Disturbare la politica. Attivismo spirituale e post-attivismoABBIAMO BISOGNO DI UNA NUOVA CULTURA POLITICA CHE SAPPIA METTERE IN DISCUSSIONE
LA FIDUCIA NEL PARADIGMA RAZIONALISTA, ANCHE NEL SUO VOLTO PROGRESSISTA. UNA
CULTURA NELLA QUALE, PER DIRLA CON GLORIA ANZALDÚA E BAYO AKOMOLAFE, NON C’È
SEPARAZIONE TRA L’UMANO E IL CONTESTO ECOLOGICO, CHE NON MIRI AL POTERE, CHE
SAPPIA INVOCARE LENTEZZA, DISALLINEAMENTO, SCONNESSIONE. UNA CULTURA POLITICA
CON CUI RICUCIRE FRATTURE, TRASFORMARE LINGUAGGI E MODI DI PENSARE, DOVE ANCHE I
CONCETTI DI LOTTA O QUELLO DI SPIRITUALITÀ ASSUMONO SIGNIFICATI DIVERSI PER
IMMAGINARE QUI E ORA MONDI NUOVI
Perché oggi non è possibile fare una rivoluzione? Questa è la domanda posta da
Byung-Chul Han in un breve testo. L’argomentazione è semplice: da un lato il
sistema di potere neoliberale si è trasformato col tempo, dosando saputamente
repressione e seduzione; dall’altro ha infranto ogni legame sociale,
valorizzando l’individuo sovrano, instillando agonismo, mettendo così in
concorrenza tutti e tutte, abbandonati a un flusso continuo di auto-esposizione
e auto-sfruttamento. Ora, se il quadro della situazione risulta corretto, e
purtroppo lo è, proprio per questo sarebbe salutare ribaltare l’affermazione
Byung-Chul Han e dire con forza che oggi è quanto mai indispensabile costruire
una rivoluzione.
Certo, parlando di rivoluzione dovremmo accantonare quelle icone – penso alle
immagini della presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno – che fino a non
molto tempo fa hanno rappresentato punti di riferimento significativi per molti
progetti di trasformazione radicale, riformulando il discorso sulla rivoluzione
alla luce delle emergenze in corso. L’elenco non è breve: i processi di
globalizzazione e il capitalismo digitale, l’erosione delle democrazie e il
ritorno del fascismo e del razzismo, le guerre e le politiche di riarmo, i
disastri ecologici e la guerra strisciante alle risorse fondamentali (acqua,
suolo/sottosuolo, semi, conoscenze tradizionali…), il collasso della
biodiversità e le epidemie zoonotiche, e, ultima ma non ultima, il disagio
diffuso, con la crisi delle relazioni interpersonali e dell’immaginario
collettivo.
Ripensare la rivoluzione apre però una serie di questioni che allargano
ulteriormente il discorso, rimettendo in discussione proprio le categorie del
politico generalmente considerate come acquisite in modo stabile. E qui affiora,
volente o nolente, il fantasma di Carl Schmitt con le sue categorie politiche
che tanto hanno influenzato, e tuttora influenzano, il pensiero e la pratica
politica contemporanea. Penso alla nozione di sovranità, a quelle di omogeneità
interna/ostilità esterna (che giungono a compimento nella distinzione
amico/nemico), all’affermazione che i concetti politici moderni derivano da
concetti teologici cristiani trasformati in termini laici.
Di fronte alla mole di temi sollevati, l’ambizione di questo breve scritto è
alquanto modesta, non intende dissodare in lungo e in largo un così ampio
territorio, ma percorrerlo per un tratto, accompagnato principalmente da due
autori provenienti dalla periferia dell’impero: Gloria Anzaldúa e Bayo
Akomolafe. La prima è stata scrittrice, poeta, teorica chicana, nata in Texas da
una famiglia contadina di origine messicana. Cresciuta in una regione di
confine, ha elaborato il concetto di mestiza consciousness, una coscienza ibrida
capace di abitare le frontiere culturali, linguistiche e identitarie. Attivista
femminista, queer e decoloniale, ha intrecciato, nei suoi scritti,
autobiografia, poesia, teoria e spiritualità. Il secondo è uno scrittore di
origine nigeriana, formatosi in psicologia clinica. La sua prospettiva unisce
filosofie post-strutturaliste e neo-materialiste, pensiero postcoloniale,
ecospiritualità e narrazione mitica.
In particolare, mi soffermerò su due parole-chiave presenti nel loro pensiero:
lo spiritual activism, per Gloria Anzaldúa – un agire politico radicato nella
trasformazione interiore e nella connessione con spazi spirituali e comunitari
-, e il post-activism, per Bayo Akomolafe – un approccio che supera l’idea di
lotta lineare e frontale contro un nemico, per aprirsi a trasformazioni lente,
mobili, relazionali e multispecie. L’attivismo spirituale viene delineato da
Gloria Anzaldúa nel suo ultimo libro, apparso postumo, Luce nell’oscurità
(Milano, Meltemi, 2022). Su questo tema importanti sono anche le sue
conversazioni, raccolte da AnaLouise Keating nel volume Interview/Entrevistas
(New York e Londra, Routledge, 2000). Di Bayo Akomolafe è stato tradotto in
italiano Queste terre selvagge oltre lo steccato (Roma, Exorma, 2023), testo
molto ricco, dove però non ricorre ancora il termine post-attivismo, elaborato
successivamente in interviste, interventi pubblici e in testi brevi. Molto di
questo materiale è reperibile al sito bayoakomolafe.net. Come vedremo, si tratta
di elaborazioni molto fertili per disturbare e ripensare il politico e la
rivoluzione nel presente, che pur presentando punti di contatto hanno al
contempo sviluppi differenti. Proprio per questo, provare a interfacciare le
loro argomentazioni può aprire nuovi scenari di riflessioni e di pratiche.
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> Femminista, barbara e meticcia
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Sull’attivismo spirituale
Che cos’è l’attivismo spirituale? Definirlo come una pratica politica che si
avvale di valori spirituali sarebbe una descrizione deludente. La questione è
più complessa, in quanto rimanda a un’epistemologia e a un’etica visionarie, le
quali a loro volta si ispirano a ciò che Anzaldúa definiva conocimiento. Il
conocimiento è un modo di pensare non-binario che attinge a forme di conoscenza
non razionali, quali le sensazioni, le intuizioni, l’immaginazione, le rêverie,
i sogni e le visioni. Si tratta di un’apertura a ciò che potremmo chiamare i
“confini esterni” dei nostri procedimenti conoscitivi, in grado di offrire un
quadro di riferimento ampio che permette così di aderire a una dimensione della
realtà più grande di quella costituita dalle nostre abituali epistemologie, così
da connettere le proprie esperienze personali con quelle degli altri umani, del
mondo non-umano e della stessa Terra che ci ospita. In questo modo viene messa
in campo una “politica della spiritualità incarnata”, vale a dire un
coinvolgimento intenzionale, creativo e partecipato, costantemente alimentato
dalla riflessione critica. Così inteso l’attivismo spirituale reinventa la
politica e la spiritualità, divenendo uno strumento di resistenza e di
progettualità che considera le ingiustizie sociali ed ecologiche come fenomeni
interconnessi alla propria biografia. Laddove prima si percepiva solo
separazione, differenze e polarità se ne riconosce l’intimo legame,
incoraggiando reciprocità, cura, alleanze e lotta, ponendo quindi in stretta
relazione il cambiamento personale con quello su scala globale.
L’attenzione di Anzaldúa verso la spiritualità è stata sempre rilevante, per
quanto molti suoi lettori e lettrici preferissero sminuirne il ruolo. In
un’intervista denuncia con rammarico come quegli elementi del suo pensiero
venissero ignorati: “Una delle cose di cui non si parla è la connessione tra
corpo, mente e spirito. Né si parla di tutto ciò che ha a che fare con il sacro,
né di tutto ciò che ha a che fare con lo spirito. Finché si tratta di argomenti
di teoria e di storia dei confini, va bene; i confini sono una cosa che riguarda
tutti. Ma quando comincio a parlare di nepantla (parola náhuatl che significa
‘spazio di mezzo’) – come confine tra spirito, psiche e mente o come processo –
ci sono resistenze”.
La sua spiritualità si distende su un mosaico mesoamericano, il suo lessico è
pieno di termini náhuatl – la lingua originaria della popolazione azteca -, non
limitandosi però a una singola “linea pura” (per lei, pensatrice del meticciato,
non avrebbe nemmeno senso), ma contaminando i riferimenti, dove il nucleo atzeco
s’intreccia via via con pratiche curandere, con forme di cattolicesimo popolare
(come la Vergine di Guadalupe), finanche con elementi new age, riletti
criticamente (se è vero che attinge anche a quel linguaggio, si può dire che lo
fa come la bruja/strega che prende gli strumenti del colonizzatore riforgiandoli
per la resistenza).
Non solo: se, come visto, il suo è un approccio pluralista alla spiritualità,
aperto al riconoscimento e alla valorizzazione di molteplici forme di
spiritualità, pur provenienti da tradizioni diverse e a prima vista
incompatibili, merita pure collocarlo dentro una prospettiva funzionalista, in
quanto la spiritualità viene ad assumere un ruolo pratico e trasformativo, serve
per curare ferite individuali e collettive, per superare traumi, per resistere e
immaginare mondi nuovi. In altre parole, l’ortoprassia – il retto agire -
prende il posto dell’ortodossia – la retta opinione.
Sul post-attivismo
Seconda domanda: che cos’è il post-attivismo? Innanzitutto va chiarito che non è
da intendere come una pratica che viene dopo l’attivismo, ma è qualcosa di più
intricato, qualcosa che va alla radice dell’agire umano, vale a dire la
convinzione che l’intero mondo in cui ci troviamo non sia riducibile alla
decisione umana, più precisamente a una decisione razionalmente configurata.
Laddove, al contrario, restare irretiti in questa convinzione conduce
innanzitutto e per lo più al fallimento. Secondo Akomolafe proprio il paradigma
di risposta alle crisi, centrato su urgenza, controllo, ragione strumentale e
centralità dell’umano, è intrinsecamente parte della stessa trama che genera le
crisi. Ogni tentativo di soluzione elaborata dentro questa logica tende a
riattivare le condizioni di crisi, non a dissolverle. Da qui il suo invito a
restare in ascolto della crisi che ci abita e cambiare non solo le risposte, ma
la forma stessa della domanda e la modalità con cui la viviamo. Per questo il
post-attivismo è diffidente nell’assegnare un ruolo centrale all’agentività
umana, in quanto è impossibile separare l’umano dal contesto ecologico e cosmico
in cui è immerso, invitando a sospendere la logica della soluzione e
dell’urgenza, aprendo spazi di ascolto e accettando luoghi di opacità, dove il
mistero e la complessità possano agire. Al centro vi è la riscoperta di una
mutualità primordiale: non esiste divenire che non sia un divenire-con, in una
trama di relazioni tra umani, non-umani e forze più-che-umane.
Allo stesso modo di Anzaldúa, invita a rivolgersi alla dimensione spirituale, ma
non come utensile finalizzato ad accelerare una soluzione per raggiungere
l’obiettivo prestabilito. L’attivismo sacro è, al contrario, una riscrittura del
quadro di riferimento attraverso il quale proviamo a dare senso a ciò che è
problematico, concedendoci domande enigmatiche che disattivano le strutture di
pensiero attraverso le quali ci sentiamo al sicuro.
La spiritualità di Akomolafe non è ritorno a una spiritualità ancestrale
africana in senso essenzialista e neppure è una fuga in avanti verso le più
recenti teorie occidentali, ma nasce da una sfida creativa e originale che pone
in tensione le radici yoruba nigeriane con il pensiero post-strutturalista e
neo-materialista occidentale, attraversando, importunando e trasfigurando
entrambi gli orizzonti. La visione yoruba si basa su un’ontologia relazionale,
dove ogni essere è un nodo di rapporti tra persone, elementi naturali, antenati
e spiriti. Tutto questo si riflette nell’invito a decentrare l’umano e a pensare
i problemi come eventi collettivi tra specie, tempi e mondi differenti. Da qui
la sua critica dell’identità di un soggetto centrale e stabile, così come del
linguaggio inteso come sistema chiuso, preferendo viaggiare alla ricerca di
forme di sapere incarnate, paradossali e relazionali.
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> Altri mondi reali
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Nodi, fili, alleanze
Rileggendo insieme Gloria Anzaldúa e Bayo Akomolafe affiorano una serie di punti
di contatto da valorizzare. Innanzitutto c’è la spiritualità come esperienza
incarnata e non dogmatica. Anzaldúa parte dalla ferita (la herida abierta) come
luogo sacro e generativo, parla della luce nell’oscurità che plasma identità e
coscienza in divenire. Akomolafe parte dal collasso come possibilità di
metamorfosi, spingendo più in là la disidentificazione soggettiva; il suo
diventa un disfarsi per guarire. Anzaldúa parla di attivismo spirituale come
pratica interiore e collettiva legata al nepantla – lo “spazio di mezzo” -,
vivendo la trasformazione personale e collettiva lungo i margini. Dal canto suo
Akomolafe propone una spiritualità diffusa che si apre all’inatteso, a
un’alterità spiazzante; è un invito a rallentare nei tempi difficili,
prediligendo intimità con un mondo che si offre già come pratica spirituale.
Come si vede, entrambi problematizzano la fiducia indiscussa nel paradigma
razionalista, anche nel suo volto progressista.
Infine, c’è un accomunamento legato al rinnovamento del linguaggio e delle forme
comunicative. Tutti e due attuano una disattivazione della lingua dominante,
uniforme e neutra, in quanto anche il linguaggio non è uno strumento privato o
burocratico, ma è un common, è tessuto relazionale, un dire collettivo che
nessuno possiede per intero. Anzaldúa mette in campo l’autohistoria, un genere
ibrido che mescola poesia, racconto, teoria e spiritualità, mentre Akomolafe
rompe con la linearità notarile del pensiero politico moderno, impiegando anche
lui uno stile poetico, spesso evocativo, onirico e spiazzante.
Detto ciò, vi sono tra loro anche differenze significative, per quanto feconde.
Anzaldúa resta legata, pur in modo critico, a un’idea di trasformazione sociale.
Akomolafe, invece, invita a disidentificarsi dalla stessa idea di lotta intesa
come modalità primaria di relazione con il mondo, per lasciare spazio all’ignoto
e al novum che può emergere. In ciò il suo pensiero ricorda per certi aspetti
quello di Donna Haraway: abita un presente segnato dal fallimento dei grandi
progetti emancipatori del passato, da cui scaturisce l’attualità di “stare con
il problema” (staying with the trouble). È una sopravvivenza riparativa, una
cura delle ferite, un’antologia di storie minori, fatta di piccoli gesti, di
interferenze più che azioni.
Si potrebbe descrivere il post-attivismo come una forma di micropolitica, in
quanto agisce a partire dal sensibile, non mira al potere, ma a mutamenti nei
processi percettivi, nelle relazioni affettive, nei linguaggi e nei modi di
essere, invocando lentezza, disallineamento, sconnessione. Preferisce lavorare
sulle soglie anziché impattare frontalmente i problemi, mirando semmai a
disattivarli dall’interno. Paradossalmente il post-attivismo non viene dopo
l’attivismo, ma lo precede, riguarda una soglia interiore e cosmica che precede
ogni azione politica. Non è inazione, ma una messa in questione delle forme
attraverso le quali agiamo politicamente. In questo senso, viene prima e
accompagna ogni pratica di trasformazione sociale che voglia collocarsi dentro
la gravità del presente. È qui che l’attivismo spirituale di Gloria Anzaldúa e
il post-attivismo di Bayo Akomolafe s’incontrano. Le differenze tra la tensione
trasformativa della prima e la sospensione meditativa del secondo non si
annullano a vicenda: possono invece formare un ritmo alternato di azione e
riflessione, di apertura visionaria e di decentramento, capace di nutrire forme
di cambiamento più profonde e meno lineari.
Ora, tornando alle domande iniziali sull’attualità della rivoluzione e sul
ripensamento delle categorie del politico, Gloria Anzaldúa e Bayo Akomolafe
operano uno scardinamento radicale. Se la politica, come diceva Schmitt, rivela
la sua essenza nell’eccezione, nella gestione dei momenti di crisi più profonda,
oggi quell’eccezione è la costante: viviamo ormai in continui tempi liminali, di
transito. E, come ricordava Benjamin, questa è la tradizione di tutti gli
oppressi. La questione, dunque, non è pianificare e normalizzare a tutti i
costi, ma imparare a muoversi in territori incerti, dove l’atto decisionale non
è verticale, ma frutto di ascolto, di negoziazione con molteplici agenti, umani
e non. L’altro – l’estraneo, il diverso, il selvatico – non è un nemico da
eliminare. Fare politica significa essere sensibili e attenti, inciampare e
imparare dagli errori, intessere relazioni di cura e reciproca responsabilità. È
un campo relazionale, decentrato e multispecie, dove il conflitto non scompare,
ma si trasforma in occasione di co-creazione. Si agisce contro l’ingiustizia non
ricalcando il suo stesso terreno, ma cambiando le condizioni in cui quel potere
respira e si alimenta: ricucendo fratture, intessendo alleanze, trasformando
linguaggi e immaginari, rallentando i ritmi imposti. Così il potere perde presa,
non perché venga annientato sul campo di battaglia, ma perché il mondo su cui si
fonda comincia a sfaldarsi e a mutare. C’è bisogno allora di ciò che Mario
Tronti, un autore sotto molti aspetti assai distante dai percorsi qui tracciati,
chiamava “saggezza della lotta”, una saggezza in grado di ispirare, sollecitare
e orientare il conflitto.
Di più: appare chiaro che la politica oggi non può che farsi cosmopolitica, non
confinata nel territorio angusto della polis (fra l’altro, per millenni
governata da un solo sesso). La polis resta un nodo importante, ma è solo un
nodo tra i molti nel tessuto della vita. La cittadinanza è sì un diritto di
tutti gli umani, ma deve cominciare a non essere più privilegio esclusivamente
umano, ma diventare appartenenza reciproca all’infinita trama del vivente.
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