I furbetti del sovranismo
Articolo di Salvatore Cannavò
Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di
Monte dei Paschi (Mps) la mano pubblica è indicata chiaramente. Più che pubblica
è una mano di governo, di potere, che obbedisce non certo alla logica
dell’interventismo nazionale, pure spesso rivendicato dalla propaganda della
destra una volta sociale. E le impronte lasciate sull’operazione, che ora
vengono passate al vaglio dei magistrati, indicano che esiste ancora in Italia
un conflitto tra poteri che non nascondono la loro vocazione sovranazionale –
nel senso di autonomia totale dai poteri nazionali e quindi dagli Stati – e
poteri che invece, anche per la loro debolezza, preferiscono la coperta dello
Stato e l’appoggio politico per garantirsi maggiori spazi ei profitti. In questa
diatriba, però, non si ravvisa uno scontro ideologico degno di nota, non si
intravede insomma il portato di una cultura a vocazione nazionale che abbia a
cuore il tessuto sociale, il ruolo pubblico, la democratizzazione dei poteri.
Tutt’altro, lo scontro di potere è fine a sé stesso con le conseguenze evidenti
sul piano politico ed economico.
IL SOSTEGNO DEL MEF
Il ruolo del governo in questa vicenda è stato evidenziato dai magistrati.
Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di
Mps, in cui sono indagati l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, il
presidente di Luxottica e Delfin Francesco Milleri e l’ad di Mps, Luigi
Lovaglio, accusati di aver «concertato» insieme la vendita delle quote Mps da
parte del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) a soggetti privati con
l’obiettivo futuro di organizzare la scalata al «tempio» finanziario milanese
Mediobanca, il Mef «non è oggetto di accertamento» in quanto «non è persona
fisica e non può commettere reati». Ma, hanno informalmente precisato dalla
Procura, anche se il ministero «non commette reati» avrebbe però dato un
«sostegno» all’operazione. In questo ginepraio di dichiarazioni rese a mezza
bocca, il termine che rimane sul tavolo, e che aiuta a dare il senso di questa
complessa operazione, è proprio «sostegno». La dismissione del novembre 2024,
quindi, avrebbe rappresentato per l’accusa uno dei «tasselli» della più ampia
«strategia coordinata» tra Delfin e Caltagirone, con l’avallo di Lovaglio, per
arrivare al controllo di Mediobanca, attraverso Mps e a cascata, dunque, anche
di Generali.
A corollario di questo interessamento politico delle sorti di Mediobanca e del
ruolo che Mps avrebbe dovuto svolgere nel rinnovamento della finanza italiana
c’è anche un altro particolare. I tre consiglieri indipendenti di Mps, Annapaola
Negri Clementi, Paolo Fabris De Fabris e Lucia Foti Belligambi, hanno infatti
dichiarato che le loro dimissioni «sono state richieste o imposte dal Mef o, in
un caso, dal deputato della Lega» Alberto Bagnai «che aveva detto di esprimersi
per conto» del Tesoro. Non solo il Mef, di Giancarlo Giorgetti, ma anche il
parlamentare leghista più attivo sul fronte della finanza e con un approccio
decisamente «sovranista», come conferma la sua lunga battaglia per l’uscita
dell’Italia dall’euro (peraltro spesso adottando argomenti non banali). Le
dimissioni dei consiglieri Mps, che erano stati eletti nella lista del Mef,
hanno lasciato a suo tempo adeguato spazio ai due soci di minoranza, Delfin e
Gruppo Caltagirone, per «entrare nella cabina di regia» dell’istituto di Rocca
Salimbeni. Da lì in avanti si organizza la scalata a Mediobanca che prenderà
corpo con il voto determinante dei sette consiglieri espressione del Mef e dei
nuovi cinque consiglieri. Un piano di cui, per ammissione alla Consob dello
stesso amministratore delegato di Mps, il ministero dell’Economia era stato
informato.
Non si può sapere come finirà l’inchiesta, ma non è questo il dato importante.
Alla luce dei fatti accertati, delle dichiarazioni rese, il ruolo politico del
governo Meloni in questa riorganizzazione bancaria è evidente a chi vuol vedere.
E di questo, infatti, si discute negli ambienti che conoscono le dinamiche
bancarie e finanziarie, italiane e internazionali, e negli ambienti della
politica. Quale governo, del resto, riuscirebbe a resistere alla tentazione di
dotarsi di un sistema bancario il più possibile amico? Non è stato inchiodato il
governo D’Alema, nel 1999, alla famosa espressione di «palazzo Chigi, unica
merchant bank in cui non si parla inglese» coniata da Guido Rossi?
Non c’è solo il potere che ne deriva in termini di leva finanziaria, ma anche la
garanzia di avere un interlocutore stabile nella gestione del risparmio
italiano, decisivo ai fini di una collocazione ottimale dei titoli di Stato. Non
a caso, uno dei problemi insiti nello scontro bancario riguarda il controllo di
Generali dove il suo amministratore delegato, espressione della vecchia
gestione, Philippe Donnet, ha lavorato a lungo insieme alla francese Natixis per
creare «un operatore globale da 1.900 miliardi di masse gestite, al nono posto a
livello mondiale e leader nell’asset management in Europa con 4,1 miliardi di
ricavi».
La caratteristica dell’operazione, come si intuisce, è quella di portare la
gestione, e quindi la capacità di influenzare operazioni, sul risparmio gestito
fuori dalla portata dei vari governi e di collocarla su scala sovranazionale e
in mani rigorosamente tecniche. La logica del capitalismo globale, né più né
meno, quella che generalmente viene favorita e garantita dalle politiche
dell’Unione europea e della Banca centrale europea che ai governi, spesso, non
risponde nemmeno al telefono.
Di fronte a questi scenari, la cultura economica della destra al governo ha
sempre detto di voler favorire il ruolo dello Stato, senza avventurarsi mai,
però, nelle pieghe di un vero intervento pubblico. L’ipotesi che, per resistere
nelle tempeste dell’economia globalizzata, gli Stati debbano dotarsi almeno di
un grande istituto bancario pubblico e tornare ad avere la decisione sulle
politiche finanziarie, a partire dal tasso di sconto, è cosa che ormai è espunta
dal dibattito pubblico e di fatto riguarda fondamentalmente solo la Cina,
spiegandone gran parte dei successi economici. L’approccio di Giorgetti e dei
suoi collaboratori, invece, è piuttosto quello di fare da protezione a un
progetto «amico», al di là del grado di rispondenza al governo, soprattutto un
progetto di potere e non certamente in grado di garantire una reale alternativa
alle dinamiche perverse della finanza mondiale. Ma in ogni caso, ammantato di
patriottismo e di un grado di sovranismo che non ha risparmiato armi e misure
audaci per vincere. Come l’utilizzo del cosiddetto golden power, prerogativa
governativa a tutela di istituti o aziende considerate vitali ai fini del
patrimonio nazionale, che è stato opposto alla scalata di Unicredit su Bpm, uno
degli istituti bancari di area leghista e uno degli attori dell’operazione su
Mediobanca. O alla benevolenza con cui si guarda la sostanziale scalata di Poste
Italiane e Tim dove il vertice della prima è ancora di nomina politica (e si
potrebbe continuare con le azioni della Cassa Depositi e Prestiti o la delega
assoluta lasciata a colossi come Eni e Enel).
Quello che ha ispirato il governo nella sua azione politica-economica è stata la
reiterata lotta tra un supposto perimetro nazionale della finanza pubblica
contro una dimensione sovranazionale additata come nemica mortale in quanto
appannaggio di altri centri di potere. Attorno alla Mediobanca della vecchia
gestione Nagel, infatti, si sono saldati i grandi fondi speculativi come
Blackrock e Vanguard, le grandi banche JP Morgan e Morgan Stanley, il gruppo
assicurativo francese Axa e molti altri, non sufficienti a fermare l’operazione
messa a punto in casa senese. Che invece ha potuto solleticare un nuovo
«orgoglio nazionale», ma fondamentalmente attirato dai margini di profitto e di
potere conseguente, di figure come il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone,
il pilota del successo internazionale di ExilorLuxottica, Mauro Milleri, o il
patròn di Bpm, Giuseppe Castagna.
IL SOVRANISMO LIBERISTA
Se la scalata organizzata dalla «progressista» Mps alla Antonveneta fu
all’insegna dei «furbetti del quartierino», espressione coniata
dall’immobiliarista Stefano Ricucci, finito poi anche in prigione, oggi si
potrebbe parlare di «furbetti del sovranismo», di un personale politico che si
nasconde dietro la difesa delle prerogative nazionali, per non dire della
Patria, ma non mette in moto nessuna leva nazionale degna di questo nome. Come
le già citate banca pubblica o controllo dei tassi di interesse (mentre prova a
spostare il controllo dell’oro dalle prerogative della Bce a quelle del governo
nazionale). Un sovranismo furbo che non esce dalle coordinate del liberismo
imperante e che per farlo inquina anche il rispetto delle regole che pure i vari
governi si sono dati, senza rimettere davvero in discussione l’ordine globale.
Basta una controprova per rendere chiaro il significato di un sovranismo
liberista che sembra un ossimoro ma che è sempre più il filo a piombo che lega
l’attuale destra vincente in Europa e nel mondo. L’attaccamento alle prerogative
nazionali scompare quando in ballo ci sono i destini dell’Ilva. L’1 dicembre i
lavoratori sono di nuovo entrati in sciopero con l’obiettivo di cercare di
salvare lo stabilimento di Taranto, i suoi livelli di produzione pur in un
quadro di decarbonizzazione. Il progetto di tenere insieme il lavoro e la
salute, l’ecologia e l’economia sembra piuttosto complicato, i soggetti deputati
a farlo, anche a sinistra, anche in ambito sindacale, non hanno sempre
l’approccio corretto, ma quale soggetto se non una struttura pubblica a pieno
controllo statale e con meccanismi di partecipazione e co-decisione operaia e
territoriale potrebbe affrontare seriamente i problemi? Cosa, se non la città di
Taranto, e di Genova, insieme alla sua comunità operaia, potrebbe davvero
indicare la strada di una rigenerazione possibile?
Eppure, al solo sentir parlare di nazionalizzazione il governo Meloni potrebbe
metter mano alla pistola, per utilizzare una celebre espressione. Curiosa
contraddizione per chi dice di fare gli interessi della propria nazione. Ma su
questo punto il discrimine tra una sinistra di classe e quel che resta della
destra sociale è fortunatamente ancora evidente. Peccato che la sinistra
esistente, quella che contende alla destra il governo nazionale, da queste
orecchie ci sente anche meno. Nella partita bancaria che abbiamo descritto,
infatti, dove si è schierato il Partito democratico? Ovviamente con la finanza
globale di Mediobanca. Difficile stabilire dove sia la padella e dove sia la
brace.
*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore
editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al
futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme,
2023).
L'articolo I furbetti del sovranismo proviene da Jacobin Italia.