Il modello Milano, oltre le inchieste
Articolo di Alessandro Coppola
Le inchieste sulla gestione dell’urbanistica e dell’edilizia a Milano hanno
portato in primo piano il tema del governo delle trasformazioni urbane. È
l’occasione per fare il punto criticamente, al di là dei risvolti giudiziari,
sul cosiddetto «modello Milano» di governo urbano.
La riduzione giudiziaria dei fenomeni sociali e politici è fenomeno ormai
consolidato in Italia e non è tanto funzione delle caratteristiche dell’azione
giudiziaria, bensì soprattutto dei gravissimi deficit degli attori politici e
culturali nel politicizzare questioni che, appunto, finiscono per politicizzarsi
solo per via giudiziaria. Se invece la questione milanese intendiamo
politicizzarla, possiamo muovere da diverse prospettive.
Prima di tutto, si tratta di capire chi ci ha guadagnato, da un modello di
sviluppo basato sulla valorizzazione immobiliare, quali gruppi sociali sono
stati coinvolti e quali esclusi. Per poi approfondire il modello di governo che
ha reso possibile tutto ciò nella fase post–expo, e le possibili alternative in
campo.
VINCENTI E PERDENTI DEL MODELLO MILANO
La prima prospettiva, ormai consolidata, è quella relativa al modello di
sviluppo – o meglio dire di accumulazione – della città e degli squilibri
distributivi che ha generato. Si tratta di un modello nel quale l’accumulazione
per via fondiaria e immobiliare ha assunto un peso crescente fino a diventare il
principale fattore strutturante dell’intera economia urbana (e più precisamente
il fattore cui gli altri settori economici devono pagare un contributo
crescente). Un modello che vede alcuni gruppi sociali vincenti, altri
naturalmente perdenti, e nel mezzo una sempre più difficile definizione di cosa
sia l’interesse pubblico, o meglio collettivo.
Fra i vincenti vi sono sicuramente le élite economiche e finanziarie che si sono
riposizionate a presidio di quello che David Harvey definisce quale il secondo
circuito del capitale, ovvero quello immobiliare, ma anche una parte cospicua di
ceti medi e superiori che, in modi diversi, hanno potuto partecipare agli
imponenti processi di valorizzazione immobiliare che si sono prodotti in questi
due decenni. Infatti, il grande capitale organizzato non è come ovvio l’unico
attore di questa fase dell’evoluzione di Milano, pensarlo è errore comune di
rappresentazioni manichee di come si sia strutturata questa fase della
traiettoria della città (e delle città). La proprietà diffusa, e in particolare
quella di valore elevata concentrata fra i ceti medi e superiori che a Milano
hanno un peso specifico ben più rilevante che altrove, rappresenta il lato
tribunizio, di massa, di questo modello di accumulazione. Com’è ovvio, pensare
che il 70% delle famiglie residenti in proprietà siano tutte parte dei vincenti,
e soprattutto vincenti nello stesso modo, è infondato: fra gli stessi
proprietari, a Milano e ancor di più fra questa e la sua area metropolitana, le
diseguaglianze si sono allargate, complice anche un sistema fiscale che
programmaticamente ignora le dinamiche di mercato. Tuttavia, non si può non
considerare il vantaggio economico e simbolico che parte dei ceti medi e
superiori locali hanno tratto da questa fase del capitalismo urbano. Al di là
dei vantaggi finanziari, l’immaginario di una città moderna, di fatto
tendenzialmente esclusiva ma simbolicamente attraente perché tecnologicamente
avanzata, sostenibile alla micro-scala dell’alloggio o del vicinato, e che
assicura una persistente valorizzazione degli investimenti ha avuto e tuttora
esercita un forte carica egemonica su un ampio spettro di classi sociali. Ed è
tale carica egemonica a rendere sempre complessa la visibilizzazione delle
implicazioni negative di tale modello, anche per i ceti che ne traggono qualche
vantaggio finanziario immediato.
Nel concreto, i gruppi sociali vincenti di questo ciclo li troviamo fra i
proprietari di abitazioni in zone in via di forte valorizzazione – perché le
avevano comprate prima, o perchè le hanno ereditate – o perché disponevano di
redditi elevati o patrimoni cospicui, che hanno permesso loro di acquistare
immobili che realisticamente andranno continuamente apprezzandosi nel tempo. Con
un prezzo medio delle compravendite realizzate in città ormai arrivato a 400.000
Euro (Dato Omi-Agenzia delle Entrate, 2025), il disporre di un patrimonio
cospicuo ha fatto di Milano – in una misura senza precedenti – la città che
meglio illustra la centralità crescente dei patrimoni nella riproduzione
sociale, tendenza che come noto coinvolge i capitalismi di tutto il Nord Globale
ma che in Italia diventa estrema per via della stagnazione dell’economia e della
dinamica dei salari.
Per restare a Milano oggi occorre essere parte dei ceti superiori oppure dei
ceti medi patrimonializzati, ovvero i ceti medi che ereditano un alloggio oppure
il capitale per acquistarlo: essere ceto medio dal punto di vista esclusivamente
dei redditi o del capitale culturale non è più sufficiente per accedere alla
proprietà. Tuttavia, e questo va sottolineato, la città proprietaria ha bisogno
che vi siano popolazioni mobili per la sua stessa riproduzione e valorizzazione.
E questa è la fonte principale del conflitto sociale, in gran parte implicito,
fra rigidità del modello proprietario e l’altra dimensione essenziale del
capitalismo urbano contemporaneo, ovvero la sua necessità strutturale sia di
lavoro cognitivo sia di lavoro nei servizi a basso valore aggiunto. Lavoro che –
considerate le sue condizioni di strutturale precarietà e i bassi redditi – vive
invece prevalentemente in affitto. E anche, in quota consistente, non
residente.
La democrazia locale quindi, non solo a Milano, è sempre più una democrazia
proprietaria, che di fatto esclude centinaia di migliaia di abitanti, perché non
residenti o irregolari, i quali sono prevalentemente in affitto (la base di
legittimazione delle amministrazioni comunali a Milano corrisponde, fra forme di
esclusione de jure e astensionismo di massa dei ceti popolari, a una frazione
ampiamente minoritaria della città reale). In altre parole: tutti gli abitanti
creano valore, solo una parte se ne appropria, e ancora meno decidono come
governarne la creazione e distribuzione.
LA CAPITALE MORALE DELLA RIPRODUZIONE DI CLASSE PER VIA IMMOBILIARE
Su Milano si sono riversate grandi masse di investimenti immobiliari, sempre di
più organizzati nella forma di tecnologie finanziarie avanzate – fra le quali, i
Real Estate Investment Trust (Reit), che raccolgono capitali di diversa
provenienza – ma, non dimentichiamolo, anche di una quota crescente del
risparmio nazionale delle famiglie di ceto medio-superiore italiane. L’arrivo di
quote crescenti di giovani qualificati ha portato con sé gli investimenti
immobiliari aggregati delle loro famiglie: in un paese particolarmente familista
come l’italia il cosiddetto brain-drain significa anche capital-drain
intergenerazionale, da territori periferici a territori centrali. Quindi, dal
punto di vista dei meri benefici finanziari che discendono dalla remunerazione
dei patrimoni immobiliari, il blocco sociale del ciclo immobiliare espansivo di
Milano è molto ampio e trans-scalare perché unisce una forte base locale che
potremmo definire nativa, a una quota ovviamente minoritaria ma significativa di
ceti medio-superiori del resto del paese e infine una serie di attori finanziari
e immobiliari di medie e grandi dimensioni.
La città è diventata il terreno principale della riproduzione di classe per via
immobiliare dei ceti medio-superiori dell’intero paese. Considerato il
tradizionale policentrismo di quest’ultimo – Roma, fino alla crisi del 2008,
esercitava una capacità attrattiva pari o superiore a quella di Milano – si
tratta di un grande fatto sociale. Sebbene, in relazione a questi ultimi, si
faccia molta retorica su Milano porta degli investimenti globali, il dato forse
più importante degli ultimi vent’anni è in realtà la nazionalizzazione di
Milano, e in particolare della sua borghesia. Alzando lo sguardo alla scala
nazionale, si capisce bene chi siano i perdenti di questo processo: gli altri
territori urbani che hanno iniziato a soffrire questa sovra-polarizzazione su
Milano (circostanza che spiega una crescente insofferenza, anche al Nord, fra i
pezzi di borghesia che decidono di non milanesizzarsi).
NON C’È UN’UNICA STRADA PER GOVERNARE LE TRASFORMAZIONI URBANE
Se questo è vero non bisogna però commettere l’errore di sottovalutare l’impatto
che i medi e grandi attori del capitale finanziario e immobiliare hanno avuto
sul cambiamento del modello di governo della città.
La capacità di tale capitale di plasmare i processi sociali e organizzativi, a
partire da quelli istituzionali, è stato forse il principale fattore di
cambiamento della politica della città. Il capitale finanziario-immobiliare
implica rapidità, tempestività, permanente capacità di adattamento, e più questo
si fa tendenzialmente transnazionale – come effettivamente capitato a Milano
negli ultimi anni – e più, naturalmente, è definito dalla sua mobilità, o ancora
più precisamente, dalla propaganda della sua mobilità e dalla conseguente
minaccia di andare altrove. Di fronte a esso, sebbene in un quadro assai
costretto e con capacità d’azione assai limitata, chi controlla le
amministrazioni locali può percorrere varie strade.
La prima è quella di lasciare che la logica di tale capitale sia fattore
egemonico di governo sgombrando il campo da quasi qualsiasi mediazione, se non
quelle rimovibili solo a condizione di un deciso e risolutivo cambiamento
dell’ordine politico (è il motivo per cui le petro-monarchie costituiscono il
contesto ideale per il grande capitale finanziario immobiliare).
La seconda al contrario è mobilitare le istituzioni locali per fare l’opposto di
quanto la mobilità del capitale richiederebbe, ovvero rallentare, selezionare e
diversificare. Che significa, essenzialmente, condizionarne e quindi contenderne
l’egemonia: promuovendo discussioni pubbliche al fine di imporre criteri di
selezione degli investimenti privati; istituendo contro-poteri istituzionali che
possano contrastarne il monopolio dei processi di trasformazione urbana;
imponendo forme di forte prelievo pubblico sul valore generato dalle
trasformazioni urbanistiche per impiegarlo in investimenti che vadano in
direzioni opposte a quelle che la sua logica di accumulazione invetiabilmente
preferisce.
La terza e ultima strada consiste nell’impedire loro l’accesso, preservando il
monopolio di attori immobiliari di vecchio tipo – quelli che potremmo definire
palazzinari relativamente localizzati e non molto finanziarizzati – o
percorrendo strade molto radicali, quali quelle del congelamento di qualsiasi
attività edilizia. Questa terza strada può rivelarsi problematica, perché in
quanto meramente difensiva può avere effetti distributivi paradossali: avere un
sistema immobiliare dominato da palazzinari tradizionali, come è il caso di
altre città italiane, non è garanzia di maggiore equità distributiva, e le
politiche di decrescita attraverso il congelamento dell’attività edilizia – come
dimostrano molti casi specie negli Usa – si sono spesso rivelate funzionali alle
strategie di preservazione del valore immobiliare e dell’esclusività sociale di
città e territori.
Per questa ragione, quando forze progressiste hanno ottenuto il controllo di
amministrazioni locali, hanno solitamente battuto la seconda strada,
diversificando il campo degli attori immobiliari in direzione del rafforzamento
di attori pubblici e cooperativi, e contrastando i comportamenti speculativi sul
mercato attraverso nuove regolazioni. E, attraverso tutto questo, rendendo
visibili all’opinione urbana i processi dell’economia immobiliare e quindi i
processi di pianificazione, al fine di renderli contendibili. Come si vede, sono
queste strategie eminentemente politiche in quanto istituenti, nel senso che
intendono modificare il campo degli attori e trasformare gli istituti e le
logiche attraverso le quali si realizzano le trasformazioni urbane. Sono quindi
strategie che affermano anche un determinato modello di governo, contestualmente
a un diverso modello di accumulazione. In altri tempi, questo tipo di strategia
sarebbe stata definita riformista, ma oggi sarebbe definita – specie in Italia –
con pseudo-concetti quali ideologica o massimalista, circostanza che dà la
misura di come si sia ristretto il campo delle opzioni politiche percepite come
politicamente accettabili. Mentre, a essere definito riformista, è bizzarramente
la scelta della passività politica di fronte al dispiegarsi delle logiche del
capitale, piccolo, medio e grande che sia.
IL POST-EXPO. MODELLI DI ACCUMULAZIONE E MODELLI DI GOVERNO
A Milano, il significato del post-Expo – spesso presentato quale spartiacque
delle magnifiche e progressive sorti del ciclo immobiliare ascendente – risiede
piuttosto nel suo costituire la giuntura critica nella quale si è risolutamente
scartata l’ipotesi di un modello di governo riformista (nell’accezione che ne ho
dato sopra).
In quel frangente critico, la città – e la classe dirigente che la governava –
poteva prendere strade diverse, e scelse quella che più chiaramente riconosceva
l’egemonia del capitale finanziario e immobiliare vedendovi il principale
fattore di sviluppo e governo della città. Ma tale egemonia aveva necessità di
un modello di governo sempre più verticale e sempre più latamente tecnocratico,
e facente leva da una parte su network sempre più sofisticati di attori privati,
e dall’altra su una crescente tecnicizzazione degli stessi esecutivi politici.
Tecnicizzazione che ha raggiunto il suo apice nel corso di questo mandato
consiliare, ma che era stata già avviata in modo deciso con l’elezione di
Giuseppe Sala (a suo modo un «tecnico». Questo avveniva peraltro in un contesto
nel quale negli anni precedenti l’enfasi francamente liberista sul mercato e la
sussidiarietà, espressione di una destra molto coesa e culturalmente attrezzata
quale quella lombarda degli anni Novanta e Duemila, aveva già devoluto quote
crescenti di decisioni e politiche ad attori economici professionalmente
assistiti.
In questo quadro, il salto di scala – sia nazionalizzazione sia
internazionalizzazione – del capitale coinvolto in operazioni immobiliari a
Milano ha condotto alla formazione di attori e network con capacità
organizzative e competenze largamente superiori a quelle degli attori pubblici
che, nel frattempo, né si rafforzavano né si innovavano. La massa enorme di
investimenti arrivata a Milano, nel solco delle politiche di sostanziale dumping
promosse sia a livello cittadino sia regionale, ha così largamente ecceduto la
capacità dell’amministrazione comunale di trattarli. Ed è parso naturale che una
parte crescente di questi fosse devoluta – attraverso l’espansione e
diversificazione di strumenti di partenariato pubblico-privato – a dei
meccanismi di pressoché totale esternalizzazione e automazione decisionale, che
hanno contribuito all’ulteriore svuotamente dei poteri delle istituzioni
locali.
Tale svuotamento ha contribuito a indebolire la legittimità e necessità di
attori collettivi, a partire dai partiti: se gli oggetti che dovrebbe trattare,
avendo devoluto una quota crescente di decisioni all’esterno, si assottigliano e
restringono, la politica non dispone più di una funzione chiara e in particolare
della sua funzione «istituente». Il sempre più largo ricorso a funzionari o
professionisti senza partito nelle amministrazioni, circostanza apparentemente
paradossale in presenza di un partito di maggioranza reputato forte e radicato
(a Milano), è stata una manifestazione potente di queste evoluzioni. Inserendo
tecnici, professionisti ed esperti di ogni tipo – che, diversamente dalla
retorica che li disincarna, sono assai incarnati in legittimi sistemi di potere
– gli esecutivi politici acquisiscono non solo degli individui competenti ma
anche dei network di relazione e il capitale politico che ne deriva, che come
evidente non deriva dall’attività politica ma da altri tipi di attività.
Nella microfisica degli interessi questi network e capitali diventano forze
potenti, molto difficili da scalfire, specie se la politica le cede il posto e
se nel resto della società vi sono pochi attori e processi che ne contendano il
potere. Il dato forse più rilevante nelle vicende di Milano è la scomparsa degli
attori politici organizzati e della loro capacità di intervenire in modo
strutturato, organizzando l’opinione e la società da una parte e dando una forma
accettabile agli interessi dall’altra, nel disegno delle politiche della città.
A essersi manifestata è una forma di autopoiesi della società civile, nella
versione liberista che abbiamo imparato a conoscere.
LA PARTECIPAZIONE DEBOLE
Questo processo, combinato con la crescente complessificazione e oscurità dei
meccanismi e degli strumenti delle politiche pubbliche, contribuiscono peraltro
a una progressiva alienazione dell’opinione pubblica – e di certi ceti e gruppi
sociali in particolare – dalle scelte urbane. Tutto questo può accadere mentre
le stesse amministrazioni, anche a causa dell’indebolimento degli attori
politici tradizionali, investono su politiche partecipative di cui tuttavia
fanno un uso molto selettivo e strategico. Amministrazioni che possiamo
considerare progressiste o municipaliste promuoveranno meccanismi di
partecipazione proprio sulle poste in gioco più rilevanti, e nelle quali la
riproduzione del potere dei network esistenti è particolarmente potente. Governi
urbani che progressisti invece non lo sono, viceversa, apriranno questi canali
su poste in gioco di minore rilevanza per l’economia politica delle città e per
le quali i citati network sono scarsamente rilevanti e strutturati e quindi
politicamente non molto contesi. In questa diarchia, in fondo, sta la natura
insorgente o non insorgente del governo urbano, che per l’appunto risiede
nell’aprire o viceversa chiudere campi e network degli attori urbani.
A Milano, nonostante il cambio politico del 2011 fosse stato espressione di una
significativa mobilitazione popolare, è stata scelta la seconda strada, con
politiche latamente partecipative che hanno riguardato non la posta in gioco
principale (l’urbanistica, il modello di sviluppo e di accumulazione della
città) bensì oggetti meno rilevanti (ad esempio, alcuni spazi pubblici) e che
hanno coinvolto prevalentemente i ceti medi e superiori. All’origine delle
inchieste, oltre a mobilitazioni di comitati territoriali, vi sono state anche
forme di mobilitazione di singoli proprietari che hanno visto negli interventi
di densificazione edilizia una minaccia per il godimento dei loro diritti di
proprietà e della qualità della vità in conflitto con i diritti di proprietà di
chi sarebbe andato a vivere in quegli interventi. Certo, ci sono stati gli
studenti con il loro accampamento per il diritto all’abitare, nonché l’emergere
di nuovi attori e mobilitazioni sulla casa che non hanno precedenti recenti,
tuttavia il campo degli attori in campo appare piuttosto limitato. Quindi, la
domanda fondamentale che occorre farsi è quali siano i gruppi sociali e gli
interessi di cui, in negativo, si nota l’assenza in tutta la questione Milano. E
non sono i cittadini, genericamente intesi. Sono soprattutto alcuni gruppi
sociali – i nuovi ceti popolari, nella loro varietà e articolazione – i cui
livelli di partecipazione al governo urbano sono giunti a Milano al punto più
basso dal 1945 a oggi. Non è sempre stato così, e non è un destino. Ma per fare
in modo che non lo sia serve un lavoro sociale e politico di grande cura e di
lungo periodo. E da cui dipende la possibilità che il governo delle città assuma
caratteri insorgenti e non quelli tecnocratici. Il tema dell’abitare e del
governo dei processi urbani in generale rappresenta un terreno di mobilitazione
e partecipazione molto difficile a cui tuttavia va riconosciuto, oggi più che
mai, inevitabile centralità.
*Alessandro Coppola insegna pianificazione e politiche urbane presso il
Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano.
L'articolo Il modello Milano, oltre le inchieste proviene da Jacobin Italia.