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Per fermare Mamdani Trump punta su Cuomo
Articolo di Nick French Dalle primarie per la carica di sindaco di New York City dello scorso giugno, i super-ricchi sono nel panico, alla ricerca di un modo per fermare il candidato socialista Zohran Mamdani. Ora sembra che abbiano trovato la soluzione: farsi aiutare da Donald Trump. Uno dei problemi più rilevanti per gli oppositori di Mamdani è stato il fatto che i suoi concorrenti – il sindaco in carica Eric Adams, l’ex governatore Andrew Cuomo e il candidato repubblicano Curtis Sliwa – sembrano tutti destinati a dividersi il voto antisocialista [il sondaggio del New York Times del 9 settembre da Zamdani avanti rispetto agli altri tre, Ndt]. Negli ultimi due mesi si è assistito a uno sforzo concertato da parte di Repubblicani, Democratici centristi e ricchi interessi per cercare di consolidarsi attorno a un unico candidato. Il miliardario gestore di hedge fund Bill Ackman ha tentato di trovare una soluzione fin dall’inizio, offrendosi di finanziare un nuovo sfidante contro Mamdani, prima di dichiarare che Adams era in realtà l’uomo giusto per l’incarico fin dall’inizio. Ma all’inizio di agosto, il New York Times ha riferito che lo stesso Trump ha contattato gli stretti alleati Democratici di Cuomo che avevano tentato di convincere il presidente che l’ex governatore avesse le migliori possibilità di battere Mamdani a novembre. Il Times ha anche riportato che Cuomo e Trump si erano parlati personalmente. Più di recente, Cuomo ha dichiarato a una raccolta fondi ad Hamptons di essere ottimista sul fatto che Trump avrebbe contribuito a convincere i Repubblicani a votare per lui. Questa settimana, Trump ha fatto il suo intervento più forte sulle elezioni, offrendo ad Adams un incarico presso il Dipartimento per l’Edilizia Abitativa e lo Sviluppo Urbano (Hud). L’offerta sembra un forte incentivo per Adams, estremamente impopolare e con un basso tasso nei sondaggi dopo che sono emerse le notizie riferite alla corruzione della sua amministrazione, a ritirarsi dalla corsa. Sembra anche essere il risultato delle conversazioni avute da Trump con l’entourage di Cuomo, il che suggerisce fortemente che questi stia tentando un’alleanza con Trump per ridisegnare il terreno a suo favore. Come ha affermato Mamdani su X: «Le notizie di oggi lo confermano: Cuomo è la scelta di Trump per il ruolo di sindaco. La Casa Bianca sta valutando l’incarico ad Adams e Sliwa per liberare il campo». Il candidato ha anche tenuto una conferenza stampa, dichiarando che l’offerta di Trump ad Adams «ha a che fare con il potere. Tutto dipende dal coraggio che abbiamo nel credere di poter scegliere il nostro sindaco». Adams è stato finora reticente nel decidere se accettare l’incarico o restare in corsa. Ciò che è chiaro è che Cuomo e altri Democratici  «moderati» sono fin troppo contenti di avere il sostegno di Trump per battere Mamdani. L’intervento di Trump sottolinea quindi un elemento che è diventato sempre più evidente dall’inizio della corsa a sindaco: Mamdani è il candidato anti-Trump, e Cuomo è la scelta pro-Trump. L’alleanza più o meno esplicita tra Trump e Cuomo rappresenta anche un inasprimento delle tensioni che agitano il Partito democratico da quasi un decennio. Un’ala socialista progressista e democratica – rappresentata da Bernie Sanders, Alexandria Ocasio-Cortez e ora Mamdani – ha tentato di catturare l’energia dei giovani e gli elettori scontenti spingendo il partito verso una direzione anti-corporativa e di radicalità nelle scelte economiche. Questo tentativo ha ovviamente incontrato una feroce resistenza da parte dei finanziatori aziendali e ultra-ricchi del partito e da esponenti Democratici dell’establishment come Cuomo e i Clinton. Questa battaglia tra fazioni spiega anche perché i principali Democratici di New York, tra cui la governatrice Kathy Hochul e i leader del partito al Congresso Chuck Schumer e Hakeem Jeffries, si siano finora rifiutati di sostenere Mamdani nonostante la sua vittoria alle primarie. Il fatto che Cuomo stia facendo causa comune con Trump per fermare Mamdani non costituisce una grande sorpresa a sinistra, soprattutto per i molti che sospettano da tempo che un bel po’ di Democratici centristi (e gli interessi aziendali che servono) preferirebbero il Maga al socialismo. Potrebbe però scandalizzare molti elettori Democratici comuni, e solleva la questione se e come una casa così divisa possa reggere. Il sostegno di Trump a Cuomo è di cattivo auspicio anche per ciò che accadrà dopo novembre, qualora riuscissero a sconfiggere Mamdani. Adams è riuscito a evitare le accuse federali di corruzione contribuendo alla repressione dell’immigrazione fatta da Trump. Non è affatto difficile immaginare che Cuomo dovrà ricambiare i favori del presidente facendo lo stesso o peggio, come accogliere la polizia federale in città. In questo scenario, saranno i residenti di New York a pagare il prezzo del patto col diavolo di Cuomo. *Nick French è redattore associato presso JacobinMag, da dove è tratto questo articolo. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Per fermare Mamdani Trump punta su Cuomo proviene da Jacobin Italia.
La risposta giusta – di Effimera
La giornata di manifestazioni che ha attraversato Milano il 6 settembre 2025, in risposta allo sgombero del centro sociale Leoncavallo, è stata un avvenimento di grande valore che ha spezzato, almeno per un attimo, la narrazione negativa che ci circonda da ogni lato con i suoi corollari di impotenza e di paura. A nostro [...]
Il genocidio fa cambiare idea agli statunitensi
Articolo di Richard Silverstein Il genocidio israeliano a Gaza ha rafforzato una massiccia opposizione nella sinistra pacifista e ha innescato un profondo cambiamento nella politica statunitense nei confronti di Israele. Il mese scorso, un sondaggio Quinnipiac ha mostrato un netto calo in quasi tutti gli aspetti relativi all’atteggiamento nei confronti di Israele in seguito alla crisi di Gaza. Per la prima volta, il sostegno ai palestinesi supera quello a Israele (dal 37 al 36%). Esattamente il 50% degli intervistati considera Gaza un genocidio. Il 60% si oppone a ulteriori spedizioni di armi a Israele. Una percentuale simile si oppone alla guerra di Israele contro Gaza. La maggioranza (53%) si oppone alla gestione del conflitto di Gaza da parte di Trump. Il 40% considera la politica statunitense «troppo favorevole» a Israele. Si tratta di numeri stupefacenti, mai registrati in anni di sondaggi che hanno costantemente fotografato un forte sostegno nei confronti di Israele e molto meno per i palestinesi. La richiesta di una sospensione degli aiuti militari, ad esempio, ha rappresentato un tabù nel dibattito pubblico per decenni. Atteggiamenti fino a quel momento considerati impensabili sono ora diventati mainstream. È ovviamente tragico che ci voglia un genocidio per smuovere l’opinione pubblica. Decenni di attivismo della sinistra pacifista non sono riusciti a cambiare le cose. Ci è voluto un massacro imminente per abbattere la barriera. Eppure, la barriera è crollata. Il Partito democratico è stato lacerato da uno scisma tra l’alta dirigenza allineata alla lobby israeliana e l’élite dei donatori miliardari; e l’ala giovanile di sinistra, di base, rappresentata dalla Squad (le deputate della sinistra socialista elette nei Democratici, ndt) al Congresso. Ciò è emerso in una recente riunione del Comitato Nazionale Democratico, in cui i democratici contrari alla guerra hanno proposto una risoluzione che chiedeva la fine della guerra e il divieto di vendita di armi a Israele. Il gruppo dirigente altolocato dell Cnd ha risposto con una propria risoluzione, sostenuta dall’American Israel Political Action Committee (Aipac) e dal suo rappresentante nel partito, la Democratic Majority for Israel , che chiedeva solo il rilascio degli ostaggi israeliani. I dati dei sondaggi suggeriscono che i papaveri del partito abbiano completamente perso contatto con i loro elettori. I Democratici al Congresso leggono gli stessi sondaggi che leggiamo io e voi e hanno iniziato a recepire il messaggio. La maggioranza dei Democratici al Senato ha votato a favore della risoluzione di Bernie Sanders per sospendere gli aiuti militari. Un nuovo disegno di legge Block the Bombs sta circolando alla Camera. Ha persino ottenuto il sostegno di membri che in passato sono stati sostenuti finanziariamente in modo cospicuo dall’Aipac. Tra questi, alcuni dei suoi membri più influenti, il deputato Jerrold Nadler e il deputato Adam Smith , che ha dichiarato: «Credo che sia giunto il momento che il governo degli Stati uniti interrompa la vendita di alcuni sistemi d’arma offensivi a Israele». Sebbene il sostegno di Smith sia stato tutto sommato  moderato, ha segnalato la consapevolezza che i tempi per Israele stanno cambiando. Il suo distretto elettorale, a Seattle, comprende uno dei principali produttori di armi del Paese, la Boeing. Smith ha anche ricevuto 800.000 dollari dall’Aipac nelle ultime due tornate elettorali. Dopo che le contestazioni alle primarie finanziate dall’Aipac hanno devastato le fila dei candidati progressisti nel 2022, alcuni membri hanno iniziato a impegnarsi a non accettare più donazioni da parte di Pac filo-israeliani, sebbene queste promesse non riguardino i candidati alle primarie reclutati dalla lobby israeliana per sfidare i progressisti. Finché il partito stesso non vieterà tali manipolazioni da parte dei Pac, questo continuerà. Nel 2022, la deputata Alexandria Ocasio Cortez, Jamaal Bowman e altri esponenti dell’ala sinistra del partito lamentarono l’assurdità dell’intervento dei repubblicani per sconfiggere i candidati democratici. Ocasio-Cortez avvertì che i loro soldi erano «tossici», un «fondo nero per miliardari repubblicani che non dovrebbero avere influenza nel Partito democratico, figuriamoci nelle nostre primarie». La leadership del Congresso sbadigliò e non fece nulla. Ora la situazione è ribaltata. Quanto più grave è il genocidio di Israele, tanto più disgusto suscita nell’opinione pubblica americana. Ciò, a sua volta, si riversa sui rappresentanti eletti del partito che sanno leggere il corso delle cose: essere in sintonia con la lobby non è più la soluzione sicura di un tempo. Il Dnc e la leadership del Congresso sono però ancora in ritardo. Chuck Schumer e Hakeem Jeffries, leader di Senato e Camera, hanno mantenuto le distanze dal candidato sindaco di New York City del loro partito, Zohran Mamdani, perché, tra le altre cose, sostiene il movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (Bds) e si oppone al genocidio di Gaza. Sono incapaci di una guida per il futuro, necessaria se il Partito democratico vuole vincere le elezioni nazionali e contrastare il Maga trumpiano. Ci saranno ora due test imminenti: le elezioni di medio termine del 2026 e, cosa più importante, le elezioni presidenziali del 2028. Finora, le prospettive per i Democratici per l’anno prossimo non sono promettenti. La popolarità del partito è a terra. Ha il tasso di approvazione più basso degli ultimi trent’anni (33%). Persino il Partito repubblicano lo supera, con il 40%. Sembra improbabile che i Democratici riescano a raddrizzare la rotta e a elaborare un messaggio coerente che trovi riscontro negli elettori in tempo per riprendersi la Casa Bianca. In queste circostanze, un risultato deludente per il partito di minoranza in un’elezione fuori stagione sarebbe disastroso. Le primarie presidenziali del 2028 determineranno se il partito riuscirà a generare un candidato più giovane e progressista, che rispecchi più da vicino le opinioni della base su Gaza e sul conflitto israelo-palestinese in generale. Quando, se mai avverrà, i Democratici riusciranno a produrre un candidato che parli alla base e per la base, sfidando al contempo la lobby israeliana? Un candidato non legato alla lobby e alla classe miliardaria che, oltre agli interessi politici, abbia anche dei valori? Tra i nomi attuali – Gavin Newsom, Pete Buttegieg, Gretchen Whitmer e JB Pritzker – solo quest’ultimo ha sostenuto il blocco delle vendite di armi, che secondo Pritzker «manda il messaggio giusto» a Israele. Pur rimanendo un politico le cui opinioni su Gaza non sono pienamente allineate con quelle della sinistra progressista, è a chilometri di distanza dai suoi concorrenti. Il genocidio israeliano ha anche creato una profonda frattura con l’ebraismo negli Usa che detesta Benjamin Netanyahu. La sua opinione sulla guerra a Gaza è solo leggermente appena meno negativa. Un sondaggio del 2024 ha rilevato che un terzo degli ebrei riteneva che Gaza costituisse un genocidio. Un sondaggio del 2025 ha rilevato che il 45% degli intervistati riteneva che Israele fosse «troppo aggressivo» a Gaza. È interessante notare che entrambi i sondaggi sono stati condotti da organizzazioni filo-israeliane. Eppure, la posizione delle principali organizzazioni ebraiche e della loro ricca gerontocrazia rimane irrigidita. A parte gruppi antisionisti come Jewish Voice for Peace, la comunità è rimasta in gran parte muta. Né i gruppi comunitari hanno le stesse preoccupazioni dei politici: la maggior parte degli ebrei non è affiliata, quindi non esiste alcun meccanismo che consenta loro di influenzare le istituzioni tradizionali. Gruppi come l’American Jewish Committee, l’Anti-Defamation League e l’Aipac si butterebbero da una rupe per Israele. La maggior parte degli ebrei americani si rifiuta di unirsi a loro. Le dichiarazioni di Trump su Gaza non hanno aiutato. Si è schierato incondizionatamente con Israele, arrivando persino a sostenere la pulizia etnica e a ribattezzare l’enclave come la «Riviera del Medio Oriente». Ha chiesto a Israele non solo di rovesciare Hamas, ma di sterminarlo. Un’operazione di «aiuto umanitario» finanziata dagli Stati Uniti , la Gaza Humanitarian Foundation (Ghf), ha elaborato un piano per creare quella che il ministro della Difesa israeliano definisce una « città umanitaria», che imprigionerà 600.000 abitanti di Gaza. Analogamente, il Boston Consulting Group ha elaborato un piano da 5 miliardi di dollari che prevede il «ricollocamento volontario» dell’intera popolazione. Gaza diventerebbe un «ente fiduciario statunitense» e verrebbe «trasformata in un lussuoso resort turistico e in un polo manifatturiero e tecnologico ad alta tecnologia». Le amministrazioni fiduciarie devono essere riconosciute dalle Nazioni unite, che non accetterebbero mai una cosa del genere. Non ce n’è stata una da quando Palau ha ottenuto l’indipendenza nel 1994. E non solo il mondo reagirà con indignazione a un simile piano, se attuato, ma ciò inasprirebbe ulteriormente gli americani nei confronti della politica di Trump su Gaza. I sondaggi indicano che la maggioranza è contraria. L’ultima cosa che gli americani vogliono è un coinvolgimento a lungo termine in Medio Oriente, dove abbiamo combattuto tre guerre negli ultimi trent’anni. Quasi duemila palestinesi sono stati assassinati nei siti del Ghf mentre si accalcavano in cerca di cibo, molti dei quali da mercenari americani assoldati da una società di sicurezza statunitense. Simili scene potrebbero non turbare gli israeliani abituati a tali sofferenze, ma la maggior parte degli statunitensi è sconvolta. Ogni bambino affamato, ogni madre uccisa mentre allunga le mani per chiedere cibo, pianta un altro chiodo sulla bara del sostegno Usa a Israele. *Richard Silverstein scrive sul blog Tikun Olam, per il quale si occupa dello stato di sicurezza nazionale israeliano. Ha contribuito alle raccolte di saggi A Time to Speak Out: Independent Jewish Voices on Israel, Zionism and Jewish Identity e Israel and Palestine: Alternative Perspectives on Statehood. Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo Il genocidio fa cambiare idea agli statunitensi proviene da Jacobin Italia.
Cosa resta di politico nell’arte?
Palestina pop? Negli ultimi mesi la causa palestinese è diventata pop per certi versi, visto che molti personaggi pubblici si sono esposti mediaticamente, soprattutto da quando pezzi grossi come Grossmann e affini hanno parlato, così da poter dare il via libera a coloro che potevano seguirne la scia, per lo […] L'articolo Cosa resta di politico nell’arte? su Contropiano.
Disturbare la politica. Attivismo spirituale e post-attivismo
ABBIAMO BISOGNO DI UNA NUOVA CULTURA POLITICA CHE SAPPIA METTERE IN DISCUSSIONE LA FIDUCIA NEL PARADIGMA RAZIONALISTA, ANCHE NEL SUO VOLTO PROGRESSISTA. UNA CULTURA NELLA QUALE, PER DIRLA CON GLORIA ANZALDÚA E BAYO AKOMOLAFE, NON C’È SEPARAZIONE TRA L’UMANO E IL CONTESTO ECOLOGICO, CHE NON MIRI AL POTERE, CHE SAPPIA INVOCARE LENTEZZA, DISALLINEAMENTO, SCONNESSIONE. UNA CULTURA POLITICA CON CUI RICUCIRE FRATTURE, TRASFORMARE LINGUAGGI E MODI DI PENSARE, DOVE ANCHE I CONCETTI DI LOTTA O QUELLO DI SPIRITUALITÀ ASSUMONO SIGNIFICATI DIVERSI PER IMMAGINARE QUI E ORA MONDI NUOVI Perché oggi non è possibile fare una rivoluzione? Questa è la domanda posta da Byung-Chul Han in un breve testo. L’argomentazione è semplice: da un lato il sistema di potere neoliberale si è trasformato col tempo, dosando saputamente repressione e seduzione; dall’altro ha infranto ogni legame sociale, valorizzando l’individuo sovrano, instillando agonismo, mettendo così in concorrenza tutti e tutte, abbandonati a un flusso continuo di auto-esposizione e auto-sfruttamento. Ora, se il quadro della situazione risulta corretto, e purtroppo lo è, proprio per questo sarebbe salutare ribaltare l’affermazione Byung-Chul Han e dire con forza che oggi è quanto mai indispensabile costruire una rivoluzione. Certo, parlando di rivoluzione dovremmo accantonare quelle icone – penso alle immagini della presa della Bastiglia o del Palazzo d’Inverno – che fino a non molto tempo fa hanno rappresentato punti di riferimento significativi per molti progetti di trasformazione radicale, riformulando il discorso sulla rivoluzione alla luce delle emergenze in corso. L’elenco non è breve: i processi di globalizzazione e il capitalismo digitale, l’erosione delle democrazie e il ritorno del fascismo e del razzismo, le guerre e le politiche di riarmo, i disastri ecologici e la guerra strisciante alle risorse fondamentali (acqua, suolo/sottosuolo, semi, conoscenze tradizionali…), il collasso della biodiversità e le epidemie zoonotiche, e, ultima ma non ultima, il disagio diffuso, con la crisi delle relazioni interpersonali e dell’immaginario collettivo. Ripensare la rivoluzione apre però una serie di questioni che allargano ulteriormente il discorso, rimettendo in discussione proprio le categorie del politico generalmente considerate come acquisite in modo stabile. E qui affiora, volente o nolente, il fantasma di Carl Schmitt con le sue categorie politiche che tanto hanno influenzato, e tuttora influenzano, il pensiero e la pratica politica contemporanea. Penso alla nozione di sovranità, a quelle di omogeneità interna/ostilità esterna (che giungono a compimento nella distinzione amico/nemico), all’affermazione che i concetti politici moderni derivano da concetti teologici cristiani trasformati in termini laici. Di fronte alla mole di temi sollevati, l’ambizione di questo breve scritto è alquanto modesta, non intende dissodare in lungo e in largo un così ampio territorio, ma percorrerlo per un tratto, accompagnato principalmente da due autori provenienti dalla periferia dell’impero: Gloria Anzaldúa e Bayo Akomolafe. La prima è stata scrittrice, poeta, teorica chicana, nata in Texas da una famiglia contadina di origine messicana. Cresciuta in una regione di confine, ha elaborato il concetto di mestiza consciousness, una coscienza ibrida capace di abitare le frontiere culturali, linguistiche e identitarie. Attivista femminista, queer e decoloniale, ha intrecciato, nei suoi scritti, autobiografia, poesia, teoria e spiritualità. Il secondo è uno scrittore di origine nigeriana, formatosi in psicologia clinica. La sua prospettiva unisce filosofie post-strutturaliste e neo-materialiste, pensiero postcoloniale, ecospiritualità e narrazione mitica. In particolare, mi soffermerò su due parole-chiave presenti nel loro pensiero: lo spiritual activism, per Gloria Anzaldúa – un agire politico radicato nella trasformazione interiore e nella connessione con spazi spirituali e comunitari -, e il post-activism, per Bayo Akomolafe – un approccio che supera l’idea di lotta lineare e frontale contro un nemico, per aprirsi a trasformazioni lente, mobili, relazionali e multispecie. L’attivismo spirituale viene delineato da Gloria Anzaldúa nel suo ultimo libro, apparso postumo, Luce nell’oscurità (Milano, Meltemi, 2022). Su questo tema importanti sono anche le sue conversazioni, raccolte da AnaLouise Keating nel volume Interview/Entrevistas (New York e Londra, Routledge, 2000). Di Bayo Akomolafe è stato tradotto in italiano Queste terre selvagge oltre lo steccato (Roma, Exorma, 2023), testo molto ricco, dove però non ricorre ancora il termine post-attivismo, elaborato successivamente in interviste, interventi pubblici e in testi brevi. Molto di questo materiale è reperibile al sito bayoakomolafe.net. Come vedremo, si tratta di elaborazioni molto fertili per disturbare e ripensare il politico e la rivoluzione nel presente, che pur presentando punti di contatto hanno al contempo sviluppi differenti. Proprio per questo, provare a interfacciare le loro argomentazioni può aprire nuovi scenari di riflessioni e di pratiche. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI CAROLINA MELONI G.: > Femminista, barbara e meticcia -------------------------------------------------------------------------------- Sull’attivismo spirituale Che cos’è l’attivismo spirituale? Definirlo come una pratica politica che si avvale di valori spirituali sarebbe una descrizione deludente. La questione è più complessa, in quanto rimanda a un’epistemologia e a un’etica visionarie, le quali a loro volta si ispirano a ciò che Anzaldúa definiva conocimiento. Il conocimiento è un modo di pensare non-binario che attinge a forme di conoscenza non razionali, quali le sensazioni, le intuizioni, l’immaginazione, le rêverie, i sogni e le visioni. Si tratta di un’apertura a ciò che potremmo chiamare i “confini esterni” dei nostri procedimenti conoscitivi, in grado di offrire un quadro di riferimento ampio che permette così di aderire a una dimensione della realtà più grande di quella costituita dalle nostre abituali epistemologie, così da connettere le proprie esperienze personali con quelle degli altri umani, del mondo non-umano e della stessa Terra che ci ospita. In questo modo viene messa in campo una “politica della spiritualità incarnata”, vale a dire un coinvolgimento intenzionale, creativo e partecipato, costantemente alimentato dalla riflessione critica. Così inteso l’attivismo spirituale reinventa la politica e la spiritualità, divenendo uno strumento di resistenza e di progettualità che considera le ingiustizie sociali ed ecologiche come fenomeni interconnessi alla propria biografia. Laddove prima si percepiva solo separazione, differenze e polarità se ne riconosce l’intimo legame, incoraggiando reciprocità, cura, alleanze e lotta, ponendo quindi in stretta relazione il cambiamento personale con quello su scala globale. L’attenzione di Anzaldúa verso la spiritualità è stata sempre rilevante, per quanto molti suoi lettori e lettrici preferissero sminuirne il ruolo. In un’intervista denuncia con rammarico come quegli elementi del suo pensiero venissero ignorati: “Una delle cose di cui non si parla è la connessione tra corpo, mente e spirito. Né si parla di tutto ciò che ha a che fare con il sacro, né di tutto ciò che ha a che fare con lo spirito. Finché si tratta di argomenti di teoria e di storia dei confini, va bene; i confini sono una cosa che riguarda tutti. Ma quando comincio a parlare di nepantla (parola náhuatl che significa ‘spazio di mezzo’) – come confine tra spirito, psiche e mente o come processo – ci sono resistenze”. La sua spiritualità si distende su un mosaico mesoamericano, il suo lessico è pieno di termini náhuatl – la lingua originaria della popolazione azteca -, non limitandosi però a una singola “linea pura” (per lei, pensatrice del meticciato, non avrebbe nemmeno senso), ma contaminando i riferimenti, dove il nucleo atzeco s’intreccia via via con pratiche curandere, con forme di cattolicesimo popolare (come la Vergine di Guadalupe), finanche con elementi new age, riletti criticamente (se è vero che attinge anche a quel linguaggio, si può dire che lo fa come la bruja/strega che prende gli strumenti del colonizzatore riforgiandoli per la resistenza). Non solo: se, come visto, il suo è un approccio pluralista alla spiritualità, aperto al riconoscimento e alla valorizzazione di molteplici forme di spiritualità, pur provenienti da tradizioni diverse e a prima vista incompatibili, merita pure collocarlo dentro una prospettiva funzionalista, in quanto la spiritualità viene ad assumere un ruolo pratico e trasformativo, serve per curare ferite individuali e collettive, per superare traumi, per resistere e immaginare mondi nuovi. In altre parole, l’ortoprassia – il retto agire -    prende il posto dell’ortodossia – la retta opinione. Sul post-attivismo Seconda domanda: che cos’è il post-attivismo? Innanzitutto va chiarito che non è da intendere come una pratica che viene dopo l’attivismo, ma è qualcosa di più intricato, qualcosa che va alla radice dell’agire umano, vale a dire la convinzione che l’intero mondo in cui ci troviamo non sia riducibile alla decisione umana, più precisamente a una decisione razionalmente configurata. Laddove, al contrario, restare irretiti in questa convinzione conduce innanzitutto e per lo più al fallimento. Secondo Akomolafe proprio il paradigma di risposta alle crisi, centrato su urgenza, controllo, ragione strumentale e centralità dell’umano, è intrinsecamente parte della stessa trama che genera le crisi. Ogni tentativo di soluzione elaborata dentro questa logica tende a riattivare le condizioni di crisi, non a dissolverle. Da qui il suo invito a restare in ascolto della crisi che ci abita e cambiare non solo le risposte, ma la forma stessa della domanda e la modalità con cui la viviamo. Per questo il post-attivismo è diffidente nell’assegnare un ruolo centrale all’agentività umana, in quanto è impossibile separare l’umano dal contesto ecologico e cosmico in cui è immerso, invitando a sospendere la logica della soluzione e dell’urgenza, aprendo spazi di ascolto e accettando luoghi di opacità, dove il mistero e la complessità possano agire. Al centro vi è la riscoperta di una mutualità primordiale: non esiste divenire che non sia un divenire-con, in una trama di relazioni tra umani, non-umani e forze più-che-umane. Allo stesso modo di Anzaldúa, invita a rivolgersi alla dimensione spirituale, ma non come utensile finalizzato ad accelerare una soluzione per raggiungere l’obiettivo prestabilito. L’attivismo sacro è, al contrario, una riscrittura del quadro di riferimento attraverso il quale proviamo a dare senso a ciò che è problematico, concedendoci domande enigmatiche che disattivano le strutture di pensiero attraverso le quali ci sentiamo al sicuro. La spiritualità di Akomolafe non è ritorno a una spiritualità ancestrale africana in senso essenzialista e neppure è una fuga in avanti verso le più recenti teorie occidentali, ma nasce da una sfida creativa e originale che pone in tensione le radici yoruba nigeriane con il pensiero post-strutturalista e neo-materialista occidentale, attraversando, importunando e trasfigurando entrambi gli orizzonti. La visione yoruba si basa su un’ontologia relazionale, dove ogni essere è un nodo di rapporti tra persone, elementi naturali, antenati e spiriti. Tutto questo si riflette nell’invito a decentrare l’umano e a pensare i problemi come eventi collettivi tra specie, tempi e mondi differenti. Da qui la sua critica dell’identità di un soggetto centrale e stabile, così come del linguaggio inteso come sistema chiuso, preferendo viaggiare alla ricerca di forme di sapere incarnate, paradossali e relazionali. -------------------------------------------------------------------------------- LEGGI ANCHE QUESTO ARTICOLO DI STEFANIA CONSIGLIERE: > Altri mondi reali -------------------------------------------------------------------------------- Nodi, fili, alleanze Rileggendo insieme Gloria Anzaldúa e Bayo Akomolafe affiorano una serie di punti di contatto da valorizzare. Innanzitutto c’è la spiritualità come esperienza incarnata e non dogmatica. Anzaldúa parte dalla ferita (la herida abierta) come luogo sacro e generativo, parla della luce nell’oscurità che plasma identità e coscienza in divenire. Akomolafe parte dal collasso come possibilità di metamorfosi, spingendo più in là la disidentificazione soggettiva; il suo diventa un disfarsi per guarire. Anzaldúa parla di attivismo spirituale come pratica interiore e collettiva legata al nepantla – lo “spazio di mezzo” -, vivendo la trasformazione personale e collettiva lungo i margini. Dal canto suo Akomolafe propone una spiritualità diffusa che si apre all’inatteso, a un’alterità spiazzante; è un invito a rallentare nei tempi difficili, prediligendo intimità con un mondo che si offre già come pratica spirituale. Come si vede, entrambi problematizzano la fiducia indiscussa nel paradigma razionalista, anche nel suo volto progressista. Infine, c’è un accomunamento legato al rinnovamento del linguaggio e delle forme comunicative. Tutti e due attuano una disattivazione della lingua dominante, uniforme e neutra, in quanto anche il linguaggio non è uno strumento privato o burocratico, ma è un common, è tessuto relazionale, un dire collettivo che nessuno possiede per intero. Anzaldúa mette in campo l’autohistoria, un genere ibrido che mescola poesia, racconto, teoria e spiritualità, mentre Akomolafe rompe con la linearità notarile del pensiero politico moderno, impiegando anche lui uno stile poetico, spesso evocativo, onirico e spiazzante. Detto ciò, vi sono tra loro anche differenze significative, per quanto feconde. Anzaldúa resta legata, pur in modo critico, a un’idea di trasformazione sociale. Akomolafe, invece, invita a disidentificarsi dalla stessa idea di lotta intesa come modalità primaria di relazione con il mondo, per lasciare spazio all’ignoto e al novum che può emergere. In ciò il suo pensiero ricorda per certi aspetti quello di Donna Haraway: abita un presente segnato dal fallimento dei grandi progetti emancipatori del passato, da cui scaturisce l’attualità di “stare con il problema” (staying with the trouble). È una sopravvivenza riparativa, una cura delle ferite, un’antologia di storie minori, fatta di piccoli gesti, di interferenze più che azioni. Si potrebbe descrivere il post-attivismo come una forma di micropolitica, in quanto agisce a partire dal sensibile, non mira al potere, ma a mutamenti nei processi percettivi, nelle relazioni affettive, nei linguaggi e nei modi di essere, invocando lentezza, disallineamento, sconnessione. Preferisce lavorare sulle soglie anziché impattare frontalmente i problemi, mirando semmai a disattivarli dall’interno. Paradossalmente il post-attivismo non viene dopo l’attivismo, ma lo precede, riguarda una soglia interiore e cosmica che precede ogni azione politica. Non è inazione, ma una messa in questione delle forme attraverso le quali agiamo politicamente. In questo senso, viene prima e accompagna ogni pratica di trasformazione sociale che voglia collocarsi dentro la gravità del presente. È qui che l’attivismo spirituale di Gloria Anzaldúa e il post-attivismo di Bayo Akomolafe s’incontrano. Le differenze tra la tensione trasformativa della prima e la sospensione meditativa del secondo non si annullano a vicenda: possono invece formare un ritmo alternato di azione e riflessione, di apertura visionaria e di decentramento, capace di nutrire forme di cambiamento più profonde e meno lineari. Ora, tornando alle domande iniziali sull’attualità della rivoluzione e sul ripensamento delle categorie del politico, Gloria Anzaldúa e Bayo Akomolafe operano uno scardinamento radicale. Se la politica, come diceva Schmitt, rivela la sua essenza nell’eccezione, nella gestione dei momenti di crisi più profonda, oggi quell’eccezione è la costante: viviamo ormai in continui tempi liminali, di transito. E, come ricordava Benjamin, questa è la tradizione di tutti gli oppressi. La questione, dunque, non è pianificare e normalizzare a tutti i costi, ma imparare a muoversi in territori incerti, dove l’atto decisionale non è verticale, ma frutto di ascolto, di negoziazione con molteplici agenti, umani e non. L’altro – l’estraneo, il diverso, il selvatico – non è un nemico da eliminare. Fare politica significa essere sensibili e attenti, inciampare e imparare dagli errori, intessere relazioni di cura e reciproca responsabilità. È un campo relazionale, decentrato e multispecie, dove il conflitto non scompare, ma si trasforma in occasione di co-creazione. Si agisce contro l’ingiustizia non ricalcando il suo stesso terreno, ma cambiando le condizioni in cui quel potere respira e si alimenta: ricucendo fratture, intessendo alleanze, trasformando linguaggi e immaginari, rallentando i ritmi imposti. Così il potere perde presa, non perché venga annientato sul campo di battaglia, ma perché il mondo su cui si fonda comincia a sfaldarsi e a mutare. C’è bisogno allora di ciò che Mario Tronti, un autore sotto molti aspetti assai distante dai percorsi qui tracciati, chiamava “saggezza della lotta”, una saggezza in grado di ispirare, sollecitare e orientare il conflitto. Di più: appare chiaro che la politica oggi non può che farsi cosmopolitica, non confinata nel territorio angusto della polis (fra l’altro, per millenni governata da un solo sesso). La polis resta un nodo importante, ma è solo un nodo tra i molti nel tessuto della vita. La cittadinanza è sì un diritto di tutti gli umani, ma deve cominciare a non essere più privilegio esclusivamente umano, ma diventare appartenenza reciproca all’infinita trama del vivente. -------------------------------------------------------------------------------- L'articolo Disturbare la politica. Attivismo spirituale e post-attivismo proviene da Comune-info.
I dazi favoriscono i ricchi
Articolo di Christopher Marquis Il successo del presidente Donald Trump nel promuovere la sua agenda sui dazi ha suscitato aspre critiche, non solo per l’abuso di potere e i rischi economici che crea, ma anche per i danni che ne deriveranno. Aumentando i prezzi al consumo di tutto, dai prodotti alimentari agli elettrodomestici, per la classe media e operaia statunitensi queste tariffe saranno come una tassa occulta. Le famiglie più povere, che spendono una quota maggiore del loro reddito in beni di prima necessità, saranno le più colpite. Ma il pericolo non risiede solo nei maggiori costi alimentari o nelle reti di sicurezza sociale smantellate per finanziare i tagli fiscali. Decenni di esempi portano alla stessa conclusione: convogliare la ricchezza verso l’alto non punisce solo i poveri, ma erode le fondamenta dell’economia e della democrazia stessa. La disuguaglianza non è uno sfortunato effetto collaterale; è un veleno lento che indebolisce la crescita, alimenta il risentimento e rende le società più fragili. Per capirne il motivo, è fondamentale distinguere tra povertà e disuguaglianza. La povertà è una condizione assoluta: la mancanza di accesso a beni di prima necessità come cibo, alloggio, assistenza sanitaria e istruzione. La disuguaglianza, al contrario, è una misura della differenza relativa: come reddito, ricchezza e opportunità sono distribuiti nella società. Una nazione può ridurre la povertà assoluta pur continuando a diventare più diseguale. Contrariamente alle smentite teorie del trickle-down, quando la ricchezza è maggiormente concentrata ai vertici i ricchi possono promuovere politiche volte a proteggere e ampliare i propri interessi: riducendo i servizi pubblici, bloccando la redistribuzione e minando i diritti dei lavoratori. Tutti questi sforzi sotto Trump sono potenziati. Ma le conseguenze più profonde restano invisibili a molti. A causa della segregazione sociale ed economica, la gravità della disuguaglianza e le sue conseguenze sono ampiamente sottovalutate. Quando i poveri soffrono, le ingiustizie sono altamente visibili: più persone dormono sui marciapiedi, file più lunghe alle mense dei poveri. Ma quando i ricchi diventano silenziosamente più ricchi, il cambiamento spesso passa inosservato. Si isolano ulteriormente nelle loro comunità chiuse; mandano i figli in scuole private d’élite e viaggiano sempre più spesso con jet privati. Come ha documentato il sociologo Matthew Desmond, anche prima di Trump la politica statunitense favoriva sistematicamente i ricchi, dalle detrazioni sugli interessi dei mutui alle donazioni universitarie esenti da tasse, offrendo al contempo ai poveri un sostegno stigmatizzato e inadeguato. L’estrema disuguaglianza non solo coesiste con la povertà, ma la perpetua. Ma i commentatori che difendono l’accumulo di ricchezza spesso affermano che la disuguaglianza è una distrazione: finché gli altri hanno abbastanza , perché dovrebbe importare quanta ricchezza viene accumulata ai vertici? Questa logica è seducente, ma sbagliata. L’aumento della disuguaglianza non danneggia solo i poveri, ma trascina l’intera economia. Anche le ricerche di istituzioni tradizionali come l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico mostrano che più una società è squilibrata, più debole diventa la sua economia: un aumento dell’1% della disuguaglianza di reddito può ridurre di oltre l’1% il Pil di un paese. Le ragioni sono semplici: quando i salari sono ridotti, le aziende perdono clienti. Quando le scuole pubbliche sono carenti, i talenti non vengono sviluppati. I ricchi possono risparmiare e investire, ma questi investimenti spesso inseguono rendimenti speculativi attraverso il settore immobiliare, il capitale di rischio e il private equity, non sul tipo di crescita produttiva di cui le economie sane hanno bisogno. Pertanto, anche la ricerca del Fondo monetario internazionale ha dimostrato che i paesi con un’elevata disuguaglianza hanno una crescita inferiore e meno duratura. Negli ultimi decenni, la disuguaglianza è aumentata vertiginosamente, raggiungendo un livello che sorprende molti. Dal 1980, il reddito dell’1% più ricco degli Stati uniti è cresciuto cinque volte più velocemente di quello del 90% più povero. Un rapporto di Oxfam del 2023 ha evidenziato che per ogni 100 dollari di ricchezza creata tra il 2012 e il 2021, 54,40 dollari sono andati all’1% più ricco, mentre al 50% più povero sono rimasti 0,70 dollari. Nelle società più diseguali, la provenienza conta più di ciò di cui si è capaci. I bambini ricchi frequentano scuole migliori, seguono lezioni private e hanno accesso a reti che riproducono privilegi. Nel frattempo, i bambini poveri vengono incanalati in sistemi sottofinanziati, cresciuti da genitori stressati e con poche opportunità di mobilità. Di conseguenza, la stragrande maggioranza delle persone non ha mai la possibilità di realizzare il proprio potenziale, corrodendo innovazione e opportunità. Forse ancora più pericolosamente, l’elevata disuguaglianza lacera il tessuto sociale. Come dimostrano sociologi come Rachel Sherman e John Osburg in contesti diversi come New York City e Chengdu, in Cina, la crescente disuguaglianza genera ansia e insicurezza anche tra le élite, che si confrontano costantemente con coetanei ancora più ricchi. Con l’aumentare della disuguaglianza, tutti si sentono indietro. Inoltre, poiché la classe media è sempre più convinta che le persone al vertice non stiano pagando la loro giusta quota, diventa più risentita e meno disposta a sostenere i beni pubblici o il welfare, sentendosi ingiustamente costretta a sostenere da sola l’onere. Pertanto, la disuguaglianza ha effetti deleteri sui processi democratici: i paesi con maggiore disuguaglianza segnalano costantemente livelli di fiducia più bassi, tassi di violenza più elevati e risultati sanitari più scarsi. Le persone smettono di credere che la società sia giusta o che valga la pena parteciparvi. Come avrebbe ammonito il giudice della Corte suprema Louis Brandeis : «Possiamo avere la democrazia oppure la ricchezza concentrata nelle mani di pochi, ma non entrambe le cose». Le critiche alle politiche economiche di Trump – dai dazi al bilancio e al programma di deregolamentazione – devono andare oltre. Non è solo una questione di equità e giustizia. Il problema è anche il tradimento dei principi fondamentali per un’economia sana e per la democrazia. Alla fine del mandato di Trump non solo i poveri saranno più poveri, ma gli Stati uniti saranno più deboli, più arrabbiati, più instabili e meno innovativi. *Christopher Marquis è professore di management presso la facoltà di Economia dell’Università di Cambridge e autore di The Profiteers: How Business Privatises Profits and Socializes Cost (Public affairs, 2024). Questo articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo I dazi favoriscono i ricchi proviene da Jacobin Italia.
Aborto e biopolitiche nazionaliste
Articolo di Elisa Virgili Il 5 giugno scorso la Regione Sicilia ha approvato la legge 23/2025, volta a garantire la presenza di reparti e personale medico non obiettore negli ospedali pubblici, in un contesto in cui circa l’85% dei ginecologi si dichiara obiettore, con punte drammatiche come quella di Messina (35 su 36). La legge in questione prevede bandi specifici per personale medico disponibile a praticare l’interruzione volontaria di gravidanza (Ivg), meccanismi di rotazione o sostituzione del personale per colmare le carenze, e obblighi di monitoraggio e trasparenza da parte delle aziende sanitarie. In questo modo si tenta di rendere effettiva una normativa già esistente, la 194, che, pur con tutte le sue criticità, sancisce il diritto all’aborto.  Prima della legge siciliana, anche altre regioni avevano tentato – senza successo – di intervenire per garantire l’accesso all’aborto, come in Puglia nel 2018, dove una proposta per assumere medici non obiettori fu bocciata trasversalmente in Consiglio regionale. O in Toscana, dove si erano sollevate discussioni simili, mai concretizzate, mentre in Umbria si è invece agito in senso opposto, restringendo l’accesso alla RU486 e rafforzando le politiche nataliste. Nello specifico, in Sicilia, questa situazione si intreccia con condizioni di marginalità sociale e strutturale, soprattutto per donne migranti e precarie. La sanità territoriale è carente, i consultori sono pochi e mal distribuiti, e le donne migranti si trovano ad affrontare viaggi lunghi, ostacoli burocratici e discriminazioni linguistiche. Per loro, l’accesso a un aborto sicuro e gratuito non è un diritto così immediato.  La battaglia per l’accesso libero, gratuito e dignitoso all’aborto non può essere dissociata dalle condizioni materiali di vita, è anche una questione di classe. Chi può permetterselo – per reddito, cittadinanza, vicinanza geografica ai centri, conoscenza delle procedure – riesce a interrompere una gravidanza anche in un contesto ostile. Chi non può, viene lasciata indietro. In questo squilibrio, l’aborto si trasforma da diritto a privilegio.  La pandemia da Covid-19 ha evidenziato poi come l’accesso all’aborto e ai servizi sanitari essenziali possa essere ulteriormente negato quando non si riconosce la loro centralità nel modello di cura, rivelando un paradigma patriarcale e biopolitico che considera alcuni corpi sacrificabili. Durante il Covid l’accesso all’aborto (come a qualsiasi altro servizio sanitario non considerato «essenziale» da uno sguardo patriarcale) è stato reso ancora più difficile: non solo per motivi tecnici o organizzativi, ma perché non prioritario nel modello di cura imposto.  Davanti a tutto questo, poco meno di due mesi dopo l’approvazione della legge siciliana, il 4 agosto, il Consiglio dei Ministri l’ha impugnata davanti alla Corte Costituzionale, motivando la decisione con la tutela del principio di uguaglianza, del diritto all’obiezione di coscienza e del libero accesso ai concorsi pubblici. La destra, da Fratelli d’Italia in là, ha espresso il proprio consenso all’impugnazione sostenendo che la legge limitasse libertà personali, religiose e morali, mentre sindacati come la Cgil hanno denunciato il grave attacco ai diritti delle donne e alla salute pubblica rappresentato da questa impugnazione, in palese contraddizione con le condanne europee sul difficile accesso alle Ivg. Questo scontro non è un episodio isolato né una mera boutade estiva: si inserisce in un più ampio discorso di biopolitiche nazionaliste e patriarcali, che disciplinano e normano corpi e identità sessuali. Nel contempo, infatti, si registrano leggi e provvedimenti che limitano i diritti delle persone trans, come il Ddl «Disposizioni per l’appropriatezza prescrittiva e il corretto utilizzo dei farmaci per la disforia di genere» (chiamato anche Ddl disforia) che impone controlli e medicalizzazioni burocratiche sul percorso di affermazione di genere per i minori, attraverso diagnosi obbligatorie, autorizzazioni centralizzate e la creazione di un registro nazionale gestito da Aifa, l’Agenzia italiana del farmaco, con il pretesto della tutela ma in realtà per instaurare un regime di sorveglianza e controllo. Questo Ddl nasce da un fronte reazionario, da figure e movimenti che riflettono una visione patriarcale, come RadFem, Generazione D, ProVita & Famiglia, e altri. Essi patologizzano la soggettività trans, negano la libertà e l’autodeterminazione, e propongono una visione della famiglia e della riproduzione come unica via legittima di esistenza, in linea con una politica nazionalista e patriarcale. Non sono leggi e azioni scollegate tra loro ma è in atto un processo di «normativizzazione» dei corpi e delle identità sessuali funzionale alla costruzione di un «popolo» nazional-religioso esclusivo. A queste si aggiungono poi le politiche migratorie e securitarie. Questi dispositivi biopolitici – nel senso foucaultiano del termine – sono strumenti di governo della vita che operano selettivamente, imponendo una gerarchia di legittimità e visibilità. Il corpo femminile e le soggettività dissidenti (trans, migranti, povere) vengono controllati, disciplinati, marginalizzati.  Tra i dispositivi simbolici più potenti messi in campo dall’estrema destra e dai movimenti no gender vi è la figura del bambino, rappresentato come innocente da salvare, fragile da difendere, ma soprattutto come garante ideologico di un futuro conforme all’ordine patriarcale ed eteronormativo. Quest’immaginario, come ha teorizzato Lee Edelman in No Future (2004), non riguarda i bambini reali, ma una costruzione politica: «il fascismo del volto del bambino […] ci sottopone alla sua sovrana autorità come figura stessa della politica, nella sua forma radicale di futurismo riproduttivo». In questo quadro, ogni discorso che mette al centro il «diritto alla nascita» o «la protezione dell’infanzia» è meno interessato al benessere dei soggetti viventi e più impegnato a rafforzare la riproduzione dell’ordine sociale esistente. L’antiabortismo si inserisce perfettamente in questa logica. Il feto diventa figura sacralizzata del futuro, mentre le vite presenti – in particolare quelle delle donne, delle persone trans, migranti o precarie – vengono oscurate, marginalizzate, talvolta esplicitamente sacrificate. In questo quadro, l’aborto non è più un diritto, ma un «privilegio sospetto», disciplinato da un nazionalismo che vede nelle «donne riproduttrici» il fulcro della nazione, mentre le altre soggettività vengono marginalizzate o espulse dallo spazio pubblico e politico. L’impugnazione della legge siciliana mostra come il nazionalismo agisca come dispositivo disciplinante dei corpi. La libertà riproduttiva diventa così negoziabile in base al consenso ideologico dominante, e il diritto all’obiezione di coscienza si estende a comprimere le libertà individuali e collettive. Questa strategia di controllo dei diritti riproduttivi, ormai da anni portata avanti da destre reazionarie europee, si inscrive in un ordine patriarcale, eteronormato e nazionalista. Come mostrano i casi di Polonia, Ungheria e Spagna, i governi conservatori utilizzano l’aborto come terreno di scontro simbolico e politico, promuovendo politiche nataliste e restrizioni che colpiscono in modo sproporzionato le donne e le soggettività marginalizzate. In Polonia, il governo ultraconservatore guidato da Diritto e Giustizia (PiS) ha spinto nel 2020 per una sentenza della Corte costituzionale che ha reso illegale l’aborto anche in caso di gravi malformazioni fetali, lasciandolo consentito solo in casi estremi (stupro, incesto, pericolo di vita). In Ungheria, il governo di Orbán promuove politiche nataliste che incentivano la maternità come dovere patriottico, mentre ostacola sistematicamente i diritti riproduttivi e Lgbtq+. In Spagna, l’estrema destra di Vox ha tentato di limitare l’accesso all’aborto in diverse comunità autonome, proponendo ecografie obbligatorie e tempi di riflessione forzati. In Italia, pur senza un attacco frontale alla legge 194, la destra al governo opera per svuotarne il contenuto attraverso l’amplificazione dell’obiezione di coscienza, la promozione di associazioni antiabortiste e l’impugnazione di leggi regionali come quella siciliana. Ne risulta un aborto formalmente legale ma sostanzialmente inaccessibile per molte. Si tratta di un autoritarismo soft che però riafferma il controllo sui corpi delle donne* e delle soggettività dissidenti, in nome della nazione, della famiglia e dell’ordine sociale. Rivendicare il diritto all’aborto oggi è, fondamentalmente, un atto antifascista. Lo è perché si oppone a ogni progetto politico che mira al controllo dei corpi, alla normazione della sessualità e alla subordinazione delle donne e delle soggettività dissidenti. Durante il regime fascista, il corpo femminile era considerato un bene pubblico, destinato alla riproduzione della nazione: l’aborto era criminalizzato, la maternità imposta, la famiglia patriarcale eretta a fondamento dello Stato. In questo senso, l’aborto non è solo una questione sanitaria o di privacy individuale: è una pratica di libertà collettiva che si scontra frontalmente con ogni ideologia autoritaria.  Le battaglie femministe che hanno portato alla legge 194 hanno intrecciato, fin dall’inizio, il rifiuto della maternità obbligatoria con la critica radicale ai fondamenti sessisti e nazionalisti del potere. Oggi, di fronte alla rinascita dei discorsi sovranisti e alla retorica reazionaria sulla «natalità italiana», il diritto all’interruzione volontaria di gravidanza torna a essere una questione politica centrale della lotta antifascista. Perché chi nega l’aborto, nega la possibilità stessa di decidere su di sé – e questo è, da sempre, il primo passo di ogni regime autoritario. *Elisa Virgili è ricercatrice indipendente. Si occupa di studi di genere, teorie queer e filosofia politica. Fa parte del Centro di ricerca Politesse e della rete Gifts. Ha curato e tradotto Gaga Feminism (Asterisco edizioni, 2021). L'articolo Aborto e biopolitiche nazionaliste proviene da Jacobin Italia.
La destra all’assalto di Milano
Articolo di Tuona il cielo di Milano per uno dei tanti temporali d’agosto prima dell’assemblea dei movimenti della città fuori dalle mura del Centro sociale più famoso d’Italia, sgomberato all’alba del 21 agosto. Mentre scriviamo non sappiamo cosa deciderà l’assemblea – anche perché diluvia – ma lo sgombero attuato dalla Questura e ordinato dal Viminale, con rivendicazione del Ministro Piantedosi in persona, meriterebbe un funerale a un’epoca e a un pezzo della storia di questa «città civile». Magari un funerale festante, rigenerativo, come un atto propiziatorio per una nuova generazione di lotte e conflitto.  Qualcosa in realtà esiste ancora sotto questi cieli visto che sono proprio in maggioranza militanti di altre realtà più «giovani» come Lambretta, Kasciavit, Cantiere, Socs e Collettivi universitari a essere arrivati per primi in solidarietà davanti alle camionette di polizia e carabinieri, insieme ovviamente alla vecchia guardia «sempre presente». In tutto circa duecento persone. Qualche coro: «Leoncavallo vive», «tout le monde deteste la police», «la disoccupazione…», un Bella Ciao, ma nessuno che volesse parlare o decidere il da farsi in mancanza dei rappresentanti del Centro sociale.  C’erano «le mamme del Leoncavallo» che ovviamente si sono prestate ai media, ma per l’arrivo dello stesso storico portavoce Daniele Farina si sono attese le 13 inoltrate perché era fuori Milano. Nessuno si aspettava lo sgombero evidentemente. Nessuna presenza degli occupanti all’interno del Centro sociale. Nessuna resistenza sui tetti come fu invece per il primo sgombero estivo della storica sede di Via Leoncavallo il 16 agosto 1989 (con 26 arresti, 55 denunce, decine di feriti e la distruzione di tutti i materiali del Centro sociale da parte di carabinieri e polizia). Nessuno si aspettava lo sgombero, ma la destra, o meglio Fratelli d’Italia, continuava a chiederlo. Ed è una delle chiavi di lettura di questo evento, forse la più determinante in questo momento. La destra vuole Milano, sta provando in tutti i modi a minarne il governo, la rappresentatività, sia tagliandole risorse e progetti, sia con una pressione costante sul tema sicurezza, in concreto con le nomine di prefetto e Questore più sensibili all’agenda della destra e poi con le quotidiane campagne dei suoi media e influencer sulla «città del far west» (su cui c’è poco da strillare visto i dati in realtà in calo dei reati in città prodotti della stessa Questura).  La destra vuole colpire il sindaco Giuseppe Sala e «la sinistra» che stavano cercando una soluzione «che portasse alla piena legalità tutta l’iniziativa del Centro sociale» come scrive il sindaco in una nota imbarazzata denunciando di non essere stato informato dello sgombero nonostante, appunto, il tavolo aperto dal Comune, l’identificazione di aree per un trasloco e una prossima data fissata dall’ufficiale giudiziario per lo sgombero dell’area (il 9 settembre). La destra quindi si prende la scena e la sua vendetta sull’odiato Leoncavallo, che già la sbeffeggiava tra rap e antiproibizionismo nel 1994 con l’elezione del primo sindaco leghista di una grande città («da stasera Milano è più nera») e che da allora ne ha fatte davvero tante. Almeno fino a dieci anni fa. Una vendetta sul passato, insomma, che sembra più un atto di debolezza per questa destra che litiga su tutto mentre la città le si offre come un boccone pronto per le prossime elezioni, che però non sa cogliere tra caporali litigiosi e confusi (Salvini e la Russa in primis) e nessun comandante all’orizzonte.  Lo sgombero diventa allora una bandiera strappata, un conto regolato. Non tanto con i movimenti sociali ma con la politica: col sindaco Sala e gli esponenti del Pd milanese come Pierfrancesco Majorino, definiti «amici» del Leoncavallo. E forse in realtà toglie più castagne dal fuoco del sindaco che può continuare a ribadire «la volontà di mantenere aperta l’interlocuzione con i responsabili delle attività del Centro sociale». E poi decidere se giocarsela o meno anche rispetto ai rapporti di forza col Pd e altri alleati già complicati come mai. Perché debole è anche il governo della città e i suoi partiti tramortiti da un’inchiesta giudiziaria sull’urbanistica che per anni è stata dibattuta e annunciata in sede politica da chi metteva in guardia partiti e giunta e denunciava la distorsione compiuta della definizione di interesse pubblico nel rapporto con palazzine, volumetrie e tema casa. Adesso lo dice la magistratura con le inchieste e i provvedimenti che evocano la turbativa, l’abuso e il malaffare. D’altronde questa è una città la cui procura sequestra decine di aziende per salari da fame tra logistica, moda, sicurezza e nessuno apre una questione politica sui salari «legali» a 5-6 euro l’ora. Forse non si sono accorti? A essere onesti, però, anche il Leoncavallo era debole, finito in questo limbo da tempo, diciamo suo malgrado. Da Centro sociale autogestito a spazio pubblico, da bene occupato a bene comune, che pur riconoscendone il percorso politico, sociale, culturale ne cambia la natura e la conflittualità. Il segno dei tempi, ma anche della fine di una conflittualità gestita su spazi, moltitudini e volumi così grandi. Perché uno spazio pubblico così grande costa gestirlo (banalmente riscaldarlo), costa non poco anche legalizzarsi, costa fondare cooperative e continuare a stare sulla cresta dell’offerta culturale in un panorama a dir poco cambiato dagli anni Novanta (per non dire dei Settanta). Da verbale ci sono 30 giorni per il Leoncavallo per sgomberare tutta la gigantesca area di via Watteau con centinaia di migliaia di euro di arredi, cucine, bar, impianti oltre agli archivi e ai murales definiti di interesse storico e artistico dalle belle arti. Chi lo farà? E a che costo? Ci sono ancora cooperative, artigiani, lavoratrici dentro il Leo. Ci sono professionalità, intelligenze e così via. Cosa decideranno? In questi ultimi quindici anni, dalla giunta Pisapia, è il Centrosinistra ad aver cambiato il senso del pubblico in questa città, portandolo sempre più vicino a un’intrapresa dal carattere sociale: l’evento, la start-up, la vetrina di quartiere, il bando per lo spazio e tutta la dimensione della partecipazione sono stati declinati nello schema della partecipazione al mercato, nel funzionamento del bilancio e nel costo da remunerare. Più che aggregazione, insomma, assunzione di un rischio economico; più che spazio, impresa. In questo modo sono state ristrutturate cascine, lanciati progetti di quartieri e nuovi luoghi di aggregazione diventati in breve tempo aziende, sempre più competitive nell’offerta di drink ed eventi. E nel frattempo si sono chiusi spazi e luoghi che non stavano al passo (l’ultimo il Museo del Fumetto WoW, moroso col Comune). Da questo sgombero della destra che si vendica del passato, e del ruolo simbolico, del Leoncavallo, può però nascere una mobilitazione che ne salvi la storia e la memoria, e che apra un’altra fase, un’altra ripartenza, un’altra storia. *Claudio Jampaglia giornalista, ha lavorato in diversi giornali, riviste e radio e attualmente conduce il mattino di Radio Popolare. Come autore ha scritto libri e realizzato documentari, webdocumentari e podcast. Come comunicatore ha partecipato ai movimenti sociali altermondialisti, per l’acqua pubblica e per la pace, e attualmente collabora con Emergency. L'articolo La destra all’assalto di Milano proviene da Jacobin Italia.
Individuo, società e svolte autoritarie.
Esistono condizioni psicologiche, familiari, sociali e tecnologiche favorevoli all’instaurarsi di una forma politica autoritaria e totalitaria? Esiste un potenziale fascista in ognuno di noi oppure il “fascismo potenziale” si dà solo in presenza di una determinata struttura di personalità, quella autoritaria studiata dalla scuola di Francoforte nella prima metà del secolo scorso? Un tipo di personalità, quest’ultima, caratterizzata da un insieme di atteggiamenti, credenze e comportamenti che riflettono una forte inclinazione verso l’autorità, la disciplina e il conformismo, insieme a una tendenza a disprezzare o discriminare chi viene percepito come diverso o inferiore. Continua a leggere→