Michele Mari / L’eterno ritorno
Leggere Michele Mari significa entrare in una stanza degli specchi in cui tutto
è già noto. I convitati di pietra non fa eccezione: il romanzo è un sistema di
ossessioni, una costellazione che costituisce l’impianto stesso del testo.
Fumetti, collezionismo, film, rituali, rigidità moralistiche, un’ironia
enciclopedica: motivi che si intensificano come in una filastrocca sempre più
inquieta. In questa regressione ostinata al bambino sapientino di dieci anni che
è dentro Mari si concentra la parte tragica dei suoi libri: l’autore non si
emancipa dall’infanzia, la rimette continuamente in scena, trasformandola in una
camera d’eco malinconica.
La trama – la riffa mortuaria della III A del 1975, l’escalation di morti,
sospetti e alleanze – ruota attorno a un patto semplice e spietato: ognuno dei
trenta compagni versa una quota di denaro, un fondo comune che maturerà
interessi e che, alla fine, verrà ereditato dagli ultimi tre superstiti della
classe. Una sorta di Dieci piccoli indiani moltiplicato per tre: stesso
meccanismo rituale, ma dilatato nel tempo, non finalizzato alla soluzione del
giallo bensì alla conferma di un vincolo. Il piacere della lettura nasce dal
riconoscimento immediato del mondo dell’autore: ogni romanzo amplifica le sue
manie, e il lettore vi entra come in un’abitudine affettiva, trovando conforto
in questa coerenza.
Ne I convitati di pietra i personaggi invecchiano, accumulano acciacchi,
attraversano decenni – il romanzo spinge la sua cronologia fino al 2050 e oltre
–, ma sembrano non aver mai davvero lasciato il cortile della scuola. La cena
rituale del 22 luglio è il momento in cui tutto si ricompone: un appuntamento
che riconferma ogni anno il patto, riattiva la competizione e dissolve
l’identità adulta. A tavola riemerge la stessa dinamica liceale, rigida e
crudele, e tutto ciò che accade fuori da quel rito sembra una parentesi
secondaria, un segmento di tempo che esiste solo per condurre nuovamente a
quella data fissa, al vero centro delle loro vite.
In questo mondo, la figura di Luca Brodo è l’emblema dell’infantile puro. Alla
sua ossessione onanistica che esita un tremito permanente alla mano destra
spacciato per morbo di Parkinson, corrisponde una precisione descrittiva
altrettanto maniacale, che finisce per raccontarlo meglio di qualsiasi dialogo.
Brodo vive in un erotismo senza altro: un archivio mentale fatto di immagini e
micro-dettagli, una collezione interiore che ruota soprattutto attorno alla
compagna di classe Francesca Ricci, sopravvissuta a un grave incidente e
costretta alla sedia a rotelle. È lei il centro del suo immaginario: Brodo si
concentra sulle cromature lucide della carrozzina, sulle curve metalliche del
telaio, su quei bagliori che diventano per lui un’estensione feticistica del
corpo della Ricci. Il desiderio si sposta dall’oggetto umano all’oggetto
tecnico, come se la sua fantasia non riuscisse più a distinguere tra il corpo e
ciò che lo sostiene. Un erotismo che però non assomiglia certo ai traumi
metallici del Crash di BAllard — né alla loro versione cinematografica filtrata
dallo sguardo glaciale e perturbante di David Cronenberg. Lì il metallo è una
ferita, una promessa di dissoluzione; qui, nelle fantasie di Brodo, il metallo
della carrozzina diventa un giocattolo sublimato, una superficie brillante su
cui proiettare un desiderio che non ha mai imparato a diventare adulto.
L’erotismo di Mari è perturbante, sì, ma lo è solo per la sua cifra di assoluto
infantilismo, per il modo in cui riduce la complessità del desiderio a un
rituale solitario, ripetitivo, statico, privo di ogni minaccia reale. È un
perturbante che non nasce dal rischio, ma dalla regressione: dal rifiuto
inconsapevole di crescere. Ed è così per tutti: la sessualità che attraversa il
romanzo è goffa, immediata, ripetitiva. La Gaudillo colleziona conquiste fra i
compagni di classe come figurine; Semprini si lascia trascinare all’atto
sessuale mentre pensa alla gatta Crazy, la creatura di Herriman che gli abita
nella testa più di qualsiasi donna reale; Rivadeneyra usa il corpo come valuta.
Il sesso non genera legami: irrigidisce ruoli, conferma ossessioni, mostra un
mondo emotivamente bloccato.
C’è poi la città di Milano. I convitati di pietra è anche una sorta di giallo
topografico. Ogni personaggio ha un indirizzo preciso, un civico esatto nella
mappa milanese. Via Melzi d’Eril, via Sassetti, via Mac Mahon, via Canonica,
viale Sarca: seguendo i loro movimenti, il lettore traccia percorsi e incroci
che ricordano un’indagine. Milano diventa una città-cronologia, un reticolo di
luoghi che conservano le tracce emotive e biografiche dei personaggi: scene
della loro formazione, dei loro fallimenti, delle loro morti e omicidi. Come
attraversare mezzo secolo di memoria urbana leggendo, allo stesso tempo, la
mappa di un delitto.
La riffa – con la sua logica da gioco infantile – come detto è il centro
gravitazionale di tutto. Non offre ricompense reali, eppure nessuno può
sottrarsi: la competizione è identità. Ogni morte tiene in vita il fantasma
della giovinezza; ogni cedimento fisico rinforza il legame perverso con quella
classe di liceo che non smette di richiamarli a sé. E questa ripetizione genera
un conforto nel lettore. Leggendo, si attende il momento in cui Mari spingerà
ancora un po’ oltre la sua macchina narrativa: la monomania di Semprini, il
potere della Bathory, le invenzioni rituali di Brodo. La prevedibilità diventa
una promessa: entri in questo universo sapendo già come funziona e vuoi vederne
i margini.
Chi può essere allora il lettore di un romanzo così? A entrarci davvero è un
“lettore sofisticato”, in grado di riconoscere la forma, il lavoro sulla
ripetizione, la manutenzione maniacale del dispositivo narrativo. È un lettore
che vede il mestiere di Mari e lo apprezza proprio perché è trasparente, quasi
esibito. Un “lettore ingenuo”, invece — e soprattutto un lettore giovane che non
sa niente degli oggetti o manie di un’epoca ormai sorpassata — rischia di
uscirne spaesato. Senza il repertorio culturale che sostiene il mondo di Mari,
la ripetizione può sembrare immobilità, e l’ossessione un vezzo più che una
poetica. Il “lettore naturale” resta dunque un coetaneo dell’autore, qualcuno
che riconosce quel paesaggio: fumetti, l’intera filmografia elencata titolo per
titolo di un attore come Gene Hakmann! linguaggi scolastici, riti e mitologie di
un’infanzia mai davvero superata. I convitati di pietra non racconta una
generazione: parla a una generazione, e chiede un ascolto che viene da lontano.
In ogni caso I convitati di pietra è un romanzo insieme divertente e triste con
al centro, di fatto, la morte. È un libro che non cerca nuove direzioni: amplia
una forma che Mari coltiva da sempre, cercando di renderla più nitida, più
spietata, più teneramente crudele. Si legge come si legge un rituale:
riconoscendo ogni passaggio e aspettando di vedere fino a che punto Mari
permette alla sua macchina di girare.
L'articolo Michele Mari / L’eterno ritorno proviene da Pulp Magazine.