochiamo un presidio sabato 6 dicembre alle ore 17 al Parco Sangalli, per affermare un’altra idea di città: aperta, solidale, capace di unirsi contro la barbarie di quattro provocatori che cercano solo visibilità e conflitto. Il nostro presidio vuole chiamare a raccolta l’umanità del quartiere, non solo i gruppi militanti: famiglie, migranti, studenti, insegnanti, associazioni, gruppi culturali, chiunque viva e arricchisca ogni giorno questa zona. Perchè Torpignattara è e rimane antifascista. Ci vediamo sabato alle 17. Partecipate, diffondete, portate la vostra presenza e la vostra voce. Insieme, per un territorio che respinge odio e divisione e afferma convivenza, diritti e dignità per tutte e tutti.
La nuova Nakba
Rifiuti L’accumulo dei rifiuti attorno ai campi di sfollati è un pericolo per la salute della popolazione. Il municipio di Gaza ha denunciato gli attacchi dell’artiglieria israeliana contro gli operatori impegnati a rimuovere i cumuli di rifiuti. “Oltre ad aver chiuso gli accessi alle discariche che ricadono nella zona sotto l’occupazione, i caccia e l’artiglieria prendono di mira i nostri mezzi”. La politica israeliana mira a rendere impossibile la vita a Gaza, per facilitare la deportazione “volontaria” della popolazione. Il responsabile del municipio di Gaza città addetto all’ambiente ha affermato, in un collegamento con Anbamed, “il significato di una determinazione di Israele a rendere la vita impossibile è quello di costringerci a partire. Vogliono ripetere la cacciata del 1948. Nella sola città di Gaza si sono accumulati 350 mila metri cubi di rifiuti e non abbiamo i mezzi per rimuoverle, anche a causa del blocco di rifornimento di carburanti”. Rifugiati L’Assemblea generale dell’ONU ha innovato l’incarico all’Unrwa per i prossimi 3 anni. 151 a favore, 10 contrari e 14 astenuti. I tentativi israeliani di annientare la memoria storica della Nakba sono falliti. L’attacco frontale del governo di Tel Aviv contro l’Unrwa mira infatti alla cancellazione degli strumenti internazionali che garantiscono i diritti storici dei palestinesi: il diritto al ritorno, lo status di rifugiati, il risarcimento. L’esercito israeliano ha deportato tutti gli abitanti dei campi profughi di Jenin, Tulkarem e Nour Shams, per cancellare la memoria delle deportazioni del 1948. Per ammettere il loro ritorno, i militari hanno proposto la rinuncia allo status di “rifugiato” e il non ritorno degli uffici e scuole dell’Unrwa. Ostaggi La vita di Marwan Barghouti è in pericolo.  Ieri, il figlio del leader incarcerato Marwan Barghouti ha diffuso il seguente grido: “Stamattina mi sono svegliato con una telefonata da un prigioniero rilasciato. Mi ha detto: ‘Tuo padre è stato maltrattato fisicamente. Gli hanno rotto denti e costole, gli hanno tagliato via parte di un orecchio e gli hanno rotto le dita a più riprese per divertimento’. Cosa dovrei fare? Con chi dovrei parlare? A chi dovrei rivolgermi? Viviamo in questo incubo ogni giorno… Mio padre ha 66 anni ormai, oh Dio, da dove prenderà la forza?” La famiglia ha tentato di appurare la veridicità delle informazioni e la reale identità del relatore del messaggio. Ma le autorità carcerarie israeliane non ammettono visite e non forniscono informazioni e respingono ogni richiesta delle istituzioni internazionali di visitarlo. Libertà per Marwan Barghouti Sono oltre 30 gli ospedali che parteciperanno mercoledì 10dicembre alla giornata di mobilitazione “La sanità non si imprigiona” per chiedere la liberazione degli oltre 90 sanitari palestinesi detenuti nelle carceri palestinesi. Da Trento a Palermo si terranno dei flashmob che, ricordiamo, sono aperti a tutti i cittadini. Per leggere tutto l’elenco degli ospedali coinvolti: La sanità non si imprigiona – Anbamed È in corso in Italia ed a livello internazionale, la campagna in favore della liberazione dei prigionieri politici palestinesi e in particolare per mettere fine alle torture e maltrattamenti. Al centro di tale campagna vi è l’obiettivo di salvare il Mandela palestinese, Marwan Barghouti, da 23 anni in carcere.  La campagna viene lanciata alla vigilia della giornata mondiale di solidarietà con il popolo palestinese indetta dall’ONU: Campagna internazionale per la liberazione dei prigionieri politici palestinesi – Anbamed ANBAMED
GORIZIA: DIAMO IL FOGLIO DI VIA ALLA LEONARDO. PRESIDIO CONTRO I PROVVEDIMENTI DELLA QUESTURA
Sono otto i fogli di via nei confronti di alcuni attivisti emessi dalla Questura al termine degli accertamenti sui fatti del 13 settembre a Ronchi dei Legionari, quando il corteo di solidarietà con il popolo palestinese si concluse davanti alla sede della Leonardo. I fatti si riferiscono ad alcuni fumogeni accesi durante la manifestazione e presunte minacce nei confronti di un giornalista Rai. Per altri dieci partecipanti è stato notificato l’avviso di procedimento. Le autorità valuteranno caso per caso, dopo il contraddittorio con gli interessati, se confermare o meno i provvedimenti ipotizzati. Questa mattina il presidio a Gorizia nei giardini di corso Verdi “Diamo il foglio di via a Leonardo Spa” con cui ci siamo collegati Ascolta o scarica  
Autonomia Differenziata: il mostro è in casa
In collegamento con Marina Boscaino, Portavoce nazionale dei Comitati per il ritiro di ogni Autonomia Differenziata, facciamo il punto sull'accelerazione del processo di attuazione del DDL Calderoli, a dispetto della Sentenza della Corte Costituzionale (192/2024) dello scorso anno, che smontava nella sostanza l'impianto del progetto, svuotandone di senso numerosi aspetti significativi. Nonostante questo, stiamo assistendo a un rapido rilancio del piano con la firma delle pre-intese su alcune materie tra il Governo e quattro regioni del nord (Veneto, Piemonte, Lombardia e Liguria) e con l'inserimento della definizione di alcuni LEP nella legge di Bilancio. Con Marina Boscaino analizziamo gli ultimi sviluppi della questione e lanciamo i prossimi appuntamenti di mobilitazione 
Anche il PD equipara antisionismo e antisemitismo…
INCREDIBILE L’ASCESA DELLA EQUIPARAZIONE TRA ANTISIONISMO E ANTISEMITISMO: L’ENNESIMO DECRETO DI LEGGE DI STAMPO REVISIONISTA APRE UNA NUOVA CACCIA ALLE STREGHE…QUESTA VOLTA DA PARTE DEL PARTITO DEMOCRATICO CON GRAZIANO DELRIO. Incalcolabili sono i danni recati dalla parentesi renziana a capo del Partito Democratico, danni che poi portano alcuni nomi e cognomi con posizioni in politica estera analoghe, o fotocopia, di quelle delle destre. A volte tornano sotto i riflettori distinguendosi con l’inutile servilismo verso lo Stato di Israele, presentando una proposta di legge che equipara l’antisionismo all’antisemitismo, superando a destra i parlamentari di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega. Il Disegno di Legge, presentato da Graziano Delrio, denominato “Disposizioni per il rafforzamento della strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, e per la prevenzione ed il contrasto all’antisemitismo e delega al Governo in materia di disciplina degli interventi relativi ai contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme online di servizi digitali” già dal titolo fa capire il fine della iniziativa: un controllo repressivo che riguarderà scuole, università, realtà sociali e i social destinatari della campagna securitaria (clicca qui per le info). Il disegno di legge segue i classici copioni sperimentati in qualche trasmissione televisiva: narrare la piaga dilagante dell’antisemitismo, dell’odio verso gli ebrei condito da rigurgiti razzisti. E così gli autori del genocidio, i sionisti, in un colpo solo diventano le vittime. E la fonte da cui attingere dati e informazione non è certo super partes, parliamo del monitoraggio operato dal Centro di documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) (https://www.osservatorioantisemitismo.it/), vicino ad ambienti sionisti e da anni attivo nel catalogare ogni espressione di odio contro gli ebrei che spesso e volentieri vengono confusi con i fautori del sionismo. Peccato che tra le segnalazioni si possa ritrovare anche un semplice adesivo di solidarietà con la Palestina affisso alla fermata dei bus o all’ingresso di una mensa. La narrazione parla di un incremento degli episodi antisemiti molti dei quali non sarebbero tracciati giusto a drammatizzare ulteriormente la situazione. Leggiamo testualmente: «Le evidenze raccolte non sono solamente allarmanti da un punto di vista quantitativo, essendo rilevante l’esame qualitativo della tipologia degli atti segnalati, consistenti, tra l’altro, in invettive e stereotipi antisemiti nella realtà virtuale e nella vita quotidiana, in particolare nelle istituzioni scolastiche e universitarie. Si ravvisano altresì minacce a persone ed istituzioni ebraiche, atti di discriminazione (si pensi a esponenti politici e giornalisti cui è stata resa impossibile la partecipazione agli eventi pubblici) e persino alle aggressioni fisiche in luoghi pubblici». Avete letto bene? In Italia radio, giornali e tv sarebbero occupati da antisemiti, giornalisti e politici, manipoli di razzisti si aggirerebbero per le città nel solo intento di impedire l’esercizio di parola agli ebrei recendo loro violenza verbale e fisica. La verità è che le reti Mediaset e la Rai sono sistematicamente occupate da esponenti del centrodestra con posizioni filoisraeliane, parliamo di oltre il 90% degli ascolti televisivi, aggiungiamo i giornali nelle mani di pochi gruppi editoriali e schierati a destra o, se su posizioni del centro sinistra, vicino alle posizioni governative in materia di politica estera. Vittimismo o strategia del complotto? Continuando a leggere il disegno, l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo si fa sempre più forte fino a denunciare un’autentica persecuzione degli ebrei ai quali sarebbe impedito di manifestare la loro stessa religione e identità. Negli ultimi anni da parte dei movimenti solidali con la causa palestinese non c’è stato alcun gesto contro simboli ebraici e sinagoghe, al contrario gli episodi di aggressione ai danni di attivisti filopalestinesi risultano innumerevoli. La narrazione vittimista è funzionale a descrivere una realtà falsata, le grandi adesioni alle mobilitazioni contro il genocidio possono essere avversate non criminalizzando i milioni di partecipanti, ma facendo credere che nel Paese il germe del razzismo antisemita sta prendendo corpo, il passaggio successivo sarà la criminalizzazione di tutti i solidali e gli antisionisti trasformati in odiatori da tastiera al pari di chi lancia invettive senza costrutto assalito dall’odio instillato dalle dichiarazioni avventate di politici senza memoria. E tra gli odiatori chi ritroviamo? Una lunga sequela di nemici che vanno dai movimenti sociali ai sindacati, dagli intellettuali non allineati agli islamici tout court, tutti accomunati da odio ed aggressività. Ma qual è il fine di questo disegno di Legge? Leggiamo dal testo: «Il presente disegno di legge si pone l’obiettivo di adattare la disciplina vigente in ambito digitale e formativo, recando misure volte a prevenire e contrastare le nuove forme di antisemitismo nonché a rafforzare efficacemente l’attuazione della Strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, elaborata nel quadro di quella europea dal Coordinatore nazionale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri». Incredibile la descrizione del propagarsi dell’odio antisemita che, secondo questo disegno di legge, sarebbe una minaccia pericolosa alla democrazia e alla libertà. Passando in rassegna il testo si va dalla delega al Governo per l’adozione – entro sei mesi – di uno o più decreti legislativi, volti a disciplinare in modo organico il contrasto all’antisemitismo online (il che fa presagire il controllo della rete stessa, la chiusura di bollettini, siti, pagine social e riviste di orientamento antisionista), fino alla tutela della libertà della ricerca e di insegnamento in ambito universitario, come se l’autentica minaccia all’università non fosse rappresentata dalla Bernini e dai suoi provvedimenti che andranno ad espellere migliaia di ricercatori. Il vero obiettivo di questo disegno è la normalizzazione del controllo nelle scuole e nelle università a partire dalla sorveglianza dell’operato dei docenti, istaurando un clima repressivo e di soffocante controllo pur celandosi dietro al sommo «valore della conoscenza ed il principio della libera manifestazione del pensiero, nella fondamentale ottica del reciproco rispetto e del confronto civile» (Cass. civ. 28853/2025). E dopo l’alza bandiera arriveranno le buone azioni contro l’antisemitismo, spingendo le scuole a segnalare tutte le iniziative intraprese a sostegno di queste indicazioni con tanto di segnalazioni alle forze di polizia e al Ministero di ogni azione e opinione che possa configurarsi come antisemita. E ancora una volta si va a confondere antisemitismo con antisionismo. Chiunque criticherà l’operato di Israele verrà tacciato di istigatore dell’odio razziale alla stessa stregua di un nazista. Se questo è il disegno di legge partorito dalla fervida immaginazione di un parlamentare del PD, la prossima mossa del centrodestra sarà quella di venirci a prendere a casa per portarci in qualche carcere. Occorre fermare oggi questa follia; occorre fermarli con le ragioni, le azioni propositive e le argomentazioni di cui siamo capaci, è ormai un dovere etico e civile. Federico Giusti Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
🔴 Red Star Press 🔴 il punto è diventato non che se ne devono andare i fascisti, ma che se ne deve andare la Red Star Press cit. "eh ma allora le foibe?" https://www.radiondadurto.org/2025/12/05/piu-libri-piu-liberi-la-stampa-di-destra-mette-nel-mirino-la-cooperativa-red-star-press/ https://www.radiocittafujiko.it/plpl-le-polemiche-sulla-casa-editrice-fascista-ribaltate-per-attaccare-la-red-star-press/
Sanità: il pubblico arretra sempre più, mentre i privati occupano gli spazi vuoti
  La spesa delle famiglie è ormai schizzata oltre i € 41 miliardi e dal 2022 al 2024 +1,7 milioni di persone hanno rinunciato a prestazioni sanitarie. Il privato convenzionato domina le RSA e la riabilitazione, ma mostra segni di crisi. Boom invece del privato puro: in 7 anni +137% di spesa out-of-pocket. Sono alcuni dei dati snocciolati da Nino Cartabellotta, Presidente della Fondazione GIMBE, al 20° Forum Risk Management di Arezzo, presentando un’analisi indipendente sull’ecosistema dei soggetti privati in sanità e sulla privatizzazione strisciante del SSN. Un’analisi che documenta come il progressivo indebolimento della sanità pubblica lasci sempre più spazio all’espansione silenziosa di una moltitudine di attori privati, spesso identificati erroneamente con le sole strutture private accreditate. La Fondazione GIMBE indica 4 macro-categorie di soggetti privati: erogatori che forniscono servizi e prestazioni sanitarie e socio-sanitarie; investitori che immettono capitali con finalità di sviluppo del settore e di produzione di utili; terzi paganti (fondi sanitari, assicurazioni, etc.) che svolgono la funzione di pagatore intermedio tra erogatori e cittadini; realtà che stipulano partenariati pubblico-privato (PPP) con Aziende Sanitarie, Regioni e altri enti. Ciascun soggetto privato può avere natura giuridica profit o non-profit: questi ultimi, se non rappresentano una minaccia per il SSN, nella percezione pubblica finiscono per essere considerati alla stregua di attori privati con elevata propensione ai profitti. Nel 2024 la spesa sanitaria a carico dei cittadini (out-of-pocket) ammonta a € 41,3 miliardi, pari al 22,3% della spesa sanitaria totale: percentuale che da 12 anni supera in maniera costante il limite del 15% raccomandato dall’OMS, soglia oltre la quale sono a rischio uguaglianza e accessibilità alle cure. In Italia la spesa out-of-pocket in valore assoluto è cresciuta da € 32,4 miliardi del 2012 a € 41,3 miliardi del 2024, mantenendosi sempre su livelli compresi tra il 21,5% e il 24,1% della spesa totale. “Con quasi un euro su quattro di spesa sanitaria sborsato dalle famiglie, ha sottolineato Cartabellotta, oggi siamo sostanzialmente di fronte a un servizio sanitario “misto”, senza che nessun Governo lo abbia mai esplicitamente previsto o tantomeno dichiarato. Peraltro, la spesa out-of pocket non è più un indicatore affidabile delle mancate tutele pubbliche, perché viene sempre più arginata dall’impoverimento delle famiglie: le rinunce alle prestazioni sanitarie sono passate da 4,1 milioni nel 2022 a 5,8 milioni nel 2024”. In altre parole, la spesa privata non può crescere più di tanto perché nel 2024 secondo l’ISTAT 5,7 milioni di persone vivevano sotto la soglia di povertà assoluta e 8,7 milioni sotto la soglia di povertà relativa. Dal Sistema Tessera Sanitaria è possibile identificare chi “incassa” la spesa a carico dei cittadini. Nel 2023, anno più recente a disposizione, i € 43 miliardi di spesa sanitaria privata sono così suddivisi: € 12,1 miliardi alle farmacie, € 10,6 miliardi a professionisti sanitari (di cui € 5,8 miliardi odontoiatri e € 2,6 miliardi ai medici), € 7,6 miliardi alle strutture private accreditate e € 7,2 miliardi al privato “puro”, ovvero alle strutture non accreditate e € 2,2 miliardi alle strutture pubbliche per libera professione e altro. Si tratta di numeri che fotografano con chiarezza che la privatizzazione della spesa sta determinando una progressiva uscita dei cittadini dal perimetro delle tutele pubbliche, con l’acquisto diretto sul mercato delle prestazioni necessarie. Secondo l’Annuario Statistico del Ministero della Salute, nel 2023 delle 29.386 strutture sanitarie censite, il 58% (n. 17.042) sono strutture private accreditate e il 42% (n. 12.344) strutture pubbliche. Il privato accreditato prevale ampiamente in varie tipologie di assistenza: residenziale (85,1%), riabilitativa (78,4%), semi-residenziale (72,8%) e, in misura minore, nella specialistica ambulatoriale (59,7%). Nell’assistenza residenziale il pubblico arretra del 19,1% mentre il privato accreditato cresce del 41,3%; nell’assistenza semi-residenziale il pubblico segna -11,7% a fronte di un aumento del 35,8% del privato. Nell’assistenza riabilitativa crescono entrambi, ma con percentuali molto diverse (+5,3% pubblico vs +26,4% privato). Infine, nell’altra assistenza territoriale, pur con un aumento assoluto più rilevante nel pubblico, il privato accreditato registra una crescita percentuale quasi doppia (+35,3% vs +18,6%). “Diverse Regioni, sottolinea il presidente della Fondazione GIMBE, hanno favorito un’eccessiva espansione del privato accreditato senza disporre di risorse adeguate, visto che l’imponente definanziamento del SSN ha mantenuto ferme le tariffe di rimborso delle prestazioni”. Per quanto riguarda, infine, il privato non convenzionato, ovvero le strutture sanitarie, prevalentemente di diagnostica ambulatoriale, che erogano prestazioni esclusivamente in regime privato, senza alcun rimborso a carico della spesa pubblica, negli ultimi anni vi è stata la crescita più marcata: tra il 2016 e il 2023 la spesa delle famiglie verso le strutture non convenzionate è aumentata del 137%, passando da € 3,05 miliardi a € 7,23 miliardi, con un incremento medio di circa € 600 milioni l’anno. Nello stesso periodo la spesa delle famiglie per il privato accreditato è cresciuta solo del 45%; di conseguenza il netto divario tra spesa delle famiglie verso il privato “puro” e verso il privato convenzionato si è praticamente azzerato passando da € 2,2 miliardi nel 2016 a soli € 390 milioni nel 2023. Qui per approfondire: https://www.gimbe.org/pagine/341/it/comunicati-stampa. Giovanni Caprio
Le lettere di pace della Flottilla dei Bambini del Mondo
Le Lettere di Pace, inviate da scuole italiane e straniere ai responsabili politici attraverso la “Flotilla dei bambini del mondo” – che continua a solcare il mare – hanno ormai superato le diverse migliaia, trasformandosi in un movimento pedagogico e civile che sorprende per maturità, partecipazione e profondità. Promossa dal Gruppo Educazione alla pace e alla nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa, con il sostegno di oltre quaranta associazioni nel mondo aderenti alla Federazione Internazionale dei Movimenti di Scuola Moderna, l’iniziativa ha coinvolto insegnanti e classi dagli asili alle scuole superiori, mostrando come l’educazione possa davvero diventare un laboratorio vivo di riflessione sulla pace. I docenti si sono assunti un ruolo ulteriore rispetto a quello tradizionale: non solo trasmettitori di contenuti, ma veri educatori alla pace. Hanno guidato alunne e alunni a interrogarsi sulle guerre che attraversano il pianeta, sulle responsabilità politiche e soprattutto sulle possibilità concrete di reagire, anche con un gesto semplice come la scrittura collettiva di una lettera. È nata così la pratica della “messa in mare” delle Lettere di Pace, un gesto simbolico e al tempo stesso concretissimo, perché quelle lettere sono finite sui tavoli di presidenti di organismi internazionali, figure apicali della politica europea e nazionale, amministratori locali e autorità morali come il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella e Papa Leone XIV, ai quali gli organizzatori sperano di poter chiedere un incontro con gli studenti. Il Presidente della CEI, cardinale Matteo Zuppi, ha incoraggiato apertamente il progetto, sottolineando come sia fondamentale riconoscere ai giovani il diritto di esprimersi sulla pace, sulla guerra e su tutte le questioni che riguardano il loro futuro. È un incoraggiamento che ha trovato eco nel testo con cui il Movimento ha invitato le classi ad aderire: fermare le guerre non è semplice ma la pace si costruisce ogni giorno, iniziando proprio a scuola, imparando ad ascoltarsi, a parlarsi, a risolvere i piccoli conflitti nel rispetto reciproco. Se le lettere viaggiano numerose, se i media ne danno conto, allora anche i politici non potranno ignorare il messaggio delle giovani generazioni, che immaginano il loro futuro con una sola parola: pace. In un mondo in cui l’Unione Europea e le Nazioni Unite, nati come strumenti di prevenzione dei conflitti, non riescono più a garantire una prospettiva stabile di disarmo e riconciliazione, la voce dei più piccoli risuona come un monito e un atto di fiducia. Le guerre continuano a devastare territori e vite, a cancellare speranze e diritti, e parlare di disarmo sembra sempre più un’utopia. Per questo le scuole sentono su di sé un compito nuovo e urgente: educare alla pace, alle relazioni nonviolente, alla ricerca della giustizia come fondamento della convivenza. La didattica democratica e cooperativa, tradizione storica del Movimento di Cooperazione Educativa, permette alle classi di discutere, approfondire e confrontarsi su temi di vita reale. Tutti possono contribuire con passione, entusiasmo e sensibilità, sentendosi parte di un percorso collettivo. È questo approccio che ha favorito un’adesione così ampia da rendere necessaria la proroga dell’iniziativa fino al termine dell’anno scolastico. Le classi potranno continuare a partecipare inviando le proprie lettere e condividendone copia all’indirizzo dedicato, mentre sul sito del MCE è disponibile l’area con i materiali didattici utili alle attività. Accanto alle Lettere di Pace proseguirà anche “Facciamo la pace a…”, il progetto nazionale e internazionale che invita bambini e ragazzi a costruire pace nei luoghi quotidiani: in casa, a scuola, con gli amici, attraverso la gestione nonviolenta dei contrasti. È un modo per far comprendere che la pace non è un concetto astratto né un compito delegato solo ai potenti, ma una responsabilità che si esercita ogni giorno nei gesti più semplici. Il percorso è guidato dal Gruppo Nazionale di Ricerca sull’Educazione alla Pace e alla Nonviolenza del Movimento di Cooperazione Educativa, coordinato da Roberto Lovattini. Il MCE è riconosciuto dal Ministero dell’Istruzione come ente qualificato per la formazione del personale scolastico, e questa iniziativa conferma il valore della sua azione educativa. In un tempo segnato da conflitti e polarizzazioni, le Lettere di Pace ricordano che un altro modo di guardare il mondo è possibile: basta ascoltare la voce limpida e determinata dei più giovani. Laura Tussi
Il prezzo da pagare per il lavoro: condannati a due anni e due mesi di reclusione
Siamo alla vigilia della conferenza stampa istituzionale che dovrebbe ufficializzare l’avvio del cronoprogramma del tirocinio-lavoro. da Movimento di Lotta – Disoccupati 7 Novembre Nel primo pomeriggio di venerdì 5 dicembre Maria, Eddy, Dario, Vincenzo, Enrico, Marco, Luigi, Davide, tutte/i compagne/i del nostro movimento dei disoccupati organizzati sono state/i condannate/i in primo grado a due anni e due mesi di reclusione per un’iniziativa di lotta nel 2019 al Teatro Sannazzaro, dove chiedemmo di intervenire in occasione dell’inaugurazione della campagna elettorale delle europee del PD e dove era prevista la presenza di Nicola Zingaretti, del Presidente della Regione Campania Vincenzo De Luca e di altri esponenti al convegno “Prima il Lavoro in Europa”. La lotta per il salario, per la giustizia sociale, per il lavoro socialmente utile contro precarietà, contro lo sfruttamento, i salari da fame, i ricatti, il lavoro povero viene criminalizzata e condannata da un lato (dove prosegue il maxiprocesso e continuano ad arrivare gli avvisi orali, le condanne e le denunce) mentre dall’altra compie concreti passi in avanti per il futuro di oltre mille disoccupati/e in città.
«Contro la destra serve complessità»
Articolo di Caparezza, Jacopo Custodi Michele Salvemini, in arte Caparezza, non ha bisogno di molte presentazioni: da oltre vent’anni è una delle voci più originali della musica italiana. Rapper in continua evoluzione, ha un pubblico vasto e fedele che lo ha seguito attraverso concept album sempre nuovi, in cui si mescolano linguaggi, generi musicali e immaginari. Album che somigliano più a degli universi narrativi che a semplici dischi. Il più recente, Orbit Orbit, uscito il 31 ottobre, è accompagnato da un fumetto scritto da lui, vecchio sogno adolescenziale finalmente portato a compimento. È uno dei pochi musicisti italiani contemporanei capaci di tenere insieme successo commerciale, sperimentazione artistica e impegno politico. Le sue canzoni continuano a risuonare nei cortei e nelle manifestazioni in tutta Italia, senza che lui si sia mai appiattito sugli stereotipi estetici e linguistici del «cantante di sinistra». Ogni volta che pubblica un nuovo disco scala le classifiche e buca il mainstream, per poi tornare volentieri nell’ombra, lontano dall’opinionismo permanente dei social e dalla ricerca ossessiva di visibilità. Lo abbiamo incontrato nel suo studio a Molfetta, pochi giorni dopo le elezioni regionali pugliesi, segnate anche da piccole polemiche locali per via di alcuni politici che hanno contrapposto i seggi vuoti alle file lunghissime per il firmacopie di Caparezza in città. Con lui abbiamo parlato di libertà, di musica, di pathosfera e di politica. Il 31 ottobre è uscito il tuo nuovo album, Orbit Orbit, per la prima volta accompagnato anche da un fumetto che lo complementa. È un’opera ibrida che sembra chiudere una trilogia: Prisoner 709 parlava della prigionia mentale, Exuvia della fuga, Orbit Orbit della libertà. Che tipo di libertà racconti e quanto ti sembra davvero raggiungibile? Quando si parla di libertà si apre subito un vaso di Pandora, perché ogni idea di libertà si porta dietro anche le sue contraddizioni. Chi è davvero libero, quale società è davvero libera? Quella occidentale o quelle che si contrappongono a quella occidentale? Come misuriamo la libertà? Insomma, entriamo subito in un ginepraio. Io mi sono sempre sentito un «prigioniero della Terra» – come lo siamo tutti – perché ho sempre visto il pianeta come una bella galera da cui non si può fuggire, e la forza di gravità come una specie di braccialetto elettronico. Allora mi sono chiesto: qual è stata, nella mia vita, una vera forma di libertà? Perché alla fine il disco è molto personale. L’unica risposta evidente era l’immaginazione. Per me l’immaginazione è una forma autentica di libertà: in nessun contesto puoi vietare a una persona di immaginare qualcosa di migliore o di peggiore.  L’unico vincolo, l’unica contraddizione, è che l’immaginazione agisce prendendo come punto di riferimento la realtà. Per spiegarmi uso un esempio di Karl Jaspers, filosofo tedesco che ha studiato Van Gogh e ha concluso che il suo atto creativo fosse una reazione alla malattia. Secondo Jaspers l’atto creativo è come una perla: così come la conchiglia crea la perla, così l’essere umano crea l’opera d’arte. Ma la conchiglia crea la perla quando dentro entra un granello di sabbia o qualcosa che la infastidisce: per anestetizzare quel dolore lo ricopre di madreperla e nasce la perla. Tutte le perle hanno dentro qualcosa di disturbante. Nel mio caso la realtà è la cosa disturbante, l’immaginazione è la madreperla e la perla è l’opera – in questo caso Orbit Orbit – che metto al mondo. Quindi per me l’immaginazione è una forma di reazione alla realtà: è libertà ma è anche resistenza. Non credo sia una libertà «pura», nel mio caso è proprio una forma di resistenza. E Orbit Orbit è, nel fumetto, l’onomatopea dell’immaginazione: ecco perché l’album si chiama così. L’orbita è movimento ma anche una ripetizione intorno a un centro. Per un progetto che parla di libertà, ti interessava di più l’idea di fuga dal sistema o quella di imparare a muoversi dentro i suoi campi gravitazionali? Bisogna imparare a muoversi dentro. È così anche nel fumetto: le tavole si chiamano «gabbie» e la libertà si esercita proprio all’interno di queste gabbie. La fuga, per me, era il tema di Exuvia, l’album precedente, e rappresentava il passaggio da uno stato all’altro. In parte è successo davvero, perché a un certo punto sono diventato sceneggiatore di fumetti, quindi questa transizione si è compiuta. Ma mi sono reso conto che la fuga assoluta non è possibile. L’immaginazione deve saper convivere con la realtà e muoversi all’interno di queste micro e macro gabbie. Nel tuo ultimo album c’è una bellissima canzone in cui parli di come abbiamo perso empatia, di come siamo usciti dalla «pathosfera». Secondo te come si rientra nella pathosfera? È una domanda dalla risposta difficile, perché il mio è più un desiderio che una ricetta. Mi sono accorto che, man mano che cresciamo, tutto ciò che ci circonda diventa sempre più insostenibile. Per salvarmi, per non essere continuamente ferito, mi sono reso conto che iniziavo anch’io a costruire delle barriere intorno a me, a far finta di non vedere, ad anestetizzarmi, a uscire dalla pathosfera. È un errore, ma penso sia un errore che accomuna tante persone oggi, nell’era dei social, dove sei costantemente sotto attacco da chiunque. E spesso le stesse persone che attaccano sono quelle che non riescono a reggere i colpi quando li subiscono. Allora ti difendi creandoti una corazza di cinismo, che però è molto pericolosa, perché quando perdi la fiducia nell’umanità è un attimo che perdi la tua di umanità. Il vero pericolo è diventare insensibili: non riconoscere più le cose e le persone belle che hai intorno. Ma puoi riconoscerle solo se accetti anche la loro parte negativa. Credo che questa sia una grande lezione della vita, che ho imparato nel mio giro di boa di cinquantenne. Quindi, per rientrare nella pathosfera, bisogna tornare a essere empatici, ma l’empatia è un atto violento, nel senso che quando ti metti davvero nei panni dell’altro non è facile sopportarne il peso e le contraddizioni. Bisogna accettare di fare a pugni con la realtà e con quello che ci fa male, invece di anestetizzarci. So che ci sono anche persone un po’ deluse dalla mia «virata» su queste tematiche, dopo dischi considerati più politici. Ma per me la politica non è per forza fare il tribuno del popolo, anche i sentimenti rientrano nella politica, anzi direi che la politica del sentimento è quella più autentica, più forte, più coinvolgente. Questa introspezione è qualcosa che ti accomuna ad altri grandi artisti impegnati – penso a Zerocalcare – che come te partono spesso da sé stessi per parlare del mondo. È un po’ un segno dei tempi secondo te? Abbiamo bisogno di partire dalle esperienze autobiografiche per parlare della collettività? Questa è una cosa che, nel mio caso, è avvenuta crescendo. Quando ero giovane mi sentivo parte integrante di un mondo che si muoveva nel presente. Poi a un certo punto dentro di me è cominciato a fare capolino il passato. Non so per quale motivo, forse perché c’è sempre meno futuro. E in qualche modo il passato ti ricorda che sei stato tante cose diverse, hai avuto varie vite. Così ho iniziato a vedermi come un viaggio e non più come un ragazzo che vive nel suo contesto sociale, che lotta per il suo presente e per un futuro migliore collettivo. Ho cominciato ad analizzare tutte le tappe del mio viaggio, che non è fatto soltanto di posti bellissimi, è fatto anche di posti orrendi, come tutte le vite di ciascuno di noi. E questa cosa probabilmente è una necessità, io la vedo come una necessità adulta. Sentivo che non volevo più parlare, che non volevo più puntare il dito, ma volevo rivolgerlo verso di me, per capire che cosa è successo nella mia vita. Questo non significa che abbia smesso di pensare alla collettività, semplicemente ho pensato che prima di salire sul pulpito dovessi capire meglio chi sono io sul pulpito. Perché poi diventa più credibile quello che dici dal pulpito. Una domanda soprattutto per i lettori americani che ti leggeranno: in un’intervista hai raccontato che il primo album che hai comprato era dei Run Dmc e anni dopo, ormai affermato, hai anche collaborato con Darryl McDaniels. Che influenza ha avuto il rap americano – e più in generale la musica statunitense – su di te? Il rap americano è stato l’epifania della mia vita musicale. Da piccolo non ho mai avuto il desiderio di diventare un cantante, perché ero molto introverso – e sono ancora molto introverso, anche se ho fatto un lavoro su di me. Da bambino il mio desiderio era diventare fumettista, perché mi immaginavo dentro una stanza, fuori dall’ambiente circostante, solo io e la mia fantasia. Poi a un certo punto succede qualcosa: vedo in tv You Be Illin’ dei Run Dmc. L’immagine di questi tre ragazzi in tuta che fanno rap, con uno di loro che ottiene suoni muovendo i vinili – e io a casa avevo un sacco di vinili di mio padre – mi colpisce tantissimo. Era come usare un oggetto per qualcosa per cui non era «nato», un po’ come Zappa quando in una trasmissione si mette a suonare le ruote di una bicicletta. In più da bambino ero affascinato dal suono delle parole: adoravo gli scioglilingua. Vedere quella cadenza ritmica, quel modo di parlare in modo musicale, è stata una folgorazione sulla via di Damasco. Non sapevo neanche che quello fosse rap, né chi fossero davvero quei tre. Sono andato in un negozio di dischi a Molfetta a chiedere insistentemente l’album dei Run Dmc che conteneva You Be Illin’. Non c’era internet, il disco arrivava dall’America e non era distribuito in Italia, così sono tornato in quel negozio un’infinità di volte per vedere se fosse arrivato. Quando finalmente è successo, mi ricordo benissimo di me davanti alla cassa, col proprietario che indugiava a fare lo scontrino e io che non vedevo l’ora di correre a casa per ascoltarlo tutto. Per me il rap americano è stato il Big Bang.  Ovviamente parlare di «rap americano» è dire tutto e niente, perché è partito in un modo ed è diventato tutt’altro. Io, per esempio, non ho mai subito il fascino del gangsta rap: lì un certo tipo di atteggiamento ha cominciato a non piacermi più. Ma con i Run Dmc, e poi con gruppi come Public Enemy e Beastie Boys, ogni nuovo disco era come aprire una scatola di giocattoli. Ho iniziato a pensare che potessi provare a fare anch’io rap quando ho sentito per la prima volta Frankie hi-nrg, uno che aveva trovato un modo per tradurre in italiano quella stessa forza comunicativa. Un’altra cosa che interessa ai lettori di Jacobin è capire come siamo passati dall’Italia del più grande Partito comunista d’Europa a un paese governato da Giorgia Meloni. Tu che lavori sull’immaginario e sulle emozioni collettive, come vivi questa fase politica? Cosa racconta, secondo te, del nostro paese? Credo che il Partito comunista italiano sia stato il partito più credibile e più serio di tutti. Era un partito in cui c’era anche della poesia, non so come dire… Oggi invece viviamo in un paese che secondo me non è di destra, ma è populista, in cui c’è una disaffezione verso la complessità. C’è proprio un rifiuto della complessità a livello generale, non solo in politica. Ma è sbagliato, perché la vita è la cosa più complessa che esiste. Oggi quando c’è un problema complesso – pensiamo alle emigrazioni – la risposta semplice è quella che attecchisce. La famosa politica di pancia funziona di più perché approfondire è faticoso, ma se ti rifiuti di approfondire stai impoverendo anche il meccanismo cerebrale che ti porta a evolverti come persona. E così si comincia a vivere in una società manichea. Non penso però che sia un problema solo italiano, lo vediamo anche negli Stati uniti. È proprio un problema generale, alimentato forse anche dal web, in cui le notizie diventano semplicemente un titolo da clickbait e gli algoritmi alimentano le polarizzazioni. Questo sta impoverendo il dialogo, sta impoverendo l’approccio alla vita. Il semplicismo è il grave problema di questo momento storico. E non era così nel passato: per esempio le lettere che Van Gogh scriveva al fratello Teo (a un certo punto sono andato in fissa per Van Gogh) erano di una profondità e di una valenza narrativa fortissima. Si ambiva alla complessità, ora si ambisce al semplicismo, che attenzione non è la semplicità. La semplicità è un valore, soprattutto nella divulgazione, è il semplicismo il problema. Negli ultimi anni si è molto discusso a sinistra del rapporto fra cultura e politica. Da un lato abbiamo visto come incentrare la politica sulla dimensione culturale possa produrre fenomeni problematici come le culture wars; dall’altro, in Italia sappiamo fin dai tempi di Antonio Gramsci quanto l’egemonia culturale sia importante per conquistare nuovi diritti. Tu da artista che nella produzione culturale non dimentica la politica cosa ne pensi di questo complicato rapporto? Partiamo dall’arte: io penso che nell’arte sia tutto lecito e lo dico in maniera lapidaria. Nell’arte non puoi assolutamente mettere paletti, di nessun tipo. Poi gli artisti si assumeranno la loro responsabilità per quello che dicono, ma l’arte è qualcosa d’altro rispetto alla comunità, alla vita, quindi diciamo che io sull’arte e sulla creatività non voglio paletti. Sono contro la cancel culture: non sono per andare a prendere cose del passato e censurarle, perché sono una testimonianza del passato e danno forza a quello che accade oggi. Oggi, se guardi un vecchio film in cui si prende in giro una categoria e lo confronti con un film di oggi, in cui si sta più attenti, capisci che è stato fatto un passo avanti. Però, se mi cancelli la testimonianza del passato, quest’evoluzione si perde. Lo stesso vale per le statue dei personaggi del passato: non sono per il loro abbattimento, ma per cambiare il modo in cui le raccontiamo. Altrimenti è come cancellare porzioni della tua vita. Io ho fatto cazzate nella mia vita, ma non posso cancellarle, altrimenti esco dalla pathosfera. Devono aver avuto un senso, anche solo quello di avermi portato a essere una persona migliore. Dovremmo guardare alla società allo stesso modo: come a un essere umano che cresce e cambia. Ovviamente, nella vita e in politica, le battaglie culturali servono e sono importanti. Però, personalmente, sono per le rivoluzioni culturali consapevoli: non che io mi sveglio e da oggi si fa così, perché in quel modo non cambi realmente e culturalmente le persone. Preferisco i piccoli passi avanti collettivi che, quando diventano consapevoli, non li tocchi più, o almeno si spera. Vieni da Molfetta e hai portato spesso nei testi e nello stile uno sguardo laterale rispetto ai canoni culturali dominanti. In che modo il fatto di venire da una città medio-piccola del sud ha modellato il tuo modo di fare cultura e le tue idee politiche? Non lo so, mi sembra che il mio approccio alla vita derivi più da come sono fatto io, dal mio carattere, che dal posto in cui sono nato. Però provo a ragionarci adesso: Molfetta è un paesone in cui sopravvive un’idea di comunità e dove non c’è ancora quell’individualismo spinto tipico dei paesi capitalisti contemporanei. Questo genera forme di aiuto e di solidarietà, e ci aiuta a stare dentro la pathosfera. Mi piace vivere qui, e questa è una zona bellissima. Ci sono però anche dei problemi, ad esempio le questioni legate alla criminalità, che proprio non sopporto per indole e che mi fanno contorcere lo stomaco. I miei miti non saranno mai quelli celebrati dagli sceneggiati contemporanei. Ho anche un rapporto difficile con la religione cattolica, che qui è molto radicata. A volte, soprattutto durante le festività, la fede viene vissuta con un afflato un po’ troppo doloroso, con l’ostentazione del dolore. Durante la settimana di Pasqua vedi gente trafitta, gente che piange, gente incappucciata. Sono cose che non mi hanno fatto bene da bambino, mi hanno generato ansie e paura. Una cosa bella invece è che, al di là della religione, a Molfetta e nelle città limitrofe si tende a sdrammatizzare molto, e questo mi ha aiutato a non prendermi mai troppo sul serio, a non sentirmi un divo. Ho sempre sdrammatizzato il mio ruolo e per fortuna non mi sono mai sentito «sto cazzo» e questa cosa secondo me fa parte del modo di essere di un molfettese. Che rapporto hai oggi con la parola «sinistra»? È ancora una bussola o è diventata una categoria troppo confusa? Io in tutta la mia vita ho sempre votato Rifondazione comunista [a Molfetta Rifondazione si presenta ancora col proprio simbolo e alle ultime elezioni comunali il suo candidato ha preso l’8,1%, NdR]. Sono nato in una famiglia che più o meno orbitava politicamente intorno alla Democrazia cristiana, quindi non ho avuto un imprinting comunista, semplicemente mi sono avvicinato a Rifondazione guardando quello che facevano i ragazzi del partito qui a Molfetta. Mi sono appassionato a loro e quindi ho sempre votato per Rifondazione. I ragazzi di Rifondazione erano quelli che facevano le cose più interessanti, erano i più sinceri e i più onesti. Difficilmente potrei votare per il centrosinistra oggi, che mi sembra troppo di centro, troppo di stampo democristiano. Qual è il tuo album preferito?  Il mio album preferito è sempre l’ultimo che ho fatto, perché è il più fresco ma anche perché ogni nuovo album per me è come se fosse una morte da celebrare. Quando pubblico un disco mi libero di pensieri che in maniera frustrante ho faticato a mettere su carta per anni e quindi per me è una morte da festeggiare. Forse è l’imprinting religioso e molfettese che ritorna! Ultima domanda: non so se lo sai, ma Zohran Mamdani prima di diventare sindaco di New York faceva il rapper. Quando ti vedremo candidato sindaco di Molfetta? Mai! Ho molto rispetto verso la politica e non sono uno di quelli che dice che i politici sono tutti dei ladri. Non sono per i semplicismi: tra le persone che scelgono di fare politica c’è sempre qualcuno che ha dentro un fuoco vero, e questo va riconosciuto. Come nella musica: c’è chi ha quel fuoco, solo che magari non lo trovi nella playlist di Spotify, devi andarlo a cercare. La politica la prendo molto seriamente e, proprio perché la prendo seriamente, so che non ho quel fuoco. Nel tempo sono stato corteggiato più volte per entrare in qualche lista. Ho sempre rifiutato, anche per rispetto della politica. Non ne avrei le competenze e, soprattutto, non ne ho il desiderio. Servono persone a sinistra mosse da una passione autentica. Ne conosco, ne ho viste gravitare in quell’ambito. Non esiste l’integerrimo, tutti fanno errori, ma se qualcuno ha un fuoco reale, e lo fa perché ci crede, allora bisogna mandare avanti quella persona lì. Sono alla ricerca di persone così.  *Jacopo Custodi è ricercatore in Scienze Politiche presso la Scuola Normale di Pisa. Ha curato Comunismo e questione nazionale. Madrepatria o Madre terra? (Meltemi, 2021) e Le parole e il consenso. Come battere la destra a partire dalle parole che usiamo ogni giorno (Castelvecchi, 2021) e scritto Un’idea di paese (Castelvecchi, 2023). Michele Salvemini dopo gli esordi come Mikimix, che lui stesso definisce «cantante insignificante, dal cui autodisgusto nacque il sé stesso odierno», diventa Caparezza. Da allora ha pubblicato nove album, l’ultimo dei quali si intitola Orbit Orbit. L'articolo «Contro la destra serve complessità» proviene da Jacobin Italia.
Le nostre lotte valgono più dei vostri profitti
La repressione si abbatte contro il movimento per la Palestina a Catania Piovono a Catania misure cautelari e multe per decine di migliaia di euro nei confronti di attivist3 che hanno partecipato ai blocchi del porto e della stazione durante gli Scioperi Generali del 22 settembre e del 3 ottobre. Migliaia di persone in piazza, equipaggi di terra che hanno accompagnato dall’inizio alla fine la partenza delle navi verso Gaza dai porti siciliani e un corpo collettivo che ha risposto alla chiamata del “blocchiamo tutto”, partita dai portuali di Genova per rifiutare ogni complicità con il genocidio. La Costituzione e il ripudio della guerra ai tempi del genocidio e del riarmo diventano carta straccia; il Diritto internazionale e gli obblighi degli Stati di non concorrere nelle violazioni di diritti umani pure. Il genocidio non deve avere disturbatori: le cose, le merci e l’economia non contano nulla in confronto alle vite umane. Il blocco della produzione e dei transiti, storica pratica di ribellione contro le ingiustizie economico-sociali, diventa una questione di ordine pubblico. La crisi economica morde e il conflitto sociale organizzato va represso sul nascere. Il movimento in solidarietà della Palestina cresce in tutto il mondo e l’unico modo che i Governi hanno per cercare di fermarlo è la sua criminalizzazione. In Italia, come in Germania, in Inghilterra la deriva autoritaria corre alla velocità dei droni che ogni giorno incombono sulle teste di chi subisce l’occupazione coloniale e la distruzione in Palestina e in Cisgiordania. Non a caso sono in discussione disegni di legge che mirano a equiparare antisemitismo e antisionismo con ciò aggiungendo un ulteriore tassello alla deriva repressiva che il nostro Paese sta vivendo. Non è un caso che l’economia di guerra trovi consacrazione nella legge di bilancio. La guerra non è lontana: entra nelle nostre vite, nelle nostre buste paga, nei tagli ai servizi pubblici, nelle infrastrutture a pezzi, nella precarietà, nell’ipoteca del futuro delle giovani generazioni. La Palestina non solo è un laboratorio di colonialismo, violenza, società fondate sull’ipercontrollo tecnologica e lo sfruttamento delle risorse ma anche lo squarcio del velo sulla linea che i Governi non sono disposti a tollerare quando le piazze iniziano a dire “non nel nostro nome”. USB fa della solidarietà una pratica di lotta reale e rigetta al mittente l’antica tecnica del divide et impera che mira a spaccare i movimenti. Per queste ragioni siamo a fianco di tutti i multati e denunciati a Catania, tra cui nostri dirigenti sindacali e attivisti, ai quali abbiamo già offerto piena tutela legale: se toccano uno, toccano tutt3. Non ci faremo intimidire. Dal fiume al mare la solidarietà non la cancellate. Le nostre lotte valgono più dei vostri profitti.   Unione Sindacale di Base
Germania: “Non siamo carne da cannone”, sciopero studentesco contro il servizio militare. Il Bundestag approva la leva
Nuova giornata di sciopero contro il servizio militare da parte di studenti e studentesse tedeschi, mentre si votava nelle aule del Bundestag la riforma della leva del governo di Friedrich Merz. Approvata, nella tarda mattinata di venerdì, la leva militare che resta volontaria, ma tutti i giovani di sesso maschile tedeschi saranno obbligati a rispondere ai formulari dell’esercito e sottoporsi alla visita di leva. 323 sì, 272 no e una astensione. Contro il riarmo, la guerra e la militarizzazione della società, studenti-esse portano avanti uno sciopero storico, visto che normalmente gli istituti superiori non sono attraversati da un particolare attivismo e protagonismo. La nuova legge del Governo tedesco, però, è riuscita a mobilitare oltre 100 piazze oggi. Il collegamento dalla mobilitazione studentesca a Berlino con Ivana, studentessa italiana in Germania e dell’organizzazione giovanile socialista Young Struggle. Ascolta o scarica. Aggiornamento ore 16: il bilancio delle manifestazioni con Ivana di Young Struggle.Ascolta o scarica da Radio Onda d’Urto