
Una critica radicale al cuore del capitalismo verde
Jacobin Italia - Tuesday, December 2, 2025
Articolo di Jacob Nitschke, Marisol ManfrediA 3.500 metri di altitudine, il vento attraversa le montagne e le nuvole si dissolvono su una superficie che sembra infinita. Il tempo diventa denso. Le ore passano più lentamente, l’aria si respira in modo diverso, come se la vita avesse un altro ritmo. Nelle Salinas Grandes, a nord della provincia argentina di Jujuy, il vento disegna vortici su una pianura bianca che sembra non finire mai. In quel paesaggio sospeso, dove il silenzio risuona più forte di qualsiasi motore, il presente si muove al ritmo della terra e il silenzio, improvvisamente, acquista spessore: è il suono di un territorio che resiste.
Lì vive Flavia Lamas, presidente dell’Assemblea del Bacino di Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc. Dal 2009, insieme ad altre 38 comunità kolla-casabinda, affronta l’avanzata delle compagnie minerarie che cercano di estrarre litio dalla salina, situata nel famoso e strategico Triangolo del Litio. In un mondo che celebra la «transizione verde» e le auto elettriche come soluzione al cambiamento climatico, Flavia ricorda che ogni batteria ha un prezzo che non si misura in euro o in dollari: si misura in acqua, in comunità, in vita.
«Ci dicono che siamo il triangolo del litio e che per questo diventeremo ricchi. Ma senza acqua non c’è vita. Noi non mangiamo batterie», ci racconta Flavia quando la intervistiamo nel rifugio Santuario dei Tre pozzi, all’ingresso delle Salinas, dove per pochi soldi (2 euro) offrono un servizio di guida turistica che ci spiega come funziona la salina e come le comunità utilizzano il suo sale.
Quando nel 2009 sono arrivate le prime trivelle nella zona, le comunità non sapevano cosa fosse il litio. «Abbiamo visto che la salina cominciava ad affondare, che l’acqua dolce usciva mescolata alla salamoia. È stato allora che ci siamo resi conto che qualcosa non andava», racconta Flavia. Da allora, si sono organizzati. In Argentina, fortunatamente e in risposta a tante crisi, la popolazione sa come opporre resistenza. È nata così l’Assemblea del bacino di Salinas Grandes e Laguna de Guayatayoc, dove hanno redatto il proprio protocollo di consultazione (Kachi Yupi o Huellas de Sal) e hanno chiesto che qualsiasi progetto rispettasse il diritto di decidere sui propri territori.
La lotta non è stata facile. Nel 2023, dopo la riforma costituzionale promossa dal governatore di Jujuy, i diritti delle popolazioni indigene sono stati indeboliti. Le proteste sono state represse e molte comunità si sono divise. Alcune, spinte dalla necessità o dalla promessa di posti di lavoro, hanno accettato di dialogare con le compagnie minerarie. Altre, come quella di Flavia, hanno resistito.
«Ci dicono che il progresso arriva con i camion e le macchine, ma quello che portano è disuguaglianza. Prima nessuno aveva più di nessun altro. Ora alcuni comprano automobili, altri niente. E questo distrugge la comunità», spiega. Flavia racconta di Susques, una comunità a circa 66 km più in alto rispetto a dove ci troviamo, uno dei primi villaggi della Puna dove è stata avviata l’estrazione del litio. Lì, ci racconta Flavia, «non c’è più acqua potabile durante il giorno e gli animali nascono deformi». Le comunità di Susques hanno detto loro: «Voi siete ancora in tempo, noi abbiamo già perso tutto». Questa frase riassume l’orizzonte temuto nelle Salinas: un territorio esaurito, una vita circondata dalla polvere e dalla sete. A Susques, la promessa di sviluppo si è trasformata in dipendenza. L’acqua che prima sgorgava dagli occhi della terra (ojos de la tierra ) ora arriva in bottiglie di plastica: privatizzazione, proprietà privata e individualismo sono alcune delle conseguenze che l’estrazione mineraria ha portato a Susques.
Il racconto di Flavia rivela qualcosa di più profondo di un conflitto ambientale: è una lotta ontologica, una differenza su cosa significhi questo mondo e come viverci (bene). Per Flavia, il Buen Vivir non è una teoria, né solo una cosmologia che si studia, ma una pratica quotidiana. «Non si tratta di vivere bene, ma di vivere bene tutti. Se il mio vicino soffre, io non posso stare tranquilla». Il legame che Flavia ha con le Salinas è anche intimo e spirituale. «Sento una connessione con le Salinas… Quando nella mia famiglia siamo tristi, angosciati o malati, l’unica cosa che facciamo è connetterci con la natura. E così troviamo la tranquillità che un medico non può darci. Le saline fanno parte della famiglia, ed è per questo che diciamo che toccarle è come toccare una madre».
Nella sua cosmovisione, la salina non è una risorsa, è una madre; un essere che vive, respira, soffre. Le parole di Flavia racchiudono una critica radicale al cuore del capitalismo verde: l’idea che la natura possa essere separata dalla vita umana e ridotta a una materia prima, a una risorsa, a un oggetto sfruttabile. Quell’idea moderna per cui l’essere umano è una cosa e la natura un’altra. Come se anche noi non fossimo natura.
Il progetto del nord del mondo di «transizione ecologica» viene spesso presentato come un percorso inevitabile e benigno verso la sostenibilità. Tuttavia, il litio che alimenta la mobilità elettrica viene estratto da territori come questo, dove l’acqua è scarsa e la democrazia è fragile. In nome della decarbonizzazione, si ripropongono vecchi modelli coloniali: il Nord pianifica il suo futuro «pulito» (misurato in termini di energia e coscienza) mentre il Sud offre nuovamente la sua terra e il suo corpo (le teorie femministe sudamericane sul corpo-territorio hanno molto da offrirci su questo, se qualche lettore fosse interessato ad approfondire).
Flavia lo sa. Ecco perché la sua richiesta non è rivolta a Buenos Aires e tanto meno alle istituzioni locali di Jujuy. «Andare dal governo provinciale non serve. L’aiuto deve venire dall’Europa, dove si prendono le decisioni sul litio. Lì ci sono organizzazioni per i diritti umani che possono ascoltarci».
La richiesta di Flavia rompe lo schema semplicistico di un Sud vittima e di un Nord oppressore. Lei non parla a nome di un confine, ma da una molteplice interdipendenza: ecologica, politica, epistemica, ontologica. La sua voce mira a tessere alleanze con coloro che, in Europa, mettono in discussione la finzione di un progresso verde fondato sulla disuguaglianza. Nel nostro progetto accademico chiamiamo questo fenomeno «dipendenze intersezionali»: comprendere che la dipendenza non è distribuita solo tra paesi e geografie, ma anche tra modi di vita, conoscenze e ontologie. Dalle montagne andine alle istituzioni europee, le stesse gerarchie (tra natura e società, ragione e spiritualità, uomo e donna, centro e periferia, ecc.) sostengono il modello estrattivista. Romperle implica immaginare transizioni non solo energetiche, ma anche ontologiche, in cui diverse forme di sapere e di esistenza possano coesistere in modo paritario. O almeno, rompere con il modello in cui un’alternativa (presumibilmente superiore, il mainstream imposto dal Nord globale) diminuisce, irrompe, sposta e/o elimina altre forme alternative di comprendere il mondo e, di conseguenza, di relazionarsi con la natura (cioè con noi stessi).
La voce di Flavia viaggia attraverso percorsi di sale e vento, ma punta al cuore del dibattito globale sulla transizione ecologica. Ci ricorda che non c’è giustizia climatica senza una giustizia più profonda: quella ontologica. Che cambiare energia non basta se continuiamo a pensare al mondo con la stessa logica. Dobbiamo aprirci a nuovi modi di pensare e comprendere il mondo: solo così arriveranno nuove soluzioni. E la transizione «verde», con la sua finzione di venderci la soluzione ai nostri problemi, basata sul cosiddetto «tecno-fix-ottimismo» – la fede cieca nella tecnologia come utopia che ci salverà da tutti i nostri problemi – in realtà sta eliminando una delle alternative in cui cercare risposte, ampliare i nostri modi di vedere, comprendere e pensare il mondo. Non potremo affrontare la crisi ecologica globale ricorrendo alle stesse logiche di estrazione, separazione e dominio che l’hanno generata. Come scrisse Audre Lorde nel 1979, «gli strumenti del padrone non smantelleranno mai la casa del padrone»: non potremo risolvere i problemi della nostra epoca con gli stessi strumenti della nostra epoca, poiché sono stati proprio questi ultimi, in primo luogo, a creare i problemi. È quindi necessario smascherare il lato nascosto della tanto agognata e apparentemente innocua «transizione verde», poiché ancora una volta essa sposta ed elimina possibili futuri, ma anche possibili modi di comprendere il presente. Dobbiamo cambiare la cassetta degli attrezzi con cui non solo «riparare» la nostra società frammentata e divisa, ma anche ripensarla: la voce di Flavia Lamas è un invito a farlo.
Non è facile, ricorda Flavia. Nell’intervista racconta come, delle 33 comunità che facevano parte della lotta, molte abbiano iniziato ad allontanarsi. «Ci sono comunità che hanno detto che non c’è più niente da fare perché abbiamo tutto contro». E spiega che, in alcuni casi, non è l’intera comunità, ma «un gruppetto di famiglie che stanno dando l’ok, ma ora basta… una volta frammentate le opinioni nella comunità, questa non è più abbastanza forte, quindi l’industria mineraria penetra».
Cosa penetra e perché succede? Non è solo la transizione verde del Nord che sa vendersi molto bene, ma anche le logiche aziendali delle società minerarie. I loro sofisticati strumenti di marketing sanno come penetrare nelle comunità. Anche se con una connettività e una connessione Internet limitate – poiché solo in alcune parti del percorso è possibile accedere al 4G – le comunità ricevono (soprattutto da quando viviamo in questa era digitale) i concetti di progresso, lavoro, ascesa sociale, successo. È comprensibile: in territori dove lo Stato è assente e dove dalla colonizzazione a oggi sono stati reclusi, esclusi e ignorati (non dimentichiamo che anche le loro lingue sono state eliminate nell’omogeneizzazione colonizzatrice della lingua spagnola), la promessa mineraria appare come l’unica alternativa per unirsi al cosiddetto sistema, dove quel progresso, quell’ascesa sociale e quel successo che vengono venduti sugli schermi potrebbero finalmente fiorire.
Il lavoro minerario non offre solo uno stipendio: offre simboli. Un’auto, una casa in muratura, vestiti nuovi, gioielli, un cellulare migliore. Oggetti che nella logica del capitalismo coloniale rappresentano l’«essere arrivati». E in territori impoveriti da politiche nazionali storicamente estrattive, questi segnali possono pesare più del discorso ambientale. È chiaro, quindi, riflettiamo con Flavia, che non tutte le comunità si oppongono, rimangono fedeli ai loro antenati e ai messaggi che il tata wayra (vento) e il tata inti (sole) trasmettono loro attraverso suoni impercettibili all’orecchio occidentale.
Quella stessa promessa fatta dalle aziende distrugge il tessuto sociale delle comunità. Il documentario The Hidden Cost: The Other Side of the Green Transition, prodotto dalle colleghe dell’Osservatorio sul Debito Globale, mostra chiaramente ciò che Flavia sintetizza in una frase: «La comunità si rompe». Appaiono pratiche che prima non esistevano, in particolare, da una prospettiva di genere, l’alcolismo e la prostituzione. Per questo motivo, le colleghe nel loro documentario cercano di mostrare la prospettiva di genere, molto necessaria nell’estrazione del litio, perché porta cambiamenti molto forti. Per quanto riguarda la prima problematica, le donne di Susques – che, come abbiamo già detto, subiscono le conseguenze dell’attività mineraria penetrata già da 10 anni – affermano, ci racconta Flavia, che non è più sicuro uscire di notte, perché ci sono molti uomini ubriachi e violenti che vagano per le strade. Per quanto riguarda la seconda, sebbene rimandi a un dibattito molto più ampio che non possiamo affrontare in questa sede, costringe le donne a cercare altri modi per guadagnare denaro e mantenersi economicamente, soddisfacendo una domanda che, evidentemente, emerge dalla stessa logica estrattivista e individualista che l’estrazione mineraria instaura (in modo irreversibile). Questi fenomeni sono gli effetti sociali di una logica estrattivista che instaura disuguaglianza all’interno della comunità e ne altera l’universo morale, relazionale e affettivo.
Dal bacino, molte voci convergono nello stesso giudizio, ci racconta Flavia: «Non vogliamo essere una zona di sacrificio». L’urgenza climatica non può legittimare transizioni energetiche che aggravano le disuguaglianze sociali, etniche e ambientali, che destabilizzano le comunità, che generano malessere e violenza. La richiesta è chiara: ascoltare i territori, difendere l’acqua, rispettare i diritti collettivi, lasciarli essere e decidere, riconoscere la loro esistenza, il loro modo di vivere e di pensare e, soprattutto, capire che con le batterie al litio ci potranno essere auto e cellulari, ma senza acqua non ci sarà nessuno che li userà o li guiderà.
Flavia ci chiede di diffondere il suo messaggio in Europa. Eccoci qui, a cercare di far risuonare la sua voce in tutti gli spazi possibili. Se ti stai chiedendo come puoi aiutare, la prima risposta di Flavia è semplice e urgente: fai eco. Condividi. Mantieni viva la conversazione. Seguili su Instagram all’indirizzo @cuencadesalinasgrandes e sul loro sito web, perché ogni diffusione apre una fessura da cui entra aria. E perché diffondere è un atto politico.
Alla fine della giornata, la domanda non è chi sarà il proprietario del litio, ma quale mondo continuiamo ad alimentare quando crediamo che la tecnologia da sola ci salverà. La domanda che questo articolo lascia è scomoda, ma inevitabile: a cosa serve decarbonizzare l’Europa se le montagne andine del Sud del mondo si desertificano? A cosa serve una transizione verde che richiede il sacrificio di interi territori in nome di un futuro a cui quelle popolazioni non potranno nemmeno accedere? Che tipo di giustizia climatica è quella che ha bisogno di «zone di sacrificio» (le stesse del passato, ovviamente)?
Mentre le potenze del Nord parlano e celebrano l’«innovazione verde», nelle Salinas Grandes le comunità continuano a difendere qualcosa di più elementare e vero di un’auto elettrica o di un terzo cellulare in due anni: difendono l’acqua, difendono la vita. Nelle parole di Flavia, parole che l’Europa ha bisogno di ascoltare: «Senza acqua non c’è vita. Noi non mangiamo batterie».
Forse questo è il messaggio più profondo che le Salinas ci restituiscono: che la transizione ecologica non sarà giusta se costruita su territori assetati; che se la transizione verde ha bisogno di territori vuoti, comunità frammentate e saline senza acqua, allora non è né transizione né verde, è semplicemente un’altra forma di estrattivismo, questa volta in nome del clima; che non ci sarà un mondo possibile se continuiamo a zittire le voci che potrebbero aiutarci a immaginarne altri; e che la Pachamama, quando parla in silenzio, ci sta dicendo che siamo ancora in tempo, ma che non ne rimane molto.
*Marisol Manfredi è un’economista eterodossa argentina formatasi a Mar del Plata, Parigi e Pisa. Jakob Nitschke è un ricercatore in Economia Geografica con particolare attenzione ai temi della decolonizzazione, dei conflitti eco-sociali e dell’estrattivismo.
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