Tag - politica

I furbetti del sovranismo
Articolo di Salvatore Cannavò Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di Monte dei Paschi (Mps) la mano pubblica è indicata chiaramente. Più che pubblica è una mano di governo, di potere, che obbedisce non certo alla logica dell’interventismo nazionale, pure spesso rivendicato dalla propaganda della destra una volta sociale. E le impronte lasciate sull’operazione, che ora vengono passate al vaglio dei magistrati, indicano che esiste ancora in Italia un conflitto tra poteri che non nascondono la loro vocazione sovranazionale – nel senso di autonomia totale dai poteri nazionali e quindi dagli Stati – e poteri che invece, anche per la loro debolezza, preferiscono la coperta dello Stato e l’appoggio politico per garantirsi maggiori spazi ei profitti. In questa diatriba, però, non si ravvisa uno scontro ideologico degno di nota, non si intravede insomma il portato di una cultura a vocazione nazionale che abbia a cuore il tessuto sociale, il ruolo pubblico, la democratizzazione dei poteri. Tutt’altro, lo scontro di potere è fine a sé stesso con le conseguenze evidenti sul piano politico ed economico.  IL SOSTEGNO DEL MEF Il ruolo del governo in questa vicenda è stato evidenziato dai magistrati. Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di Mps, in cui sono indagati l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, il presidente di Luxottica e Delfin Francesco Milleri e l’ad di Mps, Luigi Lovaglio, accusati di aver «concertato» insieme la vendita delle quote Mps da parte del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) a soggetti privati con l’obiettivo futuro di organizzare la scalata al «tempio» finanziario milanese Mediobanca, il Mef «non è oggetto di accertamento» in quanto «non è persona fisica e non può commettere reati». Ma, hanno informalmente precisato dalla Procura, anche se il ministero «non commette reati» avrebbe però dato un «sostegno» all’operazione. In questo ginepraio di dichiarazioni rese a mezza bocca, il termine che rimane sul tavolo, e che aiuta a dare il senso di questa complessa operazione, è proprio «sostegno». La dismissione del novembre 2024, quindi, avrebbe rappresentato per l’accusa uno dei «tasselli» della più ampia «strategia coordinata» tra Delfin e Caltagirone, con l’avallo di Lovaglio, per arrivare al controllo di Mediobanca, attraverso Mps e a cascata, dunque, anche di Generali. A corollario di questo interessamento politico delle sorti di Mediobanca e del ruolo che Mps avrebbe dovuto svolgere nel rinnovamento della finanza italiana c’è anche un altro particolare. I tre consiglieri indipendenti di Mps, Annapaola Negri Clementi, Paolo Fabris De Fabris e Lucia Foti Belligambi, hanno infatti dichiarato che le loro dimissioni «sono state richieste o imposte dal Mef o, in un caso, dal deputato della Lega» Alberto Bagnai «che aveva detto di esprimersi per conto» del Tesoro. Non solo il Mef, di Giancarlo Giorgetti, ma anche il parlamentare leghista più attivo sul fronte della finanza e con un approccio decisamente «sovranista», come conferma la sua lunga battaglia per l’uscita dell’Italia dall’euro (peraltro spesso adottando argomenti non banali). Le dimissioni dei consiglieri Mps, che erano stati eletti nella lista del Mef, hanno lasciato a suo tempo adeguato spazio ai due soci di minoranza, Delfin e Gruppo Caltagirone, per «entrare nella cabina di regia» dell’istituto di Rocca Salimbeni. Da lì in avanti si organizza la scalata a Mediobanca che prenderà corpo con il voto determinante dei sette consiglieri espressione del Mef e dei nuovi cinque consiglieri. Un piano di cui, per ammissione alla Consob dello stesso amministratore delegato di Mps, il ministero dell’Economia era stato informato. Non si può sapere come finirà l’inchiesta, ma non è questo il dato importante. Alla luce dei fatti accertati, delle dichiarazioni rese, il ruolo politico del governo Meloni in questa riorganizzazione bancaria è evidente a chi vuol vedere. E di questo, infatti, si discute negli ambienti che conoscono le dinamiche bancarie e finanziarie, italiane e internazionali, e negli ambienti della politica. Quale governo, del resto, riuscirebbe a resistere alla tentazione di dotarsi di un sistema bancario il più possibile amico? Non è stato inchiodato il governo D’Alema, nel 1999, alla famosa espressione di «palazzo Chigi, unica merchant bank in cui non si parla inglese» coniata da Guido Rossi?  Non c’è solo il potere che ne deriva in termini di leva finanziaria, ma anche la garanzia di avere un interlocutore stabile nella gestione del risparmio italiano, decisivo ai fini di una collocazione ottimale dei titoli di Stato. Non a caso, uno dei problemi insiti nello scontro bancario riguarda il controllo di Generali dove il suo amministratore delegato, espressione della vecchia gestione, Philippe Donnet, ha lavorato a lungo insieme alla francese Natixis per creare «un operatore globale da 1.900 miliardi di masse gestite, al nono posto a livello mondiale e leader nell’asset management in Europa con 4,1 miliardi di ricavi».  La caratteristica dell’operazione, come si intuisce, è quella di portare la gestione, e quindi la capacità di influenzare operazioni, sul risparmio gestito fuori dalla portata dei vari governi e di collocarla su scala sovranazionale e in mani rigorosamente tecniche. La logica del capitalismo globale, né più né meno, quella che generalmente viene favorita e garantita dalle politiche dell’Unione europea e della Banca centrale europea che ai governi, spesso, non risponde nemmeno al telefono.  Di fronte a questi scenari, la cultura economica della destra al governo ha sempre detto di voler favorire il ruolo dello Stato, senza avventurarsi mai, però, nelle pieghe di un vero intervento pubblico. L’ipotesi che, per resistere nelle tempeste dell’economia globalizzata, gli Stati debbano dotarsi almeno di un grande istituto bancario pubblico e tornare ad avere la decisione sulle politiche finanziarie, a partire dal tasso di sconto, è cosa che ormai è espunta dal dibattito pubblico e di fatto riguarda fondamentalmente solo la Cina, spiegandone gran parte dei successi economici. L’approccio di Giorgetti e dei suoi collaboratori, invece, è piuttosto quello di fare da protezione a un progetto «amico», al di là del grado di rispondenza al governo, soprattutto un progetto di potere e non certamente in grado di garantire una reale alternativa alle dinamiche perverse della finanza mondiale. Ma in ogni caso, ammantato di patriottismo e di un grado di sovranismo che non ha risparmiato armi e misure audaci per vincere. Come l’utilizzo del cosiddetto golden power, prerogativa governativa a tutela di istituti o aziende considerate vitali ai fini del patrimonio nazionale, che è stato opposto alla scalata di Unicredit su Bpm, uno degli istituti bancari di area leghista e uno degli attori dell’operazione su Mediobanca. O alla benevolenza con cui si guarda la sostanziale scalata di Poste Italiane e Tim dove il vertice della prima è ancora di nomina politica (e si potrebbe continuare con le azioni della Cassa Depositi e Prestiti o la delega assoluta lasciata a colossi come Eni e Enel). Quello che ha ispirato il governo nella sua azione politica-economica è stata la reiterata lotta tra un supposto perimetro nazionale della finanza pubblica contro una dimensione sovranazionale additata come nemica mortale in quanto appannaggio di altri centri di potere. Attorno alla Mediobanca della vecchia gestione Nagel, infatti, si sono saldati i grandi fondi speculativi come Blackrock e Vanguard, le grandi banche JP Morgan e Morgan Stanley, il gruppo assicurativo francese Axa e molti altri, non sufficienti a fermare l’operazione messa a punto in casa senese. Che invece ha potuto solleticare un nuovo «orgoglio nazionale», ma fondamentalmente attirato dai margini di profitto e di potere conseguente, di figure come il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, il pilota del successo internazionale di ExilorLuxottica, Mauro Milleri, o il patròn di Bpm, Giuseppe Castagna.  IL SOVRANISMO LIBERISTA Se la scalata organizzata dalla  «progressista»  Mps alla Antonveneta fu all’insegna dei «furbetti del quartierino», espressione coniata dall’immobiliarista Stefano Ricucci, finito poi anche in prigione, oggi si potrebbe parlare di «furbetti del sovranismo», di un personale politico che si nasconde dietro la difesa delle prerogative nazionali, per non dire della Patria, ma non mette in moto nessuna leva nazionale degna di questo nome. Come le già citate banca pubblica o controllo dei tassi di interesse (mentre prova a spostare il controllo dell’oro dalle prerogative della Bce a quelle del governo nazionale). Un sovranismo furbo che non esce dalle coordinate del liberismo imperante e che per farlo inquina anche il rispetto delle regole che pure i vari governi si sono dati, senza rimettere davvero in discussione l’ordine globale.  Basta una controprova per rendere chiaro il significato di un sovranismo liberista che sembra un ossimoro ma che è sempre più il filo a piombo che lega l’attuale destra vincente in Europa e nel mondo. L’attaccamento alle prerogative nazionali scompare quando in ballo ci sono i destini dell’Ilva. L’1 dicembre i lavoratori sono di nuovo entrati in sciopero con l’obiettivo di cercare di salvare lo stabilimento di Taranto, i suoi livelli di produzione pur in un quadro di decarbonizzazione. Il progetto di tenere insieme il lavoro e la salute, l’ecologia e l’economia sembra piuttosto complicato, i soggetti deputati a farlo, anche a sinistra, anche in ambito sindacale, non hanno sempre l’approccio corretto, ma quale soggetto se non una struttura pubblica a pieno controllo statale e con meccanismi di partecipazione e co-decisione operaia e territoriale potrebbe affrontare seriamente i problemi? Cosa, se non la città di Taranto, e di Genova, insieme alla sua comunità operaia, potrebbe davvero indicare la strada di una rigenerazione possibile?  Eppure, al solo sentir parlare di nazionalizzazione il governo Meloni potrebbe metter mano alla pistola, per utilizzare una celebre espressione. Curiosa contraddizione per chi dice di fare gli interessi della propria nazione. Ma su questo punto il discrimine tra una sinistra di classe e quel che resta della destra sociale è fortunatamente ancora evidente. Peccato che la sinistra esistente, quella che contende alla destra il governo nazionale, da queste orecchie ci sente anche meno. Nella partita bancaria che abbiamo descritto, infatti, dove si è schierato il Partito democratico? Ovviamente con la finanza globale di Mediobanca. Difficile stabilire dove sia la padella e dove sia la brace.  *Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme, 2023). L'articolo I furbetti del sovranismo proviene da Jacobin Italia.
L’assalto alla Stampa e la guerra informativa
Articolo di Alberto Manconi In questi giorni, un coro unanime si è scagliato contro l’azione dentro al quotidiano La Stampa svolta da un centinaio di giovani a Torino staccatisi dal corteo per lo sciopero generale dello scorso venerdì 28 novembre.  Comprensibilmente, il fatto che la redazione di un quotidiano – peraltro, come fatto notare da molti, non certo il peggiore nel modo di trattare il genocidio in Palestina – sia diventato bersaglio diretto di un’azione del genere, ha impressionato gli stessi operatori dell’informazione più sensibili. Tanto più che quel giorno la categoria dei giornalisti era in sciopero per il proprio contratto e per poter svolgere seriamente la propria professione.  Certamente, possiamo dire che a Torino venerdì scorso si è svolta un’azione che si è rivelata non utile e non intelligente, e che come prevedibile è stata utilizzata dal sistema mediatico e politico complessivo per rendere invisibile l’intero fine settimana di scioperi e manifestazioni contro la finanziaria di guerra e per denunciare che in Palestina non c’è nessuna «pace» e il genocidio continua. Questo articolo però muove dall’impressione – non inedita, ma certamente singolare negli ultimi mesi che hanno mostrato le prime crepe del Governo Meloni – provata di fronte alla condanna così dura e ampia che tale azione ha suscitato nel dibattito pubblico. Sottolineo la parola condanna perché tale termine, insieme a quello di assalto, è stato quello decisamente più in voga per riferirsi a tali fatti. «Condanno l’assalto a La Stampa» è stata l’espressione più utilizzata, anche tra gli operatori dell’informazione e della cultura che più si sono schierati per Gaza negli ultimi due anni. I toni sono giunti a incredibili accuse di «squadrismo» e «fascismo», e per capire il livello a cui sono arrivati basti leggere l’editoriale di Antonio Polito sul Corriere della sera che scaglia epiteti di ogni tipo contro Francesca Albanese, definita la «maestrina estremista», manipolando ad arte le sue dichiarazioni, come hanno fatto del resto in molti. Secondo gli stessi canali social de La Stampa quella di venerdì scorso è stata un’«irruzione» all’interno degli uffici della redazione in quel momento vuota per l’adesione allo sciopero da parte dei giornalisti. Una volta dentro, come si evince dalle immagini, i cento manifestanti hanno buttato a terra dei documenti e fatto alcune scritte sul muro in una stanza piena di altri oggetti di maggior valore, in primis i computer, che non sono stati in alcun modo danneggiati.  Se ascoltiamo invece i dibattiti e le dichiarazioni degli ultimi giorni, incontriamo lo stesso piano discorsivo e gli stessi toni nel descrivere l’«assalto» a La Stampa e gli «assalti» quotidiani dell’esercito israeliano a Gaza, che tra l’altro persino nella prima settimana della «pax trumpiana» ha ucciso vari giornalisti e ne ha uccisi centinaia dopo il 7 ottobre. Si finiscono così per confondere azioni e parole, vernice e bombe, cadaveri e fogli, in un vortice infinito di equivalenze senza alcun senso e contesto.  Ma da dove deriva una reazione così spropositata? «L’appello alla causa palestinese può creare una miscela esplosiva», scrive sempre Polito sul Corriere. La Palestina continua a essere la pietra dello scandalo. Editorialisti, leader politici e istituzionali sembrano letteralmente impazziti di fronte al fatto che la causa palestinese susciti così tanta solidarietà e movimento, al punto che di fronte al primo errore o parola sbagliata di una parte dei manifestanti si lanciano in accuse a corpo morto, provando  a personalizzare l’attacco contro chi ha rappresentato pubblicamente questo sentimento solidale con la Palestina.  In tutto questo si perde il contesto politico dell’inefficace azione a La Stampa, contesto caratterizzato da una settimana molto rilevante per Torino e per il relativo movimento di solidarietà alla Palestina, dovuto all’incarceramento in un Cpr dell’Imam di San Salvario Mohamed Shahin per un reato d’opinione. Shahin è ora in attesa di essere deportato in Egitto, un paese – come dimostrano le vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki – autoritario e pericoloso per i dissidenti ma fondamentale, insieme all’italia, per il controllo del Mediterraneo all’interno dello scacchiere geopolitico che unisce Stati uniti e Israele. Il tentativo di deportazione di questo padre di due figli residente in Italia da 21 anni per aver contestualizzato in modo discutibile il 7 ottobre, ma senza assolutamente giustificare l’attacco di Hamas, è portato avanti direttamente dal governo. La procura di Torino, infatti, non ha trovato alcun elemento per ipotizzare una violazione del codice penale, neanche un’istigazione a delinquere. E lo stesso vescovo di Pinerolo ha lanciato un appello pubblico in sua difesa. Tuttavia, l’onorevole Augusta Montaruli, amica di Giorgia Meloni e nota ai più per una condanna per peculato e per aver letteralmente abbaiato in diretta Tv, ha chiesto a gran voce l’espulsione dell’imam di Torino, trovando il favore del ministro dell’interno Matteo Piantedosi. Si tratta di un tentativo non solo di espellere, ma di spaventare in modo particolare le persone razzializzate che hanno avuto un ruolo decisivo nell’emersione del primo movimento, quello per la Palestina, in grado di durare e di mettere in difficoltà il governo Meloni. Il 9 Ottobre, giorno della manifestazione incriminata per le dichiarazioni di Shahin, La Stampa cita l’imam solo en passant. Poi però assume un ruolo forte in questa vicenda: l’11 ottobre esce col titolo «Il 7 ottobre non fu violenza ma resistenza, bufera sulle parole dell’imam in piazza Castello». Poche ore dopo, si unisce il Corriere della sera che aggiunge «Fdi ne chiede l’espulsione». E qui inizia il processo mediatico e politico per cui Shahin ora rischia la deportazione.  Il contesto politico generale è questo, e dovremmo sapere che la valanga di sproporzionate condanne dell’azione a La Stampa è fatta ad arte per legittimare molte altre condanne contro semplici prese di posizione – come dimostra oggi l’appello a revocare le cittadinanze onorarie a Francesca Albanese – ma anche condanne legalmente ben più gravi che potrebbero arrivare anche per le azioni svolte dai movimenti degli ultimi mesi, ad esempio l’occupazione di varie strade e autostrade per bloccare il paese contro il genocidio.  Se prendiamo sul serio i rischi di autoritarismo di cui pure parlano ogni giorno molti operatori di stampa, insieme a sindacati, organizzazioni della cooperazione internazionale e alcune organizzazioni politiche, non si dovrebbe far fatica a riflettere sulle conseguenze che possono avere i toni di condanna usati. Quella del giornalista è una figura professionale fondamentale per qualsiasi idea minima di democrazia o di controllo del potere politico. Una categoria lavorativa che spesso lavora precariamente, che è messa in questione dai vari passaggi tecnologici che riguardano la sfera mediatica e che arriva malconcia alla sfida che l’intelligenza artificiale pone a tutta la classe professionale. Ma soprattutto, e più concretamente nell’attuale congiuntura politica, è una figura che quando fa il proprio mestiere con solerzia rischia grosso, come dimostra proprio la Palestina, ma anche gli attacchi diretti contro Sigfrido Ranucci. Questa categoria, però, è stata spesso sfigurata in Occidente – e in Italia in particolare – dal ruolo maggioritario svolto dall’informazione con il ritorno della guerra in Europa e con il genocidio a Gaza. Questa delegittimazione degli operatori dell’informazione ricade purtroppo su tutti e tutte. Mette spesso sullo stesso piano chi si assume grossi rischi per fare informazione libera e di qualità con chi si offre come ripetitore e difensore strenuo della linea dettata dalle principali «firme» e agenzie stampa che determinano l’agenda e le parole chiave contribuendo a militarizzare tutto. A partire dal dibattito pubblico. Se una delle critiche condivisibili all’azione di Torino è quella di aver fatto di tutta l’erba un fascio, siamo certi che la condanna corale e sproporzionata di quell’azione non contribuisca a esasperare l’idea che esista una «casta» giornalista corporativa? Un rischio le cui conseguenze finiscono per ricadere soprattutto sulle figure più scomode che fanno un prezioso lavoro giornalistico giorno per giorno. Per questo stupiscono le prese di posizione di quanti tra quest’ultimi si sono appiattiti sui termini assurdi per descrivere quanto avvenuto a Torino propinati dai media mainstream, perché l’obiettivo è espellere l’ormai temutissima solidarietà al popolo palestinese dal dibattito pubblico, come si espelle l’Imam Shahin per un reato d’opinione stabilito dal governo. L’estrema destra al governo dimostra di conoscere la nozione di rapporti di forza: attaccano chi li contrasta e difendono, sempre, la loro parte e chi potrebbe unirvisi. È giusto che noi evitiamo di essere come soldati in guerra, e che segnaliamo liberamente ciò che non si condivide. Ma non si possono negare le guerre che vengono fatte sulla nostra pelle. Tra queste c’è anche la guerra informativa, e anch’essa determina i rapporti di forza in cui ci troviamo.  *Alberto Manconi è dottorando presso l’Università di Losanna, si occupa di attivismo climatico e partecipa al movimento Insorgiamo, di solidarietà al Collettivo di Fabbrica ex-Gkn, e al percorso degli Stati Generali della Giustizia Climatica e Sociale. L'articolo L’assalto alla Stampa e la guerra informativa proviene da Jacobin Italia.
Italians for Mamdani
Articolo di Elisabetta Raimondi Uno dei fenomeni conseguenti all’entusiasmo per Zohran Mamdan è la nascita degli Italians for Zohran, un gruppo creato quasi per gioco su Instagram la primavera scorsa. La sua storia, che potrebbe sembrare folcloristica o patriottica, anche se in un’accezione lontana dall’ideologia della destra, rappresenta una novità, o una rivoluzione, per la comunità italo-americana. Il gruppo, che ha intenzione di continuare la sua attività politica, offre infatti una visione molto differente da quella che generalmente caratterizza gli italo-americani come conservatori e reazionari.  Gli Italians for Zohran hanno anche una chat whatsapp che riunisce gli attivisti più impegnati, la maggior parte dei quali sono millennials simpatizzanti e/o iscritti ai Dsa (Democratic Socialists of America). Appartengono generalmente a famiglie che vivono in America da alcune generazioni, come lo studioso della diaspora italo-americana Steve Cerulli, ma vi sono anche italiani trasferitisi a New York per lavoro negli ultimi anni. Un pilastro del gruppo è ad esempio  l’accademico specializzato in sistemi carcerari mondiali Sergio Grossi, docente di criminologia alla Cuny (City University of New York) dove è strettissimo collaboratore di  Alex Vitale, il celebre autore di The End of Policing sulla giustizia trasformativa. Nei primi mesi del 2025 Vitale e Grossi hanno incontrato Zohran Mamdani per la costituzione, in caso di vittoria, di un Department of Community Safety gestito non dalla polizia ma da un organo civico. Ora la progettazione sta per partire dato che tra i recenti incarichi in vari settori appena conferiti da Mamdani vi è quello ad Alex Vitale. Della realtà italo-americana newyorkese, dei legami dei giovani con l’Italia e di molto altro abbiamo parlato in particolare con Jesse Ortiz, trentunenne fondatore di Italians for Zohran, prossimo alla laurea in medicina, e con Alessandra Ferrara, trentottenne preparatissima attivista dei Dsa. Ne riportiamo alcuni estratti. Per prima cosa raccontaci come ti è venuta l’idea di creare un gruppo di supporto a Zohran formato da italo-americani.  Jesse Ortiz: È successo quasi per gioco la primavera scorsa, un giorno in cui scorrendo su Instagram gli affinity group creati per Mamdani, ho pensato che sarebbe stato divertente averne uno italiano e così ho twittato Italians for Zohran. Non immaginavo che la proposta avrebbe suscitato interesse, perché so che gli italoamericani di New York sono prevalentemente conservatori e vengono inquadrati in un cliché che li fa sentire emarginati, in quanto generalmente percepiti come un’etnia diversa da quella bianca anglosassone. Invece le risposte e le adesioni mi hanno fatto sentire responsabile come se con quel tweet mi fossi preso un impegno. Inoltre mi sono reso conto sia di come Andrew Cuomo avesse monopolizzato l’identità italo-americana, sia del gran desiderio dei giovani di prenderne le distanze. Ho quindi pensato che un gruppo per Zohran avrebbe potuto creare uno spazio fino a quel momento inesistente in cui noi giovani italo-americani potessimo conciliare le nostre idee politiche più progressiste e socialiste con la nostra identità di italiani.  Tu, come tanti altri affiliati al gruppo, sei un italo-americano la cui famiglia è qui da diverse generazioni. Eppure sentite ancora un forte attaccamento all’Italia, al punto che parecchi di voi, pur essendo cresciuti anglofoni e con genitori che non parlano l’italiano, hanno deciso di studiare la lingua in età adulta. Come mai questo attaccamento? Jesse Ortiz: L’italia la sento nel sangue essendo cresciuto con nonni, zii e parenti che mi hanno raccontato delle loro vite da immigrati e di quelle dei loro genitori venuti qui a lavorare sodo, a far parte dei sindacati, a versare sangue, sudore e lacrime per la città. È un’esperienza comune a molti di noi. Però i nostri vecchi, se così posso definirli, pur raccontando delle difficoltà e discriminazioni vissute, sono molto duri quando parlano degli immigrati di oggi che secondo loro vogliono solo trarre vantaggio da realtà che non hanno contribuito a creare. Sono razzisti e islamofobici. E questa è una cosa che noi giovani vogliamo cambiare. Quanto al fatto che generalmente i nostri genitori non parlino l’italiano, dipende dal desiderio dei loro genitori di vedere i propri figli integrati in un modello di società che discriminava i bianchi non anglosassoni.  Il cliché dell’italo-americano conservatore è legato a un particolare partito o va oltre? E riguardo al Partito democratico, qual è la tua posizione e più in generale quella del gruppo?  Jesse Ortiz: Sebbene  lo stereotipo dell’italo-americano, in particolare a New York, sia quello di essere conservatore e reazionario credo che la realtà sia molto più complicata e che gli italo-americani si trovino in tutto lo spettro politico. Ci sono sicuramente dei fascisti e dei trumpiani, ma anche persone legate a diverse tipologie di destra. E poi ci sono persone come mia madre, che ha 69 anni e pur non considerandosi socialista è liberal e femminista. È una dei tanti elettori ed elettrici Democratici più che mai deluse dal partito, cosa che l’ha portata a sostenere Mamdani. Quanto al Partito democratico sia io sia il gruppo lo consideriamo un corporate party senza alcuna visione per il futuro. Tuttavia, in mancanza di un terzo partito lo utilizziamo come  strumento per fare pressione su istanze più progressiste e socialiste, proprio come ha fatto Mamdani. E come prima di lui ha fatto Bernie Sanders, le cui campagne hanno evidenziato l’enorme numero di persone, sia dentro sia oltre il Partito democratico, che vogliono un’agenda progressista. Alessandra Ferrara, terza generazione, laureata in Politiche Internazionali con indirizzo in Medio Oriente e conoscenza dell’arabo, oltre che dell’italiano, non imparato in famiglia, hai conoscenze molto vaste che sa diffondere con notevole competenza e senza ostentazione. Tu sei molto attiva tra i Dsa, dove fai volontariato soprattutto conducendo gruppi di lettura. Vuoi parlarci in particolare di quello intitolato Da Marx alla Palestina e del perché hai strutturato questo corso?  Alessandra Ferrara: Perché sento la necessità che i giovani interessati al cambiamento politico siano in grado di interpretare la realtà di oggi con una conoscenza del passato visto da una prospettiva socialista. Prima di affrontare i temi odierni cerco di insegnare i fondamentali del marxismo e del socialismo in modo che tutti possano avere non solo delle conoscenze di base, ma anche il linguaggio giusto per parlarne.Tra i testi che leggiamo c’è il recente The ABCs of Socialism dove ci sono anche saggi di Chris Maisano che fa parte degli Italians for Zohran. Stiamo cercando di smontare il linguaggio dell’illusione che vuole farci credere all’impossibilità di certi obiettivi, dimostrando che una vera possibilità sociale nasce da solidarietà e empatia radicali. Perciò, quando parliamo di concetti come «una città accessibile a tutti», cosa significa davvero in termini politici? Cerchiamo anche di rispondere a domande sul perché abbiamo Trump o la guerra in Palestina, partendo dal passato ed esaminando anche le azioni dei presidenti americani che ci hanno portato al punto in cui siamo oggi. In un certo senso stiamo risalendo la storia attraverso il filtro interpretativo del linguaggio con cui la leggiamo. Jesse mi ha parlato di una sorta di emarginazione percepita dalla comunità Italo-americana, quasi sentisse di far parte più della popolazione di colore che non di quella bianca. Condividi questa considerazione? Alessandra Ferrara: Sì. Ed è una cosa che vogliamo sovvertire. Rifiutiamo l’idea che la nostra dignità derivi dalla nostra prossimità con la cultura bianca anglosassone, con la ricchezza e l’accumulazione, elementi tipici del capitalismo. La nostra dignità deriva dallo stare dalla parte dei poveri, della working class e degli immigrati, perché tali sono stati i nostri nonni e bisnonni. Ma molte associazioni culturali italo-americane attive a New York sono culturalmente italiane ma politicamente conservatrici. Pur facendo alcune cose buone per diffondere le nostre tradizioni, per la verità soprattutto religiose, e insegnare l’italiano, si tratta prevalentemente di associazioni politicamente conservatrici che hanno nostalgia di tutte le cose brutte del nostro passato. Anche di Mussolini? Alessandra Ferrara: Altroché. E in particolare dell’idea che le donne devono stare a casa a cucinare e a fare le madri. Condividono le posizioni di Giorgia Meloni quando dice «sono una donna, una madre, una cristiana». Non capiscono che sono idee anacronistiche che non hanno più giustificazione. Sono retaggio di un passato che poteva avere senso molti decenni fa, quando le nostre nonne si conquistarono il diritto di fare le casalinghe perché volevano differenziarsi dalla working class immigrata. Volevano essere uguali alle donne americane anglosassoni del loro tempo e assimilarsi con il progresso sociale di allora secondo il quale il regno della donna era la casa. E volevano soprattutto che le proprie figlie e i propri figli si integrassero totalmente.  A che classe sociale appartengono i componenti di gruppi come quello che hai citato o come la Lacrl (Italian American Civil Rights League) tra i cui post ne ho visto uno che rivendicava il duro lavoro di nonni e bisnonni per costruire la città, proprio come dite tu e Jesse, traendone però conclusioni opposte alle vostre? Alessandra Ferrara: L’ironia è che parecchi di questi gruppi sono composti da persone della working class che però non sono a favore della working class, non sono pro-liberal, non si interessano di problemi sociali come casa, lavoro e reddito. Sono ancora legati a un passato in cui l’essere coinvolti con la politica più conservatrice, come quella di Cuomo, ha permesso loro di avere benefici finanziari e un passaporto per entrare a tutti gli effetti nella società bianca cattolica socialmente rispettata. Noi invece proponiamo un cambiamento come quello proposto da Zohran, e gli siamo grati perché finalmente possiamo essere italiani e socialisti. *Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola media secondaria pubblica per oltre 40 anni. Attiva in ambito artistico e teatrale, ha cominciato a seguire la Political Revolution di Bernie Sanders nel 2016 per la rivista Vorrei.org. Collabora con Fata Morgana Web e con Libertà e Giustizia. L'articolo Italians for Mamdani proviene da Jacobin Italia.
Rischio idrogeologico, il caso Genova
Articolo di Claudio Marciano L’Italia è una repubblica fondata sul rischio idrogeologico. Sette milioni di persone vivono in zone esondabili, e circa due terzi delle frane censite a livello europeo si trovano nel nostro paese. Nelle sole città con più di 50.000 abitanti, Legambiente ha censito negli ultimi dodici anni 336 alluvioni, 1.346 allagamenti urbani e un numero imprecisato di frane non sistematicamente registrate. In questo quadro già fosco, c’è un caso che spicca per il suo lugubre primato: Genova. Qui, eventi estremi che altrove si manifestano sporadicamente avvengono con cadenza quasi annuale da almeno trent’anni. Questi eventi non hanno prodotto solo vittime e devastazioni, ma hanno accelerato il declino di leader politici locali, stimolato innovazioni organizzative e tecnologiche nella protezione civile, ispirato la nascita di associazioni e movimenti civici, e trasformato il modo in cui gli abitanti percepiscono il territorio. Genova, esposta ripetutamente allo stesso tipo di shock, è diventata – suo malgrado – un campo di osservazione privilegiato delle tensioni politiche e sociali che modellano la gestione del rischio naturale. Il caso genovese parla non solo di perché le alluvioni accadono spesso e causano danni rilevanti, ma anche di perché si prendono (o non si prendono) decisioni per affrontarne le cause. Inoltre, l’approfondimento del caso genovese è significativo perché mostra come la governance del rischio naturale sia un campo dove si manifestano i conflitti politici e sociali dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Questo concetto, veicolato nell’arena delle policy come se fosse neutro, descrive, all’atto pratico, visioni politiche e interessi materiali divergenti che attengono le scelte su cosa finanziare, dove intervenire, come e chi includere nei processi decisionali.  Lo scorso 15 novembre la città è stata investita da una perturbazione particolarmente violenta: si sono registrati 62 allagamenti urbani, 14 frane e l’esondazione di un torrente. Dal mare è arrivata anche una tromba d’aria che ha sradicato dodici alberi e sollevato il tetto di un’officina del gestore dei rifiuti, causando danni a edifici e arredi pubblici. Questo episodio è stato il più grave, finora, del 2025, ma risulta di entità moderata rispetto a quelli che l’hanno preceduto. Dopo la tragica alluvione del 1970, in cui persero la vita 44 persone, le alluvioni hanno colpito nuovamente nel 1992 e nel 1993 i quartieri di Sturla e Prà, causando complessivamente sette vittime. Nel 2010 alcuni torrenti del Ponente hanno trascinato in mare un operaio, provocando danni per decine di milioni di euro. Nel 2011 l’esondazione del rio Fereggiano ha causato sei vittime, tra cui due bambine e la loro madre. Nel 2014 si è registrata una sola vittima, ma i danni provocati dall’esondazione del Bisagno sono stati nuovamente devastanti. La maggior parte di questi eventi ha determinato la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale. Dal 2010, nella sola Genova, sono stati censiti danni ad abitazioni e imprese per oltre 240 milioni di euro, dei quali solo circa il 20% ha ricevuto ristori statali. La maggior parte di questi eventi ha cause simili. Le precipitazioni intense non sono solo episodi di «mal tempo», ma l’effetto più visibile e distruttivo dell’aumento delle temperature medie. Un’atmosfera più calda trattiene più vapore acqueo e, quando questa massa d’aria calda e umida incontra correnti più fredde, scatena fenomeni convettivi di violenza inaudita. Questi nubifragi si abbattono su un territorio reso vulnerabile dall’urbanizzazione: i numerosi corsi d’acqua che attraversano il Comune di Genova – oltre 150 – sono stati in gran parte tombati per far spazio a edifici, impianti produttivi e infrastrutture. Nelle aree collinari, l’abbandono dei terrazzamenti agricoli ha favorito la ricolonizzazione spontanea da parte del bosco, che non sempre garantisce stabilità sui versanti più ripidi. L’interazione di questi fattori riduce drasticamente il tempo di corrivazione dei bacini, ovvero l’intervallo tra l’inizio della pioggia e il raggiungimento della piena. Sociologi e psicologi dell’organizzazione sostengono che le strutture apprendono, quando riconoscono di aver fallito. Per anni, a Genova la risposta politica ai disastri è stata di naturalizzare le cause, negando o minimizzando le responsabilità antropiche, e di tecnicizzare le soluzioni, presentandole come dati di fatto derivanti da un sapere scientifico neutro. Quest’approccio ha iniziato a cambiare dopo l’alluvione del 2011, quando il 4 novembre persero la vita due bambine con la madre, una ragazza di 19 anni e altre due persone nello stesso tratto di via Fereggiano, strada che corre sopra il torrente tombato omonimo. La tragedia, la quarta in meno di dieci anni, ha profondamente scosso la città. Agli «angeli del fango», sono seguite manifestazioni e contestazioni. In una sentenza che ha fatto molto discutere ma anche creato un pesante precedente, la magistratura ha inquisito e poi condannato in sede penale l’allora sindaca Marta Vincenzi per non aver adottato provvedimenti adeguati malgrado l’allerta diramata. Il conflitto si è esteso anche sulle azioni di mitigazione. Nel 2012, associazioni e comitati della Val Bisagno hanno contestato la demolizione di un ponte settecentesco ritenuto un fattore di rischio idrogeologico, mettendo in evidenza l’assurdità di tale provvedimento quando, al contempo, il Comune autorizzava la costruzione di un centro commerciale nei pressi del torrente. In modo più o meno coercitivo, questi eventi hanno prodotto un apprendimento nel sistema locale di protezione civile, che ha portato all’introduzione di routine orientate a ridurre esposizione e vulnerabilità agli impatti delle alluvioni. Il Piano comunale e le mappe delle zone esondabili sono state aggiornate; sono stati potenziati mezzi e personale dedicato alle emergenze; è stato organizzato un presidio territoriale sui torrenti più a rischio; sono state censite le abitazioni al piano terra o interrate in aree esondabili ed è stato attivato un servizio di chiamata a chi vi risiede in caso di allerte rosse; sono stati elaborati piani di evacuazione nelle scuole e organizzate campagne di sensibilizzazione.  Le alluvioni di Genova sono state un fatto nazionale e hanno prodotto un apprendimento più ampio rispetto a quello locale. Dopo il 2011, il Dipartimento di Protezione Civile ha accelerato sull’attuazione del metodo Augustus per l’organizzazione dei Centri Operativi Comunali (Coc), e dopo il 2014 ha introdotto i sistemi di allerta a colori. Qualcosa avvenne anche sul finanziamento del rischio idrogeologico: dopo il 2011, il governo Monti stanziò 25 milioni di euro per la realizzazione dello scolmatore del Fereggiano, anche se per completare l’opera il Comune dovette aggiungere altri 15 milioni. Solo dopo l’alluvione del 2014, il governo Renzi creò Italia Sicura, che destinò a Genova circa 400 milioni di euro per la messa in sicurezza del Bisagno e la realizzazione dello scolmatore. La filosofia che ha ispirato quest’intervento, e più in generale il programma di Italia Sicura, è quella delle grandi opere idrauliche che agiscono sugli effetti a valle delle alluvioni (ovvero l’esondazione), anziché sulle cause a monte (abbandono dei terreni e restringimento degli argini). Il rifacimento della copertura del Bisagno alla Foce e l’abbassamento di due metri del torrente in quella sezione hanno aumentato i litri al secondo che il bacino può reggere. Tuttavia, i corsi d’acqua che richiederebbero interventi simili sono molti, e la trasferibilità di opere di questa scala è finanziariamente impossibile. Lo scolmatore del Bisagno, progettato a metà anni Duemila e finanziato nel 2015, è ancora lontano dall’essere completato, e le tempistiche più ottimistiche datano la fine lavori a dicembre 2027. Perché si investe a valle invece che a monte, pur essendo quest’ultimo l’intervento più efficace? A questa domanda decine di tecnici e amministratori rispondono essenzialmente in due modi: l’orizzonte breve dei cicli politici, che spinge verso soluzioni visibili rapidamente; e il diverso valore economico dell’esposto. Alla prima risposta si può credere fino a un certo punto: oltre a offrire un’interpretazione cinica della politica locale, è poco accurata, poiché queste opere risaputamente richiedono decenni per essere realizzate. La seconda risposta sembra cogliere degli aspetti più profondi. Il rischio idrogeologico non fa franare solo i versanti, ma anche i valori immobiliari. Per decenni, la principale linea di disuguaglianza della città è stata quella orizzontale, Levante/Ponente. Negli ultimi anni, la forbice più evidente si è aperta in senso verticale, tra centro e alture, tra costa e versanti interni. Il rischio idrogeologico colpisce entrambi, ma la gran parte degli interventi ha finora protetto soprattutto il valore delle aree costiere, lasciando più vulnerabili e svalutate le zone collinari. La governance del rischio naturale è attraversata da questa e altre fratture in cui interessi e valori si spingono in direzioni contrapposte, generando ritardi, timidezze e conflitti. Un’altra frattura è quella tra applicazione rigorosa delle misure di prevenzione e sostenibilità sociale. È un discorso simile a quello della Just Transition: l’auto-protezione è virtuosa, ma chi paga? In caso di allerta rossa, chi tiene i bambini a casa se le scuole chiudono? Chi sostiene lavoratrici e lavoratori precari che perdono lo stipendio? Quale credibilità hanno le istituzioni che chiedono ai cittadini di assicurare le proprie attività e abitazioni, ma al tempo stesso autorizzano interventi edilizi controversi vicino agli argini dei fiumi o alleggeriscono vincoli urbanistici per opere private? Su questo versante si collocano anche le «buone ragioni» di chi ha micro-interessi contrapposti alle opere di mitigazione del rischio. La geografa Sara Bonati ha mostrato come lavori finanziati da Italia Sicura – strade chiuse, cantieri di escavo, movimentazione di terre – abbiano generato conflitti anche tra i presunti beneficiari delle opere. Qui si posiziona una frattura che è ben nota a chi si occupa di DRM, quella tra i cittadini che contestano e le autorità che impongono. È la tragedia della non partecipazione. Politiche pubbliche efficaci solo sulla carta,  ma mai concordate e concertate con chi dovrebbe attuarle o esserne oggetto, innestano conflitti laceranti. Agli estremi, si coagulano due schieramenti: cittadini incazzati che arrivano a negare le ragioni degli interventi, amministratori e tecnici indignati, che rifiutano di confrontarsi con «gli ignoranti». L’apprendimento organizzativo è spesso legato all’esperienza diretta, ma può avvenire anche attraverso l’osservazione delle esperienze altrui. Nel campo del rischio naturale questo «apprendimento indiretto» sarebbe quanto mai auspicabile, ma si verifica raramente. La storia di Genova, e quella di tanti altri luoghi esposti al rischio naturale, dimostra infatti che l’apprendimento segue quasi sempre le catastrofi, e che spesso non ne basta una, ma devono ripetersi, perché qualcosa cambi. Questo deficit di apprendimento indiretto non riguarda solo il rischio idrogeologico. Nel 1995 a Chicago – come ha raccontato magistralmente il sociologo Eric Klinenberg – in cinque giorni morirono oltre 700 persone per una grave ondata di calore. Nel 2003, a Genova (e in tutta Italia) si è verificato qualcosa di molto simile: la combinazione di caldo e umidità per tre settimane di fila ha aumentato il tasso di mortalità (ad Agosto 2003 a Genova morirono 1.020 persone, rispetto alle 650 della media annuale), in particolare fra gli anziani poveri e socialmente isolati, e il tutto è emerso solo quando i servizi funerari sono entrati in crisi per l’assenza di bare. Vent’anni dopo, malgrado le ondate di calore costituiscano ormai una norma delle estati mediterranee, una policy strutturata contro il rischio da caldo non esiste ancora: le misure per proteggere i lavoratori più esposti sono recentissime, dipendono da ordinanze contingenti e rimangono labili; la cura delle vulnerabilità continua a essere delegata all’«auto-protezione». Ci sono però eccezioni, che mostrano come si possa apprendere anche senza pagare il prezzo di perdite e danni. Ad esempio, il sistema di presidio territoriale implementato a Genova dopo le alluvioni, basato su monitoraggio in tempo reale dei torrenti tramite sensori, telecamere e squadre di volontari, ha ispirato una direttiva nazionale della Protezione Civile ed è stata replicata da altri Comuni. Dopo le tremende alluvioni dell’Emilia-Romagna del 2024, alcuni dirigenti del Comune di Bologna hanno cercato attivamente scambi di esperienza con Genova. Probabilmente, osservando da vicino la vita quotidiana dei sistemi locali di protezione civile, si scoprirebbe un certo «sperimentalismo» in azione. Ciò che manca è, forse, una cornice strutturale: non un semplice osservatorio di buone pratiche, ma una governance sperimentalista – sul modello teorizzato da Charles Sabel per la transizione energetica – in cui un’autorità sovralocale, come il Dipartimento di Protezione Civile Nazionale, fissi obiettivi vincolanti e ambiziosi, lasciando agli attori locali la libertà di trovare le soluzioni migliori, ma imponendo momenti pubblici di revisione e l’obbligo di adottare i metodi più efficaci.  *Claudio Marciano è ricercatore in sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e internazionali dell’Università di Genova. Una parte delle riflessioni proposte in questo articolo sono il frutto di un lavoro di ricerca collettivo, tuttora in corso, condiviso con le colleghe Cecilia Paradiso, Giusy Imbrogno, Margherita Rago, Sergio Lagomarsino e Andrea Pirni. L'articolo Rischio idrogeologico, il caso Genova proviene da Jacobin Italia.
L’obiettivo del socialismo è tutto
Articolo di Bhaskar Sunkara Sabato 22 novembre, Bhaskar Sunkara, fondatore e direttore editoriale di Jacobin, ha tenuto il discorso principale alla conferenza biennale dei Democratic Socialists of America (Dsa) di New York City, presso la First Unitarian Congregational Society di Brooklyn. Di seguito la trascrizione del suo intervento sul perché la sinistra debba ottenere risultati concreti oggi, ma anche continuare a lottare per una società socialista che vada oltre il presente. Sono così emozionato di essere qui con voi tutti. Ho la sensazione che questo sia il momento politico che molti di noi hanno aspettato e su cui ci siamo impegnati per anni.  Siamo a un mese dall’elezione a sindaco di uno dei nostri compagni. Abbiamo costruito una rete di rappresentanti eletti socialisti, abbiamo una vera organizzazione che ci rappresenta e c’è una base crescente di sostegno in questa città per la nostra richiesta immediata di tassare i ricchi per ampliare i beni pubblici. Questo momento si estende oltre New York: abbiamo un’apertura politica enorme negli Stati uniti nel loro complesso. Ma sappiamo di avere questa opportunità perché milioni di persone stanno vivendo momenti difficili. Abbiamo un presidente umorale e autoritario, abbiamo una crisi di accessibilità economica, con milioni di persone che lottano per pagare le bollette e per vivere una vita in cui siano trattate con dignità e rispetto. Abbiamo assistito al ritorno di forme di nativismo e razzismo che avrebbero dovuto essere ormai sconfitte da tempo. E a livello sociale ed economico, la situazione potrebbe peggiorare molto presto. Il paese – non solo questa città – reclama a gran voce una leadership politica basata sui principi. Non solo una leadership populista basata su grandi figure, anche se sono grato di avere al nostro fianco una delle figure più grandi. Intendo una leadership di classe attraverso l’organizzazione. La leadership che afferma che le disparità che vediamo nel nostro paese e nel mondo non sono leggi naturali di Dio, ma il risultato di un mondo creato dagli esseri umani. La leadership che afferma che gli interessi della maggioranza della working class sono distinti dagli interessi delle élite capitaliste e che dobbiamo organizzarci attorno a questi interessi per ottenere non solo una migliore distribuzione della ricchezza all’interno del capitalismo, ma anche un diverso tipo di società nel suo complesso. I FIGLI DI DIO POSSONO GOVERNARE Mi sono iscritto ai Dsa quando avevo diciassette anni. Non c’è bisogno che vi dica cos’erano i Dsa a New York nel 2007. Alcuni di voi qui lo ricordano. Ho stretto tante buone amicizie, ma eravamo fortunati se a un incontro erano presenti una dozzina di persone. Abbiamo fatto progressi grazie al lavoro paziente e costante e all’impegno di quelle persone e di molte altre che si sono unite in seguito. Eravamo i maratoneti del socialismo. Questo, però, è il momento di dare il massimo. Viviamo la più grande apertura che il nostro movimento abbia avuto negli ultimi decenni. Il tempo che dedicheremo al lavoro politico nei prossimi mesi e anni avrà un impatto enorme sulla nostra città e sul nostro paese, per ora e per chi verrà in futuro. Ma cosa dovremmo fare esattamente e come dovremmo relazionarci sia con l’amministrazione del nuovo sindaco sia con gli altri nostri compagni eletti? A mio avviso, i nostri compiti come socialisti organizzati al di fuori del governo sono diversi e in gran parte compatibili con i loro. Le richieste chiave del nostro momento riguardano l’accessibilità economica. Il nostro sindaco eletto guiderà un’iniziativa per raccogliere fondi per finanziare programmi sociali e dare potere alla working class della città. Se Zohran [Mamdani], gli altri nostri eletti e il movimento di base che li circonda apporteranno un cambiamento positivo nella vita delle persone, costruiremo una base sociale più solida per la sinistra. Al momento, la nostra forza elettorale ha superato di gran lunga la nostra base. Ma la gente è pronta ad accogliere il nostro messaggio e a vedere i risultati. Ma, fondamentalmente, qualsiasi forma di governance socialdemocratica vive delle costrizioni. Proprio come nel capitalismo i lavoratori e le lavoratrici dipendono da aziende redditizie per il proprio posto di lavoro, le città dipendono dalle grandi aziende e dai ricchi per le entrate fiscali. Zohran deve destreggiarsi tra questi vincoli. Non può minare il vecchio regime di accumulazione e ridistribuzione senza avere a disposizione qualcosa con cui sostituirlo, e certamente non può esserci un sostituto totale in una sola città. Queste preoccupazioni non sono nuove. Questo è il dilemma della socialdemocrazia. Questa è la tensione tra i nostri obiettivi a breve e a lungo termine che esiste nel movimento socialista da 150 anni. Nel breve termine, i nostri rappresentanti eletti dovranno gestire il capitalismo nell’interesse dei lavoratori e delle lavoratrici, mentre il nostro movimento ha anche l’obiettivo a lungo termine di costruire un nuovo sistema attraverso l’auto-emancipazione dei lavoratori stessi. Dobbiamo considerare i vincoli a cui Zohran sarà sottoposto in termini strutturali, piuttosto che morali. Ma avere pazienza e sostenerlo non ci aiuta a conciliare il breve e il lungo termine – socialdemocrazia e socialismo. Come minimo, è importante ricordare l’obiettivo finale. Il grande teorico del riformismo, Eduard Bernstein, una volta disse che «l’obiettivo è nulla, il movimento è tutto». Credo che non sia del tutto corretto. Se non parliamo di socialismo dopo il capitalismo, nessun altro lo farà. Il sogno storico del nostro movimento, un mondo senza sfruttamento né oppressione, andrà perduto. Ma non dovremmo evitare un approccio riformistico solo perché vogliamo sentirci puri come «veri socialisti» o come ricerca intellettuale. Dobbiamo ricordare l’obiettivo della rottura con il capitalismo perché può offrire una visione convincente del mondo a coloro che stiamo cercando di raggiungere. Il socialismo non è la «Svezia», come a volte dice Bernie [Sanders]. Il socialismo non è nemmeno solo «una migliore distribuzione della ricchezza per tutti i figli di Dio», come diceva Martin Luther King Jr. e come Zohran ha splendidamente invocato.  Socialismo significa una migliore distribuzione della ricchezza, ma anche un controllo democratico su ciò da cui tutti dipendiamo: i lavoratori e le lavoratrici che tengono le leve della produzione e degli investimenti, e lo Stato che garantisce i beni fondamentali della vita come i diritti sociali. Socialismo significa non dover più implorare le aziende di investire nelle nostre comunità o i ricchi di restare e pagare le tasse. Socialismo significa superare la dialettica capitale-lavoro attraverso il trionfo del lavoro stesso, non con un compromesso di classe più favorevole. Socialismo significa che le persone che hanno mantenuto in vita questo mondo – gli assistenti sociali, gli autisti, i macchinisti, i braccianti agricoli, gli addetti alle pulizie – smettono di essere uno sfondo invisibile e diventano artefici del loro futuro. Socialismo significa una società in cui coloro che hanno sempre dato senza avere voce in capitolo mostrano finalmente le loro vere capacità. Dove, come diceva C.L.R. James, ogni cuoco può governare. Socialismo significa sostituire un’economia basata sulla gerarchia e sull’esclusione con un’economia fondata sull’intelligenza e sulla creatività dei lavoratori e delle lavoratrici stesse. Questo è l’obiettivo che manteniamo vivo. Non perché sia utopico, ma perché è l’unico orizzonte all’altezza della dignità e del potenziale delle persone comuni. E perché è avvincente. Non si tratta solo di restituire ai lavoratori parte del loro plusvalore in cambio del loro voto. Si tratta di offrire loro il futuro, una società di cui possono essere proprietari, la possibilità di assumere il loro legittimo ruolo di agenti della storia. Qualcosa del genere è vero socialismo. Non è un gruppo di interesse o un’etichetta per distinguerci dagli altri progressisti. È un obiettivo fondamentalmente più radicale di quelli dei nostri alleati. Si basa su un’analisi diversa del mondo che ci circonda e del mondo che può essere costruito. Potremmo forse pensare ai diversi modi con cui colmare il divario tra breve e lungo termine attraverso una serie di richieste che almeno accennino immediatamente al concetto di socializzazione. Idee che offrano non solo un maggiore benessere sociale, di cui c’è urgente bisogno, ma anche un assaggio di proprietà e controllo. Un accenno a una diversa economia politica. Un esempio: quando un’azienda chiude o i suoi proprietari vanno in pensione, i lavoratori sostenuti da un fondo pubblico potrebbero avere la possibilità di salvarla convertendola in un’impresa gestita dai lavoratori e dalle lavoratrici. A livello comunale, potremmo istituire un ufficio comunale per aiutare i lavoratori a trasformare i negozi chiusi in cooperative, fornendo il supporto legale e contabile e accelerando le procedure per i permessi. Abbiamo già parlato dei supermercati comunali e della necessità di edilizia popolare. Abbiamo bisogno di più idee come queste. Riforme che si integrino con la socialdemocrazia ma che vadano oltre. IL SOCIALISMO NEL NOSTRO TEMPO È stato emozionante incontrare persone che si sono appena unite ai Dsa. È stato bello anche rivedere vecchi amici. Mi lamentavo di essermi perso il primo tempo della partita dei Knicks, ma nemmeno Jalen Brunson riesce a tenermi lontano da qui. Sono davvero entusiasta di ciò che potremo fare nei prossimi due anni. Miglioreremo la vita di milioni di persone e faremo crescere il nostro movimento. Ma oltre all’entusiasmo, abbiamo bisogno di essere onesti sulla strada che dobbiamo ancora percorrere per radicarci nelle comunità di lavoro. Abbiamo bisogno di più potere non solo nelle urne, ma anche nei luoghi di produzione e scambio. E dobbiamo essere onesti sulle battaglie e i vincoli che Zohran dovrà affrontare, ed essere pronti a sostenerlo quando i tempi si faranno duri. La carica di sindaco di Zohran sarà una lotta per ciò che è possibile ottenere in questo momento. Il nostro compito è lasciare che questa lotta espanda, e non restringa, i nostri orizzonti, mantenendo vivo l’obiettivo del socialismo nel nostro tempo. *Bhaskar Sunkara è il fondatore e direttore di Jacobin, il presidente della rivista Nation e l’autore di Manifesto socialista per il XXI secolo (Laterza, 2019). Questo articolo è uscito su Jacobin Mag, la traduzione è a cura della redazione. L'articolo L’obiettivo del socialismo è tutto proviene da Jacobin Italia.
Sara Reginella / Il marketing di ogni guerra
La manipolazione dell’informazione negli ultimi anni ha raggiunto livelli inverosimili, fin dall’avvento della stampa, per poi proseguire con la diffusione dei mass media e toccando l’apice con l’evoluzione della tecnologia. E non parliamo solo di “fake news” perché i social di oggi sono sfruttati da politici, giornalisti e “intellettuali” per portare il pubblico dalla propria parte. Questa nuova collana della Dedalo, diretta da Luciano Canfora, filologo, storico e saggista che non credo abbia bisogno di presentazioni, si chiama “Orwell” e si propone – come affermato dal curatore – un compito di verità che si distingua dalla informazione “mainstream”, omologata per creare un pensiero corrente. Nel breve saggio che apre la collana Sara Reginella, psicoterapeuta, giornalista e regista, intende farci riflettere su come i media, senza eccezione alcuna, abbiano mistificato le informazioni del conflitto russo-ucraino. L’autrice ha visitato il Donbass e il Donetsk la prima volta nel 2017 – sono poi seguite altre visite più recenti –, trovandosi di fronte a una situazione che l’Occidente aveva nascosto. Nella zona gli abitanti di lingua russa hanno subito le vessazioni e l’oppressione del governo ucraino fin dal 2014, l’anno del colpo di stato: le pensioni pagate in ritardo, la mancanza di beni di prima necessità, l’obbligo di parlare ucraino negli uffici pubblici, hanno trascinato la minoranza russofona in un degrado economico, culturale e sociale senza precedenti. Reginella ha descritto la situazione mesi prima “dell’operazione speciale” con Donbass. La guerra fantasma, un romanzo-reportage che informava sullo stato delle cose. L’occidente e l’America nascondevano il conflitto in atto per non inimicarsi un governo filoccidentale. La promessa di non espansione della Nato verso est fatte dopo la caduta del muro di Berlino dimenticate. L’autrice anconetana non vuole convincerci su chi abbia ragione o meno, ma mostrarci come l’informazione sia stata nascosta e poi manipolata per meri interessi economici e politici. Sulla stessa falsariga sono stati trattati il conflitto arabo-israeliano, la guerra del Golfo con le famose armi di distruzione di massa dell’Iraq poi smentite e la guerra dei Balcani per polverizzare la ex Jugoslavia. Reginella si muove su più fronti con immediatezza e semplicità, con parole chiare e nette che rendono piacevole e scorrevole la lettura. I governi autoritari e conservatori usano la manipolazione dell’informazione per plasmare il popolo a loro uso e costume, per tacciare le voci dissonanti di terrorismo: un espediente per eliminare e screditare il dissenso in una società, Europa e resto del mondo compresi, che si sta avviando verso un futuro sempre più dispotico.   L'articolo Sara Reginella / Il marketing di ogni guerra proviene da Pulp Magazine.
L’Italia di Meloni torna ultima
Articolo di Danilo Corradi, Marco Bertorello Il governo Meloni è al terzo anno e alla quarta finanziaria, per cui è possibile avanzare un primo fondato giudizio sulle sue politiche economiche. Proveremo a farlo cercando anche di capire perché il governo non esca da questi tre anni particolarmente logorato, nonostante risultati a tratti fallimentari.  Dal 2008 generalmente, in Italia e non solo, chi governa paga dazio, caricandosi la responsabilità di gestire una fase economica particolarmente instabile e tendenzialmente stagnante a livello internazionale. Governare logora più di quanto Giulio Andreotti fosse disposto a riconoscere in ben altra epoca caratterizzata da una preminente stabilità. Chiaramente ci sono specificità che si condensano in questa fase, vuoi per una discreta omogeneità delle forze della maggioranza oltre che per l’assenza di una credibile alternativa, ma certamente la longevità dell’attuale governo è frutto, per ora, anche di un sapiente mascheramento di una politica orientata alla  continuità. Il governo Meloni, ha finito per «intervenire» meno di quanto generalmente ci si aspetterebbe da una destra conservatrice e sovranista, al di là di alcune scelte simboliche. Anche questo governo non intende disturbare l’impresa e la sua accumulazione, lascia fare alle dinamiche di mercato fino a quando non necessitano di supporto e assistenza. Porta avanti un liberismo asimmetrico che governa al servizio del capitale produttivo e finanziario, una versione ordoliberale in salsa tricolore. Altro che rivoluzione sovranista, siamo di fronte a una riproposizione di liberismo e austerità che attraversano il nostro paese da oltre tre decenni, questa volta accompagnata da un retorica patriottarda e nazionalista più marcata. La destra al governo, come vedremo, ha sfruttato l’inflazione per mascherare la solita ricetta fatta di tagli ai salari, tagli allo stato sociale e aumento della pressione fiscale per il mondo del lavoro. SI TORNA ULTIMI Partiamo dal quadro generale e dal fallimento più evidente del governo: l’Italia torna ultima per crescita attesa dal 2025 al 2027. Il governo ereditava la fase post-Covid caratterizzata da un rimbalzo poderoso dell’economia italiana, ma che nei fatti non riusciva nemmeno a compensare il crollo particolarmente duro subito nel 2020. Un quadro reso più incerto dall’aumento dei costi energetici dovuti alla rottura con la Russia, dalla crescente concorrenza asiatica, e poi dai dazi trumpiani che hanno creato un panorama fortemente instabile che pesa sull’intera economia continentale e in particolare sulla locomotiva tedesca costruita sulle esportazioni.  C’è stato chi ha messo l’accento sul recupero dell’Italia rispetto alla Germania per ritmo di crescita. Ma si è confuso il senso di marcia: non è Roma che si avvicina a Berlino, bensì il contrario. Forse anche per questo il Governo si è illuso di poter surfare su un’inerzia favorevole, ma era un’illusione. Infatti, l’Italia, in quanto seconda forza manifatturiera europea, fa anche parte della catena del valore teutonica e da essa dipende in modo considerevole. Non era pensabile che un clima difficile per le esportazioni favorisse l’Italia a danno della Germania. Il mercantilismo tedesco in questo contesto paga un prezzo che, successivamente, si presenta anche all’Italia.  Nel 2025, infatti, l’economia nostrana torna fanalino di coda del Vecchio continente. Le previsioni per quest’anno oscillano tra una crescita del Pil dello 0,5% di fonte governativa allo 0,4% della Commissione europea. La media europea prevista per lo stesso periodo si attesta all’1,3%. Torniamo tra gli ultimi paesi per crescita, secondo la Commissione fanno peggio solo Germania, Austria e Finlandia. La Francia, attanagliata da una profonda crisi politico-istituzionale, totalizzerà nel 2025 lo 0,7%. Va chiarito che sia Germania che Francia per contenere la stagnazione economica hanno fatto ricorso all’indebitamento pubblico in maniera significativa. La prima in quanto ha a disposizione ampi margini fiscali e la seconda indebitandosi fortemente finendo per raggiungere le grandezze nostrane. Nel 2025, infatti, il debito pubblico transalpino raggiungerà il 115% del Pil e in termini assoluti supererà i 3.400 miliardi (l’Italia ha superato la soglia psicologica dei 3.000). L’Italia, dunque, torna nel gruppo degli ultimi, sebbene tale gruppo sia composto da paesi differenti da quelli a cui eravamo abituati negli ultimi due decenni. L’amicizia con Trump e i proclami sulla riduzione delle imposte non hanno prodotto nessuno scarto, la politica di austerità ha depresso ulteriormente la domanda interna e ci ha spinto nuovamente in fondo alle classifiche continentali.  GUARDIANI DELL’AUSTERITÀ Come detto i principali paesi si stanno indebitando per fronteggiare una crescita anemica, che contribuisce ad aumentare il rapporto debito/Pil. L’Italia ha minori margini di manovra a causa di un debito elevato e delle procedure europee di infrazione. Queste ultime dovrebbero rientrare proprio perché il governo ha deciso di riportare sotto controllo il proprio deficit con una politica di riduzione della spesa e aumento della pressione fiscale in assoluta continuità con i precedenti esecutivi. L’effetto sulla finanza pubblica è stato inizialmente positivo: nel 2024 il rapporto debito/Pil si è ridotto fino a tre punti rispetto al 2022, ma ciò è avvenuto, come vedremo, per l’enorme «tassa da inflazione» che l’esecutivo ha lasciato agire deprimendo la domanda interna. Grazie anche a questo approccio, si è ridotto lo spread, ossia il valore decennale dei titoli di Stato verso i titoli tedeschi. Ma attenzione, il debito è in rapida risalita: nel 2025 brucerà metà del recupero e nel 2026, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, lo azzererà. Del resto è difficile ridurre il rapporto debito/Pil se si deprime il Pil. Non solo, i titoli decennali italiani pagano un tasso d’interesse ancora tra i più elevati d’Europa (3,4%), superiore a Grecia e Portogallo e al livello raggiunto con il governo Draghi. La riduzione dello spread sembra anch’essa derivare dall’aumento delle difficoltà degli altri paesi piuttosto che da una ritrovata salute dell’economia di Roma.  Inoltre, il dato in decimali della crescita andrebbe contestualizzato rispetto al Pnrr. Questo, infatti, al di là dei fiumi di retorica spesi a partire dal secondo governo Conte (ricordate come tutte le forze politiche e sociali definivano insostituibili tali risorse?), avrebbe dovuto intervenire in maniera quasi miracolistica proprio nel triennio 2024-26. Difficile calcolarne precisamente gli effetti, in quanto gli investimenti erano stati concentrati anche su segmenti come la digitalizzazione, i cui impatti probabilmente si vedranno a medio termine. Però chi ha tentato un calcolo, come la Bce, ipotizza un’incidenza positiva dell’1,9% sul Pil fino al 2026 compreso, mentre il governo Meloni stimava un’incidenza pari al 3,4% e l’Ufficio parlamentare di bilancio prevedeva un più cauto 2,9%. Se togliessimo meccanicamente questi valori dalla crescita accumulata negli ultimi due anni (0,7% nel 2024 e 0,4% nel 2025) a cui andrebbe aggiunta l’incidenza per la previsione di crescita del 2026 (pari a 0,8%) il risultato potrebbe portare a un valore di crescita complessivo in terreno negativo. Esiste poi uno studio, sempre della Commissione europea, che afferma come l’impatto diretto e indiretto degli investimenti del Pnrr in Italia sia inferiore a 100, cioè che l’impatto complessivo non arrivi a eguagliare il valore dei fondi ottenuti. Un dato che ci pone al sedicesimo posto su venticinque paesi coinvolti, al di sotto della media e molto lontani da paesi come Svezia, Paesi Bassi, Austria e Germania che registrano valori superiori a 200.  Dal Pnrr, come prima dal Bonus edilizio e, ancor prima, quello industria 4.0, derivano investimenti pubblici che si riversano direttamente sull’economia privata e che dovrebbero rilanciarla. Immancabilmente ognuno di questi provvedimenti si è dimostrato di corto respiro, finendo per azzerare i suoi benefici effetti già allo scadere dell’investimento stesso. In poche parole questi piani non riescono a rilanciare l’economia nel suo complesso, finendo per evidenziare come l’impresa in Italia non sia in grado di avviare un ciclo autonomo di sviluppo.  La scelta austeritaria del rigore e di uno Stato snello rende poi complicato gestire con efficienza piani d’investimento pubblici una tantum, rafforzando la loro incapacità d’invertire la tendenza alla stagnazione e all’impoverimento. Si genera un corto circuito dei conti pubblici che, risentendo della mancata crescita, spingono l’azione politica verso nuovi tagli al welfare rafforzando una spirale depressiva. MIMETIZZARE LA DISEGUAGLIANZA La stabilità finanziaria, per quanto precaria, è stata ottenuta al prezzo di un’ulteriore compressione dei salari e di un aumento della pressione fiscale complessiva, ottenute entrambe utilizzando la fiammata inflazionistica. Dal 2022 al 2024 i prezzi sono aumentati circa del 17%, a questa impennata non è corrisposta una proporzionale rivalutazione degli stipendi. I dati sui salari sono impressionanti con una perdita del potere d’acquisto reale del 10%. Anche considerando gli interventi fiscali del Governo, la perdita netta è pari ad almeno una mensilità all’anno. L’inflazione ha mascherato la riduzione dei salari pubblici (e privati), ma anche la riduzione della spesa sanitaria, scolastica, sociale grazie alla non rivalutazione al costo reale della vita. La propaganda del governo ha sottolineato la crescita nominale degli impieghi statali nei vari settori, sorvolando sul fatto che questa crescita nominale in termini reali ha significato tagli senza precedenti recenti. Facciamo un esempio. Come ha evidenziato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, l’esecutivo ha dal 2022 aumentato di 19,6 miliardi di euro lo stanziamento per la sanità ma, calcolando l’inflazione, questo significa aver tagliato la spesa sanitaria in rapporto al Pil, passando dal 6,3% del 2022 a circa il 6% attuale. Un finto aumento di risorse che in realtà è un taglio quantificabile in circa 17,5 miliardi. Discorso simile per l’istruzione passata dal 4,1% del Pil nel 2022 al 3,9% attuale. Lo stesso meccanismo ha finito per aumentare la pressione fiscale, cresciuta solo nell’ultimo anno dell’1,2% attestando la pressione complessiva al 42,6% (superiore di 2,2 punti rispetto alla media Ue). Se l’Iva e le imposte indirette hanno sostanzialmente seguito la crescita dei prezzi, la crescita dei redditi nominali, per quanto inferiore alla crescita dell’inflazione, ha incrementato l’imposizione fiscale perché la parte aggiuntiva dei redditi afferiva agli scaglioni più alti dell‘Irpef. Risultato: la percentuale del reddito (svalutato dall’inflazione) che finiva nelle casse dello Stato era superiore a quella pre-impennata dei prezzi. Oltre il danno della perdita di potere d’acquisto, la beffa di pagare più tasse su redditi più bassi. Il nome tecnico di questo fenomeno è Fiscal Drag o drenaggio fiscale.  La finanziaria 2025 ha addirittura riservato la maggior parte dei pochi sgravi fiscali ai redditi più alti di 50.000 euro annui. Insomma, in tre anni la destra al governo avrebbe dovuto rompere con le politiche precedenti e invece le ha riproposte in modo ancora più radicale, sfruttando abilmente il fattore inflazione per mimetizzare una politica dei redditi all’insegna della diseguaglianza. FINCHÉ LA BARCA VA… L’Italia meloniana scommette sulla solita ricetta: basso costo del lavoro per competere a livello internazionale sui prezzi in settori dal basso valore aggiunto, lasciando inalterato l’apparato produttivo. A sostegno di questa linea cerca di compattare un blocco sociale il cui perno sono le  imprese, dalle piccole alle grandi, impaurite dalla crisi globale, in larga parte immobili e incapaci di intravedere nuove prospettive. Un blocco sociale interessato agli annunci su un’ipotetica riduzione della pressione fiscale e alla concreta contrazione della spesa in welfare, che determina un risparmio per le casse dello Stato e una conseguente ritirata della sfera pubblica da settori che diventeranno rendita certa per capitali privati. Una prospettiva per continuare a vivacchiare condita da maggiore tolleranza verso evasione ed economia informale.  La ricetta è insomma quella di non disturbare il manovratore e fidelizzarlo con una redistribuzione al contrario della ricchezza cercando di non perdere troppi consensi popolari grazie al mascheramento inflazionistico e alle (inconcludenti) politiche anti-migranti, scaricando sugli ultimissimi la rabbia sociale. Scommettere poi sul turismo, come se fosse un comparto che può sostituire il ruolo del manifatturiero in un paese a forte vocazione industriale, dimostra l’assenza di una visione. La caduta generalizzata dei salari è sintomo di un’economia che va spostandosi sempre più verso servizi a modesta specializzazione che comporta una debole domanda interna.  La destra doveva segnare una forte discontinuità con il passato, mettere al centro l’interesse nazional-popolare contro la globalizzazione guidata dalla finanza. Ma una volta al governo gli slogan sono evaporati ed è rimasta una realtà che oscilla tra sostegno ai ricchi e retorica nazionalista, tenuta della finanza e galleggiamento in un mare agitato. Finchè la barca va lasciala andare, cantava Orietta Berti… Ma la barca non va, soprattutto per chi lavora.  *Marco Bertorello e Danilo Corradi collaborano con il manifesto. Insieme hanno pubblicato Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023). Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, Danilo Corradi insegna filosofia e storia nel liceo di Tor Bella Monaca di Roma. L'articolo L’Italia di Meloni torna ultima proviene da Jacobin Italia.
Fake news, propaganda e linguaggio mediatico: una conversazione con Giuliana Sgrena
Dalla manipolazione dell’informazione alla narrazione dei femminicidi: la riflessione di Giuliana Sgrena risuona oggi con forza e lucidità. Viviamo nell’epoca della manipolazione digitale, dei conflitti raccontati in diretta e delle narrazioni tossiche che deformano la realtà più rapidamente di quanto la si possa verificare. Le fake news non sono più semplici distorsioni: sono strumenti politici, economici e bellici, capaci di orientare masse, polarizzare società, innescare crisi e condizionare decisioni cruciali. Nel corso degli anni, Giuliana Sgrena ha denunciato con forza come la manipolazione dell’informazione non sia un fenomeno isolato, ma una distorsione trasversale che attraversa ogni ambito del dibattito pubblico. Nel suo saggio Manifesto per la verità (Il Saggiatore), compie una diagnosi impietosa dei mali dell’informazione contemporanea, mostrando come la falsificazione della realtà colpisca in modo particolare i soggetti più vulnerabili: le donne, raccontate con un linguaggio che giustifica la violenza; i migranti, la cui verità “si inabissa come un corpo affogato”; le popolazioni in guerra, di cui arrivano solo frammenti distorti, piegati agli interessi dei governi. «Per papa Francesco», ricorda Sgrena, «Eva è stata vittima della prima fake news uscita dalla bocca del serpente». Una metafora che conserva oggi una drammatica attualità e che ben descrive il peso che le narrazioni tossiche continuano ad avere nelle società moderne. Una voce autorevole, rigorosa e sempre attenta a questi meccanismi, Sgrena offre strumenti fondamentali per comprendere il presente. Di seguito, la conversazione integrale. INTERVISTA A GIULIANA SGRENA «Fu un giorno fatale quello nel quale il pubblico scoprì che la penna è più potente del ciottolo e può diventare più dannosa di una sassata», scrive Oscar Wilde. Quanto ritiene sia ancora attuale questa famosa citazione di Wilde? La libertà di espressione è una grande conquista ma è anche una spina nel fianco dei regimi autoritari e dei dittatori che utilizzano ogni mezzo per impedire qualsiasi critica o qualsiasi pensiero libero. Nel suo saggio Manifesto per la verità, racconta come si possano innescare conflitti dalla scintilla di una notizia falsa o manipolata. Come è possibile difendersi e accedere a informazioni sicure? Purtroppo quando una falsa notizia ha l’obiettivo di scatenare una guerra è sostenuta da una campagna di propaganda mediatica che non si può fermare. Lo si è visto nella seconda guerra del Golfo (2003), quando il movimento pacifista portò in piazza milioni di persone, e fu definito dal New York Times la seconda potenza mondiale, ma non riuscì a bloccare l’invasione dell’Iraq. «La fotografia sconfigge le fake news», queste le parole di Oliviero Toscani durante la conferenza stampa del 2017 per la presentazione della seconda edizione del talent show Master of Photography. Ritiene veritiera questa affermazione? Non è vera. Purtroppo oggi anche le fotografie sono manipolabili e falsificabili. Un esempio clamoroso è quello del fotografo brasiliano Eduardo Martins, che si era costruito un profilo perfetto sui social: trentadue anni, alto, biondo, bellissimo, surfista, scampato alla leucemia. Presente in tutte le guerre, dove scattava foto bellissime vendute alle più note agenzie del mondo. Le foto migliori venivano vendute per beneficenza e il ricavato devoluto ai bambini di Gaza. Troppo bello per essere vero e infatti era tutto falso. Martins non è mai esistito e le sue foto erano tutte rubate e falsificate. Ma anche senza arrivare a questo estremo ci sono foto manipolate e altre diffuse con una falsa didascalia. Alcuni politici si servono di Twitter (280 caratteri) per comunicare, a discapito del confronto giornalistico. Cosa pensa della politica ai tempi del social? I politici si sono facilmente convertiti a Twitter che permette loro di lanciare solo slogan, perché in 280 battute non si può esprimere un concetto complesso. I social sono diventati lo strumento per fare politica evitando il confronto con i giornalisti, che vengono sbeffeggiati per minare la loro credibilità. Così possono far circolare fake news e dati falsi senza essere smentiti e, quando lo sono, definiscono le proprie affermazioni «fatti alternativi», come ha fatto Trump. Nelle cronache di violenze verso le donne troppo spesso incontriamo superficialità linguistica. Espressioni come “amore malato”, “raptus di passione”, “era un gigante buono” lasciano nelle donne violate il dubbio sulle loro ragioni. In quale direzione bisognerebbe andare per invertire una rotta così dannosa? Il modo di descrivere la violenza contro le donne è impregnato di cultura patriarcale. La donna stuprata e ammazzata viene descritta come una che se l’è andata a cercare, mentre si cercano le attenuanti o giustificazioni per chi commette un femminicidio. Le giornaliste dell’Associazione Giulia, insieme alle Commissioni Pari Opportunità della Fnsi e dell’Usigrai, hanno elaborato il Manifesto di Venezia, che indica le regole per una corretta informazione. Gli argomenti trattati nei suoi libri mettono spesso sotto accusa il mondo del giornalismo. Non si è mai lasciata impressionare dalle naturali ripercussioni che questo tipo di inchieste avrebbero comportato? Nel mio libro (Manifesto per la verità) ho fatto un’analisi spietata del modo di fare informazione soprattutto su alcuni temi particolarmente sensibili o manipolabili, per responsabilizzare chi fa informazione e chi ha il diritto di essere informato. Presentando questo libro, che è stato utilizzato anche in alcuni corsi di formazione per giornalisti, ho trovato molti colleghi che condividono le mie critiche. Si avvicina una data importante: il 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne. Lei, che si è sempre occupata di condizione femminile, quale pensiero desidera lasciare alle donne abusate che cercano di reagire ai loro carnefici? Le donne devono denunciare le violenze subite, ma le autorità devono proteggerle. Non basta aumentare le pene per chi commette femminicidi: occorre evitarli. E questo si può fare finanziando le case che accolgono le donne che hanno subito violenze; invece questi finanziamenti vengono tagliati e le case chiuse. Giuliana Sgrena venne rapita il 4 febbraio 2005 dall’Organizzazione del Jihād islamico mentre si trovava a Baghdad per realizzare reportage. Fu liberata trenta giorni dopo, in un’operazione in cui rimase ucciso Nicola Calipari. Cosa è cambiato nella sua vita da quel tragico giorno? Preferirei non rispondere a questa domanda. Le parole di Giuliana Sgrena mostrano come la ricerca della verità sia un impegno che non riguarda solo i giornalisti, ma l’intera società. Nel rumore informativo che caratterizza il nostro tempo, riconoscere le manipolazioni, denunciare le distorsioni e pretendere un linguaggio rispettoso e accurato è un atto di responsabilità collettiva. Lucia Montanaro
Il Doge delle città di pianura
Articolo di Lorenzo Zamponi Lo stravedamento è un fenomeno tipico della laguna veneziana, un termine inventato dai pescatori chioggiotti per indicare quella straordinaria nitidezza dell’aria che permette, per brevi momenti, con il mare alle spalle e la città di fronte, di vedere le montagne all’orizzonte. Con l’aggiunta di un teleobiettivo potente, si può ottenere quello che è ormai un topos della fotografia social veneziana: le Dolomiti a picco su Piazza San Marco. Peccato che tra il massiccio del Civetta e la basilica dell’evangelista ci siano, in realtà, centocinquanta chilometri: quelli delle «città di pianura» che danno il titolo al piccolo caso cinematografico nelle ultime settimane diretto dal bellunese Francesco Sossai. Il Veneto ospita sei delle prime dieci destinazioni turistiche per presenze in Italia, ma sono tutte sulla costa adriatica (Venezia, Cavallino-Treporti, Jesolo, Caorle e San Michele del Tagliamento – Bibione) o su quella del Lago di Garda (Lazise). Tra le due coste, e tra il sito Unesco lagunare e quello dolomitico, in quello che gli storici chiamano il «profondo Veneto», vengono prodotti il 9,3% del Pil nazionale e una parte significativa dei consensi della destra di governo.  Lo stravedamento sociale e culturale si è fatto narrazione: «Dolomiti Bellunesi: The Mountains of Venice» è il brand scelto dal marketing territoriale per collegare nella promozione turistica Venezia e Cortina, in vista delle Olimpiadi Invernali 2026. Sull’A27 sfrecciano i furgoncini Ncc con i vetri oscurati che portano i turisti facoltosi dall’aeroporto di Venezia alle montagne, insieme ai pullman delle varie compagnie che investono sul trend, oltre che sullo smantellamento dei collegamenti ferroviari. È paradossale che tutto ciò avvenga proprio sotto l’egida del figlio prediletto delle città di pianura. Luca Zaia, il cui terzo mandato di presidente della Regione scade con le elezioni di domenica prossima, è cresciuto a Bibano, frazione di Godega di Sant’Urbano, nell’Alto Trevigiano.  Più o meno a metà strada tra Venezia e Cortina. Governa il Veneto da quindici anni, contando anche le esperienze in Provincia e al governo si arriva quasi a trenta. Ora si ricandida come consigliere, rimandando al futuro la scelta tra una poltrona alla Camera, al Coni, all’Eni, o da qualche altra parte. «Dopo Zaia, scrivi Zaia» recita lo slogan che accompagna i buffi video elettorali fatti con l’intelligenza artificiale che lo ritraggono affettuosamente abbracciato a un cucciolo di leone alato di San Marco. Eppure, tra una settimana Luca Zaia non sarà più presidente del Veneto: è l’occasione giusta per tracciare un bilancio della sua lunga stagione al potere. LA RESISTIBILE ASCESA L’autoagiografia ufficiale di Zaia, incredibilmente pubblicata sul sito istituzionale della Regione, racconta una storia identica a quelle di mille altri suoi conterranei: nonni emigranti, genitori di origine contadina dalle famiglie numerose, poi il salto verso la piccola borghesia artigiana, ovviamente continuando a coltivare la terra, nella più perfetta tradizione metalmezzadrile. Da pr della discoteca Manhattan di Godega, Zaia a 25 anni entra nel consiglio comunale del paese, a 27 è assessore provinciale e già professionista della politica. La sua figura emerge nel contesto dello snodo storico di metà anni Novanta. La fase di crollo del sistema di potere democristiano e di transizione verso il nuovo assetto a trazione berlusco-leghista. L’esplosione leghista in Veneto è avvenuta prima di altrove, con un 16% dei voti raggiunto già alle politiche del 1992, ma c’è voluto tempo perché le radici attecchissero. Le elezioni regionali del 1995 furono vinte di soli sei punti dal berlusconiano Giancarlo Galan sul democristiano di centrosinistra Ettore Bentsik, con la Lega solitaria al terzo posto. Il voto leghista è a lungo un voto di protesta, che esplode alle elezioni politiche ma fatica a sedimentarsi e farsi forza di governo sul territorio, soprattutto nelle aree urbane, dov’è invece soprattutto Forza Italia, e in misura minore e più effimera la componente popolare del centrosinistra, a ereditare personale politico, legami sociali e consenso del sistema della Prima Repubblica. Treviso in quegli anni è un laboratorio: unico capoluogo governato da un leghista (lo «sceriffo» Giancarlo Gentilini), lo resterà fino all’elezione di Flavio Tosi a Verona nel 2007, a cui seguiranno due brevissime parentesi nello scorso decennio a Padova e Rovigo. È questa Lega a eleggere, con il 41% in solitudine, contro destra e centrosinistra, il trentenne Luca Zaia alla presidenza della Provincia di Treviso nel 1998. La Lega della secessione da «Roma-Polo e Roma-Ulivo», delle campagne elettorali fatte con le scritte sui piloni degli svincoli trafficati delle zone industriali: «Basta tasse, vota Lega», «Basta Roma, vota Zaia». Sono anni di conflitti e di alternative. Gli anni dell’Humanity Day contro Gentilini a Treviso, del referendum regionale contro la buona scuola, del raduno «Radici» al Palaverde di Villorba, di una vitalità associazionistica diffusa non ancora rassegnata a non avere voce politica. Ma il centrosinistra sceglie altre strade: preferisce competere sul piano dell’impresa e della sicurezza, senza però riuscire minimamente a scalfire la sua estraneità al tessuto sociale territoriale. Quattro anni dopo, la Lega governa a Roma con tre ministri nel secondo esecutivo Berlusconi: Zaia viene rieletto a capo di un monocolore leghista, ma è solo un vezzo locale. All’inizio degli anni 2000, l’integrazione tra l’eredità post-Dc e post-Psi di Forza Italia e il risentimento antistatalista della Lega si è già fatta forza di governo. E infatti nel 2005 Zaia viene chiamato a fare da vice a Galan arrivato al terzo mandato in Regione. Nel 2008 una breve parentesi romana come ministro delle politiche agricole, per poi scambiarsi di posto con lo stesso Galan nel 2010, ereditando la presidenza del Veneto. Ormai la transizione è pienamente compiuta, leghisti e berlusconiani hanno sostituito fanfaniani e dorotei nella spartizione del potere interna a un sistema il cui consenso è talmente solido da non prevedere alcuna alternanza. Nel 2014 lo scandalo Mose colpisce l’ex presidente Galan e l’assessore alle infrastrutture prima di Galan e poi di Zaia. Ricadute su quest’ultimo: nessuna. Nel 2015 rielezione trionfale, e nel 2020 l’apoteosi: durante la pandemia la narrazione dell’amministratore, dell’uomo del fare, della concretezza post-ideologica raggiunge l’apice, con le conferenze stampa quotidiane trasmesse in diretta dalle tv locali e il plebiscito di settembre. Zaia rieletto con il 77% dei voti, la sua lista primo partito con il 45% davanti alla Lega ferma al 17%, il centrosinistra al 16%. Zaia diventa il punto di equilibrio nella tempesta della politica. Non si espone mai su temi spinosi, non partecipa in prima persona alla deriva beceramente razzista della Lega ma non ne prende mai davvero le distanze, ospita il Congresso mondiale delle famiglie ma lo redarguisce contro l’omofobia. Non entra nelle polemiche politiche, sui suoi social si limita a cantare la bellezza del territorio e la grandezza della sua gente, investendo tutto sul senso di comunità. Incarna lo stereotipo del veneto a testa bassa e bareta fracada, che lavora tanto e parla poco. Nella sua indimenticabile opera prima Ragionamoci sopra, libro basato sulle sue riflessioni serali durante la pandemia, la parola «amministratore» compare 80 volte. Del caudillismo che contraddistingue la via italiana al federalismo, la versione veneta è la più smaccatamente antipolitica. Nessun corpo sociale esiste se non quello comunitario, a livello locale e regionale, nessun interesse se non quello territoriale, nessuna prospettiva se non la soluzione tecnico-amministrativa.  «Chi è convinto di trovare qui un manifesto politico rimarrà deluso – scrive Zaia – Mi definisco ‘amministratore’ perché tale mi sento: dal 1993 ho vissuto un’esperienza amministrativa a trecentosessanta gradi. Posso dire, infatti, di essere uno dei pochi ad aver attraversato tutti i livelli di governo, dal ruolo di consigliere comunale in un piccolo paese di campagna a ministro, passando dal vertice delle amministrazioni provinciale e regionale». Da Bibano a Venezia. Le città di pianura al potere. L’ascesa di Zaia, capace di resistere a terremoti quali la fine dell’era Bossi, lo scandalo Mose, la transizione della Lega Nord al partito nazionale di Salvini, rappresenta la costruzione di un sistema politico e sociale che rimuove conflitti e fratture verticali a vantaggio di quelli orizzontali. Non c’è lotta di classe, non c’è contrapposizione tra alto e basso, non c’è sfida all’eterna governance locale e regionale. In verticale, anzi, c’è una catena di rappresentanza d’interessi che parte dall’infrastruttura locale comunitaria e associazionistica, attraversa i sindaci e arriva al «governatore», senza attriti né pluralismo politico. Il conflitto è, invece, orizzontale: competizione all’interno del partito, tra partiti della coalizione, tra settori industriali, tra territori per l’accesso ai servizi. Come scrivevamo quattro anni fa, da una parte c’è un’interpretazione della politica in cui il cuore di tutto è la comunità locale, le cui contraddizioni interne sono quasi sempre celate, e che esprime in maniera organicistica la sua rappresentanza comune nel sindaco, avvocato del territorio, rappresentante degli interessi della comunità nell’altrove che si estende fuori dai suoi confini. Dall’altra, il cosiddetto producerismo, ideologia che fonde gli interessi di lavoro e capitale nel comune obiettivo di produrre più ricchezza possibile, e vede quindi chi lavora e produce, in maniera assolutamente interclassista, contrapposto a un vasto gruppo sociale di «parassiti», incarnato di volta in volta da meridionali, migranti, politici, dipendenti pubblici. AUTONOMIA E LIBERTÀ Su questi due assi, Zaia e la sua coalizione ricostruiscono con la maggioranza dei veneti il patto sociale che aveva garantito quarant’anni di dominio democristiano: il patto del non-governo. Di fronte alla mancata integrazione politica dei territori nella Regione, priva di un vero centro e vittima dello stravedamento di cui sopra, e della Regione nel corpo nazionale, la linea è un adattamento della nota massima agostiniana: «Votaci, e fa’ ciò che vuoi» diceva la Dc ai veneti, e hanno continuato a dire in questi decenni le maggioranze di destra. Nessun reale tentativo di incidere in profondità nella realtà sociale, di razionalizzare il caos delle zone industriali, dei distretti senza direzione, della proliferazione di supermercati e centri commerciali, della speculazione immobiliare. Libertà totale di costruire, con 43 mila ettari di suolo cementificati in quindici anni, un’area più grande del Lago di Garda, e il più alto valore di suolo edificato pro capite in Italia. E libertà di inquinare, come dimostra il caso Miteni, industria nel vicentino nelle cui vicinanze sono state riscontrate le più alte concentrazioni di Pfas al mondo. Un governo che nulla vieta, nulla propone, e nulla promette, se non, ovviamente, infrastrutture. Già in Provincia il leitmotiv di Zaia erano state le «opere», in particolare le rotatorie, con cui immettere risorse pubbliche nell’economia e legare a sé e alla Lega i territori interessati: in Regione tutto aumenta in scala, con il fiorire dei project financing, primo fra tutti quello per la Superstrada Pedemontana Veneta. Una voragine di spesa pubblica, con la Regione tuttora impegnata a versare ogni anno un contributo di circa 300 milioni di euro ai costruttori, accollandosi il rischio di impresa legato ai pedaggi. Pagare le «opere» sembra essere l’unica ragion d’essere del pubblico, nel sistema Zaia. «Non rimarrà più nulla di questa regione. Solo un’enorme infrastruttura e modi per spostarsi, ma nessun luogo dove andare» commenta uno dei protagonisti de Le città di pianura. Infrastrutture che non comprendono il Sistema ferroviario metropolitano regionale promesso da quarant’anni e mai realizzato. In un territorio senza centro, con popolazione e produzione dislocate fuori dai capoluoghi, ciò implica un traffico fuori controllo. La conseguenza? Tra le tredici città europee con la peggiore qualità dell’aria, quattro sono in Veneto. E non comprendono la sanità, con il graduale smantellamento di una rete di ospedali e presidi pubblici un tempo capillare come da nessun’altra parte in Italia e la contemporanea crescita degli ambulatori privati. Ma la madre di tutti i conflitti orizzontali è, ovviamente, l’autonomia. Il fiore all’occhiello del quindicennio Zaia. Sfruttando la possibilità offerta dalla maldestra riforma del Titolo V prodotta dal centrosinistra nel 2001 nel vano tentativo di contendere alla Lega il terreno del federalismo, il governo veneto nel 2014 inizia un negoziato con quello nazionale mirato a ottenere maggiori competenze e a stabilire il principio per cui «le tasse raccolte in Veneto devono restare in Veneto». Nella fase in cui Salvini trasforma la Lega in un partito nazionale, per coprire questa transizione, Zaia dà fondo a tutto il repertorio, arrivando a far approvare dal consiglio regionale un referendum per la proclamazione dell’indipendenza del Veneto (ovviamente bloccato dalla Corte Costituzionale), per poi far celebrare, nel centocinquantunesimo anniversario del plebiscito che nel 1866 sancì l’unione del Veneto all’Italia, un nuovo plebiscito, pardon, un referendum consultivo sull’autonomia. Oltre 2 milioni di elettori, il 57% degli aventi diritto, si presentano alle urne, e il Sì all’autonomia vince con il 98,1%. L’autonomia sposta nuovamente sul rapporto con «Roma» qualsiasi tensione e frattura, neutralizzando sul nascere qualsiasi potenziale conflitto verticale. Per tutto ciò che non va, per le liste di attesa sanitarie che si allungano, per i servizi che mancano, la soluzione esiste: il problema è che «Roma» non ci lascia tenere sul territorio i soldi per realizzarla. EREDITÀ E CAMBI DI REGIME «Dopo Zaia, scrivi Zaia». Lo slogan è ovunque. Ma si tratta di un escamotage, e il fatto che venga ribadito con tutta questa insistenza pare rivelatore. L’asse con Vincenzo De Luca e Michele Emiliano per ottenere la possibilità di un terzo mandato (che per Zaia sarebbe stato il quarto) non ha dato i suoi frutti, perché sia Giorgia Meloni sia Elly Schlein avevano voglia di ricambio.  Non è riuscita, però, l’operazione di Fratelli d’Italia, primo partito in Veneto sia alle politiche del 2022 sia alle europee del 2024, di piazzarsi a capo della Regione. Le barricate leghiste, con tanto di minaccia di presentare la Lista Zaia e fare incetta di voti, hanno tenuto. Il candidato della destra è Alberto Stefani, trentadue anni, deputato, ex sindaco di Borgoricco, nell’Alta Padovana. Tanto diverso da Zaia (uomo di cultura, dottorando in diritto canonico), quanto uguale a lui (l’origine nel «profondo Veneto», la carriera rapidissima dal paese al vertice, l’equilibrio democristiano delle dichiarazioni), Stefani è ufficialmente un salviniano, il leader della corrente del segretario federale in Veneto, ma non si direbbe. Nelle interviste e nei comizi parla di ecologia e salute mentale. Uno Zaia 2.0, un po’ più da social e meno da sagra, nel tentativo di arginare il calo devastante di consensi che ha colpito la Lega negli ultimi anni. Fuggono gli amministratori, verso Fratelli d’Italia e Forza Italia, fuggono i riferimenti nel mondo industriale. Fuggono, in alcuni casi, anche i leader storici, come Toni Da Re, a lungo leader leghista nel Trevigiano e anche segretario della Liga Veneta, abituato a ricevere nel suo autolavaggio di San Vendemiano ministri e presidenti di regione. L’anno scorso, Da Re diede pubblicamente del «cretino» a Salvini, reo di seguire la via nazionalista con Vannacci abbandonando le radici nordiche e federaliste del partito. Fu espulso, e ora è in lista con Forza Italia, a sostegno del salviniano Stefani. Una situazione di guerra di tutti contro tutti che con ogni probabilità non impedirà a Stefani di vincere, ma gli potrà rendere complicata la vita al governo. I sondaggi danno Fratelli d’Italia e la Lega, che candida Zaia capolista in tutte le province, in lizza per il primo posto in una lotta all’ultimo voto. C’era aria di cambio di regime, poi è stato trovato un erede al trono, ma le tensioni restano. Restano anche perché i temi, uno su tutti quello sanitario, iniziano a farsi strada nel senso comune. Tanto che il candidato del centrosinistra alla presidenza, l’avvocato trevigiano Giovanni Manildo, ha voluto proporre un assessore alla sanità: Mimmo Risica, già primario di cardiologia a Venezia e volontario di lungo corso di Emergency e Mediterranea. Si parla spesso di sanità, a sinistra: «Contro la gestione della destra in una Regione dove gli ambulatori privati sono quadruplicati in 10 anni, contro una destra che si ispira al modello lombardo» tuona Carlo Cunegato (capolista di Alleanza Verdi Sinistra a Vicenza), mentre Elena Ostanel (capolista di Avs a Padova) propone di «riorganizzare l’assistenza medica di base per renderla più vicina alle persone e ai bisogni dei territori» e Rifondazione Comunista diffonde una parodia dei video di Zaia con al centro proprio l’affollamento negli ospedali. Si prova a verticalizzare e organizzare politicamente conflitti e risorse che esistono, in una società tutt’altro che inerte e pacificata. Zaia nel suo libro parla di una terra «dove il lavoro è una sorta di religione, dove si nasce donne e uomini del fare, dove le partite Iva sono 430 mila». Un culto interclassista della produzione che continua a essere maggioritario, ma che è sfidato apertamente dalle 69 milioni di ore di cassa integrazione nel 2024, in aumento del 36,4% rispetto al 2023, così come dalle difficoltà di un export che genera circa la metà del Pil veneto.  Continueranno a bastare retorica comunitaria, infrastrutture e promesse di libertà dalle vessazioni fiscali, a nascondere le difficoltà di un territorio che non è più quello della trasformazione della piccola proprietà contadina in piccola impresa manifatturiera degli anni ’70, né quello del boom dell’export degli anni ‘90? Spostare il problema sempre all’esterno, raccontando i veneti come sconfitti dell’unità italiana e vincitori della globalizzazione, è ancora possibile? Non è un caso che i sondaggi diano serie possibilità di entrare in consiglio regionale a Riccardo Szumski, ex sindaco leghista di Santa Lucia di Piave (a pochi chilometri dal luogo natale di Zaia) ed ex medico di base radiato in quanto no vax. La radicalizzazione del leghismo in salsa ultralibertaria e comunitarista è un fenomeno, per quanto minoritario. È uno step ulteriore: la libertà incarnata da Fleximan, il misterioso eroe popolare che tempo fa segava con un flessibile gli autovelox di provincia. Una libertà declinata tutta al negativo, eredità di un popolo che non ha mai trovato nel servizio pubblico una prospettiva di emancipazione da contadino, e non la cerca più ora che ha trovato il benessere, ma chiede solo di essere lasciato stare. Almeno finché non ha bisogno di una Tac. La base sociale della destra veneta arranca e mugugna, e si guarda in giro. C’è il rischio che si sia già cementificato il cementificabile. Che anche il tesoro nascosto, come ne Le città di pianura, sia stato coperto dalle fondamenta di una lottizzazione. Luca Zaia, perseguitato da problemi gastrici, non finirà a bere «l’ultima» con Doriano e Carlobianchi. Forse finirà in parlamento, forse a presiedere l’Eni, o addirittura il Coni, per poter inaugurare le Olimpiadi. Se ne parla persino come potenziale sindaco di Venezia. Un riscatto senza precedenti, non solo come leghista nella città un tempo rossa, ma soprattutto come figlio del «profondo Veneto» contadino, alla guida della «Dominante». Peccato che sia un riscatto tutto individuale: l’ennesima storia di successo personale di una terra che nel frattempo, come il suo capoluogo, ha iniziato a sprofondare. *Lorenzo Zamponi è docente di sociologia alla Scuola Normale Superiore ed editor di Jacobin Italia. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino, 2019). L'articolo Il Doge delle città di pianura proviene da Jacobin Italia.
Allarme rosso. Con la scusa della “guerra ibrida” vogliono imbavagliare politica e informazione
Nella riunione del Consiglio Supremo di Difesa di lunedi, il ministro della Difesa Crosetto ha presentato un rapporto su “Il contrasto alla guerra ibrida” curato dallo stesso Ministero e dagli apparati di intelligence. Si tratta di un documento che merita la dovuta attenzione e deve suscitare altrettanto allarme. Alla presenza […] L'articolo Allarme rosso. Con la scusa della “guerra ibrida” vogliono imbavagliare politica e informazione su Contropiano.