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Quotidiano dei libri

Fabrizio Sinisi / Sperduti in un sogno di fede
In un’epoca sempre più confusa e divisiva come la nostra, l’attesa di un seppur piccolo miracolo non è futile, ma anzi un desiderio che sentiamo ardere come comunità, oltre che come individui. Crederemmo a qualsiasi cosa pur di alleviare l’impotenza che governa le nostre vite e dare un senso alla nostra sfuggente esistenza. Così, quando una grande città italiana un giorno si risveglia con un enorme volto che osserva, placido, lo scorrere delle vite degli uomini dall’alto del blu del cielo, i cittadini gridano al miracolo: è forse questa, la svolta che tutti aspettavano? Il Volto, battezzato con la lettera iniziale maiuscola, è il fugace e incorporeo protagonista del formidabile romanzo Il prodigio, pubblicato da Mondadori ed esordio narrativo del drammaturgo e poeta Fabrizio Sinisi. Il Volto, per l’intera durata del romanzo, rimane immobile: non pronuncia sentenze né giudica, ma sembra starsene lì, nel cielo, a osservare il tafferuglio che avviene al di sotto. Un dio che ha deciso di mostrarsi per la prima volta dopo millenni, un dio che ora è – e forse è la caratteristica più importante – ben visibile e fotografabile. Certo, potrebbe semplicemente essere un agglomerato di nuvole testarde e ben ancorate tra loro, ma non è la verità che importa: ciò che conta è quello che, volgendo lo sguardo in alto, gli esseri umani scelgono di credere. Don Luca, il nostro narratore, è confuso: il Volto sarà veramente il dio a cui ha dedicato la sua esistenza oppure un mero avvenimento meteorologico? Potrebbe essere un esperimento biochimico oppure un tentativo di spionaggio? Già dai primi giorni sono tante le teorie complottiste che arrancano tra la fiumana di spiegazioni possibili, ma solo una sembra attecchire più delle altre: quello lì in alto pare essere proprio dio. Affiorano miracoli, voci, sogni, profezie. Ciò apre le porte a pellegrini, ordini religiosi, malati terminali e persone comuni che desiderano solo crederci più intensamente degli altri e trovarsi sotto quel cielo da cui potrebbero piovere benedizioni, assoluzioni e miracoli. Diventa comune imbattersi in sette religiose, profeti, confraternite e credenze demoniache. Se non esiste una verità inconfutabile, ciascuno si trova a vagare dove la propria mente o la propria fede sente un richiamo più forte di altri. La città diviene ben presto assediata da una fede per il Volto che scavalca qualsiasi norma sociale di convivenza. Mentre fedeli si riversano per le strade, c’è chi vuole creare un nuovo ordine, un nuovo modo di vivere, un nuovo modo di essere: da una parte c’è Folker, un transgender seguitissimo online, prossimo alle elezioni comunali, che invoca al cambiamento della società con retorica e slogan piuttosto astratti; dall’altra c’è il generale Capogrosso, che con ideali fascisti vuole cambiare lo Stato e la Costituzione, portando ordine con la forza. Ci sono colpi di stato, palazzi evacuati e trasformati in sedi religiose, disordini per le strade, ronde fasciste che invocano un regolamento di conti: tutto si svolge nell’immobilità di quel dio che osserva. Quando il Vescovo, in mancanza di una risposta del Papa, decide di affermare che quello lassù non è veramente dio, ai fedeli poco importa: ormai sono ammaliati da quella divinità così concreta rispetto al dio che hanno pregato per tutta la vita senza mai sentire, senza mai vedere, “sperduti in un sogno di fede”. Che cos’è questa fede che tutti all’improvviso sentono ardere, che tutti invocano e a cui tutti vogliono dare una direzione? Un bisogno di un miracolo, di qualcosa che spezzi le catene dell’ordinarietà e che offra una via d’uscita alla confusione che stabilmente abita nel mondo? E se fosse, invece, una fede che si risveglia dopo un lungo sonno, assopita da un’ordinarietà e da una quotidianità sempre più difficile? “Ogni lotta sulla terra è una lotta fra un dio e l’altro”, scrive Sinisi, riassumendo alla perfezione ciò che vediamo accadere nel romanzo e che richiama così fortemente ciò che già accade nella realtà: “assorti solo nella propria disperata strategia di salvezza” non riusciamo a veder al di là di noi stessi e non conosciamo più il significato di comunità e di fede. Se un volto apparisse davvero nel nostro cielo, cosa faremmo? Credo che Il prodigio tracci una risposta piuttosto concreta del nostro smarrimento. L'articolo Fabrizio Sinisi / Sperduti in un sogno di fede proviene da Pulp Magazine.
Alain Schnapp / Difendersi dal diventare marmo
Recentemente, in una conferenza sulla lavorazione preindustriale del gesso tenuta da Marco Visconti al Quadila Festival, mi ha colpita la testimonianza di un ex capo cava di Castelnuovo don Bosco, nel Basso Monferrato astigiano. Lorenzo Bertiglia, così si chiamava, intervistato ultraottantenne da Visconti, concludeva i suoi racconti dicendo: “Il nostro passato non ci appartiene, ma non lo dobbiamo dimenticare”. Una frase composta da due enunciazioni in apparenza in contrapposizione (se non ci appartiene, perché affannarci a ricordarlo?) di cui la prima è già spiazzante di per sé, tanto più se l’autore di quella affermazione si sta riferendo a un passato recente e che lo ha riguardato in prima persona. Eppure, questo dovremmo pensare quando ci rivolgiamo al passato, per scongiurare strumentalizzazioni nazionaliste e ideologiche. Non ci appartiene. Non siamo noi. Non è una questione privata e neppure di quel privato collettivo che si nasconde dietro il fantoccio dell’identità. Al passato bisognerebbe avvicinarsi come a un estraneo. È una conquista, che tantissimi hanno tentato e tentano; che può non riuscire e che è stata vorticosa negli ultimi duecento e poco più anni della storia occidentale. Alain Schnapp, in questo libro fondamentale uscito in Francia nel 1993 (prima edizione italiana 1994, Mondadori) e finalmente ripubblicato da Johan & Levi, racconta proprio questo: la conquista di un passato non nostro. Oggi ci sembra normale vedere, nelle vetrine di un museo archeologico, i reperti suddivisi per periodi storici, con le didascalie che riportano datazioni più o meno precise. Ma a tutto questo – gli orizzonti cronologici e storici entro i quali inserire i resti e i manufatti del passato – si è arrivati con un lungo e non lineare percorso di ricerche, intuizioni, errori, interrogativi, false piste. Schnapp racconta una storia non dell’archeologia ma di quello su cui l’archeologia si fonda: l’urgenza di riattivare in qualche modo ciò che è andato perduto e che non sappiamo più interpretare. Come ha scritto lo storico Emmanuel Le Roy Ladurie nella prefazione, Schnapp si confronta con “il mistero della continuità dell’uomo nella sua ricerca del passato”. Un mistero innaturale tanto che l’autore stesso, nella prima riga del libro, si domanda: “che cosa autorizza o giustifica l’esistenza dell’archeologia?”. L’archeologia è un costrutto moderno occidentale ma ben prima del XIX secolo in tanti sono, a loro modo, penetrati nel passato. Gli antiquari europei, pur non interessati a una ricostruzione storica globale, pongono le basi per la classificazione degli oggetti, per la storia della tecnica, iniziano a rilevare in modo accurato i monumenti e non disdegnano attività di scavo o di ricognizione sul campo. Le competenze degli antiquari – la capacità di saper riconoscere un oggetto tra mille – spesso erano legate al collezionismo ma ad essi si deve l’aver attribuito a un oggetto il valore di prova storica e di fonte di sapere alternativa alla tradizione letteraria (anche se questo valeva principalmente per certe categorie di manufatti, come le monete e le epigrafi). Schnapp ricostruisce la loro storia con dovizia di particolari e con narrazioni di singoli sorprendenti come il provenzale Nicolas-Claude Fabri de Peiresc, l’inglese William Camden o il danese Ole Worm o ancora, in età già illuminista, William Stukeley. L’antiquaria ha il suo apogeo nel Seicento ma era stata già praticata da alcune civiltà antiche come quella egizia, mesopotamica, cinese e nell’Europa rinascimentale: in molti casi per affermare la legittimità dei poteri al comando, la loro continuità con il passato (dunque l’appartenenza di quel passato a sé). In età remota non era misconosciuta l’idea che il suolo conserva impronte del passato così come la consapevolezza che gli oggetti e i monumenti ci sopravvivono (mentre da umani si può passare con disinvoltura da un’epoca all’altra solo si viene inventati come l’Orlando di Virginia Woolf). Si tratta di una “coscienza archeologica” che innegabilmente porta con sé un confronto con il futuro e con le tracce che anche noi lasceremo. L’archeologia moderna organizza e dà una unitarietà ai metodi e alle conoscenze specifiche degli antiquari, adottando una prospettiva universale, il cui obiettivo è indagare e ricostruire la storia degli antenati dell’umanità tutta. Sino alle soglie della modernità (e oltre) sarà ancora presente un marcato dualismo tra scienza e tradizione, che ha permesso il perdurare di interpretazioni fantasiose in particolare dei resti e monumenti (come Stonehenge) che non rientravano nella tradizione classica, e di tanti manufatti antichi, come le urne funerarie (a lungo considerate vasi nati spontaneamente dal suolo) o le punte di freccia in pietra (per secoli credute un prodotto dei fulmini). L’archeologia nasce tra il 1830 e il 1860, quando la storia dell’uomo (grazie ovviamente anche a Charles Darwin) entra a fare parte della storia naturale e finalmente si affranca dalla storia sacra e dalle cronologie bibliche. Mentre il mondo erudito impiega tantissimo tempo ad accettare l’idea della continuità geologica e storica e ad acquisire la consapevolezza dell’antichità dell’uomo e della durata dei tempi preistorici, sono soprattutto studiosi dilettanti e non accademici che iniziano ad accettare le conseguenze delle loro scoperte (la presenza di ossa umane insieme ad ossa di animali estinti) e ad ammettere l’esistenza di uomini vissuti prima di Adamo. Lo studio dei resti materiali del passato, attraverso gli strumenti della tipologia (la prima successione crono-tipologica delle tre età, Pietra-Bronzo-Ferro, viene definita dal danese Thomsen nel 1836) e della stratigrafia (l’esplorazione organizzata del sottosuolo) diventa un modo di ricostruire la storia. Ma nello stesso periodo in cui l’archeologia si forma, e Winckelmann definisce le basi di una cronologia stilistica e di una storia dell’arte classica (che egli pone al vertice di una scala dell’ideale estetico), l’archeologia coloniale nei paesi fuori dall’Europa continentale diventa anche appropriazione fisica di quei passati lontani. Il saccheggio che porta in Europa le opere della statuaria (e non solo) antica – il furto dei marmi del Partenone da parte di Lord Elgin è soltanto il più noto degli eventi – risente ancora del mai sopito spirito del collezionista, nonché di una idea di appartenenza e di identità culturale estendibile a piacimento, e costituisce una delle tante contraddizioni (o delle inevitabili ricadute?) di quell’archeologia che si auto-definisce universale. Nell’introduzione alla nuova edizione, scritta da Schnapp nel 2020, dal titolo curioso L’erosione del passato, l’autore scrive che il passato «lo si può ripudiare, glorificare con la poesia o la mitologia, mantenere vivo con capolavori immortali, ristrutturare applicando regole sofisticate di costruzione e ricostruzione, ma non può essere ignorato. Bisogna accettare il passato e per fare ciò le comunità dispongono di infinite capacità di gestione e di negoziazione. Perché, allora, rivolgere lo sguardo al passato dell’archeologia, invece di provare a delinearne i tratti futuri? Per questo motivo: qualsiasi esplorazione del futuro esige un bilancio critico e un approccio retrospettivo, con l’intento di capire come mai tutte le comunità, indipendentemente dalle loro caratteristiche, sentono il bisogno di dialogare con il passato». Dialogo con un passato che non ci appartiene, e dunque (come qualcosa che non è mai stato né potrà mai essere del tutto nostro) non possiamo dimenticare (nell’accezione di: non riusciamo). C’è chi questa catena ha provato a romperla. Nella conclusione dell’introduzione Schnapp ricorre alla letteratura e in particolare a una poesia di Borges dedicata all’antiquario seicentesco Thomas Browne. È una riflessione sull’erosione della memoria, sulla preoccupazione del sé dopo la morte e sulla consapevolezza che taluni (sappiatelo, lettori amanti della storia e dell’archeologia) non vogliono diventare memoria. Il Browne di Borges dice infatti: «Difendimi, signore, dall’ansiosa / brama di diventare marmo o oblio; / dall’essere colui che sono stato, / che irreparabilmente sono stato».   L'articolo Alain Schnapp / Difendersi dal diventare marmo proviene da Pulp Magazine.
Antonella Ossorio / Colpevole o innocente?
Nel parlamento italiano è stato da poco approvato il disegno di legge che introduce il delitto di femminicidio con conseguente pena dell’ergastolo, e quasi in contemporanea Neri Pozza pubblica il nuovo romanzo di Antonella Ossorio in cui ci racconta le vicende – romanzate per colmare gli inevitabili buchi storici e narrativi – di Madame Popova. L’autrice spiega di essersi imbattuta per caso –mentre cercava del materiale online per un nuovo romanzo – nella misteriosa figura di Alexe Popova che nella Russia zarista ha ucciso oltre trecento uomini dal 1878 al 1909, anno in cui viene arrestata e giustiziata. Ovviamente la scarsa documentazione ha concesso ampio margine di scrittura all’autrice che, per sua stessa ammissione, ha dichiarato di essere rimasta rapita dallo sguardo severo della donna vestita di nero ritratta in una rarissima immagine ancora reperibile online. Pur utilizzando le sue radici napoletane per narrare storie dal valore universale e un’ambientazione nel passato come chiave di lettura del presente, Ossorio si è concessa un’uscita forzata dalla sua comfort zone per sbarcare nella Russia di fine Ottocento. Le tematiche principali su cui basa le radici questo romanzo sono tante e fondamentali. L’indipendenza economica delle donne del popolo, in primis, che era quasi impossibile ottenere e che si lega strettamente a un altro tema, quello dell’analfabetismo. Gli uomini al momento del matrimonio sceglievano se aggiungere al proprio documento d’identità i dati della consorte così da comprovarne l’esistenza in maniera ufficiale, documenti che venivano spesso richiesti per accedere a svariati uffici pubblici o, come capita alla coprotagonista del romanzo in questione, per prendere in prestito un libro in biblioteca. Nei comandi di polizia le donne non venivano nemmeno considerate e siccome si dava per scontata l’ignoranza dell’interlocutrice, una firma diversa da una “x” era vista quasi come una colpa. Tornando all’indipendenza economica, le donne sposate non potevano lavorare, c’era una guerra in corso e gli uomini erano spesso al fronte per cui le donne dovevano restare a casa e badare ai figli e, anche se non sempre questa era la regola, le donne che lavoravano erano considerate l’eccezione. Nadja si trova in una situazione intermedia: come a tante sue coetanee è capitato invece di essere analfabeta, con una figlia a carico e con un marito vittima del gioco d’azzardo e amante della bottiglia che per sfogare i suoi umori la picchia e la violenta. Quando viene ammessa alla congrega di Madame Popova capisce di non essere sola, che altre donne hanno vissuto la sua stessa condizione ma ne sono uscite. Potremmo considerare Madame Popova una femminista ante litteram che sosteneva l’alfabetizzazione delle altre donne, le aiutava a commercializzare i lapti, una tipica calzatura dell’Europa nord-orientale realizzata principalmente con la rafia, per ricavare un guadagno dignitoso ma soprattutto contribuiva alla prematura dipartita del problema marito attraverso l’utilizzo dell’arsenico, un veleno perfetto perché incolore e inodore. Ed eccolo il tema principale del romanzo, la violenza sulle donne. Per la cultura dell’epoca era pratica comune che un uomo si sfogasse sulla propria moglie che veniva considerata a tutti gli effetti un oggetto di proprietà, i poliziotti erano tutti uomini e una donna che scappava dal marito non aveva vita facile, quindi si preferiva tacere e continuare a subire violenza fino all’inevitabile epilogo. Il personaggio che l’autrice ha creato per fare da contraltare alla Popova – della quale non si sa nulla di preciso, né data e luogo di nascita né il vero nome – è un perfetto bilanciamento che mette in difficoltà il giudizio del lettore, istintivamente portato a stare dalla parte di Alexe. Nadja fa riflettere sulla moralità del gesto, del mettere in circolo altro male, oltre a quello compiuto con i delitti, che non è quella la via da percorrere. D’altro canto, Alexe fino all’ultimo si è dichiarata innocente per non aver mai ucciso bambini, donne né uomini giusti, ha compiuto giustizia condannando la sopraffazione del maschio e salvando la parte debole e senza diritto di replica della società del tempo. I documenti graziati dal passare dei secoli ci raccontano che Popova viene arrestata sulla base della denuncia di una donna, senza nome né altri dettagli, pentita all’ultimo istante dopo averle chiesto aiuto. Nell’infinita guerra tra bene e male dunque ai posteri l’ardua sentenza: colpevole o innocente?                                                                                     L'articolo Antonella Ossorio / Colpevole o innocente? proviene da Pulp Magazine.
Massimo Ilardi / Here to stay
Ormai arrivati a un quarto di secolo, sono molte le analisi, della più varia estrazione teorica, e che oscillano regolarmente tra il bilancio e il rilancio, rispetto alle trasformazioni dell’azione politica che si sono susseguite a partire dai fatti di Genova 2001. Uno dei fenomeni che ha segnalato la «crisi dei paradigmi interpretativi dei conflitti» – come si legge nel sottotitolo di questa bella collettanea di saggi curata da Massimo Ilardi per DeriveApprodi – è senza dubbio costituito dal cuore del libro, ovvero «le rivolte urbane del XXI secolo». E, tra i tanti approcci possibili per un campo di indagine così proteiforme da contenere tanto le rivolte delle banlieues francesi e le iniziative di Black Lives Matter quanto le cosiddette “primavere arabe” o ancora le manifestazioni di Rosarno del 2008 e del 2010, i contributi del saggio si attestano su un taglio generalmente sociologico (dando così conto della propria origine accademica, come programma di ricerca inaugurato da un seminario organizzato nel marzo 2024 dal dottorato di ricerca in Ingegneria dell’Architettura e dell’Urbanistica della Sapienza), ma con frequenti tinte militanti. Un testo di riferimento è allora facilmente individuato in Città di quarzo (1990) di Mike Davis, pubblicato in Italia poco dopo che a Los Angeles, città alla quale è dedicato il saggio, erano scoppiati i violenti riot della primavera 1992, originati dalla circolazione del video del pestaggio di Rodney King da parte della polizia locale. In linea con l’approccio di Davis, così come quello di molti altri studiosi – il più ricorrente, anche per effetto della preminenza nel volume del caso di studio francese, è forse il nome di Alain Bertho, autore negli ultimi quindici anni di vari saggi sull’argomento, ancora inediti in Italia –, le rivolte urbane degli ultimi due decenni sono prese in considerazione, in primo luogo, per il rapporto, al tempo stesso derivativo e trasformativo, con il territorio in cui si sviluppano. Come scrive Ilardi, «[è] dunque il conflitto e non la spazialità artificiale, disciplinata dal lavoro, controllata, neutralizzata e omogeneizzante dello Stato e del mercato che dovrebbe fondare oggi uno spazio pubblico come possibilità di formazione del politico, non quello leninista utile per la conquista dello Stato ma quello che serve per il ribaltamento dei punti di forza sul territorio». In questa citazione vi è uno dei pochi spiragli di futuro di un testo che si apre, tuttavia, sui toni cupi della «drammatica e definitiva sconfitta» di Genova 2001: se la forma-movimento non è forse scomparsa, nell’ultimo ventennio, ma si è attestata sulla rivendicazione di diritti civili e/o sociali, le rivolte urbane hanno di certo preso il sopravvento, a livello quantitativo, pur muovendosi paradossalmente – secondo un’adeguata metafora ripresa da Le temps des émeutes (2009) di Bertho – «tra l’inudibile e l’indecifrabile, tra il silenzio e il rumore». Parallelamente, si è registrato, in qualche Paese europeo, il ritorno ai comitati territoriali – più che “civici”, non aderendo quasi mai alla cornice del civismo liberale – come ad esempio i comitati per la casa: se questi ultimi declinano il proprio legame con i territori in modo certamente diverso dalle rivolte e dai riot, sono senza dubbio questi ultimi a essersi estesi a livello globale (come ricorda il contributo finale, a volo d’aquila, di Eugenio Conti) e a essersi imposti come uno dei fenomeni politici più rilevanti dell’inizio del ventunesimo secolo. Nel volume, si alternano analisi legate a casi di studio specifici – come la “Storia e controstoria delle banlieues” di Agostino Petrillo, già autore di varie ricerche sulle periferie urbane, o anche “Harraga Riot” di Roberto De Angelis, sui territori italiani attraversati dagli harraga (dall’arabo maghrebino, chi migra “bruciando i confini”) – e contributi di impostazione teorica più generale, come quelli di Michele Garau, Nicolò Molinari, Gaia Bacciola e anche di Andrea Cerutti (con una derivazione trontiana, in questo caso, fin troppo evidente). Non mancano anche i contributi di ricerca più chiaramente afferenti agli studi culturali come quelli di Luca Benvenga e Salvatore Benasso, specialisti della trap italiana, e di Fabrio Violante, su quello che può essere definito, con una semplificazione, “cinema francese delle banlieues”. Del resto, in un volume che rivela qui e là una comune matrice teorica post-operaista, nonché un’enfasi trasversale sulla violenza destituente, le città sono «centri della rivolta, come teatro e oggetto di processi di contro-soggettivazione» – come scrive limpidamente Conti nell’ultima pagina del libro – il cui approfondimento rivela, di volta in volta, una complessità così grande e fortemente articolata che «servirebbe un’etnografia del mondo intero per provare a comprendere davvero» quanto sta accadendo, a livello globale. Un orizzonte potenzialmente inesauribile, dunque, ma da tener presente ogni volta che si articolino nuove prospettive di ricerca sull’argomento del volume e si vogliano, magari, evitare i limiti della forma-elzeviro, che pure è stata frequentemente adottata, nel caso delle rivolte urbane, da svariati teorici à la page. Si ricorderà ad esempio quanto scriveva Slavoj Žižek all’epoca dei riot di Tottenham del 2011, riponendo un’eccessiva e squalificante enfasi sul feticismo della merce evidenziato dalle pratiche di saccheggio e mancando il punto politico della questione. Aveva tentato, invece, un’elaborazione teorica più generale del riot, in termini di economia politica, Joshua Clover con Riot sciopero riot, uscito in lingua originale nel 2016. Anche Clover è spesso citato nel volume di DeriveApprodi, ed è forse doveroso, non soltanto per chi scrive, terminare questa recensione ricordando l’autore californiano, a pochi mesi dalla sua scomparsa, con le parole che aprivano il suo saggio: «I riot stanno arrivando, alcuni sono già qui e altri sono in preparazione. Non c’è dubbio. Ci vuole una teoria adeguata».       L'articolo Massimo Ilardi / Here to stay proviene da Pulp Magazine.
E fu così che decisero di rimanere sole! Da Anna Banti a Carrie Bradshaw
>  Donna indipendente valeva a quei tempi come termine scientifico: nome di > bacillo, di nuovo metallo, di nuova cometa, roba insomma aggressiva, > pericolosa. Anche si legava a richiami esotici, nordici, sempre in linea > generale e in astratto; perché venendo alla pratica e nei casi concreti, un > apprezzamento sbrigativo bastava, in Italia, a illuminare il fenomeno. “Quella > matta della Sofia” si usava dire, per esempio, e le parole erano accompagnate > da un crollar di testa.[1] Così in “Sofia o la donna indipendente”, un racconto del 1937/’38, Anna Banti (1895-1985) mette in scena Sofia e due sue amiche che trascorrono l’estate del 1910 in una spiaggia della Versilia, guardate a vista dagli altri bagnanti e forestieri e considerate matte per la loro pretesa di bastare a se stesse e vivere in “mancanza di marito”. Il racconto è inserito nella raccolta intitolata Il coraggio delle donne, uscito nel 1940 (l’anno in cui l’Italia entra in guerra accanto alla Germania) e adesso riedito da Mondadori con la curatela e la postfazione di Daniela Brogi. Altre storie fanno parte della raccolta, storie che grazie alla mirabile e sensibilissima scrittura di Banti, entrano nell’animo di chi legge per restarvi a lungo. Come è per es. per “Vocazioni indistinte”, il cui arco narrativo segue le vicende di una ragazza che non si riconosce nessun talento, è una virtuosa pianista cioè padroneggia un’arte che forse la metterebbe in grado di condurre una vita dignitosa e autonoma, ma non ne porta nessun vanto e ancora meno consapevolezza. Il tratto di Banti, la sottigliezza e delicatezza con la quale racconta le trasformazioni dell’animo della ragazza e la sua perpetua insicurezza, e le contingenze familiari che la costringeranno a fare un matrimonio che sarà la sua rovina, sono pagine che restano dentro e che raccontano le difficoltà di una donna artista, musicista o scrittrice che sia. Ma torniamo a Sofia che si muove su un versante opposto e non rischia un matrimonio tragico. Qui la penna di Banti mantiene un tono vagamente ironico, costeggiando senza cadervi l’amaro del contrasto tra quel temporaneo matriarcato estivo e l’arretratezza e misoginia della società che lo circonda; e ha, oltre alla piacevolezza di lettura, il merito di richiamare l’attenzione su una questione che non ha ancora finito di sprigionare il suo veleno. Perché ancora  siamo lì, a pensare che una donna senza un uomo non ha ragion d’essere e se capita è perché deve esserle successo qualcosa. Che le cose stiano in questo modo, che il patriarcato sia ancora qualcosa che impregna di sé inconscio, immaginario e strutture sociali, malgrado il lavorio di oltre un secolo e l’evoluzione degli spazi delle donne nel mondo (occidentale) contemporaneo, lo dimostra l’ultima puntata della serie TV And just like that che curiosamente, ma guarda un po’, va a insistere proprio su quel tasto. Perché, come scrive Federica Fabbiani sull’ultimo numero di Leggendaria: > Nell’ultima stagione Carrie Bradshaw è una figura profondamente in crisi, > spesso insoddisfatta, sbagliata, incapace di realizzare l’ideale che pure > rappresenta. E’ una donna che si emancipa, sì, ma inciampando. Che racconta il > sesso ma fatica a viverlo con libertà vera. In questa contraddizione > permanente, Carrie diventa un testo culturale stratificato, un prisma > attraverso cui osservare non solo le ambivalenze del femminismo mainstream e > le derive del neoliberismo, ma anche la nostalgia, l’invecchiamento e la paura > di restare fuori dal discorso dominante.[2] Già perché il vero problema è l’irrilevanza sociale che colpisce chi ha superato la stagione dell’ancillarità verso il maschio. Carrie va a pranzo in un ristorante e per la prima volta, dopo le diverse stagioni della serie e della precedente Sex and the City, che mettevano in scena tanti pranzi, tante colazioni e aperitivi in buona compagnia, siede da sola guardando il menù. Non aspetta nessuna e nessuno e questo basta per ritrovarsi davanti a un pupazzo messole lì dalla cameriera intenzionata a consolarla del fatto di essere sola. Scena iconica quella del pranzo con un commensale di stoffa, che dimostra che ancora, ai nostri giorni, tutto è meglio della solitudine, anche un uomo fasullo, un umo finto, di pezza. E che soprattutto senza un uomo devi per forza sentirti una fallita. Ora la zitellaggine è un tema di lungo corso raccontatoci da Valeria Palumbo in “Piuttosto m’affogherei”(Enciclopedia delle donne); in quel testo Palumbo esplicita il suo ragionamento sulle singles dall’antichità ai giorni nostri, spinta da una duplice fascinazione: Le zitelle, però, mi erano rimaste nel cuore. E non solo perché avevo deciso di appartenere alla loro schiera (non sempre con la leggerezza e l’ironia in cui avevo sperato, ma con tenacia). Ma anche perché, occupandomi, da storica e da giornalista, del tema della libertà delle donne, mi ero accorta ben presto che la libertà dall’obbligo di sposarsi era stata una delle grandi conquiste dell’umanità. Non solo delle donne.[3] Questione questa della libertà delle donne che era sentita anche dall’altra parte dell’Atlantico, e ne testimonia una scrittrice come Louise Mary Alcott che esalta, parlo di un articolo del 1868, il nubilato, affermando come la libertà fosse, per molte donne, un marito migliore. Ma siamo negli Stati Uniti e comunque, nei decenni a venire, si susseguiranno le scrittrici che rappresenteranno i guasti di una vita matrimoniale scelta a dispetto delle proprie inclinazioni. Fino a arrivare al racconto di Anna Banti che mette in scena la novità dei primi anni del XX secolo, gli anni del governo Giolitti, che virando a sinistra guardava ai socialisti per un appoggio esterno e che per questo riformava il lavoro di donne e bambini introducendo nuovi limiti di orario (max 12 ore) e di età (non al di sotto dei 12 anni). In quegli anni di apertura a nuove libertà e stili di vita, la novità sottolineata dal racconto di Banti si chiama “la donna indipendente”, una figura che spesso ricopre il ruolo di maestra elementare (che ricordiamo è stato un volano fondamentale per l’emancipazione) e che costituisce una sorta di anello di congiunzione tra il ruolo sottomesso delle donne lungo tutto l’arco dell’ottocento e il risveglio dei primi due decenni del Novecento, un periodo di innovazioni sociali e culturali anche per le donne. Progressi  che saranno poi soffocati dall’avvento del fascismo che auspicherà il rientro delle donne nel focolare domestico attraverso il dimezzamento dei loro salari, il divieto di ingresso nei pubblici uffici e l’istituzione nel 1927 dell’imposta sul celibato; e spingerà sul pedale dell’incremento demografico per cui le donne saranno chiamate a fare molti figli per dare soldati alla patria. La figura della donna indipendente riemergerà in Italia soltanto alla fine della II guerra mondiale, e ne testimonia per esempio il romanzo “Prima e dopo” che Alba de Cespedes pubblica nel 1955. In quelle pagine de Cespedes rivolge lo sguardo soprattutto alle dinamiche interne dell’animo di Irene, la protagonista, una giovane donna che nel dopoguerra rifiuta l’agiatezza borghese e un destino che non lascia spazio alla autorealizzazione, preferendo inseguire invece il sogno di una vita indipendente. Nadia Terranova nella prefazione al romanzo ben descrive la situazione di Irene e i costi emotivi che questa comporta: > la sua condizione reale è la solitudine, quella che paghiamo quando scegliamo > di stare al mondo nel modo che più ci somiglia e meno somiglia alle > aspettative altrui. La paghiamo tutti, ma soprattutto tutte: alle donne è > sempre toccato il prezzo più alto, e Alba de Cespedes l’ha sempre raccontato, > altrove come traguardo, qui come punto di partenza.[4] Come nota giustamente Daniela Brogi, Sofia, Amina, Felicina, Ofelia, Giulia, ossia le personagge attorno alle quale Anna Banti costruisce i racconti de Il coraggio delle donne, non sono “caratteri” e quei testi non sono “ritratti di costume”. Sono spazi di resistenza, tanto più significativi dal momento che Banti attraverso loro scrive una “storia culturale delle donne in quanto categoria soggetta, in senso sistemico, a una “cattiveria sociale” che abita in ogni dettaglio e in ogni momento della vita”[5]. Una storia culturale da cui, Carrie Bradshaw ce lo conferma, non siamo ancora fuori e che ci riguarda direttamente. [1] Anna Banti, Il coraggio delle donne, a cura di Daniela Brogi, Mondadori, 2025, p. 69. [2] Federica Fabbiani, “Essere, oggi, Carrie Bradshaw”, in Leggendaria, Fantastiche. La violenza trasfigurata, n. 173, agosto-settembre 2025, pp. 55-56. [3] Valeria Palumbo, Piuttosto m’affogherei, Enciclopedia delle donne, 2018, pp. 342-343. [4] Nadia Terranova, “Prefazione”, in Alba de Céspedes, Prima e dopo, Cliquot edizioni, 2023. [5] Daniela Brogi, “Una genealogia di donne coraggiose”, in Anna Banti, Il coraggio delle donne, Mondadori 2025, p. 177-197. L'articolo E fu così che decisero di rimanere sole! Da Anna Banti a Carrie Bradshaw proviene da Pulp Magazine.
Brian Catling / New weird nello specchio del surrealismo
I divisi (2018, The Clover), terzo e ultimo capitolo della saga di Brian Catling,  presentata da Pulp Magazine alcuni anni fa, completa la trilogia del Vorrh, la foresta africana che nessun geografo è mai riuscito a mappare, tanto antica da nascondere tra i suoi gangli vegetali anche i resti del Giardino dell’Eden di Adamo ed Eva. Un esperimento, quello umano, andato storto da subito, e che ora si avvita nella sentina coloniale del secolo scorso, con i coloni bianchi che dopo aver fatto man bassa di legname, sfruttando la manodopera di nativi zombi, si apprestano a importare anche la funesta Guerra Europea. La morale, come il lettore apprende insieme a un attonito Hector, forse il più inconsapevole tra i molteplici protagonisti di questa storia, è che “La foresta copre le cicatrici e le idee che non sarebbero mai dovute esistere. I pollici opponibili vi sono stati concessi per curare le piante, non per erigere città, macchine, infinite idee su come funzionano le cose”. Gli angeli stessi, esiliati dal Paradiso Terrestre nel ventre della foresta vivente per sottrarsi alla vergogna del loro fallimento, figurano adesso, fuori da qualsiasi iconografia evangelica, come bizzarre e ibride deità al servizio dell’agency vegetale. Il tempo storico ora volge al termine ma non quello del Vorrh, destinato a sommergere e sovrastare uno ad uno i simboli e il territori occupati dalla civiltà umana.  Se il primo libro ci ha introdotti nell’oscuro mondo del Vorrh, e tra l’arcana borghesia di Eisenwald, la città germanica ricostruita tal quale nel cuore dell’Africa nera, il secondo capitolo ha in parte già svelato la trama delle figure intermediali, delle entità ancestrali e dei cherubini caduti che – alla pari di ciclopi, robot di bachelite, nani antropofagi, cadaveri senzienti, corpi disumanizzati o tradotti in archi e feticci sciamanici – contornano la stupefacente saga di Catling. I Divisi punta ora decisamente verso l’Apocalisse e la resa dei conti finale per la nostra specie. E lo fa, come sempre, mobilitando un coacervo di sottotrame, animate da una molteplicità di personaggi, cui raramente concede il beneficio della psicologia, più spesso quello della meccanica: il loro arco, dopotutto, deve soltanto procedere fino alla fine assegnata mentre lo spettro della fabula si restringe per convergere nel suo epilogo, risucchiando il lettore, un capitolo dopo l’altro, in un imbuto narrativo dentro a cui potrà perdersi ma da cui non potrà sfuggire. Come nei libri precedenti, la strategia romanzesca di Catling prevede che alcune figure storiche si confondano con i personaggi di fantasia. Dopo il simbolista francese Raymond Roussel (a cui si deve peraltro l’invenzione letteraria del Vorrh), il medico della regina Sir William Gull (uno dei sospetti Jack The Ripper), il pioniere della fotografia  Eadweard Muybridge, la grave sig.ra Winchester, comparsi nel primo volume, e lo spirito guida di William Blake che accompagna gli eventi di The Erstwhile, questa volta è la figura del naturalista e poeta afrikaans Eugène Nielen Marais a testimoniare con la sua vita  l’inconciliabilità di cultura e natura nella modernità,  suppurando  la frattura ontologica con l’irriducibilmente Altro della foresta senziente e dei suoi mostri (che l’albero della conoscenza, si suggerisce non troppo tra le righe,  recava già tra i suoi frutti avvelenati all’alba dei tempi..). Come ha osservato Luca Giudici su Quaderni d’Altri Tempi: “il Vorrh rappresenta una visione ciclica del tempo che si oppone alla concezione lineare e progressiva della modernità occidentale”. Il cruento suicidio di Marais apre in pratica I Divisi, ma è solo l’inizio della fine e di un romanzo non meno surreale, perturbante e “violento” dei due precedenti. Salutato al suo apparire da Michael Moorcock, Terry Gilliam, Jeff VanderMeer e da Alan Moore (che ha scritto la prefazione al primo volume) come una pietra miliare della letteratura fantastica, il Vorrh rifugge dai tropi normalizzati del fantasy, un genere che l’autore, scomparso nel 2022, notoriamente non ha mai amato, rivendicando per contro l’influenza e il magistero dei “classici” Poe, Borges, Calvino. Come e più di China Mieville, Catling offre una versione del new weird costantemente triangolata dal retrovisore del Novecento e delle sue avanguardie, in particolare del surrealismo. È da questa prospettiva “inattuale” che nello scorcio di questo nuovo secolo ha potuto sparigliare le aspettative del pubblico, trasfigurando dietro ai suoi cadaveri eccellenti una riflessione sull’Occidente che va oltre la vicenda storica del colonialismo.  Scultore, artista della performance e professore di Belle Arti che ha scoperto la scrittura soltanto in età avanzata, Catling evade del resto anche le convenzioni linguistiche del romanzo, spingendole al limite di una  alterna sperimentazione poetica. Il risultato è una saga unica nel suo genere e, sopratutto, al di là di qualsiasi genere.   L'articolo Brian Catling / New weird nello specchio del surrealismo proviene da Pulp Magazine.
Ethel Mannin / Prima di Gaza e la memoria della Nakba
Di Ethel Mannin (1900-1984), della sua biografia e del suo straordinario e purtroppo unico romanzo gotico, Lucifero e la bambina, abbiamo già parlato a suo tempo e  a quelle pagine rimandiamo il lettore:  https://www.carmillaonline.com/2021/08/20/ethel-mannin-e-il-femminismo-luciferiano/. Il libro che Agenzia Alcatraz ha appena pubblicato e che inaugura Etheliana, una collana dedicata interamente alla prolifica e multiforme attività letteraria dell’autrice inglese – che si era proposta di scrivere almeno un romanzo e un saggio ogni anno, e così aveva fatto tra i 25 e i 75 anni – non è meno provocatorio e “scomodo” del precedente seppure orientato in tutt’altra direzione. Un testo che conferma la posizione controcorrente, sempre sincera, lucida e appassionata, ma mai prona alle osservanze canonizzate dal codice normativo della classe intellettuale britannica nei cui ranghi Ethel era riuscita così faticosamente a farsi largo, in quanto donna e soprattutto in quanto proletaria d’origine (in gioventù era stata costretta ad abbandonare gli studi e a lavorare per anni come segretaria in un’azienda senza smettere mai di scrivere). Refrattaria all’ubbidienza, fosse pure ai dettami della sinistra inglese dove aveva militato a lungo e con fervore, da principio nel Labour Party e poi nell’ Independent Labour Party, prima di rompere clamorosamente con quelle posizioni, a suo dire, troppo filosovietiche e staliniste, e passare dal comunismo alle file degli anarchici, si era guadagnata molti devoti estimatori ma soprattutto ancor più acerrimi nemici. Già negli anni ’30 aveva fatto scandalo la sua autobiografia, in cui dichiarava la propria bisessualità e rivelava le appassionate relazioni extraconiugali con il poeta W.B. Yeats e con il filosofo Bertrand Russell; aveva infastidito molti benpensanti il suo sostegno attivo alla Solidarietà Internazionale Antifascista (SIA) durante la Guerra Civile spagnola; altrettanto indigesti per l’opinione pubblica conservatrice risultavano il suo anticolonialismo, l’antirazzismo, l’agnosticismo, il femminismo e il pacifismo gandhiano del dopoguerra. Insomma, Ethel era una donna di intenso fascino, sia fisico che intellettuale, ma una gran rompiscatole. Tanto per accrescere ulteriormente l’ostilità di molti nei suoi confronti, Ethel, ormai non più giovane, si schiera di nuovo dalla parte meno conveniente. Nel 1958 il romanzo di propaganda filosionista Exodus, scritto dal giornalista ebreo-americano Leon Uris, diventa un best seller internazionale secondo solo a Via col vento e nel 1960 Otto Preminger ne trae un film di uguale successo sceneggiato da Dalton Trumbo (sceneggiatore comunista interdetto per 15 anni da Hollywood perché finito nella lista nera della Commissione per le attività antiamericane, che ricomincerà a firmare opere a suo nome proprio con questo film e con il contemporaneo Spartacus di Stanley Kubrick) e interpretato da Paul Newman nei panni di Ari Ben Canaan, personaggio ispirato alla vita e alla storia di Yitzhak Rabin, generale delle forze di difesa e in seguito primo ministro israeliano. Un’operazione di scoperto e incondizionato appoggio allo Stato di Israele proposta però in termini apparentemente progressisti e “di sinistra”. Ethel, che ha compiuto in quegli anni vari viaggi in Medio Oriente e ben conosce la questione palestinese, non ci sta, e nel 1963, raccogliendo testimonianze e notizie dirette dalle vittime della Nakba del 1948, scrive – come dichiara in esergo al testo, dopo una citazione da Giosuè, il libro più mostruoso della Bibbia – «A e per i profughi palestinesi che, in tutti i Paesi arabi ospitanti, mi hanno detto: “Perché non scrivi la nostra storia – la storia dell’altro esodo – il nostro esodo?”». E così nasce La strada per Be’er Sheva, il primo e forse l’unico testo occidentale che riferisce quanto accaduto dalla parte dei perdenti. La memoria della Nakba: fatta di stragi, persone mitragliate a freddo dagli Einsatzgruppen israeliani, violenze carnali, sputi in faccia e pisciate nei pozzi dell’acqua potabile, case bruciate, donne vecchi e bambini costretti a fuggire nel deserto senza viveri e sotto le incursioni continue dell’aviazione. A dimostrare, per chi se ne fosse accorto solo ora, che non nasce con Gaza l’accanimento colonialista e, diciamolo pure, apertamente nazista dei sionisti contro i palestinesi: tutto questa violenza Ethel già ce la racconta. Il romanzo, il cui finale, lo anticipo, ci lascia con l’amaro in bocca, ma non potrebbe essere altrimenti, qui gli eroi finiscono purtroppo non sull’altare ma nella polvere come nella realtà, è diviso in tre parti: la prima L’esodo, racconta delle centomila persone scacciate da Lidda e dai villaggi circostanti durante la guerra arabo-israeliana e l’attraversamento del deserto fino alla città di Ramallah sul lato arabo, e tra questi la famiglia di Butros Mansour, un proprietario terriero palestinese di fede cristiana, della moglie inglese e del figlio dodicenne Anton, segnato profondamente dalla terribile esperienza; la seconda L’esilio, è il bildungsroman di Anton, costretto  dopo la morte del padre di crepacuore a Gerico, a crescere in Inghilterra, presso la famiglia della madre, una dimensione affettuosa e accogliente ma alla quale non riesce a non sentirsi estraneo, poi la scoperta dell’amore e del sesso – ma anche del dolore per l’insuperabilità delle barriere etniche – e la pervicace conservazione della propria identità grazie al culto del ritorno in Palestina, tra gli amici e i compagni, per infiltrarsi sulla strada di Be’er Sheva, ormai in mani israeliane, e rivedere casa; il terzo Il ritorno, narra il controverso avverarsi dei suoi desideri e il tragico esito della vicenda. Una storia che potrebbe essere – e molto probabilmente è – autentica e per questo triste, spietata e priva di ogni consolazione. Oggi più che mai si impone di leggere un libro come questo e non possiamo non essere grati al coraggio di Agenzia Alcatraz che lo pubblica – in una splendida edizione ottimamente tradotta da Stefania Renzetti e chiosata dall’accorata postfazione di Tiffany Vecchietti – e che dedica spazio e attenzione a una donna e a una scrittrice come Ethel Mannin. Speriamo che gli si aggiunga presto anche il suo seguito ideale, il romanzo del 1966 The Night and Its Homing, ma la collana Etheliana avrà vita lunga ci auguriamo.   L'articolo Ethel Mannin / Prima di Gaza e la memoria della Nakba proviene da Pulp Magazine.
Un esordio sconfessato: Il vento dal nulla, di James G. Ballard
J.B. Ballard, Vento dal nulla, Urania 621 Mondadori 1973 Se fossimo pignoli, questa puntata della rubrica dovrebbe trattare altri scritti di quello che gli appassionati chiamano Shanghai Jim (dalla città ove nacque nel 1930), o il Visionario di Shepperton (dal sobborgo londinese nel quale risiedette per la maggior parte della sua vita): parliamo ovviamente di James Graham Ballard, che nelle edizioni inglesi e americane della sua narrativa appare regolarmente come J.G. Ballard (da quelle parti gli scrittori hanno il sacrosanto diritto di scegliere quali dei loro nomi far apparire e quali no, e quali tenere solo come iniziali). Se fossimo pignoli, dicevo, in questo pezzo dovrei parlare di “Tredici verso Centauro”, oppure di “Prima Belladonna”, perché questi due racconti uscirono nel 1956 su due diverse riviste pulp britanniche, New Worlds Science Fiction e Science Fantasy, entrambe dirette da John Carnell (che passa alla storia come lo scopritore dello scrittore che in seguito avrebbe rivoluzionato la fantascienza britannica, e non solo quella). Tra i due racconti, però, sarebbe un po’ difficile dire quale sia l’opera prima, in quanto uscirono entrambi nel numero di dicembre delle due riviste; mi toglierò pertanto d’imbarazzo dedicandomi al primo romanzo pubblicato da Ballard, Il vento dal nulla, che esce prima in due puntate su New Worlds Science Fiction, nel 1961, e poi in paperback per i tipi di Berkley Medallion nel 1962. A tutti gli effetti la carriera di Ballard come scrittore professionista inizia con la pubblicazione del suo primo romanzo. Quando escono i suoi primi racconti, si guadagna da vivere come redattore di una rivista scientifica, Chemistry and Industry, un lavoro che aveva rimediato (dopo aver provato svariati mestieri) con l’aiuto del padre, di professione per l’appunto chimico. La letteratura, fino al 1962, è più un hobby che un mestiere, nonostante Carnell ammirasse il talento del giovane scrittore e fosse ben disposto a pubblicare tutto quel che gli sottoponeva. James è ben consapevole che, se continua a scrivere solo racconti, non riuscirà mai a mantenere moglie e tre figli, e dovrà continuare a dedicare la maggior parte del suo tempo agli articoli dei chimici; si lancia così, in un paio di settimane di ferie, nella frenetica scrittura di un romanzo di fantascienza, per l’appunto Il vento dal nulla, che gli consentirà di mollare Chemistry and Industry e dedicarsi alla letteratura full time. Successivamente, Ballard fu tutt’altro che orgoglioso della sua opera prima. Affermò ripetutamente che l’aveva scritta solamente per fare il salto dal dilettantismo al professionismo, e praticamente lo ripudiò, tanto che l’ultima edizione di lingua inglese risale al lontano 1976. Gli è andata poco meglio da noi: l’ultima volta che è stato ristampato fu in un omnibus, il Millemondiestate di Urania del 1981. A tutti gli effetti si tratta di un romanzo rimosso, sconfessato,  che ormai è di non facilissima reperibilità – un pezzo da collezionisti. Ma cos’ha di tanto terribile? Basterebbe un confronto con il romanzo successivo, Il mondo sommerso (anche questo uscito nel 1962, noto in Italia anche come Deserto d’acqua), per capire dov’è il problema. Entrambe le storie sono incentrate su un disastro su scala planetaria; nell’opera prima, un vento che comincia a soffiare e aumenta di intensità di otto chilometri orari ogni ventiquattr’ore, raggiungendo al culmine della sua furia oltre settecento chilometri orari e spianando inesorabilmente tutte le opere dell’uomo, oltre a spazzare via il terreno coltivabile e interi laghi e mari; nell’opera seconda, un aumento delle temperature su scala globale che porta allo scioglimento dei ghiacci polari e trasforma Londra in una palude tropicale. Non ci vuole molto a capire che Il mondo sommerso può essere letto oggi come una premonizione del riscaldamento climatico che ci affligge, anche se all’epoca il fenomeno era ancora di là da venire. Ma a parte l’attualità del secondo romanzo, il problema è che nel primo Ballard ha intrecciato l’elemento fantascientifico (il vento apocalittico) con una trama d’azione che – a rileggere oggi – pare presa di peso da un film di James Bond, con tanto di un supervillain, Hardoon, che sembra una versione alternativa di Goldfinger. Nell’opera seconda, invece, i riferimenti sono più elevati, tra Jung e T.S. Eliot, e la pittura surrealista. Il vento dal nulla segue le peripezie di due personaggi, l’inglese Maitland, medico, e l’americano Lanyon, comandante di un sottomarino dell’US Navy; ai due ne succedono di tutti i colori (nel caso di Lanyon anche l’incontro con un gruppo di malavitosi liguri di buon cuore), scampando alla catastrofe per ritrovarsi entrambi nella piramide di cemento armato che Hardoon, un miliardario decisamente megalomane, si è fatto costruire per diventare l’unico uomo che sfida il vento sterminatore, mentre tutti gli altri si nascondono terrorizzati sotto terra. Ci sono sparatorie, scazzottate, pericoli sventati all’ultimo minuto: il tutto piuttosto sforzato e non sempre connesso logicamente. Maitland e Lanyon finiscono nella piramide di Hardoon piuttosto gratuitamente, e il disastro finale, cioè il crollo della suddetta piramide, giunge più per gratificare i lettori con la punizione del cattivo, che per una qualche consequenzialità (non si capisce come mai uno ricco come Hardoon si sia messo in mano a ingegneri così incompetenti: mica è italiano!). Inoltre, la frase che chiude il libro annunciando che il vento sta cominciando finalmente a esaurirsi provvede un lieto fine decisamente forzato. I due protagonisti, come s’è detto, hanno qualcosa di James Bond, pur non essendo agenti segreti: entrambi uomini d’azione tutti d’un pezzo, senza grande spessore psicologico. Solo nel caso di Maitland si accenna a un matrimonio fallito con una bella donna del jet set (che muore spazzata via dal vento, quasi consegnandosi volontariamente ad esso); accenno a ben altre complessità psicologiche e psicanalitiche che incontreremo nelle altre opere di Ballard. Lanyon, invece, conquista la bella giornalista Patricia Olsen della NBC, nella più pura tradizione fleminghiana (c’è persino un brutalone grande e grosso dall’omicidio facile, Kroll, al servizio di Hardoon, che è equivalente al personaggio di Oddjob in Goldfinger). Insomma, Ballard, che conosciamo come uno dei più originali scrittori inglesi del secondo dopoguerra, qui ci serve una serie di stereotipi che tradiscono la fretta con cui venne buttato giù questo romanzo. Però alla fine Ballard era già Ballard, e segni della sua maniera matura spuntano qua e là anche in questo prodotto artigianale. Quando descrive le stazioni della metropolitana londinese usate come rifugio, non si può non pensare alla Seconda guerra mondiale terminata solo sedici anni prima, ma anche a come gli inglesi internati a Shanghai dai giapponesi si ammucchiavano nel campo di prigionia di Lunghua, che compare ne L’impero del sole, e poi ancora ne La gentilezza delle donne. Elettrodomestici e macchinari accatastati dai malavitosi liguri nel sotterraneo di un convento diroccato anticipano lo sfolgorante spettacolo delle merci nell’Impero del sole, tutto quello (auto di lusso, frigoriferi, ecc.) che i giapponesi hanno saccheggiato dalle dimore degli occidentali e accatastato in uno stadio. E sarà un caso se uno dei banditi brandisce una pistola Mauser, che era l’arma d’ordinanza delle guardie nipponiche a Lunghua? Erano tracce di un passato traumatico che sarebbero riemerse completamente solo negli anni Ottanta, ma quei contenuti latenti già baluginavano nel mondo catastrofico immaginato da Shanghai Jim. Inoltre, il fallimento del piano di Hardoon, il crollo della piramide, non è solo un finale coi botti, ma anche l’occasione per dare sfogo al pessimismo swiftiano di Ballard, che tornerà nei romanzi e nei racconti successivi, la sua sfiducia in un’umanità mossa da pulsioni irrazionali e da smanie di onnipotenza che si scontrano con le forze cosmiche dell’universo, a loro del tutto indifferenti. C’è dietro la tradizione apocalittica inglese, che risale al Diario dell’anno della peste di Defoe, passando per la fantascienza filosofica di Herbert George Wells; c’è dietro anche Darwin, implicitamente citato in una battuta di un personaggio secondario, che riflette su tutti quelli che non sopravviveranno alla catastrofe: “Lo so che suona spregevole, ma l’adattabilità è la sola vera forma di qualificazione biologica per la sopravvivenza. Al momento è in corso una forma di selezione naturale piuttosto severa, e francamente io voglio essere selezionato”. L’eroismo tardoromantico (e piuttosto frusto) di Hardoon non ha futuro; davanti a una trasformazione planetaria bisogna adattarsi – e questa è la morale di Il mondo sommerso, dove il protagonista alla fine in qualche modo accetta la regressione temporale che riporta la Terra al triassico, anche se questo ovviamente comporta la sua morte. E già in questo romanzo scritto a tirar via, ma da un praticante non privo di talento, emerge il gusto di Ballard per il paesaggio urbano (ma anche naturale). Sappiamo bene come lo scrittore fosse un grande appassionato di arte contemporanea, estimatore dei surrealisti e di De Chirico, amico dell’artista pop inglese Paolozzi, frequentatore di gallerie d’arte e mostre; quando fece i soldi con i diritti dell’adattamento de L’impero del sole, diretto da Spielberg, Ballard ne investì una parte per farsi fare una copia di una tela perduta di Delvaux, che poi mise in bella mostra sul caminetto del salotto. E le descrizioni della Londra obliterata dal vento apocalittico fanno presagire le visioni surreali della metropoli sommersa nel romanzo successivo, o la foresta pluviale cristallizzata in Foresta di cristallo. Pochi romanzieri nel secondo novecento hanno la forza visuale di Ballard, che ha costruito alcuni dei suoi racconti come trascrizioni transmediali di tele di Ernst, Magritte o Dalì; in quest’opera prima non del tutto riuscita c’è già la potenza dell’immagine, anche se l’autore deve ancora imparare a imbrigliarla. E poi, a rileggere Il vento dal nulla c’è una strana sensazione di retrofuturo: Maitland per andare in America deve imbarcarsi su un Boeing 707, l’acme delle telecomunicazioni è la televisione, Tokyo viene descritta come una città di carta e bambù (infatti viene spazzata via ben prima di Londra o New York), e quanto alla Grande Mela il momento topico è quando arriva la notizia che è venuto giù l’Empire State Building. Si tocca con mano come l’anticipazione consentita alle scritture fantascientifiche sia sempre limitata, in un certo senso è una visione in uno specchio oscuro, per enigmi. Però trovi una cosa che, quando lo lessi per la prima volta, mi pareva un po’ tirata per i capelli: il miliardario folle che si fa costruire la piramide come Cheope (puntualmente citato nel romanzo). Oggi quella mi sembra una profezia quasi soprannaturale. Il rifugio del tycoon viene inizialmente chiamato Hardoon Tower; come non pensare alla Trump Tower di là da venire? E l’idea che uno straricco si faccia costruire un monumento da faraoni non mi pare tanto lontana dai razzoni di Elon Musk e dalla proliferazione di torri e torrioni hi-tech (pensate allo Shard di Londra) che abbiamo visto dall’esplodere del turbocapitalismo in poi. Ma si sa: l’occhio sociologico di Ballard vedeva lontano. Non dimentichiamo che nel suo ultimo romanzo, Regno a venire, c’è tutta la psicosi sovranista e regressiva che in Inghilterra ha portato alla Brexit (e prossimamente, chissà, al governo di Farage, personaggio assolutamente ballardiano dell’ultima maniera), e da noi all’attuale governo. Insomma, anche in questo romanzo scritto in fretta, in questo James Bond alle prese con l’apocalisse, in quest’opera d’apprendistato, ci vedi i semi della futura grandezza del Visionario di Shepperton. Che, ahinoi, ci manca tanto, in quest’epoca di pazzi dove abbondano gli idioti dell’orrore… L'articolo Un esordio sconfessato: Il vento dal nulla, di James G. Ballard proviene da Pulp Magazine.
Eugenio Borgna / Ascolto gentile
Il rapporto esistenziale di Eugenio Borgna ha momenti che non hanno intervalli nel corso del tempo, nelle giornate trascorse dallo psichiatra lungo la propria esistenza il cui tappeto sonoro è sempre stata la poesia. E dunque questo libro postumo, Gioia, ne è la prova conforme, il riverbero di una continua speranza che non si è sciolta con la scomparsa dell’uomo nel dicembre dello scorso anno. Ogni pagina è sensitiva e vitale, ogni pagina porta devotamente con sé poetesse e poeti con i loro versi, quei versi che emozionalmente conducono al cuore del lettore – e allo sguardo e all’udito – il loro buon sentire. Rilke, Campo, Dickinson, Pozzi, Celan, Leopardi, dialogano con Borgna e la riflessione filosofica – in un incessante rapporto mai venuto meno – di Weil, Hillesum, Canetti, Agostino, Nietzsche. Filosofia che in molti tratti riprende in mano la “gioia” ponendola al centro delle nostre stanze, in presa diretta con le stanze abitate da Borgna nel pieno del suo Novecento – lui, nato nel 1930, ha varcato il secolo arrivando a toccare questo ventennio che sembra oscurare sempre più l’incontro con le parole della gioia “redentrice”. Il cammino esposto in Gioia attraversa tutti i modi del tempo, il tempo intersecato strettamente con la realtà umana. Entra dentro i linguaggi e li regala a chi legge, soprattutto a coloro che spesso sembrano non accorgersi dell’emozione “fragile e leggera” che talvolta li attraversa e scivola via fra luci e ombre. Borgna è convinto, e ci convince, che grazie alla gioia si possa modulare la nostalgia e pacificarsi con i rimpianti che divorano. Nella sospensione del tempo di chi prova gioia non esistono più inferiorità e superiorità, ecco la notizia, si dialoga fuori dalla mondanità, e il riverbero dei versi riportati in questo vademecum dell’anima diventa sempre più comunicativo: diventa un tessuto forte, un piazzale dove le mattonelle sono scrittura pura. Fra luce e grazia ferita, sono soprattutto i poeti (soprattutto i poeti qui seminati da Borgna) a offrici la gratuità di un incontro. In ultimo, sono queste parole di Francesco a donarci un senso, ad appianare la complessità della vita. Abbiamo bisogno dell’insistenza di Borgna, il suo dire che la psichiatria non deve allearsi con la poesia per continuare a vivere per gli umani. Nel mondo delle relazioni umane la gioia non dovrebbe ferire.     L'articolo Eugenio Borgna / Ascolto gentile proviene da Pulp Magazine.
Luca Cangianti / Resistere non è mai inutile
Se Distruggi il male è un romanzo sviluppato in una geometria frattale, allora le sue vicende possono essere percorse senza partire da un vero centro, districandosi tra i pieni e i vuoti di una vicenda narrativamente ambientata nei primi anni Ottanta a Roma, nel quartiere sudest dell’Appio-Tuscolano. Tuttavia, anche rifacendosi ai romanzi precedenti di Luca Cangianti, Sangue e plusvalore (Imprimatur, 2014) e I morti siete voi (Diarkos, 2019), l’utilizzo dello spazio e del tempo non è quello convenzionale e trova le sue origini nella narrativa fantastica e, in particolare, nell’utilizzo dei piani spazio-temporali che è alla base della serie di Eymerich l’inquisitore sviluppata da Valerio Evangelisti. Sicuramenti entrambi condividono la prospettiva di una narrativa che possa essere strumento delle lotte sociali, rifacendosi a tutta la tradizione della scrittura proletaria che parte dall’Ottocento, cercando il punto di vista delle classi subalterne e operando un’opera di denuncia delle reali condizioni di vita e di lavoro, delle lotte sindacali e della loro repressione. Dal romanticismo di Victor Hugo al naturalismo di Émile Zola, fino a narrazioni contradditorie come Il popolo dell’abisso di Jack London, Cangianti e Evangelisti hanno scelto di calarsi nel passato con la visione e la cultura del presente, con la memoria delle lotte che sono state consumate per cambiare quelle realtà di subordinazione, di superstizione, di povertà che hanno dominato ogni epoca. La cultura militante ha sempre opposto un senso della storia progressivo all’idea di un presente univoco e atemporale, le cui ragioni di esistere sono consolidate nel passato, da essere spacciate per naturali, e non possono essere cambiate. Una visione del tempo che si addice ai desideri e alle strategie delle classi dominanti, delle élite, dei ricchi, degli sfruttatori. Contro questa concezione di percezione della realtà, non solo si oppone il collegamento storico tra il presente e il nostro passato, ma si è sviluppata una narrativa antagonista che intende utilizzare il fantastico e le sue metafore come armi intellettuali per sovvertire lo stato di cose presenti. In tutti i suoi romanzi, Cangianti letteralizza le metafore, ovvero le rende elementi concreti della narrazione. Bisogna pensare all’insetto de La metamorfosi di Franz Kafka, metafora dell’isolamento del diverso come della disumanizzazione, che nel racconto diventa oggetto reale e concreto, un disturbante essere vivente. In Sangue e plusvalore l’elemento centrale, il mostro del romanzo, è una macchina che prende vita e succhia il sangue degli operai, e un ibrido biologico e meccanico che si ispira dalla metafora di Karl Marx tratta da Il capitale: «Il capitale è lavoro morto che resuscita, come un vampiro, solo succhiando lavoro vivo, e tanto più vive quanto più ne succhia». Se il fantastico classico, specialmente l’horror, prevedeva il ristabilimento dell’ordine borghese contro il continuo risorgere delle forme misteriose e arcane del passato, configurandosi come presidio intellettuale illuminista, le forme narrative contemporanee descrivono un sovvertimento che sfugge a una classificazione conservatrice/progressista. Da qualche decennio l’horror ha assunto un ruolo distruttivo, si presenta con nuove forme di vita, come delirio anticapitalista. Cangianti si muove certamente all’interno di un fantastico sovversivo in cui non assistiamo al ripresentarsi di forme e poteri del passato in un’ottica di tempo circolare, ma di dialettica che rivoluziona i rapporti di forza sociali. L’etimologia di rivoluzione, dal latino “volvere” ovvero ruotare, girare, con il prefisso re, indietro, di nuovo, come in astronomia stabilirebbe il ritorno alla situazione precedente, il percorso di un’orbita che riporta al punto di partenza, ma nel tempo è diventato determinante un significato antitetico di rottura radicale, di non ritorno. Per l’horror è accaduta la stessa cosa, da narrazione del ristabilimento di un Ordine atemporale mitico alla rottura dell’ordine politico e sociale, all’impossibilità del ristabilirsi delle condizioni di partenza. Il romanzo I morti siete voi è l’esempio di come horror e fantascienza collaborino alla rottura dell’ordine politico, sociale, relazionale, esistenziale, affettivo, e come il risultato sia un presente che consenta la progettazione di un futuro, qualunque esso sia ma diverso dal presente capitalista globale. Quindi storia, cronaca e passione si interconnettono in una rete neurale letteraria che elabora dati, che pensa, che destruttura, che inventa, che demistifica. Il lavoro di Cangianti è di ricerca storica e, contemporaneamente, di attività militante. Ne I morti siete voi le vicende del gruppo partigiano romano Bandiera rossa, una formazione comunista attiva nelle borgate, si collegano con il G8 di Genova con una forza sorprendente, con un legame che si impossessa del tempo e lo flette in una lotta tra bene e male, tra comunismo e fascismo, in uno scontro tra corpi e nuovi corpi che lavora in profondità nell’immaginario contemporaneo. Ma sono le vicende di Distruggi il male che utilizzano appieno i modelli della fantascienza per ibridarli con il racconto realista della crisi dei movimenti giovali durante il Riflusso che segue al ciclo di lotte degli anni Sessanta. Sono abbastanza certo che Cangianti non abbia letto due racconti di Lino Aldani, “Screziato di rosso” e “Aria di Roma andalusa”, ma è interessante come l’importante scrittore italiano di fantascienza avesse lavorato sia sul rapporto narrativo tra Resistenza e fantastico sia sulle suggestioni di una Roma segreta e misteriosa che deve molto a un originale televisivo come Il segno del comando, diretto da Daniele D’Anza per la RAI nel 1971. L’attenta regia narrativa di Cangianti non nasconde le molteplici ispirazioni, dall’epopea della Resistenza popolare di traccia neorealista e ricca di autoironia, a Cherudek (1997), il più visionario dei romanzi di Valerio Evangelisti, alla geografia della mai completamente scomparsa capitale esoterica e iniziatica, alle utopie intellettuali e popolari, alla ricca letteratura dedicata alla fine della rivolta giovanile e del dilagare del disimpegno e dell’eroina. Ma per Cangianti quegli ideali dell’antifascismo spontaneo e popolare, senza partito, non sono mai morti, anzi sono destinati a rispuntare come le piante maligne da ogni crepa della nostra asfaltata società. Come in molte opere fantastiche esiste un libro guida, e in Distruggi il male ce ne sono due: Il signore degli anelli di Tolkien e Banditi di Piero Chiodi, comandante partigiano della Centotreesima Garibaldi e filosofo esistenzialista. La lettura di Tolkien che, nella finzione del romanzo, Cangianti affida a Enrico, il protagonista, un liceale che si avvicina ad Autonomia Operaia un po’ per amore e un po’ per senso salgariano di avventura, è quella ecologista e libertaria, interetnica, e che può essere sinteticamente riferita al saggio di Alessandro Portelli “Appunti su Tolkien e Il Signore degli anelli”, pubblicata sul numero 18 della rivista Primo Maggio (ripresa su Pulp Magazine). L’utilizzo de Il signore degli anelli nel romanzo di Cangianti, alla faccia di decenni di riscrittura ideologica e pacchiana dell’estrema destra, recupera il tema della lotta contro il male che percorre tutta la lettera popolare fino agli anime giapponesi, quel sentimento di lottare dalla parte giusta, quell’emozione di mettere a rischio la propria vita contro l’ingiustizia e la sopraffazione, quella comprensione delle diversità che costituiscono il gruppo. In Distruggi il male la “compagnia” che si raccoglie all’Alberone non può essere più eterogenea nelle esperienze e nelle sofferenze così profonde nonostante le giovani età, l’opposto del mito dell’individuo superiore, del culto della morte, del disprezzo. Da Banditi di Chiodi invece ricava una lettura della Resistenza anti-mitica, contraddittoria, di felicità e paura abbracciate. Ma è la fine del sogno di rivolta che era nato nel ’77 a essere chiave di lettura che lega la guerriglia dei partigiani di Bandiera Rossa, al Movimento che si scontrava ad armi pari con le squadre di Francesco Cossiga, alla lotta in Val di Susa. Se passate per Roma vedrete sui muri delle vecchie case le lapidi che ricordano gli assassinati delle Fosse Ardeatine. Più di cinquanta di loro erano partigiani di Bandiera Rossa. Quando leggerete le parole nel marmo, pensate che la lotta non è finita e resistere non è mai inutile. L'articolo Luca Cangianti / Resistere non è mai inutile proviene da Pulp Magazine.
Nakazawa Keiji / 80 anni dopo Hiroshima
”Riposate in pace perché noi non ripeteremo il male” (Asurakani nemutte kudasai. Ayamachi wa kurikaeshimasenkara). Questa frase è incisa sul Memoriale della Bomba di Hiroshima, luogo di ritrovo ogni anno per migliaia di giapponesi per non dimenticare. È significativo ricordare che il sito è patrimonio dell’UNESCO solo dal 1996 per una decisione presa con opposizione degli USA e l’astensione della Cina. Al suo interno è racchiuso un registro con i nomi di tutte le vittime dell’esplosione atomica. Quest’anno cade un triste anniversario, sono infatti trascorsi ottant’anni dallo sgancio delle due bombe atomiche ma facciamo un ripasso di storia.  Sono le 8.15 del 6 agosto 1945 e gli Stati Uniti sganciano la prima bomba atomica su Hiroshima, la seconda esplosione avverrà solo qualche giorno dopo, il 9 agosto e la città prescelta stavolta sarà Nagasaki. La seconda guerra mondiale è agli sgoccioli e il Giappone è al collasso. Le conseguenze sono devastanti: esseri che un tempo erano persone camminano come ombre mentre la loro pelle si scioglie letteralmente a causa del fallout radioattivo e una sete folle li coglie. Con una potenza di sedici chilotoni Little Boy, il primo ordigno nucleare, spazza via in pochi minuti oltre ottantamila giapponesi lasciando sconvolta nel profondo l’intera nazione.  Tra i pochi sopravvissuti c’è Keiji Nakazawa che all’epoca ha sei anni e che nell’esplosione perde parte della famiglia. Da questa terribile esperienza nasce la sua opera principale Gen di Hiroshima (Hadashi no Gen letteralmente Gen a piedi nudi). Il protagonista è un bambino di sei anni nato e cresciuto a Hiroshima che nell’esplosione perde gran parte della famiglia. Decisamente autobiografico non trovate? Ma la sua rabbia per quanto successo e per le conseguenze della bomba – le radiazioni colpiranno intere generazioni negli anni a seguire provocando malformazioni, tumori e leucemie – è presente e caratterizza tutti i suoi manga, incluso Colpiti da una pioggia nera.  Gli A-bomb manga, così vengono definiti, raggiungono il loro apice quantitativo negli anni che vanno dal 1954 al 1973, anche in relazione ad un incidente del marzo del ’54 in cui una nave da pesca giapponese fu contaminata dalle ricadute radioattive di un test nucleare statunitense sull’atollo Bikini (un episodio espressamente richiamato anche nel primo Godzilla di Ishirō Honda, dello stesso anno).  La bomba atomica viene esplicitamente rappresentata e raccontata nei fumetti come una sovrastante minaccia per la specie umana:  oltre settanta opere pubblicate in questo arco di tempo definiscono l’età dell’oro degli A-bomb.  La figura dell’hibakusha – come vengono chiamati i sopravvissuti alla duplice esplosione nucleare – diventa lo spunto narrativo anche di questa antologia di Nakazawa. Al centro di tutti i racconti, come “non persone” sono disprezzati dagli altri giapponesi e spinti ai margini della società senza un sostegno economico per le malformazioni con cui sono costretti a vivere. Rifiutati perché persino i loro figli generano bambini malati, gli hibakusha sono sfruttati e maltrattati anche dagli americani,  arrivati dopo l’esplosione per studiare in loco gli effetti delle radiazioni sui loro corpi, e dimenticati dall’imperatore a cui hanno dato tutto.  In queste storie, ambientate alla fine degli anni Sessanta, Nakazawa sottolinea però oltre all’indicibile sofferenza provata, anche la forza di un popolo che, nonostante tutto, ha voglia di vivere e andare avanti. Se è palese l’odio nei confronti di coloro che hanno organizzato questa crudele ecatombe, gli americani, l’autore evidenzia anche l’insensatezza di una guerra che ha portato solo povertà ad un popolo ora in ginocchio. Una guerra che ha cambiato per sempre il volto e il modo di pensare del Giappone, mischiando due culture opposte, quella occidentale e quella orientale, portando quest’ultima sulla rotta del capitalismo.  “Noi che avevamo assistito e avevamo subito il bombardamento  sulla nostra pelle non trovavamo le parole. Ascoltandoci a vicenda, scoprimmo che ciascuna delle nostre esperienze personali non era che un frammento minuscolo di un affresco dell’enorme catastrofe. Se il racconto orale fosse rimasto l’unica comunicazione, nel tempo quei fatti reali sarebbero stati persi o distorti. Per le generazioni future, volevo un resoconto fatto di parole scritte dagli hibakusha.” Un’interessante postfazione completa il volume approfondendo l’argomento della bomba e arricchendolo con notizie e nozioni storiche, come ad esempio il discorso sopra citato del sindaco di Hiroshima Hamai Shinzò (in carica dal 1947 al 1955 e poi dal 1959 fino al 1967) che si fa promotore di un archivio di shuki,  ovvero di appunti e di memorie e di kiroku,  le cronache dei sopravvissuti della sua città. Paolo La Marca ci racconta invece un po’ nel dettaglio la storia della letteratura giapponese sull’atomica. Keiji Nakazawa è un sopravvissuto. La bomba cade a 1,2 km da dove si trova e si salva per miracolo ma il prezzo da pagare per lui è molto alto. Perde il padre, il fratello minore e la sorella maggiore. Nel 1955 lavora presso la bottega di un artigiano di insegne e disegna fumetti da autodidatta, ma è nel 1961 quando si trasferisce a Tokyo, dove lavora come assistente di un mangaka, che la sua vita professionale vive una svolta. Colpiti da una pioggia nera vede la luce nel 1968 suscitando reazioni fortissime mentre nel 1973 comincia la serializzazione di Gen di Hiroshima sulla rivista settimanale “Shukan Shonen Jump” che riscuote enorme successo sia tra i ragazzi che tra gli adulti, diventando un best e un long seller tradotto in tutto il mondo oltre a ispirare un film animato e una serie televisiva live action. Nakazawa ci ha lasciato nel dicembre del 2012. L'articolo Nakazawa Keiji / 80 anni dopo Hiroshima proviene da Pulp Magazine.
Hamid Ismailov / Lungo viaggio verso il nulla
“Ho vissuto più morti sottoterra che vite in superficie” afferma Kirill, moderna declinazione dell’uomo del sottosuolo di Dostoevskij, il quale in realtà si chiama Mbobo ed è di carnagione scura, come un grottesco fratellino di Puškin. Frutto dell’incontro improbabile fra una bellissima e volubile donna chakassa e un atleta africano è un essere informe, intriso di sofferenza. Il suo regno è l’abisso della metropolitana di Mosca, un luogo infero che si identifica con le sue viscere, il suo sangue, le sue vene. Ogni stazione costituisce il percorso di una via crucis dolorosa, in un lungo viaggio verso il nulla. L’uomo è crocifisso nel tempo, mentre il Cristo non rappresenta una speranza di effettiva salvezza. “La separazione fra uomo e uomo è incolmabile”. Il figlio del sottosuolo di Hamid Ismailov è un romanzo potente, un labirinto nel quale la grande letteratura russa riverbera illuminando di nuova luce il nostro presente. I volti di Bulgakov e Dostoevskij balenano nelle buie gallerie, nel regno delle forme sotterranee preda di un caos ingovernabile. I lampadari pendono come stalattiti nell’antro misterioso e oscuro. Lo schema della metropolitana ricorda una tela di ragno, mentre lo scrittore tenta di intessere una rete di parole, un muro impenetrabile dietro il quale ripararsi, una possibilità di salvezza generata dall’infinità del pensiero. La metropolitana, inoltre, simboleggia il sistema sovietico; una dimensione invisibile ma perfettamente controllata nelle sue dinamiche. “Un accenno subliminale all’edificazione di una vita paradisiaca, sia pure nel sottosuolo, comunemente concepito come inferno”.  Il comunismo costruito sottoterra. Costretto dalla madre a un’esistenza erratica e precaria, come se fuggissero sempre da qualcosa, come se fossero inseguiti perennemente da un pazzo pericoloso, Mbobo non ha un posto dove vivere. Non sa esattamente dove stia andando e cosa stia cercando. Sa solo che non vuole abbandonare Mosca, questo agglomerato urbano che porta il nome di sua madre e dove è nato. Come Ulisse è costretto a vagare per i mari, come Dante deve errare da un girone all’altro dell’inferno. Derive mitologiche, come la descrizione della discesa della dea mesopotamica Inanna nell’oltretomba, arricchiscono il tessuto testuale. Un diluvio di ricordi frammentari sommerge il protagonista. I due patrigni, lo Zio Nazar nella sua casa in via di demolizione, e lo zio Gleb, uno scrittore che cerca di colmare il vuoto con l’alcol più che con la letteratura, modellano la sua infanzia. Nell’assenza totale di senso bisogna cercare di sopravvivere, di resistere. Mbobo è scisso a metà, come nell’immagine dello specchio infranto che riflette il suo viso atterrito; è mezzo nero e mezzo bianco, mezzo chakasso e mezzo russo, intessuto di luce e oscurità profonda. I pregiudizi razziali lo minacciano, un senso di estraneità lo aggredisce. In questa figura singolare, Ismail delinea i tratti dell’uomo superfluo contemporaneo, la cui anima è macchiata dal buio. Per comprendere la realtà attuale scrive un romanzo che è immersione nella storia più recente, nelle utopie della glasnost e nelle sue conseguenze. Lo smarrimento seguito alla dissoluzione dell’Unione Sovietica permette a pochi di arricchirsi sulla pelle degli altri, modellando una società agghiacciante. I risparmi messi da parte con grandi sacrifici perdono improvvisamente il proprio valore, mentre un’atmosfera di catastrofe si addensa sul Paese. “Anche le persone erano improvvisamente cambiate”. Il mondo sotterraneo diviene metafora di una realtà fatta di casematte e celle di isolamento, di deportazioni e interrogatori. Lo scrittore uzbeko decifra le coordinate di un intero popolo consegnato al caos e alla sofferenza, il disgregarsi di un’utopia degenerata nella violenza.   L'articolo Hamid Ismailov / Lungo viaggio verso il nulla proviene da Pulp Magazine.