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Il modello Milano, oltre le inchieste
Articolo di Alessandro Coppola Le inchieste sulla  gestione dell’urbanistica e dell’edilizia a Milano hanno portato in primo piano il tema del governo delle trasformazioni urbane. È l’occasione per fare il punto criticamente, al di là dei risvolti giudiziari, sul cosiddetto «modello Milano» di governo urbano.  La riduzione giudiziaria dei fenomeni sociali e politici è fenomeno ormai consolidato in Italia e non è tanto funzione delle caratteristiche dell’azione giudiziaria, bensì soprattutto dei gravissimi deficit degli attori politici e culturali nel politicizzare questioni che, appunto, finiscono per politicizzarsi solo per via giudiziaria. Se invece la questione milanese intendiamo politicizzarla, possiamo muovere da diverse prospettive.  Prima di tutto, si tratta di capire chi ci ha guadagnato, da un modello di sviluppo basato sulla valorizzazione immobiliare, quali gruppi sociali sono stati coinvolti e quali esclusi. Per poi approfondire il modello di governo che ha reso possibile tutto ciò nella fase post–expo, e le possibili alternative in campo. VINCENTI E PERDENTI DEL MODELLO MILANO La prima prospettiva, ormai consolidata, è quella relativa al modello di sviluppo – o meglio dire di accumulazione – della città e degli squilibri distributivi che ha generato. Si tratta di un modello nel quale l’accumulazione per via fondiaria e immobiliare ha assunto un peso crescente fino a diventare il principale fattore strutturante dell’intera economia urbana (e più precisamente il fattore cui gli altri settori economici devono pagare un contributo crescente). Un modello che vede alcuni gruppi sociali vincenti, altri naturalmente perdenti, e nel mezzo una sempre più difficile definizione di cosa sia l’interesse pubblico, o meglio collettivo.  Fra i vincenti vi sono sicuramente le élite economiche e finanziarie che si sono riposizionate a presidio di quello che David Harvey definisce quale il secondo circuito del capitale, ovvero quello immobiliare, ma anche una parte cospicua di ceti medi e superiori che, in modi diversi, hanno potuto partecipare agli imponenti processi di valorizzazione immobiliare che si sono prodotti in questi due decenni. Infatti, il grande capitale organizzato non è come ovvio l’unico attore di questa fase dell’evoluzione di Milano, pensarlo è errore comune di rappresentazioni manichee di come si sia strutturata questa fase della traiettoria della città (e delle città). La proprietà diffusa, e in particolare quella di valore elevata concentrata fra i ceti medi e superiori che a Milano hanno un peso specifico ben più rilevante che altrove, rappresenta il lato tribunizio, di massa, di questo modello di accumulazione. Com’è ovvio, pensare che il 70% delle famiglie residenti in proprietà siano tutte parte dei vincenti, e soprattutto vincenti nello stesso modo, è infondato: fra gli stessi proprietari, a Milano e ancor di più fra questa e la sua area metropolitana, le diseguaglianze si sono allargate, complice anche un sistema fiscale che programmaticamente ignora le dinamiche di mercato. Tuttavia, non si può non considerare il vantaggio economico e simbolico che parte dei ceti medi e superiori locali hanno tratto da questa fase del capitalismo urbano. Al di là dei vantaggi finanziari, l’immaginario di una città moderna, di fatto tendenzialmente esclusiva ma simbolicamente attraente perché tecnologicamente avanzata, sostenibile alla micro-scala dell’alloggio o del vicinato, e che assicura una persistente valorizzazione degli investimenti ha avuto e tuttora esercita un forte carica egemonica su un ampio spettro di classi sociali. Ed è tale carica egemonica a rendere sempre complessa la visibilizzazione delle implicazioni negative di tale modello, anche per i ceti che ne traggono qualche vantaggio finanziario immediato.  Nel concreto, i gruppi sociali vincenti di questo ciclo li troviamo fra i proprietari di abitazioni in zone in via di forte valorizzazione – perché le avevano comprate prima, o perchè le hanno ereditate – o perché disponevano di redditi elevati o patrimoni cospicui, che hanno permesso loro di acquistare immobili che realisticamente andranno continuamente apprezzandosi nel tempo. Con un prezzo medio delle compravendite realizzate in città ormai arrivato a 400.000 Euro (Dato Omi-Agenzia delle Entrate, 2025), il disporre di un patrimonio cospicuo ha fatto di Milano – in una misura senza precedenti – la città che meglio illustra la centralità crescente dei patrimoni nella riproduzione sociale, tendenza che come noto coinvolge i capitalismi di tutto il Nord Globale ma che in Italia diventa estrema per via della stagnazione dell’economia e della dinamica dei salari.  Per restare a Milano oggi occorre essere parte dei ceti superiori oppure dei ceti medi patrimonializzati, ovvero i ceti medi che ereditano un alloggio oppure il capitale per acquistarlo: essere ceto medio dal punto di vista esclusivamente dei redditi o del capitale culturale non è più sufficiente per accedere alla proprietà. Tuttavia, e questo va sottolineato, la città proprietaria ha bisogno che vi siano popolazioni mobili per la sua stessa riproduzione e valorizzazione. E questa è la fonte principale del conflitto sociale, in gran parte implicito, fra rigidità del modello proprietario e l’altra dimensione essenziale del capitalismo urbano contemporaneo, ovvero la sua necessità strutturale sia di lavoro cognitivo sia di lavoro nei servizi a basso valore aggiunto. Lavoro che – considerate le sue condizioni di strutturale precarietà e i bassi redditi – vive invece prevalentemente in affitto. E anche, in quota consistente, non residente.  La democrazia locale quindi, non solo a Milano, è sempre più una democrazia proprietaria, che di fatto esclude centinaia di migliaia di abitanti, perché non residenti o irregolari, i quali sono prevalentemente in affitto (la base di legittimazione delle amministrazioni comunali a Milano corrisponde, fra forme di esclusione de jure e astensionismo di massa dei ceti popolari, a una frazione ampiamente minoritaria della città reale). In altre parole: tutti gli abitanti creano valore, solo una parte se ne appropria, e ancora meno decidono come governarne la creazione e distribuzione.   LA CAPITALE MORALE DELLA RIPRODUZIONE DI CLASSE PER VIA  IMMOBILIARE Su Milano si sono riversate grandi masse di investimenti immobiliari, sempre di più organizzati nella forma di tecnologie finanziarie avanzate – fra le quali, i Real Estate Investment Trust (Reit), che raccolgono capitali di diversa provenienza – ma, non dimentichiamolo, anche di una quota crescente del risparmio nazionale delle famiglie di ceto medio-superiore italiane. L’arrivo di quote crescenti di giovani qualificati ha portato con sé gli investimenti immobiliari aggregati delle loro famiglie: in un paese particolarmente familista come l’italia il cosiddetto brain-drain significa anche capital-drain intergenerazionale, da territori periferici a territori centrali. Quindi, dal punto di vista dei meri benefici finanziari che discendono dalla remunerazione dei patrimoni immobiliari, il blocco sociale del ciclo immobiliare espansivo di Milano è molto ampio e trans-scalare perché unisce una forte base locale che potremmo definire nativa, a una quota ovviamente minoritaria ma significativa di ceti medio-superiori del resto del paese e infine una serie di attori finanziari e immobiliari di medie e grandi dimensioni.  La città è diventata il terreno principale della riproduzione di classe per via immobiliare dei ceti medio-superiori dell’intero paese. Considerato il tradizionale policentrismo di quest’ultimo –  Roma, fino alla crisi del 2008, esercitava una capacità attrattiva pari o superiore a quella di Milano – si tratta di un grande fatto sociale. Sebbene, in relazione a questi ultimi, si faccia molta retorica su Milano porta degli investimenti globali, il dato forse più importante degli ultimi vent’anni è in realtà la nazionalizzazione di Milano, e in particolare della sua borghesia. Alzando lo sguardo alla scala nazionale, si capisce bene chi siano i perdenti di questo processo: gli altri territori urbani che hanno iniziato a soffrire questa sovra-polarizzazione su Milano (circostanza che spiega una crescente insofferenza, anche al Nord, fra i pezzi di borghesia che decidono di non milanesizzarsi). NON  C’È UN’UNICA STRADA PER GOVERNARE LE TRASFORMAZIONI URBANE  Se questo è vero non bisogna però commettere l’errore di sottovalutare l’impatto che i medi e grandi attori del capitale finanziario e immobiliare hanno avuto sul cambiamento del modello di governo della città.  La capacità di tale capitale di plasmare i processi sociali e organizzativi, a partire da quelli istituzionali, è stato forse il principale fattore di cambiamento della politica della città. Il capitale finanziario-immobiliare implica rapidità, tempestività, permanente capacità di adattamento, e più questo si fa tendenzialmente transnazionale – come effettivamente capitato a Milano negli ultimi anni – e più, naturalmente, è definito dalla sua mobilità, o ancora più precisamente, dalla propaganda della sua mobilità e dalla conseguente minaccia di andare altrove. Di fronte a esso, sebbene in un quadro assai costretto e con capacità d’azione assai limitata, chi controlla le amministrazioni locali può percorrere varie strade. La prima è quella di lasciare che la logica di tale capitale sia fattore egemonico di governo sgombrando il campo da quasi qualsiasi mediazione, se non quelle rimovibili solo a condizione di un deciso e risolutivo cambiamento dell’ordine politico (è il motivo per cui le petro-monarchie costituiscono il contesto ideale per il grande capitale finanziario immobiliare). La seconda al contrario è mobilitare le istituzioni locali per fare l’opposto di quanto la mobilità del capitale richiederebbe, ovvero rallentare, selezionare e diversificare. Che significa, essenzialmente, condizionarne e quindi contenderne l’egemonia: promuovendo discussioni pubbliche al fine di imporre criteri di selezione degli investimenti privati; istituendo contro-poteri istituzionali che possano contrastarne il monopolio dei processi di trasformazione urbana; imponendo forme di forte prelievo pubblico sul valore generato dalle trasformazioni urbanistiche per impiegarlo in investimenti che vadano in direzioni opposte a quelle che la sua logica di accumulazione invetiabilmente preferisce. La terza e ultima strada consiste nell’impedire loro l’accesso, preservando il monopolio di attori immobiliari di vecchio tipo – quelli che potremmo definire palazzinari relativamente localizzati e non molto finanziarizzati – o percorrendo strade molto radicali, quali quelle del congelamento di qualsiasi attività edilizia. Questa terza strada può rivelarsi problematica, perché in quanto meramente difensiva può avere effetti distributivi paradossali: avere un sistema immobiliare dominato da palazzinari tradizionali, come è il caso di altre città italiane, non è garanzia di maggiore equità distributiva, e le politiche di decrescita attraverso il congelamento dell’attività edilizia – come dimostrano molti casi specie negli Usa – si sono spesso rivelate funzionali alle strategie di preservazione del valore immobiliare e dell’esclusività sociale di città e territori. Per questa ragione, quando forze progressiste hanno ottenuto il controllo di amministrazioni locali, hanno solitamente battuto la seconda strada, diversificando il campo degli attori immobiliari in direzione del rafforzamento di attori pubblici e cooperativi, e contrastando i comportamenti speculativi sul mercato attraverso nuove regolazioni. E, attraverso tutto questo, rendendo visibili all’opinione urbana i processi dell’economia immobiliare e quindi i processi di pianificazione, al fine di renderli contendibili. Come si vede, sono queste strategie eminentemente politiche in quanto istituenti, nel senso che intendono modificare il campo degli attori e trasformare gli istituti e le logiche attraverso le quali si realizzano le trasformazioni urbane. Sono quindi strategie che affermano anche un determinato modello di governo, contestualmente a un diverso modello di accumulazione. In altri tempi, questo tipo di strategia sarebbe stata definita riformista, ma oggi sarebbe definita – specie in Italia – con pseudo-concetti quali ideologica o massimalista, circostanza che dà la misura di come si sia ristretto il campo delle opzioni politiche percepite come politicamente accettabili. Mentre, a essere definito riformista, è bizzarramente la scelta della passività politica di fronte al dispiegarsi delle logiche del capitale, piccolo, medio e grande che sia. IL POST-EXPO. MODELLI DI ACCUMULAZIONE E MODELLI DI GOVERNO A Milano, il significato del post-Expo – spesso presentato quale spartiacque delle magnifiche e progressive sorti del ciclo immobiliare ascendente – risiede piuttosto nel suo costituire la giuntura critica nella quale si è risolutamente scartata l’ipotesi di un modello di governo riformista (nell’accezione che ne ho dato sopra).  In quel frangente critico, la città – e la classe dirigente che la governava – poteva prendere strade diverse, e scelse quella che più chiaramente riconosceva l’egemonia del capitale finanziario e immobiliare vedendovi il principale fattore di sviluppo e governo della città. Ma tale egemonia aveva necessità di un modello di governo sempre più verticale e sempre più latamente tecnocratico, e facente leva da una parte su network sempre più sofisticati di attori privati, e dall’altra su una crescente tecnicizzazione degli stessi esecutivi politici. Tecnicizzazione che ha raggiunto il suo apice nel corso di questo mandato consiliare, ma che era stata già avviata in modo deciso con l’elezione di Giuseppe Sala (a suo modo un «tecnico». Questo avveniva peraltro in un contesto nel quale negli anni precedenti l’enfasi francamente liberista sul mercato e la sussidiarietà, espressione di una destra molto coesa e culturalmente attrezzata quale quella lombarda degli anni Novanta e Duemila, aveva già devoluto quote crescenti di decisioni e politiche ad attori economici professionalmente assistiti.  In questo quadro, il salto di scala – sia nazionalizzazione sia internazionalizzazione – del capitale coinvolto in operazioni immobiliari a Milano ha condotto alla formazione di attori e network con capacità organizzative e competenze largamente superiori a quelle degli attori pubblici che, nel frattempo, né si rafforzavano né si innovavano. La massa enorme di investimenti arrivata a Milano, nel solco delle politiche di sostanziale dumping promosse sia a livello cittadino sia regionale, ha così largamente ecceduto la capacità dell’amministrazione comunale di trattarli. Ed è parso naturale che una parte crescente di questi fosse devoluta – attraverso l’espansione e diversificazione di strumenti di partenariato pubblico-privato – a dei meccanismi di pressoché totale esternalizzazione e automazione decisionale, che hanno contribuito all’ulteriore svuotamente dei poteri delle istituzioni locali.  Tale svuotamento ha contribuito a indebolire la legittimità e necessità di attori collettivi, a partire dai partiti: se gli oggetti che dovrebbe trattare, avendo devoluto una quota crescente di decisioni all’esterno, si assottigliano e restringono, la politica non dispone più di una funzione chiara e in particolare della sua funzione «istituente». Il sempre più largo ricorso a funzionari o professionisti senza partito nelle amministrazioni, circostanza apparentemente paradossale in presenza di un partito di maggioranza reputato forte e radicato (a Milano), è stata una manifestazione potente di queste evoluzioni. Inserendo tecnici, professionisti ed esperti di ogni tipo – che, diversamente dalla retorica che li disincarna, sono assai incarnati in legittimi sistemi di potere – gli esecutivi politici acquisiscono non solo degli individui competenti ma anche dei network di relazione e il capitale politico che ne deriva, che come evidente non deriva dall’attività politica ma da altri tipi di attività.  Nella microfisica degli interessi questi network e capitali diventano forze potenti, molto difficili da scalfire, specie se la politica le cede il posto e se nel resto della società vi sono pochi attori e processi che ne contendano il potere. Il dato forse più rilevante nelle vicende di Milano è la scomparsa degli attori politici organizzati e della loro capacità di intervenire in modo strutturato, organizzando l’opinione e la società da una parte e dando una forma accettabile agli interessi dall’altra, nel disegno delle politiche della città. A essersi manifestata è una forma di autopoiesi della società civile, nella versione liberista che abbiamo imparato a conoscere.  LA PARTECIPAZIONE DEBOLE   Questo processo, combinato con la crescente complessificazione e oscurità dei meccanismi e degli strumenti delle politiche pubbliche, contribuiscono peraltro a  una progressiva alienazione dell’opinione pubblica – e di certi ceti e gruppi sociali in particolare – dalle scelte urbane. Tutto questo può accadere mentre le stesse amministrazioni, anche a causa dell’indebolimento degli attori politici tradizionali, investono su politiche partecipative di cui tuttavia fanno un uso molto selettivo e strategico. Amministrazioni che possiamo considerare progressiste o municipaliste promuoveranno meccanismi di partecipazione proprio sulle poste in gioco più rilevanti, e nelle quali la riproduzione del potere dei network esistenti è particolarmente potente. Governi urbani che progressisti invece non lo sono, viceversa, apriranno questi canali su poste in gioco di minore rilevanza per l’economia politica delle città e per le quali i citati network sono scarsamente rilevanti e strutturati e quindi politicamente non molto contesi. In questa diarchia, in fondo, sta la natura insorgente o non insorgente del governo urbano, che per l’appunto risiede nell’aprire o viceversa chiudere campi e network degli attori urbani.  A Milano, nonostante il cambio politico del 2011 fosse stato espressione di una significativa mobilitazione popolare, è stata scelta la seconda strada, con politiche latamente partecipative che hanno riguardato non la posta in gioco principale (l’urbanistica, il modello di sviluppo e di accumulazione della città) bensì oggetti meno rilevanti (ad esempio, alcuni spazi pubblici) e che hanno coinvolto prevalentemente i ceti medi e superiori.  All’origine delle inchieste, oltre a mobilitazioni di comitati territoriali, vi sono state anche forme di mobilitazione di singoli proprietari che hanno visto negli interventi di densificazione edilizia una minaccia per il godimento dei loro diritti di proprietà e della qualità della vità in conflitto con i diritti di proprietà di chi sarebbe andato a vivere in quegli interventi. Certo, ci sono stati gli studenti con il loro accampamento per il diritto all’abitare, nonché l’emergere di nuovi attori e mobilitazioni sulla casa che non hanno precedenti recenti, tuttavia il campo degli attori in campo appare piuttosto limitato. Quindi, la domanda fondamentale che occorre farsi è quali siano i gruppi sociali e gli interessi di cui, in negativo, si nota l’assenza in tutta la questione Milano. E non sono i cittadini, genericamente intesi. Sono soprattutto alcuni gruppi sociali – i nuovi ceti popolari, nella loro varietà e articolazione – i cui livelli di partecipazione al governo urbano sono giunti a Milano al punto più basso dal 1945 a oggi. Non è sempre stato così, e non è un destino. Ma per fare in modo che non lo sia serve un lavoro sociale e politico di grande cura e di lungo periodo. E da cui dipende la possibilità che il governo delle città assuma caratteri insorgenti e non quelli tecnocratici. Il tema dell’abitare e del governo dei processi urbani in generale rappresenta un terreno di mobilitazione e partecipazione molto difficile a cui tuttavia va riconosciuto, oggi più che mai, inevitabile centralità. *Alessandro Coppola insegna pianificazione e politiche urbane presso il Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano. L'articolo Il modello Milano, oltre le inchieste proviene da Jacobin Italia.
Pastasciutta e libri, antifascisti
Articolo di Luca Casarotti Oggi in tutt’Italia si ripete il gesto di festa della famiglia Cervi per la caduta del Crapa pelada, del Pasta e fagioli, del (non ancora, ma entro un paio d’anni) Salmone. Su queste stesse pagine Carlo Greppi ha ragionato del perché la tradizione della pastasciutta antifascista sia così viva (e qui tradizione s’intende per una volta in senso proprio e non abusivo). Qualcuno obietterà che c’è un paradosso: della pastasciutta originaria ci manca, direbbe un Aristotele antifascista, la causa finale. Che caduta possiamo mai festeggiare noi oggi, nel 2025, in tempo d’estrema destra governante e avanzante, dagli Usa a Israele, dal Giappone a mezz’Europa, isole e Penisola comprese? Ma l’antifAristotele risponderebbe prontamente:  > per intanto, la caduta del futuro Salmone di Predappio è stata la causa finale > della pastasciutta del ’43, ma non ci dimentichiamo che è la causa formale > anche del nostro pentolone odierno: senza quella, niente spaghetti a > Gattatico, e quindi niente ripetizione posteriore della prima festa. Ma anche dopo che l’antifAristotele ci ha obbligato a ripassare la sua teoria della causalità, noi restiamo col dubbio. Cosa stiamo andando a festeggiare, di preciso? Stiamo solo rievocando l’inizio palese della fine del fascismo? Certo è questo un fatto che ben merita una festa: per sé, e per tutto ciò che n’è venuto. Ma certo è pure che, in questo tornante della storia e della nostra biografia collettiva, a contorno della pasta serviamo non solo la festa, ma anche una frustrazione cocente: e noi stiamo insieme attorno a un tavolo per non dovercela inghiottire da soli, davanti a uno schermo o negli altri modi più o meno tossici in cui facciamo finta di non essere da soli.  In realtà quest’articolo non doveva parlare della pastasciutta antifascista. Doveva parlare di cosa sarebbe bene fare per non cedere del tutto al modus vivendi della frustrazione, e di libri che sostengono questo sforzo: ci arriviamo, fidatevi.  È fuor di dubbio che il leviatano di neodestra (o di destra alternativa, o quale che sia il nome della reazione contemporanea) è particolarmente antiumano e fa paura. Altrettanto indubbio è che, anche solo al livello della speranza o dell’utopia, chiunque gli si opponga ne cerca un qualche punto debole in cui attaccarlo. Un primo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti il sopra-o-sotto-valutare le forze nemiche, che appariranno dunque imbattibili nel primo caso o effimere nel secondo. Discusso, invece, è quanto peso abbia la cultura nell’apprezzamento della strategia nemica, e di conseguenza nell’ipotizzare la strategia controffensiva. Se il fascismo avesse o meno una cultura è stata a lungo in Italia una questione aperta, per ragioni molteplici. Ha pesato il giudizio di Benedetto Croce, che come tutte le posizioni crociane ha orientato in un modo o in un altro la cultura italiana novecentesca; hanno pesato le letture troppo schematiche del rapporto tra struttura economica e sovrastruttura culturale, che rischiano sempre di ridurre l’incidenza reciproca tra le due all’azione unilaterale della struttura sulla sovrastruttura, e quindi di concepire una politica culturale non all’altezza della cultura. E poi ha pesato, com’è giusto che sia, anche un motivo retorico: è stato giusto che la propaganda antifascista abbia screditato il fascismo negando tra l’altro la consistenza della sua cultura. Giusto, a patto di riconoscere questo come appunto un motivo della contesa politica, e non come un presupposto storiografico: i due domini, della politica e della storiografia, spesso s’intrecciano, e gli intrecci bisogna saperli riconoscere anche dove si celano, ma restano comunque domini distinti. Un secondo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti l’integralismo della politica, cioè la pretesa sloganistica che tutto sia politico. Pretesa a cui corrisponde l’incomprensione della (o la fuga dalla) politique politicienne, con il rischio d’esserne gabbati o inconsapevolmente fagocitati. A furia di dire che tutto è politica, sembra che solo la politica non lo sia. Dicevamo del trattamento che la cultura di destra riceve a sinistra. Non è per caso che l’indagine più originale in proposito sia venuta da uno studioso sui generis, il Furio Jesi che i cultura-di-destrologi, incluso chi scrive, non mancano mai di citare: da buon intellettuale torinese, Jesi cresce nell’ambiente fervido e di sana intransigenza antifascista che è il post-azionismo della sua città: l’ambiente dei Bobbio e dei Galante Garrone. Entra quindi nella redazione di Resistenza, il periodico dell’associazione Giustizia e libertà. Ma poi rompe con GL, quando l’associazione rimprovera alla redazione la linea innovativa impressa al giornale: istruttivo, (intendo istruttivo anche per noi, riguardo a due modi non ancora pacificati d’intendere l’antifascismo) è l’articoletto che redattrici e redattori della nuova Resistenza pubblicano su Belfagor per dar conto della frattura.  Sta di fatto che sono la dottrina onnivora di Jesi e quest’eterodossia rispetto alla generazione d’antifascisti precedente a consentirgli di eleggere l’indagine sulla cultura di destra a tema sia della sua ricerca sia della sua militanza. Non è nemmeno un caso se gli studi alla Jesi abbiano avuto pochi epigoni. Un po’ è per via dell’originalità dell’autore, che è un’originalità vera, cioè difficile da eguagliare se non per imitazione. Ciò non significa, dato che effettivamente ne sono stati scritti, che non siano stati scritti libri fondamentali sull’evoluzione della destra tra la fine del XX e l’inizio del XXI secolo. Un po’ però è anche per via dell’oggetto stesso d’indagine: la cultura di destra non è per niente retrocessa, né ha trascurato d’intonarsi ai media che la diffondono. Ma resta al fondo, in quell’area, una certa fissità del canone d’idee-forza, parole d’ordine, autori e testi di riferimento. Un conto è ritenere, erroneamente, che il fascismo e ciò che n’è disceso non abbiano una cultura, e dunque che non valga la pena occuparsene. Altro conto è ritenere, a ragione, che la cultura fascista sia esigua. Il che non esime dallo studiarla. E se forse ancora manca un lavoro che dissezioni la fase reazionaria attuale con la stessa risolutezza e ambizione teorica di Cultura di destra (ma la cultura di destra non offre molte occasioni per scriverne di nuovi, data la ripetitività di cui dicevamo), senz’altro non mancano i contributi che fanno buon uso dello strumentario fornito da Jesi per studiare qualcuno dei suoi volti. Giuliano Santoro e Wu Ming 1, ad esempio, lo hanno fatto quando hanno demistificato la serie di luoghi comuni implicati dall’enunciato «né di destra né di sinistra»; Leonardo Bianchi quando ha osservato il populismo di destra della seconda metà del decennio scorso; di nuovo Leonardo Bianchi e di nuovo, più esplicitamente, Wu Ming 1 quando hanno scritto del cospirazionismo di QAnon e di altri fenomeni paragonabili; e altri esempi ancora si potrebbero fare. L’ultimo libro di Valerio Renzi, Le radici profonde. La destra italiana e la questione culturale (Fandango, 2025), non si rifà direttamente a Jesi, non lo cita mai, anche se per certi versi lo presuppone. Non per lo stile, affatto diverso dal conoscere per citazioni che Jesi, evocando Walter Benjamin, rivendicava a sua cifra, e dagli esiti vertiginosi a cui conduceva quello stile. In comune, con la saggistica di Jesi e con altri libri d’intellettuali militanti che hanno affrontato il tema, questo lavoro ha invece almeno due intenti: confrontare le statuizioni teoriche dell’estrema destra con gli esiti pratici della sua azione culturale, e concepire l’inchiesta sulla destra insieme come un esercizio di professione e di militanza («giornalista e attivista» sono i due predicati con cui Renzi si qualifica). A riprova della fissità e ristrettezza della cultura d’area, già Jesi, che scriveva alla fine degli anni Settanta, si era soffermato su alcuni dei testi che anche Valerio Renzi opportunamente oggi prende a campione per illustrare gli orientamenti teorici della destra radicale: Orientamenti, per inciso, è il titolo di un opuscolo di Julius Evola, spesso ripetuto nei nomi dei centri studi neofascisti e nella loro pubblicistica. Un esempio sono gli scritti di Adriano Romualdi, del quale Jesi con impeccabile spietatezza rilevava, oltre al filonazismo patente, anche il più latente suo vezzo piccolo borghese, da intellettualino salottiero. Jesi ci presentava il Romualdi editore e apologeta delle SS, pure piuttosto maldestro nell’apologia; Renzi ce lo presenta, e le due facce naturalmente si coimplicano, come divulgatore Evoliano e come uno dei primi a mettere in questione la linea culturale del Movimento sociale italiano. Romualdi, tra l’altro protagonista di una delle svariate aggressioni fasciste a Pier Paolo Pasolini,  muore nel 1973. Poi, in fine di quel decennio, sarebbe venuta la generazione dei Marco Tarchi e dei Campi Hobbit, a contestare la dirigenza missina e a importare dalla Francia le indicazioni strategiche di Alain de Benoist e del gruppo che a lui fa capo, il Groupement de recherche et d’études pour la civilisation européenne (acronimo Grece, a proposito di manipolazione del mito: il francese per Grecia differisce solo nell’accentazione). Di qui lo scontro tra gl’intellettuali d’area che Renzi ben ricostruisce, sulla nostalgia del fascismo come mito incapacitante. Chissà se Marcello Pera, quando da presidente del Senato ha detto lo stesso dell’antifascismo, che appunto è un mito incapacitante, ha voluto usare di proposito la medesima espressione. Proprio l’accresciuta influenza di Benoist tra i riferimenti teorici d’estrema destra è l’aggiornamento più sostanzioso rispetto al tempo della mappatura di Jesi. Un’influenza cresciuta fino allo sdoganamento della sua presenza nel dibattito generalista: prima nella Francia degli anni Ottanta, complici Le Figaro e pure l’Académie Française; poi nell’Italia meloniana, dov’è stato ospite d’onore al Salone del libro; e negli Usa trumpiani, dov’è tra i maestri di pensiero dell’estrema destra, non diversamente da quel che succede al di qua dell’Atlantico. Un aggiornamento, rispetto alla precedente linea Spengler-Evola-Eliade, che è però più di nomi e modi di fare reclutamento che di pensiero: viene da Benoist e dai suoi la parola magica «metapolitica», che sta sulla bocca e nella penna d’ogni militante formato sul manuale del buon militante estremadestro, come quello scritto dall’ideologo di Casaggì e Azione studentesca Marco Scatarzi, Essere comunità, che Valerio Renzi esamina nel suo libro. Precisamente da questa linea, la linea del pensiero antiegualitario che da Spengler a Benoist giunge ai loro ripetitori per uso di partito (alla Scatarzi o, su altri lidi, alla Gabriele Adinolfi), deriva il differenzialismo che Renzi giustamente riconosce a tratto più marcato anche dell’odierna cultura di destra, governativa e non. Differenzialismo, cioè diversità inconciliabile, tra sessi, etnie, culture. L’opposto dell’uguaglianza, che ha nel suo fine il superamento della separazione. Il differenzialismo è davvero il tratto che dalle statuizioni teoriche si mantiene nella concreta pratica di governo della destra italiana:  le Indicazioni Valditara, nei limiti consentiti dal burocratese che conviene a un documento ministeriale (anzi, persino oltre la misura imposta dal tipo di testo), sono l’espressione programmatica di questa linea di condotta. E lo scazzo Giuli / Galli della Loggia il rivelatore contraltare comico. Per il resto, non si può fare a meno di notare che alla magniloquenza dei teorici d’area corrisponde un’arte del governo ben più triviale, ma non meno repressiva. Lo iato più vistoso, Mimmo Cangiano ci insiste molto, è tra il ribellismo antisistema vagheggiato dalla fazione spiritualista della destra e il modo in cui questa, quando diventa fazione di governo, si accomoda docilmente sotto l’ala del capitale. Ma è nel costume, o se vogliamo nello spazio delle guerre culturali, che la cultura di destra italiana si mostra retrograda in tutta evidenza. Retrograda anche rispetto al nazionalpopolare, tanto da sdegnarsi delle labbra di Rosa Chemical su quelle di Fedez nel sabato sera più visto di Raiuno. E Valerio Renzi, che coglie il suggerimento, intitola «contro Sanremo» il capitolo in cui discute del versante oscurantista dell’evo post-berlusconiano. Sì, ma perché vi ho parlato di spaghetti e di libri? Che c’entrano?  Vi potrei dire che il libro di Valerio Renzi mi è molto piaciuto: è una messa a punto esaustiva e comprensibile per i non addetti ai lavori, e un buon corso di aggiornamento per gli addetti (o un ripasso per i più secchioni). Quindi volevo parlarne. Siccome però volevo parlare anche di cose come il senso di solitudine e di frustrazione nella militanza, che almeno a me capita sempre più spesso di avvertire, ne ho approfittato per prendere due piccioni-argomenti con una fava-articolo. Ma c’è un motivo più serio dell’ego scrivente. Io sono tra coloro che pensano che la cultura di destra va studiata. È chiaro che c’è un rischio: dedicare tempo allo studio dell’avversario sottrae tempo a noi, al lavoro politico per la nostra parte, a mettere a punto una risposta che non dipenda dalla strategia altrui. Addirittura, perché succede anche questo, continuando a studiare l’avversario si potrebbe finire a subirne la fascinazione. Tuttavia resta decisivo un fatto, che è verificato dall’antifascismo storico, quello che oggi ci fa mettere sul fuoco il pentolone di spaghetti. Noi capiamo cosa vogliamo e per cosa lottiamo, a patto che ci sia chiaro, di una chiarezza sia razionale sia emotiva, cosa ci fa ritenere l’avversario un avversario. Prendiamo la mistica del martirio, del sacrificio per l’ideale quando tutto è perduto. Che ci sia del fascino nel suo retaggio romantico è difficile negare. Ma noi sappiamo che l’immagine dell’uomo tra le rovine, custode sopravvissuto della causa sconfitta, è la scena madre dell’esistenzialismo fascista dopo il ’45. Sappiamo che quell’immagine riesce consolatoria ai fascisti: sia perché, da fascisti, credono nella gerarchia ontologica tra gli uomini, sia perché dà loro un senso all’emarginazione in cui la sconfitta li ha relegati. Sappiamo, infine, quali propositi si siano ingenerati, nell’Italia del secondo Novecento, tra i devoti di quella mistica. Ragione per la quale dovremmo evitare d’accogliere con leggerezza l’esaltazione del bel gesto simbolico, o peggio del sacrificio martire (quasi sempre altrui). Un terzo carattere del modus vivendi della frustrazione è infatti l’estetica virilistica e velleitaria dello scontro per lo scontro, quando a essa corrisponde l’assoluta incapacità di sostenere il manifestarsi del conflitto reale. *Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki, è autore di L’antifascismo e il suo contrario (Alegre, 2023). L'articolo Pastasciutta e libri, antifascisti proviene da Jacobin Italia.
Cortocircuito a destra
Articolo di Valerio Renzi È difficile trovare un intellettuale italiano che si sia adoperato meglio e più di Ernesto Galli della Loggia nel favorire l’avvento della destra oggi al potere. Lo storico e firma del Corriere della Sera ha aperto la strada al revisionismo picconando il mito del partigiano con il fazzoletto rosso e della Resistenza; poi si è strenuamente battuto affinché le conquiste del Sessantotto fossero smantellate, in particolare l’università di massa e la scuola democratica, battendo sul chiodo del merito e arrivando a rimpiangere le classi differenziali. Insomma: mai più figli di operai che vogliono il figlio dottore.  Per questo gli deve essere sembrato un brutto sogno quando ieri il ministro della cultura Alessandro Giuli su X ha gridato alla censura per un’intervista rilasciata proprio al Corrierone. Il Ministro ha lamentato di come il giornale avesse omesso il suo attacco proprio a Galli della Loggia, reo di aver criticato il piccolo cabotaggio a cui si è limitata per ora la tanto decantata missione egemonica della destra sul piano della cultura. Poi ha messo da parte ogni galateo pubblicando l’intervista censurata, e addirittura la chat in cui prendeva accordi con il giornalista per concordare la pubblicazione. «Prendo sul serio la sua illuminante autodenuncia: il mio predecessore lo aveva nominato in una ‘poltrona’ di lusso, a capo della Consulta dei Comitati Nazionali, dalla quale il Prof. ha giudicato le opere di Papini, di Volpe e perfino di Gentile indegne di valore nazionale», erano le parole di Giuli che ha denunciato essere state censurate dal Corriere.  I liberali e i moderati italiani hanno così avuto la conferma di quello che già avrebbero dovuto sapere da sé. Un bagno di realtà, che dovrebbe fargli fare i conti con la propria irrilevanza. La destra destra di eredità missina non ha bisogno di loro, neanche nella forma di consulenti a titolo gratuito («Ma quale poltrona di lusso, ci ho rimesso duecento euro di taxi», ha chiosato Galli della Loggia). Lo ha chiarito con grande sincerità Alessandro Giuli che, come si dice a Roma, nun je ne po’ fregà di meno della pagella dell’editorialista del Corriere.  Galli della Loggia nel suo intervento lamentava, in buona sostanza, la mancanza di iniziative culturali di alto livello e in grado di lasciare il segno, dalla gestione della Rai alla promozione di mostre e spettacoli. Una lamentatio che sembrava non solo un bonario invito a fare di meglio che a valorizzare il proprio Pantheon coinvolgendo amici e parenti, dalla mostra sul Futurismo al film Rai sulla vita di Almerigo Grilz (su cui ha già detto su il manifesto Alberto Piccinini), ma soprattutto un invito a coinvolgere altre forze oltre le proprie esigue schiere. L’egemonia per l’editorialista si fa «avendo delle idee, delle buone idee, sapendo poi trovare le persone e i modi giusti per trasformarle in iniziative, in istituzioni, in prodotti, libri, mostre, film». Il ministro ha risposto indirettamente sempre al Corriere chiarendo di non essere contento della commissione di valutazione, anzi di fregarsene proprio pur di mettere i nomi dei suoi al posto desiderato: «Sono giunte le terne dei candidati. Nel pieno rispetto del valore professionale dei nomi proposti, mi ritengo insoddisfatto del lavoro della commissione. Valuterò se riaprire il bando, per avere un quadro completo e un valore indiscutibile dei massimi dirigenti, nazionali o internazionali che siano». Se non è il tempo dell’egemonia, è il tempo della fine della subalternità culturale della destra italiana nei confronti della destra liberale. «Caro Galli della Loggia, grazie dei servizi resi, non abbiamo più bisogno di te», è il messaggio inequivocabile. *Valerio Renzi, giornalista e attivista. Da anni scrive di destre radicali in Italia e in Europa. Il suo ultimo libro è “Le radici profonde. La destra italiana e la questione culturale” (Fandango Libri). Ha una newsletter sedestra.substack.com L'articolo Cortocircuito a destra proviene da Jacobin Italia.
Gkn, la lotta che non possiamo perdere
Articolo di Giulio Calella «Siamo alla ricerca della spallata decisiva per far cadere il muro di gomma. Ad oggi, la nostra spalla non si è rotta, ma il muro non è ancora venuto giù. Siamo condannati a provare e riprovare». Con queste parole di Dario Salvetti del Collettivo di fabbrica ex Gkn, si è aperta sabato 12 luglio, davanti a circa 700 persone, la seconda assemblea nazionale degli azionisti di Gff (Gkn for future), la cooperativa promossa dagli operai che ha un piano industriale per riprendersi la fabbrica (che produceva semiassi per automobili) e rimettere al lavoro 109 persone producendo Cargo Bike e pannelli fotovoltaici. La sera prima, con lo slogan «Resistere per Ri-esistere», un grande concerto con, tra gli altri, España Circo Este, Bandabardò e Piero Pelù, ha celebrato davanti ad alcune migliaia di persone (che alla fine hanno dato vita anche a un corteo notturno fino al sagrato della Basilica di Santa Croce) i 4 anni di quella che è la lotta più lunga della storia del movimento operaio, iniziata con il licenziamento via mail di 400 lavoratori e lavoratrici il 9 luglio del 2021.  Sembra incredibile ma, pur con difficoltà e defezioni, l’assemblea permanente dopo 4 anni è ancora lì. Quattro anni in cui quegli operai e operaie hanno bloccato per due volte i licenziamenti in tribunale, portato in piazza decine di migliaia di persone, costruito convergenza con i movimenti sociali italiani e internazionali, ispirato film e libri, portato in scena spettacoli teatrali, messo in piedi una Società operaia di mutuo soccorso con le energie solidali del territorio, organizzato tre Festival di letteratura working class, preparato insieme a ricercatori solidali un piano di reindustrializzazione dal basso ecologicamente sostenibile, raccolto un azionariato popolare di oltre un milione e mezzo di euro, e ottenuto una legge regionale che permette, attraverso un Consorzio industriale pubblico, di riprendersi la fabbrica e rimettersi al lavoro in cooperativa in forma autogestita. L’ULTIMO MURO DA ABBATTERE «Quattro anni non sono un traguardo da festeggiare, ma una ragione per indignarsi», hanno sottolineato i militanti del Collettivo di fabbrica. Perché questi quattro anni hanno mostrato non solo l’incredibile resistenza operaia ma anche l’arrogante determinazione della violenza padronale: prima con il licenziamento collettivo e poi con la volontà di sfinire la lotta per fame, senza preoccuparsi nemmeno di adempiere al giudizio del tribunale che li obbliga a pagare 15 mesi di stipendi non corrisposti. Nel frattempo il governo Meloni ha osservato la vicenda con totale indifferenza, scatenando però i propri esponenti locali con calunnie e accuse verso gli operai rimasti senza stipendio, colpevoli sostanzialmente di non essersi arresi.  Se questa incredibile lotta non ha ancora vinto è perché per loro sarebbe un precedente difficile da gestire. E perché la proprietà dell’ex Gkn, invece di presentare un suo nuovo piano industriale come avrebbe dovuto per legge, sembra perseguire progetti speculativi, o almeno così fanno pensare gli strani passaggi di proprietà dell’immobile della fabbrica, in un gioco di scatole cinesi e cambi di valore quantomeno dubbi.  A questo si aggiunge la minaccia di sgombero del presidio arrivata nei giorni scorsi dal Tribunale fallimentare che, nel più classico dei copioni, potrebbe avvenire in piena estate. Mentre le Istituzioni locali, che pure hanno appoggiato la proposta di reindustrializzazione dal basso della fabbrica, procedono nella giusta direzione ma con una lentezza estenuante.  «Ancora una volta – hanno detto sabato gli operai davanti agli azionisti di Gff – questa assemblea si svolge senza poter deliberare l’avvio del progetto. Il Consorzio è vicino, ma non ancora costituito». Al momento hanno aderito al Consorzio industriale pubblico i Comuni di Campi Bisenzio, Calenzano e Sesto Fiorentino, e il 16 luglio dovrebbe aggiungersi anche la Città metropolitana di Firenze. A quel punto il Consorzio dovrà andare dal notaio per costituirsi ufficialmente, dopodiché la Regione Toscana potrebbe compiere il passo decisivo per prendere possesso dell’immobile e metterlo a disposizione dell’unico piano industriale esistente, quello degli operai.  I tempi sono strettissimi. Non solo per la sempre più difficile capacità di resistenza degli operai, che oggi dopo 15 mesi consecutivi senza stipendio sopravvivono grazie al sussidio di disoccupazione. Sono stretti perché da un lato c’è la minaccia di sgombero del Tribunale e dall’altro incombe la fine della legislatura regionale: in Toscana si voterà il nuovo Consiglio il prossimo ottobre, e si rischia di arrivare alla campagna elettorale senza aver reso operativo il Consorzio industriale pubblico. Cosa che – sia detto per inciso – sarebbe un clamoroso autogol per la stessa maggioranza di Centrosinistra, viste le accuse arrivate da destra per i fondi impegnati per il suo avviamento. Il progetto di reindustrializzazione è invece ormai arrivato ai dettagli, con i contratti per la linea produttiva già concordati, i corsi di formazione per i lavoratori pronti e le linee di credito attivate con tre diversi istituti finanziari. Serve solo l’ultimo passo e spetta alla Regione Toscana, che lo stesso Piero Pelù dal palco del concerto ha invitato a fare al più presto ciò che si è impegnata a fare. LA PROPOSTA PER L’AUTUNNO «Se ci sgomberano, siamo sicuri che faremo una piazza cinque volte più grande di questa – ha detto Dario Salvetti dal palco di venerdì sera – Eppure sarebbe comunque una sconfitta. Di fare la parte degli eroi che vengono sgomberati a noi non frega nulla. Abbiamo solo assoluto bisogno di vincere questa lotta, ricominciare a lavorare e provare a diventare un motore di mutualismo e di un’idea alternativa di produzione». La parola «vincere» negli ultimi decenni è però diventata fantascienza per i movimenti sociali. Dall’inizio del nuovo millennio non sono mancate le lotte e i movimenti, ma quasi sempre, anche quando hanno prodotto grandi mobilitazioni di piazza, si sono ritrovate con nulla in mano. È il problema epocale del deterioramento dei rapporti di forza politici e sociali, che ha prodotto un riflusso crescente delle esperienze di attivismo e la stessa esplosione dell’astensione elettorale, con un distacco sempre più profondo tra politica e società.  Questa debolezza ha innescato anche un sempre più insostenibile circolo vizioso nelle soggettività organizzate che pure si oppongono radicalmente allo status quo: la debolezza ha infatti paradossalmente aumentato la frammentazione delle lotte e delle soggettività sociali e politiche, come se ogni iniziativa partisse già rassegnata a essere una mera testimonianza. Utile nel migliore dei casi ad aggregare nuove energie militanti, ma senza mai avere una vera strategia per ottenere, anche parzialmente, i propri obiettivi e provare così a incidere sui rapporti di forza. Per fare solo l’ultimo esempio, basti pensare alle due manifestazioni contro il riarmo dello scorso 21 giugno, che hanno marciato separate pur con piattaforme in larga parte sovrapponibili.  Se la lotta della Gkn è durata così a lungo è perché ha rappresentato un tentativo in controtendenza rispetto a questo stesso circolo vizioso che sembra non avere fine. Ha praticato e creato l’immaginario della convergenza, rigettato l’idea dell’autosufficienza, immaginato un obiettivo praticabile da raggiungere, anche quando la speranza di un nuovo piano industriale dell’azienda è definitivamente tramontata.  Se anche questa lotta, così lunga, creativa e resistente, dovesse finire senza nulla in mano sarebbe una sconfitta pesantissima per tutti i movimenti che provano a resistere alla guerra, al liberismo e alle politiche securitarie.  Dal palco del concerto di venerdì e all’assemblea di sabato sono intervenute decine di realtà, movimenti e organizzazioni che in questi quattro anni hanno solidarizzato con la vertenza della Gkn. Ma per vincere serve qualcosa di più della solidarietà.  Sarà decisiva la capacità di cogliere in modo diffuso la proposta avanzata dal Collettivo di fabbrica nell’assemblea di sabato: «Mettiamo a disposizione la nostra esigenza di mobilitazione alle esigenze di mobilitazioni più generali – hanno detto gli operai – Mettiamo a disposizione la piazza di Firenze alle decisioni delle prossime assemblee di movimento, per costruire un nuovo corteo ‘Per questo, per altro, per tutto’, sulla base delle rivendicazioni che oggi ci paiono intrecciare tutte le lotte».  Una proposta che invitano a discutere in tutte le organizzazioni e i luoghi di movimento nei prossimi mesi, perché si possa convergere in una data unitaria autunnale che abbia la forza di dare la spallata decisiva per permettere alla vertenza Gkn di vincere, alla reindustrializzazione di partire, rafforzando al contempo il rilancio di tutti i percorsi di movimento.  Del resto, Il progetto di reindustrializzazione dell’ex Gkn parla direttamente alle battaglie per la transizione ecologica, alle vertenze per l’aumento dei salari, alle mobilitazioni contro il Ddl Sicurezza che reprime chi lotta, alle esperienze mutualistiche territoriali e ai movimenti contro il genocidio in Palestina, il riarmo e la conversione bellica delle aziende automobilistiche.  Per questo, quella della Gkn è una lotta che non possiamo permetterci di perdere. Perdere qui, dopo questo lunghissimo e intenso percorso, renderebbe quanto mai difficile per chiunque trovare la forza di rialzarsi. Vincere, al contrario, sarebbe contagioso. Ed è il contagio di cui abbiamo urgentemente bisogno.  *Giulio Calella, cofondatore e presidente della cooperativa Edizioni Alegre, è editor di Jacobin Italia. Foto di Lorenzo Boffa L'articolo Gkn, la lotta che non possiamo perdere proviene da Jacobin Italia.
Da Bibbiano a Caivano
Articolo di Vincenzo Scalia La sentenza emessa dal Tribunale di Reggio Emilia, lo scorso 9 luglio, che assolve gli imputati di Bibbiano dalle accuse più gravi, arriva pochi giorni dopo che la Consulta ha bocciato per ragioni di incostituzionalità il decreto Caivano. Per il giustizialismo all’italiana rappresentano due battute d’arresto di non secondaria importanza. Per la costruzione dell’impianto securitario, che con la giustizia minorile puntava a chiudere il cerchio, colonizzando una sfera fino a poco tempo fa immune da ogni impostazione legge e ordine. Ma anche per il complottismo di cui, dietro la vicenda di Bibbiano, si era nutrito il populismo italico, presunto antisistema e di destra, arrivando ad ammorbare l’opinione pubblica. Infine, per una certa idea di famiglia che, diffusa nel senso comune, viene promossa dall’attuale compagine governativa. Si tratta di tre aspetti che meritano essere approfonditi, per disinnescarne la portata minacciosa per la convivenza civile e per gli equilibri politici stessi. Sul piano del populismo penale, il sistema giudiziario minorile italiano era rimasto per lungo tempo un’isola felice nel mare tempestoso dell’incarcerazione di massa e dei vari pacchetti sicurezza. Pur tra i limiti che lo contraddistinguevano, per esempio le differenze di risorse tra Nord e Sud e la difficoltà a tenere migranti e rom fuori dalla penalità, l’intendimento di non interrompere la crescita del minore, che ispira il DPR 448/1988 che ne regola il funzionamento, reggeva alla prova dei fatti. Fino ad essere preso a modello e studiato a livello internazionale. La Lega Nord, già nel 2002, sull’onda di alcuni delitti avvenuti nelle zone del suo bacino elettorale (come il caso di Novi Ligure), aveva tentato, attraverso il suo Guardasigilli Roberto Castelli, di abolirlo. Ma era incorsa nell’incostituzionalità. Tornata al governo nella coalizione gialloverde, aveva visto, attraverso il caso di Bibbiano, l’occasione per riproporre il suo proposito. Le accuse di plagio, sottrazione di minori, abusi, mosse dalla magistratura agli operatori di una cooperativa locale e agli amministratori locali, erano parse l’occasione giusta. I grillini, allora partner di governo, spalleggiavano l’intento leghista, beneficiando dell’allarme sociale diffuso dagli imprenditori morali mediatici. Parlateci di Bibbiano era diventata una parola d’ordine, che creava convergenze non soltanto tra le file della coalizione gialloverde, ma anche presso l’allora opposizione di Fratelli d’Italia. L’attuale premier si era fatta riprendere davanti al cartello della cittadina emiliana, ripromettendosi di intraprendere e terminare un lavoro. In seguito allo scoppio della pandemia, l’autostrada securitaria aperta dal caso di Bibbiano era stata solcata da altre iniziative di panico morale, relativamente ai minori. A partire dalla serie televisiva Mare Fuori, si era diffusa la convinzione che la devianza minorile fosse il nuovo problema dell’Italia odierna, e che il sistema penale minorile fosse troppo lassista nei confronti dei minori autori di reati. In realtà, come avviene da anni, si cercava di rispondere al disagio giovanile amplificato dalla pandemia, la questione degli italiani senza cittadinanza (ovvero i figli e nipoti di migranti nati e cresciuti in Italia), attraverso la risorsa penale. Dalì a Caivano, il passo era stato breve, con lo smantellamento dell’istituto della messa alla prova, previsto proprio per i minori autori di reati gravi. Sulla rotta securitaria Bibbiano-Caivano, tuttavia, si colloca anche lo sviluppo delle narrazioni complottiste che avrebbero alimentato una parte consistente dell’opinione pubblica italiana durante la pandemia. Nella versione pentastellata, il circolo vizioso della corruzione tra esponenti politici, del mondo cooperativo, del sistema giudiziario minorile, rappresenterebbe l’epifania della corruzione sociale e morale che corrode un tessuto altrimenti sano e bisognoso di improbabili e imprecisati ritorni alla natura. Nella narrazione leghista e di estrema destra, lo stesso circolo vizioso nasconderebbe manovre occulte votate ad alterare i naturali equilibri della società. Lo stesso nome attribuito dalla magistratura reggiana all’inchiesta, Angeli e Demoni, allude a una dimensione soprannaturale, diabolica, dove la purezza delle famiglie, l’innocenza dei bambini, sarebbero corrotte e minacciate dalla cattiveria senza scrupoli di assistenti sociali, psicologi e amministratori. Gli stessi che, poco dopo, avrebbero costretto la popolazione ad assumere dei vaccini dal contenuto misterioso, ancorché di dubbia efficacia. L’inchiesta reggiana forniva l’occasione per porvi rimedio, iniziando un percorso di riappropriazione della purezza originaria. È in questo contesto che si innesta il terzo aspetto della vicenda di Bibbiano, che aveva trovato nel decreto Caivano il suo culmine. La narrazione giustizialista pentastellata condivide con quella leghista la convinzione che la severità delle leggi, l’irrogazione seriale di sentenze di condanna, proteggano dai pericoli dell’ambiente esterno un mondo altrimenti sano nella misura in cui fa della famiglia tradizionale il perno delle relazioni sociali. Si tratta di una convinzione assolutamente errata, che si rifiuta di fare i conti con la realtà. L’80% dei reati di genere, dalle violenze sessuali ai femminicidi, avvengono all’interno di contesti familiari o vengono commessi da partner o da ex-partner. Allo stesso modo, gli atti di pedofilia, in due terzi dei casi, hanno luogo tra le mura domestiche, con parenti prossimi ed amici pronti a commettere abusi a danni dei minori. L’idea che la famiglia angelica vada protetta dalle insidie degli influssi malefici di psicologi e assistenti sociali, oltre ad essere storicamente superata (anche De Amicis e Collodi valorizzavano le figure esterne alla famiglia), è anche profondamente infondata. Dall’altro lato, però, continua a sorreggere l’impalcatura ideologica di chi fa del Family Day la sua bandiera, rifiuta di approvare le leggi sul fine vita, mette i bastoni tra le ruote all’aborto e all’autodeterminazione delle donne, vede i consumatori di sostanze come l’emblema del degrado morale, si scaglia lancia in resta contro le unioni dello stesso sesso. I minori, in quanto categoria sociale marginale, caratterizzati dalla personalità fluida e dalla cospicua presenza di migranti e rom tra le loro schiere, sono visti come il cavallo di Troia attraverso cui introdurre narrazioni tradizionaliste e provvedimenti giustizialisti. Si tratta di un progetto di società al momento egemone, anche grazie alla sponda solida che gli fornisce l’industria mediatica, che si alimenta di sangue e paura per guadagnare audience e attrarre inserzioni pubblicitarie. Ci troviamo di fronte a una deriva morale e civile, contro la quale bisogna costruire al più presto argini solidi e duratura. Questa volta ci hanno pensato i giudici di Reggio Emilia e la Consulta. La prossima volta potrebbe non bastare, senza la presa di consapevolezza e la mobilitazione di quei settori della società civile che ancora sono convinti della bontà della separazione dei poteri, del principio di innocenza, del welfare State, e soprattutto, della Costituzione. Sarebbe anche il caso che chi voleva parlare di Bibbiano chiedesse scusa. Ma non lo faranno. Le autovetture che solcavano l’autostrada securitaria tra Bibbiano e Caivano sono finite in un testacoda. Facciamo in modo che la prossima volta non abbiano a percorrere nemmeno un sentiero sterrato. *Vincenzo Scalia è professore associato in Sociologia della devianza presso l’Università degli Studi di Firenze. Si occupa di carceri, criminalità organizzata, abusi di polizia. Ha insegnato e svolto ricerca in Messico, Argentina e Inghilterra. Il suo ultimo libro è Incontri troppo ravvicinati? (manifestolibri, 2023) L'articolo Da Bibbiano a Caivano proviene da Jacobin Italia.
Il salto di qualità
Articolo di Giuliano Granato, Salvatore Cannavò Cinque agenti di polizia infiltrati nell’organizzazione giovanile che fa riferimento a Potere al popolo, spiegazioni pasticciate da parte del governo in risposta a interrogazioni parlamentari, una vicenda che getta un’ombra sul rapporto tra governo e società civile e che evoca un clima di repressione generalizzata che pesa sui movimenti sociali. Parliamo di quel che è accaduto con Giuliano Granato, che di Potere al Popolo (PaP) è il portavoce. Cosa è successo esattamente? Rispondendo in aula il sottosegretario all’interno Emanuele Prisco ha detto che non c’è stata «nessuna operazione sotto copertura, nessuna infiltrazione in partiti e movimenti politici, ma soltanto l’adempimento dei propri compiti istituzionali nel pieno rispetto della legge». Partiamo dalla fine di questa vicenda e vedremo che le cose appariranno, per quanto possibile, molto più chiare. A fine giugno, quando viene pubblicata l’inchiesta definitiva di Fanpage scopriamo che cinque poliziotti sono infiltrati in un partito politico. Il fatto è gravissimo e smentisce le prime ricostruzioni molto qualificate che avevano cercato di sminuire la vicenda derubricandola in modo semplicistico. Prima si era parlato di una «libera iniziativa» e poi, addirittura, di una conseguenza di un episodio di «innamoramento» che aveva portato un agente a frequentare le nostre sedi. Invece i documenti dimostrano che l’operazione di infiltrazione è stata pianificata dall’alto, direttamente dagli uffici centrali. Ma soprattutto che i cinque agenti non sono stati infiltrati semplicemente in alcuni movimenti giovanili e studenteschi ma in quei collettivi legati organicamente a un partito politico, Potere al popolo. Il sottosegretario Prisco ha affermato che gli agenti partecipavano solo a iniziative studentesche o pubbliche ma si tratta di un falso: abbiamo visto quei poliziotti sia all’assemblea nazionale di PaP e poi presenti in chat e in mailing list private. La ricostruzione di Prisco fa acqua da tutte le parti, l’unica cosa esatta che ha raccontato è l’ammissione dell’infiltrazione. Voglio anche aggiungere che a diverse settimane dalle denunce noi stiamo aspettando ancora una presa di posizione dei Rettori delle università coinvolte: possibile che accettino una cosa simile nei loro atenei? Come ve ne siete accorti? Tutto è scaturito dal primo infiltrato, quello di Napoli, a Roma infatti il progetto è fallito perché la persona era sembrata un po’ «eccessiva», troppo attiva e troppo visibile. A Napoli invece l’agente infiltrato è stato individuato perché non faceva la minima vita sociale. Era presente a tutte le iniziative, un militante super assiduo, come è raro trovare in questi tempi, presente a tutte le iniziative in tutti i giorni della settimana, dal lunedì al venerdì. Ma nei momenti di vita sociale del fine settimana non c’era mai. In occasione del Primo maggio, poi, è stato individuato insieme a persone in giacca e cravatta dopo la manifestazione mattutina. A quel punto lo abbiamo incontrato per chiedergli di allontanarsi. Ha fatto finta di niente, chiedendoci il perché di quella richiesta. Ha poi telefonato a un attivista per chiedere spiegazioni: a quel punto siamo stati noi a chiedergli spiegazioni su una sua foto in divisa mentre prestava giuramento… Insomma, ci sono stati dei segnali che ci hanno allertato, abbiamo svolto un lavoro di verifica, confermando che in effetti si trattava di agenti sotto copertura, a differenza di certe ricostruzioni apparse su molta stampa. È vero, si sono presentati pubblicamente con nome e cognome, ma su tutti i social non è stata mai dichiarata la loro reale professione. Forse hanno imparato dall’esperienza spagnola, dove nelle diverse infiltrazioni la prassi è stata quella di presentare i poliziotti con i loro veri nomi modificando alcune lettere dei cognomi e creando ex novo i profili social. Al di là del clima di repressione generale, esplicitato da misure come il Decreto Sicurezza, vi siete dati una spiegazione più puntuale di questa iniziativa della polizia? La verità la può sapere solo chi ha ordinato queste infiltrazioni. La nostra ipotesi è che l’obiettivo vero dell’iniziativa è l’organizzazione. Siamo in un paese in cui è formalmente permesso tutto, anche l’indignazione spontanea che tra tante difficoltà viene comunque tollerata. Ma il problema è dato dalla costruzione organizzativa. PaP, pur con i suoi limiti, ha organizzazioni giovanili con una loro forza, che sono cresciute e che tiene dentro sia il terreno politico-elettorale che quello sociale. Dal mutualismo conflittuale alla presenza nelle piazze cerchiamo di tenere insieme questi due aspetti. Non si tratta di una grande organizzazione, lo sappiamo. Ma quell’infiltrazione, più che il prodotto di un’operazione da «agenti provocatori», aveva un’ambizione da medio lungo periodo. E si lega a cambiamenti normativi prodotti dal governo.  L’operazione va dunque inquadrata nel clima più generale di repressione? Va detto innanzitutto che assistiamo a trasformazioni che vengono da decenni e penso che dovremmo chiederci meglio cosa sia lo Stato autoritario moderno. Pensiamo anche alle altre operazioni come lo spyware israeliano contro attivisti e giornalisti. E riflettiamo sul fatto che lo spionaggio contro Mediterranea è cominciato con il governo Conte. Quindi non è solo l’ultradestra che porta al governo una torsione autoritaria. C’è una dinamica di fondo che va in quella direzione come dimostrano le riforme istituzionali che tutti gli schieramenti provano costantemente a realizzare. Poi, certo, c’è il salto quantitativo e qualitativo di questo governo come dimostra lo spionaggio contro Fanpage, l’infiltrazione in un partito politico, la criminalizzazione mediatica del dissenso e soluzioni normative come il Dl Sicurezza. Se aggiungiamo anche l’attacco sistematico al diritto di sciopero abbiamo l’idea di quanto questo governo abbia una concezione autoritaria, al limite del ripristino dell’assolutismo che vuole il sovrano sciolto dal controllo dei cittadini.   Eppure non c’è una situazione di conflittualità particolarmente dirompente: perché tanta paura in un momento di lotte molto parcellizzate e senza reali movimenti di massa? Il problema è che il conflitto è insopprimibile e non è detto che dalle varie forme spurie non emergano modalità che mettano in discussione gli assetti esistenti. C’è un diffuso timore del domani, di quello che potrebbe avvenire e quindi si reprimono anche le battaglie che possono sembrare piccole. Pensiamo al tentativo della Commissione di garanzia sugli scioperi di bloccare la protesta contro l’invio di armi avvenuta a Brescia, il fastidio con cui vengono affrontate le mobilitazioni dei portuali: segnali preoccupanti che dimostrano un regime di guerra anche se non ci troviamo dentro una guerra «guerreggiata». E chi si oppone va neutralizzato. Questa situazione comporta un giudizio molto negativo sul governo e sulla natura delle destre. Non si pone per voi un problema di unità d’azione, ampia, ramificata? Il nostro obiettivo strategico è costruire un campo popolare autonomo dal bipolarismo perché traiamo l’esperienza concreta dai governi anche di Centrosinistra, pensiamo al Jobs Act… E pensiamo anche ai problemi di fondo che ha il Centrosinistra sul riarmo. Se guardiamo le dichiarazioni dei vari esponenti politici che pure scendono in piazza in varie manifestazioni, vediamo la strategia di rifiutare il riarmo di von der Leyen perché si svolgerebbe solo su base nazionale con la proposta di spingere sul riarmo in chiave europea. A proposito di manifestazioni, il 21 giugno c’è stato un corteo promosso da tante forze sociali e associative che è stato abbastanza netto sul riarmo, eppure avete promosso una vostra piazza alternativa: anche lì la divergenza era insanabile? Noi ci saremmo stati a fare un’unica manifestazione purché ci fossero parole d’ordine che nominassero i nemici della pace. Non nominare l’Alleanza atlantica significa spingere sul riarmo. Noi facciamo parte della rete Disarmiamoli e quella deve essere la prospettiva.  Il vostro progetto quindi è oggi quello di una costruzione autonoma e autocentrata? Noi lavoriamo per un’alternativa al bipolarismo e sia sulle elezioni del 2027 che alle Regionali ci presenteremo alternativi sia alle destre che al Centrosinistra. Disposti a farlo anche con altri partiti che accettino di rompere con il Centrosinistra. *Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme). L'articolo Il salto di qualità proviene da Jacobin Italia.
La «bella» legge di Trump e i sacrifici bipartisan
Articolo di Evelyn Quartz Circondato dai membri Repubblicani del Congresso, Donald Trump ha celebrato il 4 luglio firmando una legge per tagliare l’assistenza sanitaria e i sussidi alimentari a milioni di americani per finanziare i tagli alle tasse aziendali. I Democratici hanno risposto con indignazione morale, messaggi perbene e palese opportunismo politico. Dopo che il leader della minoranza alla Camera Hakeem Jeffries si è espresso per oltre otto ore contro il disegno di legge, il Comitato per la Campagna congressuale Democratica ha risposto non contrapponendo una diversa morale, ma condividendo una lusinghiera foto di Jeffries con la didascalia: «Hakeem Jeffries è il leader che l’America merita». E poco dopo l’approvazione della legge, leader e opinionisti liberal hanno iniziato a incanalare l’indignazione pubblica nella strategia della loro campagna. La capogruppo Democratica alla Camera Katherine Clark ha dichiarato: «Il Progetto 2026 inizia oggi». Jen Psaki, ex addetta stampa di Biden ora conduttrice della Msnbc, ha osservato che il disegno di legge «ricorda molto le elezioni di medio termine dell’ultima volta che Trump era presidente», ricordando come i Democratici abbiano guadagnato terreno nei distretti Repubblicani cavalcando l’ondata di reazioni negative alle politiche di Trump. È così che spesso funziona oggi la politica Democratica: non come una forza che si oppone alla crudeltà, ma come una macchina per gestirla. Il partito tratta la sofferenza di massa non come una risorsa per il cambiamento, ma come carburante per le prossime elezioni. Mentre i Repubblicani hanno firmato questa specifica legge, la scomoda verità per i Democratici è che anche loro hanno contribuito a preparare il terreno per questa crudeltà attraverso decenni di logica di mercato bipartisan che ha smantellato la rete di sicurezza sociale. Nessun equivoco: è innegabile che i Repubblicani siano i principali colpevoli. Come partito, da tempo considerano la povertà non un problema da risolvere, ma un fallimento morale da punire. Questo disegno di legge ribadisce questa logica, introducendo rigidi requisiti lavorativi per i servizi sociali di base, che stigmatizzano i poveri e limitano gli aiuti ai più disperati. Si prevede che il risultato, approvato attraverso i ranghi del partito, eliminerà la copertura Medicaid per quasi 12 milioni di persone e taglierà drasticamente gli aiuti alimentari, in un momento in cui inflazione, precarietà abitativa e debito sanitario affliggono già le famiglie della working class in tutto il paese. È una dichiarazione che i poveri sono sacrificabili, che l’austerità è patriottica e che nell’America di Trump, la crudeltà è la parola d’ordine. Trump avrebbe dovuto segnare la fine del consenso neoliberista. Aveva promesso di essere l’outsider dirompente che avrebbe distrutto l’ortodossia dell’establishment. Ma questa legge è una continuazione, seppur più spietata, dello stesso progetto che lui stesso aveva dichiarato di respingere. Per decenni, radicati nella Reaganomics, entrambi i partiti hanno sostenuto un modello di governo che tratta la povertà come un fallimento personale, i servizi pubblici come passività e la crescita del mercato come il bene supremo. Eliminare quel poco che resta di quella rete di sicurezza per finanziare agevolazioni fiscali per i ricchi non è una deviazione dallo status quo bipartisan, ne è la logica conclusione. Mentre i ricchi e l’élite aziendale raccolgono miliardi di dollari in sussidi, le famiglie in difficoltà si troveranno ad affrontare dispense vuote, farmaci scaduti e scelte impossibili. È un ritorno alla logica più spietata della governance di mercato: affamare il pubblico per sfamare il privato. E così facendo, svela qualcosa di più profondo: non solo un fallimento della politica, ma il fallimento di una classe politica che non crede più in nulla che vada oltre la sopravvivenza. LA RETE DI SICUREZZA SOCIALE STATUNITENSE Ciò che colpisce non è solo la crudeltà del disegno di legge; è che questo risultato è stato reso possibile da decenni di consenso bipartisan. Per anni, entrambi i partiti hanno trattato l’assistenza sanitaria non come un diritto, ma come una merce – qualcosa da gestire dal mercato, con il governo che agisce come partner delle assicurazioni private piuttosto che come garante dell’assistenza. Invece di affrontare un modello basato sul profitto, i Democratici si sono uniti ai Repubblicani nel concentrarsi su soluzioni basate sul mercato che preservino il primato dell’assicurazione sanitaria privata. L’Affordable Care Act, spesso acclamato come il risultato più significativo del Presidente Barack Obama, ne è un esempio lampante. Presentato come un’importante espansione dell’assistenza sanitaria, in realtà si è trattato di un accordo pubblico-privato elaborato in consultazione con il settore assicurativo. L’opzione pubblica, inizialmente sostenuta da Obama e da molti Democratici, è stata abbandonata dopo la feroce opposizione di stakeholder aziendali come l’American Medical Association, un potente gruppo di pressione dei medici. Al contrario, le compagnie assicurative hanno ottenuto nuovi clienti, i loro profitti sono stati protetti e il potere strutturale del settore privato è rimasto sostanzialmente incontestato. E nonostante le insistenti richieste di adottare una versione di assistenza sanitaria universale, Joe Biden ha reso inequivocabile la sua posizione sul Medicare for All durante la sua campagna presidenziale del 2020. «Se riuscissero a far passare [Medicare for All] per miracolo… allora bisognerebbe considerare i costi – ha detto – Voglio sapere, come hanno trovato 35 miliardi di dollari? Cosa stanno facendo? Aumenteranno significativamente le tasse sulla classe media?». Ha proseguito: «Porrei il veto su qualsiasi cosa che ritardi la fornitura della sicurezza e della certezza di un’assistenza sanitaria disponibile ora». In un paese in cui il debito sanitario è la principale causa di bancarotta, Biden non ha messo in discussione il costo del sistema attuale; lo ha difeso. In base a questa visione del mondo, l’assicurazione basata sul mercato è la norma per la maggior parte degli americani, mentre Medicaid è riservato a chi vive in condizioni di povertà estrema. Il Big Beautiful Bill di Trump è particolarmente crudele non perché rappresenti un’eccezione, ma perché è il risultato di un consenso bipartisan che si rifiuta di trattare l’assistenza sanitaria e altri beni di prima necessità per una vita dignitosa come servizi pubblici. Questo disegno di legge taglia il Medicaid e il Programma di assistenza nutrizionale supplementare (Snap) imponendo requisiti lavorativi più severi, nonostante decenni di prove dimostrino che queste norme contribuiscono poco a migliorare l’occupazione e danneggiano in modo sproporzionato le persone con disabilità, i caregiver e chi ha un lavoro precario. Queste stesse misure punitive erano state promosse durante l’era Clinton. E anziché mettere in discussione l’idea che l’assistenza sanitaria debba essere guadagnata con il lavoro, il disegno di legge la rafforza, riecheggiando la verifica dei mezzi e la logica di mercato dell’Affordable Care Act. Entrambi i partiti hanno accettato un quadro normativo in cui solo i più poveri meritano assistenza, e anche in quel caso, solo sotto sorveglianza. La crudeltà di Trump è certamente peggiore, ma l’architettura è stata costruita molto prima del suo insediamento. Ciò che raramente viene menzionato dai leader politici è quanto sia diventata difficile la vita per la working class. Per un adulto single che vive nella settima contea più povera degli Stati uniti – la contea di Holmes, Mississippi – l’Economic Policy Institute stima un reddito minimo di circa 42.440 dollari all’anno. Al contrario, il reddito familiare mediano è di soli 28.818 dollari. L’Affordable Care Act imponeva agli Stati di estendere l’ammissibilità a Medicaid per gli adulti con un reddito fino al 138% della soglia federale di povertà, ovvero circa 20.780 dollari a persona o 35.630 dollari per una famiglia di tre persone. La legge è solo leggermente più generosa per donne incinte, bambini, anziani e disabili. Queste condizioni – soggette a verifica dei mezzi, complesse e specifiche per ogni Stato – sono la silenziosa realtà della rete di sicurezza sociale americana: un sistema frammentato che costringe le persone a dimostrare di essere abbastanza povere da meritare assistenza, lasciando milioni di persone appena al di sopra della soglia a cavarsela da sole in un mercato predatorio. Eppure questa crudeltà strutturale raramente entra nel dibattito politico mainstream. I Democratici continuano invece a difendere un sistema che hanno contribuito a progettare, trattando modeste espansioni come vittorie morali ed evitando di fare i conti con il loro costo umano. Abbiamo già visto cosa può fare un approccio più espansivo alla rete di sicurezza sociale. Durante la pandemia, l’American Rescue Plan dell’amministrazione Biden ha rafforzato l’accesso all’assistenza sanitaria, all’assistenza alimentare e ad altri supporti finanziari come il Child Tax Credit. Di conseguenza, la povertà infantile è diminuita del 30%. Questo avrebbe potuto essere l’inizio di qualcosa di diverso, di migliore. Ma questi progressi sono stati trattati come eccezioni di emergenza, non come una nuova base di partenza. Quando la crisi sanitaria si è placata, anche l’ambizione si è placata. Con la scadenza dell’ampliato Child Tax Credit, altri 3,7 milioni di bambini sono caduti in povertà. Lo scongelamento delle iscrizioni a Medicaid ha portato a un incubo burocratico, con la conseguente cancellazione dal programma di oltre 25 milioni di persone. La situazione di povertà negli Usa non è mai stata considerata un’emergenza in sé, ma solo un problema da gestire quando ha minacciato la stabilità politica. Ora, mentre i Repubblicani tagliano il Medicaid e gli aiuti alimentari, i Democratici piangono la perdita di una rete di sicurezza sociale che loro stessi si sono rifiutati di ampliare in modo significativo quando ne hanno avuto la possibilità. COMPLICITÀ MASCHERATA DA STRATEGIA La verità è che al Partito democratico non mancano le idee: manca la volontà. Più specificamente, gli manca il coraggio politico di svincolarsi dalla sua schiacciante dipendenza dal denaro sporco di donatori aziendali che traggono enormi profitti dallo status quo. Ad esempio, il settore assicurativo privato ricava enormi profitti da cure inaccessibili e debiti sanitari. Inoltre, rimane profondamente radicato nell’infrastruttura politica del partito. Nelle ultime due tornate elettorali presidenziali, le aziende farmaceutiche hanno erogato più fondi ai Democratici che ai Repubblicani. A loro volta, i leader Dem continuano a difendere un sistema fondato su frammentazione, privatizzazione e precarietà. Programmi come Medicaid vengono trattati come il limite massimo della responsabilità del governo, non come il limite minimo. Il risultato è una classe politica che si rifiuta di affrontare la causa principale di enormi sofferenze. Parte del progetto politico dei Democratici nell’era di Trump è stato quello di definirlo come l’unica fonte del male politico, piuttosto che un sintomo del marciume più profondo creato da decenni di austerità bipartisan. In questa prospettiva, Trump diventa l’aberrazione e i Democratici gli adulti responsabili presenti nella stanza. Riforme strutturali come Medicare for All vengono liquidate come troppo divisive o irrealistiche, nonostante il 63% degli adulti statunitensi affermi che il governo ha la responsabilità di fornire copertura sanitaria a tutti. Nel frattempo, solo il 30% degli statunitensi ha attualmente un’opinione favorevole dei Democratici al Congresso. La discrepanza non potrebbe essere più evidente: il partito insiste sulla cautela e sull’incremento graduale, anche se l’opinione pubblica chiede qualcosa di più audace e umano. Sì, il Partito repubblicano è crudele. Questa legge ne è la prova: un atto deliberato di violenza mascherato da un marchio patriottico, approvato in una festività che celebra la libertà. Privare milioni di persone di cibo e cure mediche non è governo, è punizione. E rivela la convinzione di lunga data del Partito repubblicano che i poveri debbano essere disciplinati, non sostenuti; che la sopravvivenza debba essere guadagnata, non garantita. Ma i Democratici hanno contribuito a costruire il sistema in cui questa crudeltà è possibile. Hanno trattato la scarsità della rete di sicurezza non come un’emergenza, ma come la norma. Agitano i bordi di un sistema in rovina, per poi mostrarsi sconvolti quando i Repubblicani ne infrangono le fondamenta. Questa non è un’opposizione significativa: è una collaborazione decennale nella gestione del declino. Durante il fine settimana festivo, i fuochi d’artificio hanno illuminato il cielo, mentre milioni di persone si preparavano alla perdita dell’assistenza sanitaria e degli aiuti alimentari. Il Comitato per la Campagna Democratica al congresso ha risposto non con indignazione o visioni alternative, ma con grafici, evidenziando quali Repubblicani incolpare, quali seggi ribaltare, quale messaggio testare successivamente. I Democratici ci hanno mostrato chi sono: un partito che difende la macchina del declino in modo più elegante. Preservano i termini di un consenso bipartisan che punisce i poveri e protegge i potenti. Non lottano per la trasformazione. Non offrono una visione di giustizia. Offrono una versione più silenziosa dello stesso abbandono. Questa non è resistenza. È complicità mascherata da strategia. E nessuno dovrebbe essere incoraggiato a sostenerla. *Evelyn Quartz ha lavorato in uno staff di Capitol Hill. Questo articolo, uscito su JacobinMag, è stato pubblicato per la prima volta da Lever, una pluripremiata redazione indipendente di giornali investigativi. La traduzione è a cura della redazione. L'articolo La «bella» legge di Trump e i sacrifici bipartisan proviene da Jacobin Italia.
APPELLO PER LA SALVAGUARDIA E LA RIGENERAZIONE DEI PAESI
Il 9 aprile scorso la Cabina di regia, istituita presso il Dipartimento per le politiche di coesione e per il Sud della Presidenza del Consiglio, ha approvato il Piano Strategico Nazionale delle Aree Interne. Lo ha fatto senza una … Leggi tutto L'articolo APPELLO PER LA SALVAGUARDIA E LA RIGENERAZIONE DEI PAESI sembra essere il primo su La Città invisibile | perUnaltracittà | Firenze.
Il sindacato che sta con Zohran
Articolo di Elisabetta Raimondi Dopo la batosta inflittagli da Zohran Mamdani,  l’ex governatore Andrew Cuomo continua a tacere sulla sua eventuale corsa per diventare sindaco nelle elezioni generali di novembre, alle quali può accedere essendo registrato sulla scheda elettorale con la lista indipendente Fight and Deliver. Il suo silenzio è pari a quello che molti big dell’establishment Democratico hanno adottato verso Zohran Mamdani, quasi come la sua vittoria non avesse scatenato un terremoto di proporzioni internazionali.  Per la verità qualche Dem su Mamdani il silenzio l’ha rotto, ma solo per contestarlo o dare vergognosa risonanza, attraverso insinuazioni più o meno velate, alle accuse di antisemitismo e di fondamentalisno islamico diffuse dalla destra trumpiana. Due esempi su tutti: il soporifero leader di minoranza della Camera Hakeem Jeffries – uno dei massimi beneficiari dei finanaziamenti della  lobby israeliana Aipac – secondo il quale Mamdani «deve convincere la gente di esser disposto a combattere aggressivamente l’insorgere dell’antisemitismo nella città di New York» e  la senatrice Kirsten Gillibrand che, dopo aver condannato Mamdani per presunti «riferimenti alla jihad globale», ha dovuto chiedegli scusa.  Fortunatamente però ci sono persone e soprattutto organizzazioni che, pur avendo votato per Cuomo alle primarie, si sono subito schierate con Zohran Mamdani, incuranti del fatto che Cuomo possa correre di nuovo nelle elezioni generali. Ad esempio due dei sindacati più  influenti con un patrimonio di iscritti vastissimo come l’Hotel and Gaming Trades Council (Htc), che affilia l’ampia gamma dei lavoratori del settore, e il Seiu32bj, i cui affiliati sono soprattutto custodi, portieri, addetti alle pulizie, lavoratori aeroportuali, personale della sicurezza.  Mercoledì 2 luglio l’Htc e il Sieu32bj, insieme ad altri due importantissime organizzazioni che si erano astenute dal dare endorsement alle primarie, la Nurse Association dello Stato di New York e il Central Labor Acting Council – una enorme federazione di cui fanno parte più di 300 sindacati – hanno organizzato una conferenza stampa con Zohran Mamdani per ufficializzare il loro sostegno al neo eletto candidato Democratico. È stata una festa vera e propria, soprattutto per l’entusiasmo con cui Zohran è stato accolto dai tanti lavoratori e lavoratrici presenti, persone delle più varie età ed etnie, soprattutto di origini asiatiche e latino-americane. Per molti di loro, specie tra i più giovani, le indicazioni dei propri sindacati non sono servite a molto, visto che la loro scelta era ricaduta su Mamdani anche alle primarie. «Io ho votato per Zohran» ha raccontato una ragazza di soli 19 anni iscritta all’Htc mentre altre giovanissime vicine a lei dicevano di aver fatto altrettanto. «Il sindacato può dare le indicazioni che vuole e fa bene a farlo, ma ciascun iscritto ha diritto alla propria scelta. Ciascuno di noi ha una testa pensante e non si deve sentire obbligato a seguire delle decisioni prese dall’alto se non è d’accordo. Molti giovani come me hanno scelto Zohran, credo che le persone più anziane abbiano preferito Cuomo per sentirsi più sicure con qualcuno che conoscevano già e da cui in passato hanno avuto alcuni benefici».   Comunque, considerando il modo in cui Cuomo ha esercitato il potere nei suoi incarichi da governatore, durati 11 anni prima delle dimissioni rassegnate nell’agosto del 2021 per scandali sessuali, un modo che si basava su relazioni di potere/dipendenza/ricatto – come ben descritto da Ross Barkan nel libro The Prince in cui Cuomo è assimilato al principe machiavellico – è ipotizzabile escludere che non tutti i sindacati che gli hanno dato l’endorsement in prima battuta l’abbiano fatto per motivi ideologici e di reale gradimento, ma piuttosto per il timore di inimicarsi, a discapito dei lavoratori, una persona vendicativa come l’ex governatore. Ne abbiamo parlato  con Manny Pastreich, presidente del Seiu 32bj.   Quali motivazioni vi hanno spinto a dare l’endorsement a Cuomo nelle primarie? Quando Cuomo era governatore ha mantenuto la promessa di alzare le paghe dei lavoratori aeroportuali e di aumentare anche la paga minima. Inoltre era una persona che i nostri membri conoscevano bene, con cui c’era stata una lunga storia e per la quale nutrivano rispetto. Quindi il fatto che il sindacato sia stato in un certo senso costretto a scegliere Cuomo, che era dato come vincente sicuro, per evitare possibili ritorsioni sono solo speculazioni? Onestamente noi abbiamo preso in esame tutti i nove candidati, compreso il sindaco attuale Eric Adams, al nostro forum di 200 membri, che hanno avuto tutto il tempo di ragionare su ciascuno di loro. Quando in aprile abbiamo deciso per l’endorsement sulla base della storia dei vari candidati e del profilo che aveva Cuomo, un gruppo significativo, in effetti la maggioranza dei nostri 200 delegati, ha voluto che sostenessimo Andrew Cuomo e quella decisione ci andava benissimo, soprattutto per la storia di familiarità che i nostri affiliati avevano con lui.  Non ci sono state quindi riserve considerando gli abusi sessuali e la questione dei morti nelle case di riposo di cui è stato responsabile durante il Covid? Sì, ci sono state. Ma chiunque si trovi in una posizione come quella del governatore ha a che fare con ogni sorta di problema, e ogni governatore porta con sé sia del  buono che del cattivo. Sono tutte cose che abbiamo esaminato durante il nostro percorso verso l’endorsement.  Quindi avete deciso sulla base di quello che  che vi sembrava essere la cosa migliore per gli interessi dei lavoratori?  Certamente. E Cuomo aveva fatto delle cose buone per i lavoratori. E comunque quello su cui siamo attualmente focalizzati non è guardare indietro ma guardare avanti. Voglio dire che quello che Zohran  ha dimostrato, come lui stesso ha appena detto, è che ha creato una coalizione di 545.000 elettori newyorkesi che hanno voglia di guardare avanti. E noi siamo davvero orgogliosi di lavorare con lui e di essere parte della coalizione che costruirà un nuovo futuro.  Pensa che Zohran vincerà le elezioni di novembre? Sono sicurissimo che Zohran sarà il prossimo sindaco di New York.  Nel frattempo Zohran Mamdami, durante la conferenza stampa ha colto l’occasione di una domanda postagli da una giornalista per replicare ufficialmente alle minacce  di Donald Trump.  > Ieri Donald Trump ha detto che dovrei essere arrestato, deportato e > denaturalizzato. […] E non lo ha detto tanto per quello che sono, per come > appaio o per come parlo, quanto piuttosto perché vuole distrarre la gente dai > principi per cui mi batto. Io mi batto per la classe lavoratrice, per quella > gente che è stata sfrattata da New York a causa del suo costo. E mi batto per > la stessa gente per cui Trump aveva detto si sarebbe battuto. Ha fatto una > campagna promettendo di abbassare i prezzi dei beni alimentari e di alleviare > il soffocante costo della crisi. Ma per lui è più facile soffiare sul fuoco > della divisione invece di prendere atto di quanto abbia tradito la working > class americana non solo in questa città ma in tutto il paese, e di quanto > continuerà a tradirla, perché sappiamo che gli conviene parlare di me invece > che della legge che sta promuovendo a Washington [il cosiddetto Big Beautiful > Bill definitivamente approvato il giorno dopo ndr]. Una legge che priverà > letteralmente gli americani delle cure sanitarie, che ruberà il cibo a chi è > già affamato, che replica uno dei massimi trasferimenti di ricchezza come > quello visto nella storia recente durante gli anni della sua prima > amministrazione. […] E per concludere la cosa che temo di più è il fatto che > se Trump e la sua amministrazione non hanno remore nel dire quello che dicono > sul nominato Democratico alla carica di sindaco di New York, immaginate cosa > potranno dire e fare con immigrati di cui neppure conoscono i nomi. *Elisabetta Raimondi è stata docente di inglese nella scuola pubblica. È attiva in ambito teatrale ed artistico, redattrice della rivista Vorrei.org per la quale segue dal 2016 la Political Revolution di Bernie Sanders. L'articolo Il sindacato che sta con Zohran proviene da Jacobin Italia.
Il metodo storico (e quello di Valditara)
Articolo di Luca Casarotti Già l’esibizione cinica di qualche mese fa, cinica in senso etimologico, non morale né filosofico, aveva mostrato la caratura intellettuale dell’Onorevole Augusta Montaruli. E a voler accedere alla polemica strapaesana (cit. Alessandro Laterza), chi conosce l’Onorevole da prima che lo fosse, cioè da quando frequentava giurisprudenza a Torino e faceva la rappresentante degli studenti, ovviamente all’estrema destra (mi si perdoni il link), potrebbe aggiungere ai latrati televisivi altri aneddoti d’analoga caratura. Ma lasciamo lo strapaese a Longanesi e ai nostalgici dell’epoca sua. E accontentiamoci di dire che la sortita recente dell’Onorevole contro un manuale di storia per le superiori, purtroppo, consolida la sua reputazione. Anche se a contare, qui, non sono le parole della povera Montaruli, che s’arrangia come può: non si bastona il cane che affoga. Conta invece l’orchestra politica di cui Montaruli ha voluto attribuirsi la prima parte solista.  Evidentemente impegnata nello stretto scrutinio e nell’esegesi rigorosa (qualche studioso esterofilo direbbe close reading) d’ogni pagina d’ogni manuale adottato in ogni istituto scolastico della Nazione, l’Onorevole Montaruli inizia la lettura dell’opera di Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi e Carlo Greppi, Trame del tempo (3 volumi, Laterza, 2022-2025). Con lo scrupolo che è di dovere nell’esegesi, ella decide di confrontare le due  edizioni dell’opera: quella con la copertina blu, apparsa nel 2022, e quella con la copertina rossa, apparsa nel 2025. Quasi al termine di questo sforzo filologico, e non certo per imbeccata altrui, s’imbatte in una pagina del terzo volume dell’edizione recenziore, quella rossa: la nota cromatica non abbisogna di commenti. Come se non bastasse, nel pdf del volume, la pagina dello scandalo è la n. 666: in un libro comunista poteva mancare lo zampino di Belzebù? La rabbia dell’Onorevole è alle cronache. Il Giornale non disdegna di farsene megafono (di nuovo mi si perdoni il link, inserito a solo scopo probatorio). Dimostrando un coraggio non comune nello sfidare la dittatura del marxismo culturale che opprime l’Italia, il quotidiano montanellian-berlusconiano trascrive la censuranda pagina, perché tutti ne possano leggere e indignarsi; senza tema d’opporsi al Soviet di Palazzo Chigi, dà il dovuto risalto alle parole, vibranti di giusta collera, della parlamentare di maggioranza Montaruli; e soprattutto annuncia l’irreprensibile reazione governativa a venire. Reazione tanto più inevitabile, se l’autore dell’orrenda pagina apostata dalla religione meloniana, il reprobo Carlo Greppi, ha avuto l’ardire di rivendicare a mezzo di rete sociale il giudizio espresso nel libro.  Sulla sortita dell’Onorevole Montaruli ci siamo ripromessi di non infierire. Ma sull’iniziativa ministeriale che n’è seguita sia lecito farlo. Anzitutto ci si permetta un consiglio di comunicazione. Onde non alimentare facili ironie, sarebbe opportuno se ad annunciare l’intendimento del ministero dell’Istruzione e del Merito di provvedere contro un manuale che rileva la vicinanza di Fratelli d’Italia all’eredità del fascismo fosse persona diversa dal Sottosegretario Paola Frassinetti: la quale  si sdilinquisce per il brasillachiano fascismo immenso e rosso, e ha più di qualche legame con l’ambiente neonazista di Rainaldo Graziani. In secondo luogo, non ce ne voglia il Signor Ministro, Chiarissimo Professor Giuseppe Valditara, ma duole doverlo richiamare alla sua etica di studioso eminente, e metterlo in guardia affinché su di essa non prevalga la mendace faziosità del politico. Il Signor Ministro, nella sua altra veste d’accademico integerrimo, prima d’annunciar censura avrà certamente letto per intero il testo censurando. E vi avrà trovato duri giudizi come questo, sulle torsioni autoritarie da destra e da sinistra in America latina: > Anche nell’America meridionale e centrale, due macroregioni che dopo la fine > delle dittature militari avevano iniziato un faticoso percorso di > democratizzazione, negli ultimi due decenni si è assistito […] a un’erosione > significativa delle democrazie, con l’avvento al potere anche di militari – > seppur dichiaratamente di sinistra come il populista venezuelano Hugo Chávez > (presidente dal 1999 alla sua morte, nel 2013) – o di leader autoritari come > Jair Bolsonaro in Brasile. O passaggi inequivoci come quest’altro, sulle purghe staliniane: > Sotto il dominio incontrastato di Stalin, il sogno della rivoluzione si > trasforma in un incubo che si alimenta con il terrore di uno Stato di polizia. > Le vittime della collettivizzazione forzata delle campagne si contano a > milioni, mentre l’industrializzazione generalizzata del paese passa attraverso > campagne propagandistiche che impongono doppi turni di lavoro e sfruttamento > diffuso. Cresce anche l’arcipelago Gulag, i campi di detenzione, rieducazione > e lavoro dove finiscono tutti gli indesiderati. Sul «sole dell’avvenire» – il > simbolo evocativo del pensiero socialista – cala la notte del totalitarismo: i > rivoluzionari di un tempo (Kamenev, Zinov’ev, Radek, Bucharin) sono processati > e condannati a morte; Trockij, in esilio in Messico, è ucciso da un sicario. > Il trionfo di Stalin gronda sangue, ma l’opinione pubblica internazionale non > pare accorgersene. Il fatto però è che questo giochino, di mettere sulla bilancia le critiche alle opposte fazioni, piacerà magari ai politici, ma di certo svilisce il mestiere di storico. Lo storico non è obbligato a compiacere il governo: ci sono storici che l’hanno fatto e lo fanno, ma ciò è affar loro. La qualità della loro storiografia sarà giudicata inter pares, come quella di tutti gli altri. Invece, lo storico ha come tutti gli altri il diritto d’esprimere giudizi: e ha l’onere d’argomentarli persuasivamente, perché la sua tesi possa attrarre il consenso di colleghi e discenti. Dice: «Ma Greppi critica solo l’estrema destra Meloniana»! E cosa dovrebbe fare: dire che i raduni del Pd sono selve di braccia tese, per par condicio? «Ma magari sono invece stese di falci e martelli»! A parte che l’evenienza pare piuttosto improbabile, no, questa non è un’obiezione. Se nell’arco parlamentare ci sono forze politiche i cui militanti non solo di base esprimono nostalgie fasciste, se ci sono fonti che lo documentano, e se queste fonti sono trattate come il metodo storico esige che siano trattate, lo storico ha non il diritto ma il dovere di dire che le cose stanno così. Se ci sono altre forze che fanno cose incostituzionali o illegali, dirà anche questo: ma non è che le eventuali cattive condotte altrui elidono le proprie, e palla al centro. Dice: «va bene, lo storico può fare le critiche che vuole, se argomenta: ma può farlo in un libro di scuola»? Sì, può e deve. Per spiegare come mai può e deve, e come mai questo è il punto fondamentale, non strapaesano, di tutta la vicenda, concediamo per un momento credito al Ministro Valditara e a tutta la compagine ministeriale. Non è così, ma ipotizziamo che Valditara abbia letto fin troppo bene il manuale di Ciccopiedi, Colombi e Greppi: ipotizziamo che lo conosca a menadito, e che proprio a questo in realtà si debba l’improvvisa levata di scudi. Ma se fosse così, se davvero conoscesse bene quel manuale, il Ministro Valditara lo troverebbe censurabile per intero. Altro che una frase su Fratelli d’Italia: sarebbe l’impianto stesso dell’opera a riuscire indigesto al Signor Ministro e alla sua dichiarata ideologia della storia. Perché tutto il manuale, dalla prima pagina del primo volume all’ultima del terzo, si sforza di presentare la storia per quello che è veramente: vale a dire una disciplina non ordinata a indottrinare ma a porre problemi, che per fine non ha la propaganda della nazione ma l’interpretazione dei fatti come le fonti li documentano.  Ligio a questa consegna di probità scientifica, Trame del tempo, al pari di ogni buon manuale di storia, prova a condurre gli studenti nel laboratorio della storiografia: confidando nella mediazione consapevole del docente, presentando fonti e interpretazioni di fonti; educando cioè al dibattito metodologicamente controllato attorno ai dati di realtà e alla loro rappresentazione; contribuendo quindi, per quanto di sua ragione, alla formazione della cittadina e del cittadino d’uno Stato democratico. Piaccia o meno al bureau dell’istruzione sovranista, la storia è quella che insegnano i manuali come Trame del tempo, non quella che vorrebbero imporre le Indicazioni ministeriali. E quale che sia la filosofia della storia professata dal Ministro Valditara e dalle sue commissioni d’esperti, prospettare la censura d’un libro non allineato all’ortodossia governativa aiuta poco a stornare dalle forze di governo il sospetto che quanto detto nel censurando manuale sia vero. *Luca Casarotti è un giurista. Fa parte del gruppo di lavoro Nicoletta Bourbaki, è autore di L’antifascismo e il suo contrario (Alegre, 2023). L'articolo Il metodo storico (e quello di Valditara) proviene da Jacobin Italia.