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Quotidiano dei libri

Mario Moroni / Corinto oggi: New York City
Mario Moroni, classe 1955, ha attraversato gran parte della scena poetica italiana mai uniformandosi al mainstream che creava diversità presuntuose e tribù a dir poco esigenti e enfatiche nel pieno delle loro prove. Mario ha viaggiato razionalmente da Tarquinia al Maine e New York, l’Oceano di mezzo ha sostenuto mutamenti dall’esordio nel 1979 dalle parti del Mulino di Bazzano dove le semine poetiche avevano i nomi di Adriano Spatola e Giulia Niccolai e quelli erano davvero “altri luoghi” e “assolutamente attuali” per quel tempo e – possiamo dire – oggi, se vogliamo far leggere e intendere ai più vogliosi una storia della poesia italiana esente d’intelligenze aliene. L’esperimento poetico di Moroni ha attraversato i decenni con libri sempre più antropici, nati in luoghi adatti a lavorare in pace, che non significa stare lontani dagli eventi, anche i più terribili. Uno scrittore serio ma non severo ha saputo raccogliere le ceneri del mondo con ferma levità. Ha ricomposto resti, manufatti e carne umana: nomi precisi, una decina di raccolte poetiche, collaborazioni a riviste, insegnamenti alla Yale University, al Colby College, alla Binghamton University. Esperimenti e leggibilità, scritture che non sempre hanno avuto bisogno della cosiddetta realtà, e infine in questo ventennio impazzito Moroni fa ri-nascere il proprio linguaggio dove come poeta non deve niente al buio attuale. Ma, improvvisamente, supera il lutto trasfigurando la classicità greca e latina. Poemi e tragedie non vengono imitati ma riverberano immagini di sforzo senza distrazione: l’esistenza di uno sguardo è testimoniata da Tracce tragiche, ripresa delle grandi tragedie classiche di Antigone, Elettra e Medea. Sfida e interazione con l’originale riportano nuovamente all’anti­co gesto del narrare la ferita di queste voci e corpi lontani. Gesti eroici di donne, efficacia di tradimenti, gesti di pietà che annunciano la civilizzazione, è quanto interessa a Moroni mentre costruisce tre lunghi poemi sulle tracce di Sofocle e Euripide. Ambienti e personaggi femminili vengono strappati dal tempo del potere originale la cui struttura viene ribaltata nella metropoli contemporanea, nella per niente simbolica figura della “T-Tower”, erede negativissima delle distrutte Twin Towers”. Corinto regno del dissesto si ribalta nella New York attuale, dove i destini attraversano l’ombra, creatori essi d’ombre che atterrano chi credeva e sperava, e chi non credeva: Moroni accompagna le Medee pasoliniane e i Giasoni con sospensioni, interazioni e Cori di scena finale. Al centro del libro il “Monologo elettrico di Elettra” apre la storia vocativa, in attesa dell’Epilogo, e sembra riprendere la vocazione analitica di Moroni che consente alle strofe di recitare sia se stesse sia Elettra con la sorella Ifigenia. Queste ci sfiorano ancora, poiché i versi multiformi del poema invogliano a non essere più astemi di miti incarnati d’eroine più che di dèi migrati altrove per sempre. Con Tracce tragiche è giunto il momento in cui le acque del mito, agitate tanto da consegnarle alla torbidità da coloro che vantano modesta conoscenza, trovano nitidezza d’antica poesia a cui pochi oggi sono accordati. Laggiù, dove vive Moroni, qualcosa si muove, c’è una domanda che pretende atto di risposta. Il presente e il passato non si assimilano, oggi un poeta come Moroni prende il canone classico non come funerario assemblement e felicemente scrive: «Su scena rovesciata, / coro che tace, incapace, / tragedia da riscrivere, / da rivedere altrove». L'articolo Mario Moroni / Corinto oggi: New York City proviene da Pulp Magazine.
Zuzu / Anatomia di una sparizione
La prima cosa che colpisce leggendo un fumetto di Zuzu sono i nasi. Grandi, sporgenti, sbilenchi: non caricaturali, non grotteschi, ma dichiarazioni di esistenza. Sono lì a dire che ogni volto ha diritto alla sua forma, anche se non corrisponde ad alcun canone. Nel mondo di Zuzu i corpi sono imperfetti, diversi, autentici come si conferma in Ragazzo. Ambientato a Salerno nel 2013 – quando i social non erano ancora pervasivi come oggi – Ragazzo ruota attorno a una scomparsa: Andrea, adolescente “strano”, esce di casa senza cellulare né documenti e non torna. Ma questo non è un giallo. È un racconto di risonanze emotive: cosa provoca la sua assenza in chi resta? Cosa significa scomparire o restare quando si è ragazzi, amici, figli o genitori? Attorno ad Andrea si muovono Alice, che forse è l’ultima ad averlo visto, e Francesco, adolescente spaesato e fragile, attraversato da un dolore sordo, da un’identità incerta, da un desiderio che sa dove andare – verso Alice che ama tantissimo – ma non sa come andare. È lui a tentare il gesto più radicale: non solo sparire, ma provare a morire. I due ragazzi del titolo sono uno che manca per quasi tutta la storia e uno che vorrebbe mancare per sempre. Del primo sappiamo poco: che era generoso, gentile, che aveva un rapporto speciale con sua madre. Del secondo sappiamo tutto: il corpo che non risponde, l’ansia, la fatica di stare al mondo, l’amore per Alice che si trasforma in impotenza. In questa ambivalenza si gioca il titolo Ragazzo: è singolare, ma evoca una pluralità. Due assenze, due dolori, due modi di dire “non ce la faccio”. Ma anche due modi di rimanere. Zuzu, che in Giorni felici aveva saputo raccontare con profondità la protagonista durante le sue crisi di coppia e di senso, qui sposta lo sguardo sui maschi. Racconta la vulnerabilità dei ragazzi, l’incertezza, la paura di non essere all’altezza che però non diventa misoginia. La sessualità, presente e forte in tutte le sue opere, non è mai pruriginosa né pornografica: è parte della vita, qualcosa che si impara, che si sperimenta, che può fare paura o male, ma che è sempre legata al desiderio di essere visti, toccati, amati. Questo vale anche per i personaggi adulti. Alle due figure di ragazzo corrispondono infatti due madri, anche loro complesse e tridimensionali. Rita, la madre di Andrea, lo ha cresciuto da sola. È una donna che ama, che ha amato: ha avuto una relazione con il padre di Francesco, e questo dettaglio – che potrebbe sembrare accessorio – diventa invece una chiave narrativa sottile e potente. Anche la madre di Francesco ha una sua storia affettiva: vive una relazione omosessuale che la sorprende. Nessuna delle due è soltanto “madre”. Sono donne con desideri, corpi, relazioni. E, nei momenti più bui, sono proprio i genitori – anche quelli feriti, contraddittori – a sapere stare accanto ai ragazzi. Zuzu racconta con grande empatia questa forma imperfetta ma vitale di prossimità adulta. Ragazzo è dunque un romanzo del “noi”. Se i primi libri erano centrati sull’io, qui Zuzu allarga lo sguardo: racconta le generazioni, la trasmissione del dolore, la possibilità dell’ascolto. Ogni personaggio, anche il più marginale, come l’uomo sulla panchina ha diritto a esserci. Ogni voce è un pezzo di quel noi fragile e intermittente che chiamiamo comunità. Dal punto di vista grafico, Zuzu continua a reinventarsi. Dopo il bianco e nero di Cheese e i pastelli e matite di Giorni felici, in Ragazzo usa pennarelli volutamente scoloriti, infantili, imperfetti. Il colore incompleto diventa metafora della vita che non si sa dire tutta. Anche l’uso dello spazio è libero: tavole fitte alternate a vuoti, silenzi, dettagli che restano sospesi. Il ritmo è quello delle emozioni, dei respiri, degli inciampi. Zuzu ha dichiarato in un’intervista che ci ha messo due anni per terminare questo fumetto, e noi lo leggiamo in mezz’ora. Ma Ragazzo ci prende, ci aggancia, ci invita a tornare indietro. La prima lettura è spesso in continuità con i libri precedenti: mettiamo le opere in relazione, seguiamo l’evoluzione grafica, riconosciamo la voce. Poi rileggiamo Ragazzo per la storia. E quel bisogno di ritornarci dice molto: vuol dire che il lavoro grafico e narrativo sono profondamente intrecciati, che ciò che può sembrare una sospensione o una mancanza di trama si compensa nel modo in cui Zuzu colora, struttura, riempie le sue storie. E ci fa restare. Ma ciò che rende unica l’opera di Zuzu è la sua etica dello sguardo. Non c’è mai giudizio, mai una semplificazione, mai la tentazione di trovare colpe. C’è dolore che si trasmette, desiderio che cambia forma, e una profonda compassione. Non nel senso pietistico, ma in quello più autentico: la capacità di sentire con, di restare accanto, anche nel disordine, anche nella vergogna, anche quando non ci sono risposte.   L'articolo Zuzu / Anatomia di una sparizione proviene da Pulp Magazine.
20 libri per l’estate
Yael Artom Alla fine della guerra del Vietnam, l’attendente di un generale sudvietnamita, spia doppiogiochista per i comunisti del nord, viene evacuato con le ultime partenze organizzate dagli americani. Militare, spia, profugo, carnefice e vittima, getta uno sguardo intimo e allo stesso tempo estraneo sulle ipocrisie dell’Occidente. Un romanzo ironico e intelligente che può essere scritto solo da chi conosce intimamente una cultura che lo tiene a debita distanza. Vincitore del Premio Pulitzer 2016. Viet Thanh Nguyen, Il simpatizzante, tr. Luca Briasco, Neri Pozza, pp. 383, euro 12,20  stampa, euro 8,99 epub.   -------------------------------------------------------------------------------- Walter Catalano Ethel Mannin (1900-1984) scrittrice “scomoda” se mai ve ne fu una e per questo rimossa dalla memoria letteraria europea. Anarchica, socialista radicale (ma antisovietica), pacifista, femminista, bisessuale dichiarata, amorosa compagna, a tratti, di W.B. Yeats e di Bertrand Russell. Agenzia Alcatraz, dopo aver tradotto il capolavoro di Weird femminista Lucifero e la bambina, le dedica un’intera collana Etheliana che inaugura con il suo libro più compromettente e rimosso: uscito nel 1963 come reazione al propagandistico e sopravvalutato best seller filoisraeliano Exodus di Leon Uris, è forse l’unico e senz’altro il primo testo occidentale a denunciare la pulizia etnica sionista in Palestina nel 1948. La memoria della Nakba. Oggi da leggere più che mai per togliersi la soddisfazione di farsi dare degli “antisemiti” da Netanyahu… Ethel Mannin, La strada per Be’er Sheva, tr. Stefania Renzetti,  pp. 3982, Agenzia Alcatraz, € 19,00 -------------------------------------------------------------------------------- Mariangela Cofone Vito di Battista intreccia la potenza della narrazione orale con la grazia della letteratura. Ci dimentichiamo delle pagine per immergerci in un affresco vivido e vibrante, dove la memoria si fa racconto e il tempo si dilata. Una saga familiare che attraversa la Seconda guerra mondiale fino agli anni ’60, in un piccolo paese del Centro-Sud. Per chi ama perdersi nelle storie profonde e ritrovarsi nella bellezza delle parole. Vito di Battista, Dove cadono le comete, Feltrinelli, pp. 368, euro 18,05 stampa, 9,00 epub. -------------------------------------------------------------------------------- Roberta Cospito Amerai quello che hai ucciso è un libro folgorante e inquietante così come il suo titolo. Kevin Lambert, poco più che trentenne scrittore canadese, ambienta nella sua città natale Chicoutimi, una storia nera e violentissima. Una storia di vendetta. Dietro una rispettabile patina borghese, Chicoutimi nasconde ogni tipo di degenerazioni e aspetti inquietanti: genitori che approfittano delle figlie, il primo cittadino che ama indossare gli abiti della moglie ormai defunta, ma, soprattutto, ci sono tanti bambini morti che, nonostante vengano regolarmente sepolti, ritroviamo nelle loro case e nelle aule scolastiche insieme ai vivi, come nulla fosse accaduto. Politicamente scorretto, ma incredibilmente poetico; un faro acceso sulla difficile condizione dei nostri adolescenti. Kevin Lambert, Amerai quello che hai ucciso, tr. Maruzza Loria, Playground, pp. 174, euro 16,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Cristina Daglio Nelle più di mille pagine del suo nuovo lavoro Griffi conferma quello che già con Ferrovie del Messico risultava lampante: una narrazione forte anche se non temporalmente consecutiva tiene incollati al volume fino a che tutto si chiude. Digressioni è fedele al proprio titolo, se alla prima lettura potrebbe sembrare di entrare in un guazzabuglio di storie senza un filo conduttore, così non è, anzi ogni singola digressione, ogni singolo paesaggio che sia apre per connessione logica da un punto a un altro del libro trova compimento della propria parabola e chiusura del proprio filone narrativo. Ritroviamo nomi, citazioni più o meno velate, personaggi e storia, parole desuete o curiosità lessicali, ma soprattutto appare limpido come nel 2025, in una stagione editoriale “di commercio” quando escono opere mondo, scritte e intellettualmente stimolanti, il lettore vada a cercarle, stanarle e se ne innamori perdutamente della loro complessità. Gian Marco Griffi, Digressioni, Einaudi, pp. 1024, euro 22,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Anna da Re Ne ho così tanto sentito parlare, che a un certo punto ho deciso di comprarlo. Poi però, data la mole, dovevo trovare il tempo per leggerlo. Così è arrivata quest’estate, ed è una lettura magnifica. C’è tutto il gusto dell’invenzione, dell’avventura, del racconto e della scrittura. Uno di quei libri che quando ti chiedono un consiglio ti viene subito in mente. Perché è la quintessenza della lettura: il piacere, il divertimento, la costruzione di un mondo dove ci sei solo tu e quello che ti stai immaginando. Gian Marco Griffi, Ferrovie del Messico, Laurana Editore, pp. 824, euro 22,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Roberto Derobertis In un’altra estate torrida e viscosa nell’emisfero nord, A quattro zampe di Miranda July (1964, scrittrice, regista e sceneggiatrice statunitense) mi chiama, mi intrattiene, non abbandona i miei pensieri, è una lettura che si fa persistente. A 45 anni e nel pieno di un desiderio sessuale irrefrenabile per un uomo più giovane e sposato – nonché della voglia incontenibile di abbandonare marito e figlia –, la protagonista senza nome e di mestiere artista di questo romanzo ci accompagna, con candore e impudicizia, attraverso un cambiamento emotivo e fisiologico potente e irreversibile. Ironico, erotico, a tratti rutilante romanzo on the road e a tratti amaro romanzo introspettivo, A quattro zampe (All Fours, 2024) può essere definito il romanzo della premenopausa o della menopausa. E il modo in cui July racconta l’ingresso in questa fase della vita intenerisce ma non fa sconti: sfata tabù e restituisce carne ed emozioni a quanto spesso taciuto da un discorso ancora piuttosto patriarcale e maschilista sui corpi delle donne. “Era fantastico fare qualcosa che non fosse sollevare pesi o vivere la vita” dice la protagonista – stanca anche del suo lavoro, per quanto creativo – perché A quattro zampe ci getta dentro il vortice del rinnovamento e ci spinge verso forme per certi aspetti sovversive di liberazione, mettendo a fuoco il desiderio di poter essere (ancora e di nuovo) tutto. È una lettura bollente e divertente che segnerà un’estate tutt’altro che banale, per lettori e lettrici che si troveranno davanti alla narrativizzazione di ciò che le donne non dicono. Miranda July, A quattro zampe, tr. Silvia Rota Sperti, Feltrinelli, pp. 328, euro 20 stampa, euro 4,99 ebook -------------------------------------------------------------------------------- Alessandro Fambrini Dopo più di sessant’anni dal suo arrivo in Italia, finalmente Lovecraft pubblicato da Adelphi: è un evento e come tale lo celebriamo. Che poi ciò avvenga attraverso una lunga lettera a tratti verbosa, a tratti ripetitiva, a tratti irritante per il suo anacronistico razzismo e la sua intolleranza, possiamo anche perdonarlo. Lovecraft è anche questo, e gli squarci di intelligenza pura che si aprono qua e là anche in un testo come Potrebbe anche non esserci più un mondo ripagano il disagio che si prova dinanzi alle professioni di fede antidemocratica e i salamelecchi a Spengler e al pensiero più reazionario e oscuro del suo tempo. A patto che sull’altro piatto della bilancia si ponga ciò cui portò questa visione ristretta e anche un po’ patetica del mondo: la paura continua dell’annientamento di fronte a forze implacabili, il tremore dell’uomo sperduto in un universo popolato di mostri, e la magnifica letteratura che dà corpo e voce a tutto questo. H.P. Lovecraft, Potrebbe anche non esserci più un mondo, a cura di Ottavio Fatica, Adelphi, pp. 162, € 14,00 --------------------------------------------------------------------------------   Alberto Fraccacreta I textos recobrados di Borges sono sempre un evento da salutare con una certa emozione: radunati dopo la scomparsa dell’autore argentino, nell’edizione originale constano di quasi duemila pagine. E Adelphi – dopo una prima antologia apparsa nel 2009, Il prisma e lo specchio. Testi ritrovati (1919-1929) – ne propone felicemente un’altra ampia scelta. Si spazia dal Don Chisciotte all’ebraicità, da Kafka a Nietzsche, da Apollinaire a Dante. Proprio per il sommo poeta Borges ha parole di miele: “C’è una prima lettura della Commedia; non ce n’è un’ultima, perché il poema, una volta scoperto, continua ad accompagnarci fino alla fine. Come la lingua di Shakespeare, come l’algebra o come il nostro passato, la Divina Commedia è una città che non esploreremo mai tutta”. E conclude, con maggiore gravità: “La più conosciuta e ripetuta delle terzine può, un pomeriggio, rivelarmi chi sono o che cos’è l’universo”. Jorge Luis Borges, La mappa segreta. Testi ritrovati (1933-1983), a cura di Tommaso Scarano, traduzione di Rodja Bernardoni, Adelphi, pp. 285, euro 22,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Elio Grasso È un Montale vacanziere quello delle lettere, persino spiritoso, catturato dal mare bollente dei magici pomeriggi estivi a Monterosso, o assediato dalla malinconia delle sedute idroterapiche alle Terme di Voltaggio. Ma le poesie donate a Bianca, in numero di trentotto, di cui dodici inviate anche a Francesco, costituiranno la parte fondamentale del libro (Ossi di seppia) che Gobetti stamperà nel 1925. Fra di esse troviamo Meriggiare pallido e assorto (ancora con il titolo di Rottami), I limoni, Non chiederci la parola che squadri da ogni lato, Caffé a Rapallo, Sarcofaghi, Esterina, i vent’anni ti minacciano (pubblicata poi come Falsetto), Cigola la carrucola nel pozzo, Spesso il male di vivere ho incontrato. Pagine fondamentali, come si vede, a cui bisogna aggiungere tre importanti poesie inedite, Domande, La stasi, Turbamenti, non accolte nell’edizione critica Contini-Bettarini del 1980. Eugenio Montale, Lettere e poesie a Bianca e Francesco Messina, Scheiwiller, pp. 248, euro 40,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Caterina Incerti   Goodbye Hotel è un romanzo capace di racchiudere un mistero da svelare, un passato da scoprire e un futuro da saggiare. Bible ha una narrazione particolare, lo scrittore è abile a confondere il lettore donando indizi che si disperdono piano come in un sogno diretto da David Linch, confluendo poi in una trama piena di verità incontrovertibili, profonde e concrete. Michael Bible, Goodbye Hotel, tr. Martina Testa, Adelphi, pp. 419, euro 18,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Fabio Malagnini La curiosità e il piacere di ritrovare uno dei principali storici italiani di fantascienza alla prova di una duplice impresa autorale (i volumi sono due, dedicati alla produzione degli anni ’90 e degli anni Zero). Raccogliendo la sfida dell’afa e della noia, si pone davanti a noi una narrativa fantastica ribelle e resistente a quel racconto distopico che è già diventato il nostro presente. Domenico Gallo, La patria del ribelle e altri racconti dell’anno duemila, pp. 206, Edizioni Delos, euro 4,99 epub -------------------------------------------------------------------------------- Valentina Marcoli È arrivato giusto in tempo per questa estate torrida il nuovo romanzo (che in realtà è una ristampa) della coppia francese di scrittori ispiratori di Hitchcock in molte occasioni. I loro thriller psicologici ad alta tensione sono strepitosi, tutti, sempre, e anche se sono poche pagine e lo divorerò in poche ore, è in cima alla lista delle mie letture estive. Pierre Boileau, Thomas Narcejac, I vedovi, tr. Giuseppe Girimonti Greco, Ezio Sinigaglia, pp. 172, Adelphi, euro 18,00 stampa   -------------------------------------------------------------------------------- Lorenzo Mari   Come reagireste, se vi dicessero che uno dei maître à penser più influenti della contemporaneità è un cristiano rinato, o meglio che è rinato come cristiano? Parte da questo interrogativo destabilizzante il percorso di questo nuovo libro di Timothy Morton, per poi offrire un corpo a corpo con l’opera del poeta William Blake che è anche un memoir, dalla scrittura libera, assai densa eppure sempre agile e coinvolgente. Per aprire le porte della percezione, e anche del pensiero. Timothy Morton, Inferno. William Blake e la ricerca di un’ecologia cristiana, tr. Valerio Cianci, Timeo, euro 25,00 stampa. -------------------------------------------------------------------------------- Elisabetta Michielin C’è stato un tempo, molti anni fa in cui tutti avevamo letto Il maestro e Margherita di Bulgakov e quando si chiedeva qual è il romanzo più bello tutti avevamo la risposta pronta. Adesso anche grazie al bel film appena uscito è tornato il tempo per leggerlo o rileggerlo (nel mio caso anche accorgersi che essere sicura di averlo letto fosse un falso ricordo) e scoprire quanto Margherita amasse essere una strega.  Dei diavoli Woland, Azazello – un criminale di prima categoria –  e compagnia non aggiungo niente, che tutti sanno e forse non è un caso che il libro sia nei primi posti dei bestseller fantasy di Amazon.  Raccomando la lettura ad alta voce! Michail Bulgakov, Il Maestro e Margherita, tr. Vera Dridso, pp. 408, Einaudi, euro 12,00 stampa, euro 2,99 epub -------------------------------------------------------------------------------- Paolo Prezzavento All’origine di questo Libro – a nostro avviso uno dei più importanti di Jacques Derrida – ci sono due conferenze, tenute all’Università della California Riverside, il 22 e il 23 aprile del 1993, nell’ambito del Convegno “Whither Marxism?” (“Dove va il Marxismo?”) organizzato da Bernd Magnus e Steven Cullenberg. In questa nuova edizione la curatrice, Marta Vlachou, ha aggiunto un dibattito inedito tra Derrida ed Ètienne Balibar, tenutosi il 1 febbraio del 1994 al Collège international de Philosophie. In queste conferenze Derrida, con una delle sue intuizioni geniali, ci propone di interrogare, a 4 anni di distanza dalla caduta del Muro di Berlino, e dunque dalla fine ufficiale del comunismo, proprio lo spettro di quel filosofo che era ormai da tutti creduto morto, Karl Marx, e lo fa a partire dal celebre incipit dell’Hamlet di Shakespeare, in cui Amleto interroga lo Spettro di suo padre. Come Amleto, Derrida ha il coraggio di salire sui bastioni di Elsinore e rivolgersi allo Spettro di Marx, anzi agli spettri di Marx (perché ce n’è più di uno), dimostrando che le sue ingiunzioni (Swear) pressanti a noi che siamo ancora in vita sono più attuali che mai. Viviamo in un “tempo fuori di sesto”, pieno di spettri (basti pensare agli innumerevoli “spettri di Gaza). Ecco perché dobbiamo continuare ad interrogare lo Spettro – gli spettri – di Marx. Jacques Derrida, Spettri di Marx. Nuova edizione, tr.  Gaetano Chiurazzi e Annalisa Romani,  Raffaello Cortina Editore, pp. 266, euro 25,00 stampa --------------------------------------------------------------------------------   Umberto Rossi Uno dei più americani tra gli scrittori italiani che non vanno allo Strega ci racconta una storia hollywoodiana, un quasi thriller con infiniti echi della cinematografia americana più mitologica, scritto come al solito con elegante parsimonia e precisione cristallina. Roberto Saporito, Polimeri, Cose note Edizioni, pp. 152, euro 15,00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Nicole Spallina L’estate è il mio momento preferito per recuperare classici antichi, classici moderni e libri di grandi dimensioni; quest’anno ho scelto un titolo che rientra a perfezione in tutte e tre le categorie: Le nozze di Cadmo e Armonia di Roberto Calasso, uscito per la prima volta nel 1988.La scrittura sontuosa di Calasso interroga le storie senza tempo del mito in una vera e propria epopea letteraria, per tornare alle origini del nostro mondo e allo stesso tempo dialogare con il presente. Roberto Calasso, Le nozze di Cadmo e Armonia, pp. 487, Adelphi, euro 14,25 stampa, euro 7,99 epub -------------------------------------------------------------------------------- Roberto Sturm In una Australia poco lontana nel futuro, una band in tour si scontra con l’autocrazia al potere che punisce severamente quella che chiama l’indecenza morale. Sono i soli ad avere accesso a F. una nuova droga che ti permette di andare avanti nel tempo, di vedere cosa succederà nei prossimi istanti. Una lucida accusa alla società di oggi, il tipo di fantascienza dispotica che preferisco. Il compito di critica del presente che questa letteratura di genere, se ben congegnata, ha sempre fatto nel migliore dei modi. Jordan Prosser, Big Time, tr. Sebastiano Pozzani, pp. 408, Mattioli 1885, euro 21.00 stampa -------------------------------------------------------------------------------- Tania Tonin Per circostanze lungi dall’essere influenzate dal mio volere, mi ritrovo nuovamente con un libro della scrittrice Donna Tartt in mano nel bel mezzo dell’estate. Le sue storie sono adatte ad alterare il ricordo di giorni caldi e uguali grazie alle loro trame tortuose e ai loro personaggi memorabili. Inizio a pensare non sia un caso, quindi, che dopo Il cardellino letto nei mesi caldi di qualche anno addietro, mi accingo solo ora, con l’avanzare dell’estate, a iniziare Dio di illusioni, acquistato in lingua inglese durante l’inverno. Nessun momento mi è sembrato adatto, fino a queste temperature roventi che reclamano una ventata di buone parole. Donna Tartt, Dio di illusioni, tr. Idolina Landolfi, Rizzoli, pp. 624, euro 15,00 stampa, euro 9,99 epub                 >   L'articolo 20 libri per l’estate proviene da Pulp Magazine.
Gotthard Günther / 70 anni dopo l’alba cibernetica
«Una di quelle affermazioni udite fino alla nausea è che una macchina non può essere creativa». Niente potrebbe suonare più trito di un’affermazione come questa nell’odierno dibattito sulle IA, ma per un testo filosofico apparso settanta anni fa, all’alba della rivoluzione cibernetica di Wiener, McCulloch e John Von Neumann, non riesco invece a immaginare una migliore garanzia di assoluta attualità. Rimandiamo al mittente quindi anche questa sgradevole sensazione di deja-vu. E a scanso di equivoci diciamo subito che La coscienza delle macchine non appartiene – come avverte prudentemente Alberto Giustiniano nell’introduzione – alla fiorente pubblicistica che dalle bacheche degli e-commerce e delle librerie preme per spiegarci come l’intelligenza artificiale migliorerà inevitabilmente le nostre vite e/o ci condurrà altrettanto inevitabilmente all’estinzione. Il saggio, ora tradotto da Orthotes, fu pubblicato per la prima volta negli Stati Uniti nel 1957 e rivisto dal suo autore nel 1963. In pratica costituì l’esordio americano di Gotthard Gunther e una delle prime, audaci riflessioni filosofiche sulla cibernetica e l’intelligenza artificiale del secolo scorso. Tedesco naturalizzato  americano, di quel contesto Gunther ha rappresentato sicuramente una delle menti imprescindibili e più brillanti, benché,   anche per ragioni linguistiche, un autore per lo più sottotraccia, malgrado il sostegno ricevuto da McCulloch e dal Dipartimento di Stato.  Allievo di  Eduard Spranger, laureato con una tesi di dottorato su Hegel, emigrò all’inizio della Seconda Guerra Mondiale in Sudafrica e di lì negli  USA dove divenne amico tra gli altri di autori di fantascienza come Isaac Asimov  e John W. Campbell. Ignorato dalla filosofia continentale è oggi oggetto di riscoperta da parte di una nuova generazione di ricercatori come Yuk Hui[1] Gunther parte osservando che la logica aristotelica classica risulterebbe inservibile per la cibernetica che, a differenza di altre discipline scientifiche, deve fare i conti con i fenomeni di un’intelligenza meccanica emergente. I principi di identità, non contraddizione e del terzo escluso, in particolare, non potrebbero aver ragione di quelle intricate capacità riflessive che chiamiamo coscienza e che esulano dal tradizionale binarismo soggetto/oggetto. Per supplire a questa inadeguatezza, la prima parte del saggio introduce i lineamenti di una possibile logica post-classica,  con un set di operatori transgiunzionali, prima di addentrarsi nel nucleo centrale della trattazione. Sul piano storico e metafisico l’idealismo tedesco,  verso cui La coscienza delle macchine riconosce pienamente il suo debito dalle prime pagine, avrebbe infatti introdotto un modo completamente diverso e nuovo di guardare alla riflessione e ai fenomeni dell’autocoscienza, fornendo concettualizzazioni rivelatesi cruciali per il tipo di soggettività richiesta successivamente dalla cibernetica. Gunther, in particolare,  attribuisce a Hegel la prima disamina scientificamente comunicabile dell’interiorità, attraverso un quadro concettuale formato da una pluralità di nuclei. Un modo formale e computabile per descrivere la soggettività e i suoi livelli di consapevolezza, superando i limiti della logica oggettiva bivalente (che alla fine può immaginare la coscienza soltanto nei termini di un “soffio vitale”). Un secolo e mezzo dopo Fichte e Hegel, non c’è più lo spirito del mondo a cavallo ma la bomba atomica e il computer. Nel nuovo mondo di Von Neumann e della teoria dell’informazione, il filosofo intende ora far emergere una coscienza cibernetico-trascendentale anche se non per questo, necessariamente, una coscienza assoluta, cioè “umana”. Più probabilmente, come osserva sempre Giustiniano, si tratterà di  “un’eccedenza di riflessione”, né soggetto né oggetto, la manifestazione di processi in ambienti a riflessività diffusa. Una visione che – ne La coscienza delle macchine come nel successivo Cybernetic Ontology and Transjunctional Operation (1962)[2] – sembra connettere il pensiero logico-matematico di Gunther direttamente alla rivoluzione cibernetica di Norbert Wiener, saltando tutte le caselle intermedie.  Dopotutto, come osserva Valeria Pinto [3] «Al di là del tratto apparentemente rivoluzionario la cibernetica si iscrive in una metafisica assolutamente conforme al paradigma occidentale, come Gunther positivamente rivendica».  Settanta anni dopo la direzione di questo rivolgimento è ancora oggetto di un dibattito contrastato, non così la sua portata, ormai sotto gli occhi di tutti. [1] Yuk Hui, Machine and Sovereignty, University of Minnesota Press, 2024 [2] Gotthard Gunther, Cybernetic Ontology and Transjunctional Operation, Self Organizing System, Spartan books, pp. 313-392, 1962 [3] Valeria Pinto, Quel genere di macchine che possono esplodere, apocalissi della tecnica e integrazione della cultura in MECHANE, Rivista di filosofia e antropologia della tecnica, 9/2025 L'articolo Gotthard Günther / 70 anni dopo l’alba cibernetica proviene da Pulp Magazine.
Dora Šustić / Il demone nella mente
«La scrittura in realtà non è nient’altro che un suicidio dilatato nel tempo», scrive Dora Šustić ne I cani, potente esordio letterario dell’autrice croata, impegnata anche nel campo cinematografico come regista e sceneggiatrice. Scrivere è vergare una lettera d’addio, ritardare la fine, scrivere è frugare in un vecchio cassetto per trovare i documenti che confermino il nostro esistere, scrivere è esorcizzare le ossessioni che abitano l’anima. “È tutto nella mia testa. La mente è un demonio”, afferma la protagonista cercando di arginare il flusso di pensieri che l’assale. Sin dalle pagine iniziali capiamo che la morte è onnipresente nel libro: compare nel suicidio dell’ignoto che si getta sotto il treno per ragioni oscure, nella figura della zia Margita, lanciatasi dalla finestra a sedici anni per un amore non corrisposto, nella professione del padre di Dora, un anestesista impegnato a “intorpidire la carne” combattendo una lotta impari con la sofferenza per domare il corpo, riducendo il trauma del passaggio verso l’ignoto. I cani del titolo, i galgos, sono la materializzazione del dolore che perseguita la protagonista. Un incontro casuale con un uomo più grande di lei, segnato da un’esperienza terribile, le ha lasciato in eredità il progetto di un libro fotografico in bianco e nero, abitato da randagi votati a un destino crudele che li vede combattenti spietati o vittime sacrificabili. In un pellegrinaggio che è anche una fuga verso l’ignoto, Dora si cala nelle nebbiose atmosfere praghesi, per poi approdare nell’assolata Cadice, dove la paura della morte viene sconfitta con il flamenco. L’irruenza della giovinezza viene descritta con toccante sincerità, così come la sessualità femminile, indagata in tutti i suoi aspetti con cruda franchezza. Non a caso l’epigrafe del libro reca la firma di Virginia Woolf, autrice refrattaria alle convenzioni sociali della propria epoca, costantemente dedita alla conquista di una propria irrinunciabile autonomia. Dora percepisce il pericoloso baratro dentro sé stessa, nel quale rischia di precipitare, ma la sua forza proviene dal legame con tutte le altre donne. Un vincolo che spazza via la solitudine. Dora ama Leon perché è diverso dagli altri uomini, anche se la contagia con la sua tristezza quasi fosse una malattia venerea; Leon è anche un artista senza un’occupazione stabile, uno straniero che verrà sempre visto con sospetto nell’Europa occidentale. A questo punto la scrittrice, facendo separare gli amanti e impedendo un loro ricongiungimento, anche se probabilmente effimero, introduce nel libro la tematica delle migrazioni e dell’estraneità, particolarmente sensibile nel nostro tempo. Ci troviamo di fronte a uno scenario nel quale le barriere proliferano, scavando un solco fra gli esseri umani, consegnandoli alla solitudine più crudele della quale i galgos sono il simbolo. Il romanzo è prima di tutto una confessione, un viaggio all’interno dell’io e delle proprie ossessioni, un percorso irto di spine verso la conquista della libertà. L'articolo Dora Šustić / Il demone nella mente proviene da Pulp Magazine.
Gabriele Cavallini / La pelle è ovunque
Gabriele Cavallini – classe 1995, nato a San Miniato in provincia di Pisa – ha lavorato nel comparto conciario prima di dedicarsi alla scrittura e ambienta il suo primo romanzo in Toscana, dove esiste un vero e proprio “Comprensorio del cuoio”. L’area è così chiamata per l’altissima concentrazione di aziende conciarie che ne caratterizzano il tessuto economico; la quasi totalità della produzione italiana di cuoio da suola proviene da questa zona. È proprio qui che vivono e lavorano i protagonisti di questa storia che ruota attorno all’io narrante Michelangelo Cavalcanti; l’uomo è un tecnico della Conceria Fucci Vanni dopo che la blasonata impresa di famiglia, la “Cavalcanti & Figli” fondata dal nonno paterno, è miseramente fallita cambiando la vita di tutti: il padre di Michelangelo ha lasciato il mondo del lavoro e, smarritosi in varie fantasticherie, si interessa solo di botanica; il fratello minore Emanuele si è chiuso in un ostinato mutismo ed esce a malapena dalla sua stanza trascorrendo la giornata con in mano il cellulare; la madre è scomparsa da un giorno all’altro e non si sa dove sia e mai nessuno, per un lungo periodo, ha pensato di cercarla. È un libro spietato questo di Cavallini e molto attuale dal momento che “Il Sole 24 ore” ha di recente presentato una collana “I grandi romanzi dell’industria italiana” con cui si vuole raccontare e recuperare un pezzo della nostra storia e della nostra identità e lo stesso intento mi pare potersi ravvisare in Cuoio. L’autore, infatti, riserva grande spazio alla rappresentazione del sistema industriale conciario italiano e al mondo del lavoro in generale con le sue caratteristiche e, in particolare, con le sue violenze. Tanti gli argomenti trattati, ma il cuore del romanzo si potrebbe ravvisare in una parabola discendente del rapporto tra le tre generazioni dei Cavalcanti e la ditta di famiglia. In chi ha fondato la conceria, traspare una sorta di ammirazione e rispetto per la pelle e per la conciatura quale atto fondamentale di sopravvivenza, uno fra i primi compiuto dall’uomo per proteggersi dal freddo e dalla pioggia. Conciare è considerato un modo per valicare il confine stabilito fra la vita e la morte, è una forma di conservazione della specie e il lavoro, anche se duro, nobilita ancora la vita dell’uomo e dà soddisfazione: salvare ogni pelle dalla naturale decomposizione è come giocare a fare Dio poiché la concia, in qualche modo, ferma il tempo, lo scorrere degli anni e rende persistente ed eterno qualcosa che per sua natura non lo è. «Una leggenda del Comprensorio racconta che alla scomparsa di una famiglia conciaiola si dissolvano le loro pelli. Perché per renderle immortali il vero conciaiolo lascia un minuscolo frammento di anima in ogni pelle. Fin quando l’anima non comincia a diventare instabile. Fin quando l’anima accartocciata del conciaiolo non si disgrega. Solo allora è possibile vederli, quei minuscoli frammenti chiusi nel cuore delle pelli, che fuggono e levitano con i resti dell’anima del conciaiolo. Per l ‘amore di precipitare insieme giù all’inferno». È la seconda generazione, quella del padre di Michelangelo, che non ride mai, a subire negativamente il lavoro: un’attività che lo costringe a tornare a casa tardi la sera senza avere la forza e la voglia di rivolgere la parola a nessuno, a fare telefonate nel cuore della notte a clienti lontani, senza neanche pensare di premurarsi di far piano, dimostrando così un totale disinteresse per la famiglia. In particolare, il trascurare la moglie porterà la donna a scaricare la sua insoddisfazione sui figli, i quali cresceranno in un ambiente anaffettivo e convinti che l’unica cosa giusta da fare nella vita per diventare migliori sia seguire il mestiere di famiglia. L’ultima generazione, quella di Michelangelo, invece, si trova a convivere con il declino di quello che sembrava un impero solidissimo. Ci si muove tra fabbricati che si assottigliano per numero e grandezza, e con l’intonaco sbriciolato che mostra lo scheletro nudo, i ferri arrugginiti del cemento armato e i tetti rotti e forati come se Dio in persona dovesse guardarci dentro. Alcune costruzioni, tra cui la gloriosa conceria dei Cavalcanti, sono messe così male che basterebbe un temporale a buttarle giù, ma è proprio lì, dove non entra più nessuno, che vivono gli scarnatori e i pressatori, manovalanza impegnata tutto il giorno in fabbrica tra il grasso, il cromo, la melma del fango tossico ma che, nonostante questo, non guadagna abbastanza da potersi permettere un tetto sopra la testa e vive accampata dentro gli stabilimenti ormai in rovina. Oltre alle parti che descrivono anche da un punto di vista materiale, il lavoro, la produzione e il funzionamento concreto di una conceria, largo spazio viene dato al racconto dei rapporti familiari. Siamo di fronte a una famiglia in crisi, segnata irreparabilmente dall’incapacità di comunicare e risolvere i conflitti, dall’assenza totale di empatia, dove nessuno pare essere in grado di condividere apertamente pensieri e sentimenti e dove solo il rifugiarsi nei pochi episodi felici dell’infanzia allontana il protagonista da un senso costante di malinconia e nostalgia per una tenerezza raramente conosciuta, ma di cui sente comunque la mancanza; a volte, Michelangelo si sente talmente solo d’aver paura di sparire e con suo fratello – inesorabilmente risucchiato dalla violenza più estrema del deep web – fatica a mantenere un rapporto che si esaurisce nell’accompagnarlo ai settimanali incontri con la psicologa. Tutto il romanzo è permeato da un senso di sconfitta del protagonista principale non solo per non aver più la ditta di famiglia che dava lustro e onore al cognome Cavalcanti, ma perché è un soggetto che vive nell’immobilismo, incapace di ricomporre i frammenti di una famiglia e di una stantia vita sentimentale che cerca goffamente di recuperare. È un interessante d’esordio questo di Cavallini che ha avuto la buona intuizione di esplorare il mondo del lavoro in un ambiente poco noto come quello della lavorazione della pelle e anche il coraggio di affrontare il tema dell’identità personale e della difficoltà di gestire i rapporti con gli altri e le emozioni in genere. Non solo, anche l’accenno al deep web è un tema drammaticamente attuale e un argomento che, probabilmente, andrebbe più diffusamente trattato e non solo dal giovane esordiente toscano.   L'articolo Gabriele Cavallini / La pelle è ovunque proviene da Pulp Magazine.
L’anniversario fatale dell’ucronia
Anniversario fatale (Bring the Jubilee, 1953),[1] il romanzo più noto dell’americano Ward Moore (1903–1978), occupa un posto particolare tra i romanzi di alternate history. Come racconto ucronico, figura tra le fonti che ispirarono a Philip K. Dick – secondo Dick stesso – l’idea di The Man in the High Castle (1962). Come noto, La svastica sul sole – il titolo con cui il libro è stato tradotto in Italia – immagina un mondo in cui le potenze dell’Asse – la Germania di Hitler e i Giapponesi – hanno vinto la Seconda Guerra Mondiale e si sono spartite il territorio statunitense. Moore immagina per contro una linea temporale in cui i Confederati hanno vinto la guerra civile americana: al tempo presente del lettore gli stati del Sud prosperano, dominando gli Stati Uniti, condannati invece al sottosviluppo economico e culturale. Dick introduce nel suo novel una “contro ucronia”, rappresentata da “La cavalletta non si alzerà più” ( The Grasshopper Lies Heavy), il romanzo nel romanzo (poi pellicola cinematografica, nella serie tv adattata da Frank Spotnitz) che, in una dimensione narrativa parallela che non coincide comunque con la nostra, descrive la vittoria degli Alleati, gira clandestinamente come un samizdat tra le maglie della censura nazista. Vediamo che per rimettere in asse un tempo fuori di sesto, Moore era ricorso invece, un po’ rocambolescamente, all’espediente dei viaggi temporali. Ma al tempo (appunto). Innanzitutto l’idea di Moore, sviluppata con una caratterizzazione dei personaggi perlomeno discreta, rispetto alla letteratura fantascientifica del suo tempo, e con un world building che, per quanto singolare, emerge dai dettagli della vicenda, senza inutili spiegoni inflitti al lettore, non è affatto nuova. Il primo a metterla nero su bianco, venti anni prima, fu infatti nientemeno che Winston Churchill. Sfidato a scrivere un “What If” fantapolitico, il leader conservatore inglese immaginò infatti, ironicamente, cosa sarebbe successo “se Lee non avesse vinto la battaglia di Gettysburg”. Al tempo presente del lettore il racconto assume infatti che i Confederati, come verità storica incontrovertibile, siano prevalsi nello scontro decisivo con l’Unione.[2] La short story stessa appare soprattutto un pretesto per sottolineare le conseguenze positive di questa realtà alternativa, almeno dal punto di vista dell’Occidente anglofono. Attorno al 1930, all’indomani della Grande Guerra e poco prima dell’affermazione nazista, Churchill arriva a ipotizzare che la vittoria del Sud avrebbe potuto assicurare la pace nel mondo. Nel racconto controfattuale, i due “Stati Disuniti”, entrambi alleati alla Gran Bretagna in una immaginaria “Lega della lingua inglese” (English-Speaking Association), impongono un armistizio alle potenze continentali evitando così la carneficina della Prima Guerra Mondiale. In almeno due punti il romanzo di Moore sembra coincidere pienamente con l’ucronia di Churchil: entrambe le narrazioni immaginano infatti che Lee, poco dopo la vittoria di Gettysburg, abolisca la schiavitù (senza per questo instaurare la parità dei diritti per gli ex schiavi). Sullo slancio della vittoria, inoltre, gli Stati Confederati si lancerebbero di lì a poco anche alla conquista del Messico, sottomettendo la sua popolazione e inglobando il suo vasto territorio nel perimetro dell’anglosfera. Per il resto, va detto che la linea temporale di Moore si discosta nettamente dal roseo scenario descritto da Churchill. Il mondo, in particolare, non conoscerà mai né il motore a scoppio né la seconda rivoluzione industriale, e dunque l’elettricità: ai primi del ‘900, i mezzi di trasporto funzionano a vapore e l’illuminazione nelle abitazioni è ancora a gas. La condizione degli Stati Uniti, poi, in seguito alla disfatta della guerra civile e alla secessione del Sud, è quella di uno stato fallito, economicamente arretrato (a differenza dei rivali è privo ad esempio di una rete ferroviaria coast to coast) e alla mercé dei più potenti vicini. Al Nord, la scena politica del dopoguerra è inoltre attraversata da umori suprematisti e da formazioni razzistoidi che imputano all’idealismo di Lincoln la responsabilità della sconfitta. Il protagonista del romanzo, Hodgins McCormick, è figlio di contadini poveri del Nord, che, grazie all’impegno e alla passione per lo studio e la lettura, consegue il titolo accademico di storico, in una delle rare enclave superstiti del sapere scientifico che resistono a nord della linea Mason-Dixon. La vocazione di Hodgins, come osserva il suo mentore, sembra in effetti quella di restare un osservatore neutrale, volto a documentare il corso della vicenda umana, senza prendervi parte attivamente. Paradossalmente, proprio lui, volendo assistere di persona, per puntiglio professionale, alla battaglia di Gettysburg, sarà destinato a cambiare per sempre, inavvertitamente, il corso della Storia. Moore sembra dirci che, richiamando sul piano politico ed esistenziale l’assunto della fisica e del pensiero scientifico novecentesco, non è possibile osservare il mondo senza a sua volta trasformarlo e condividere questa responsabilità. Il romanzo si apre su Hodgins che, avendo viaggiato indietro nel tempo fino al 1863, trascorre la sua vecchiaia negli anni ’20 del secolo scorso. Grazie alla “macchina del tempo” che la scalcinata tecnologia nordista è riuscita avventurosamente ad assemblare, il suo presente è tornato a coincidere con il passato in cui ci riconosciamo abitualmente ma il suo mondo e i suoi conoscenti di un tempo sono scomparsi. Questo elemento narrativo spurio e trasversale alla narrativa di genere – i viaggi nel tempo – ci aiuta a distinguere e a collocare Anniversario fatale tra i molteplici esempi di storia controfattuale riscontrabili in capo a diversi filoni letterari, siano essi “fantastici” o “realistici”. Dal primo romanzo ucronico, quel “Napoleone e la conquista del mondo” di Louis Geoffroy, pubblicato nel 1836 – che, come dice il titolo, immaginava grandiosi progressi scientifici e tecnologici in un mondo dominato dalla pax napoleonica – l’ucronia è diventata infatti una figurazione comune nel nostro immaginario, risalendo fino al salotto buono di scrittori come Philip Roth e Michael Chabon[3]. Recentemente un ricercatore spagnolo, Daniel Lumbreras Martínez, ha provato a fare un po’ d’ordine e ad aggiornare una possibile mappatura di questo sotto-genere [4]. In premessa, Martinez ha scelto di partire dal concetto di “mondi possibili” elaborato dal linguista Lubomír Doležel: “La semantica dei mondi possibili insiste sul fatto che i mondi fittizi non sono imitazioni o rappresentazioni del mondo reale (realia), ma regni sovrani di possibilità; in quanto tali, stabiliscono relazioni diverse con il mondo reale, situandosi a una distanza più o meno ravvicinata dalla realtà. Vanno da mondi realistici che assomigliano molto al mondo reale a quelli che ne violano le leggi: i mondi fantastici. Ma tutti sono di una sostanza diversa dal mondo reale: sono costituiti da entità possibili”.[5] Martínez, poi, utilizza una ripartizione elaborata da Albaladejo Mayordomo, per distinguere i modelli letterari e semantici di mondo. Abbiamo così Mondo I, il mondo della “verità” giornalistica e della storiografia; Mondo II , il mondo mainstream, regolato dalla verosimiglianza, che “si comporta come un universo che il lettore conosce e di cui rispetta i principi operativi”. Infine, Mondo 3, quello della narrativa di fantasy, horror, ecc., che confligge con le convenzioni del “mondo reale oggettivo”. Accogliendo la variante introdotta da un altro studioso, Rodríguez Pequeño, assegniamo però Mondo III alla finzione “plausibile e non mimetica”, tipica della fantascienza, mentre la finzione “non mimetica e non plausibile” diventa invece l’estremo di Mondo IV. Con una prima tassonomia (Collins, 1990) Martinez distingue ucronie “pure”, dove la realtà alternativa della finzione diventa la realtà tout court, e “plurali”, in cui la sua linea temporale coesiste con quella del lettore, a cui si aggiungono i “presenti infiniti”, ossia le storie di universi paralleli. In un capitolo a parte sono trattate le “alterazioni da viaggio nel tempo”, in cui il presente è modificato dall’azione dei viaggiatori nel passato. Anniversario fatale, che adotta in generale un modello semantico da Mondo III, ricade alla fine in quest’ultima tipologia, escludendo invece programmaticamente mondi paralleli e multiversi di sorta. Altri autori, più recentemente (Campeis e Gobled, 2015) hanno proposto una classificazione molto più complessa che sottolinea però soprattutto il contesto tematico della storia. Abbiamo così ucronie A) classiche o storiche; B) pure, con un singolo punto di divergenza nella linea temporale; C) impure, con un passato particolarmente instabile che ruota attorno a viaggiatori del tempo; D) limitate nello spazio, ad es. un campo di battaglia; E) estese, cioè aperte all’assurdo, storicamente impossibile, ecc.; F) le “disincronie”, un neologismo coniato da Éric Henriet per indicare quelle storie alternative che assumono come punto di divergenza un evento distopico (come appunto la vittoria dei Confederati o del Terzo Reich); G) personali, quando a divergere dal flusso temporale è la vita di un’unica persona (ad es. ne La vita è meravigliosa di Frank Capra); H) fantasy e fantastiche: dove si celebrano moderne battaglie con i draghi o vampiri al servizio del Kaiser; I) finzionali: quando non cambia il corso della storia ma solo la sua cronologia (ad es. con il reboot di un universo immaginario, vedi Star Trek). Alla fine Martinez non rinuncia a una sua autonoma proposta. Riprendendo lo schema di Mayordomo e tolto di mezzo Mondo I (la storiografia controfattuale), declina pragmaticamente una tassonomia ucronica molto più succinta, limitata agli altri tre mondi. Abbiamo quindi: * Ucronie realistiche: sono vietati miracolosi progressi scientifici e elementi soprannaturali, perché “a prescindere dal fatto che vi siano uno o più punti di divergenza, e dalle loro conseguenze, è rilevante l’aderenza a ciò che è fisicamente possibile e plausibile, e che si conforma alle leggi empiriche della fisica”. * Urconie proiettive: si gioca con le regole più flessibili della fantascienza. Include inoltre sottogeneri quali universi multipli, dimensioni parallele, viaggi nel tempo, ecc. * Ucronie impossibili: siamo in Mondo IV, che comprende il fantasy storico. Ad esempio: Terra Nostra (1975) di Carlos Fuentes, che reinterpreta la conquista delle Americhe con la trasformazione di Filippo II in un mostro. NOTE 1. In Italia è stato pubblicato da Mondadori nel n. 141 di “Urania”, nel n. 115 dei “Classici Urania” e nel n. 117 di “Urania Collezione” nel 2012. Quest’ultima edizione è attualmente disponibile anche in formato Kindle su Amazon Italia. ↑ 2. Winston Churchill, If Lee Had Not Won the Battle of Gettysburg , in Scribner’s Magazine, dicembre 1930, pp. 587-97)https://winstonchurchill.org/publications/finest-hour-extras/qif-lee-had-not-won-the-battle-of-gettysburg/ ↑ 3. Rispettivamente con Complotto contro l’America (2004) e Il sindacato dei poliziotti yiddish, insignito di un premio Hugo nel 2007. ↑ 4. Daniel Lumbreras Martínez, The possible worlds of uchronia: a proposal of subgenres, Impossibilia, 25, 2025, pp. 19-31 ↑ 5. Lubomír Doležel, Possible Worlds of Fiction and History, in New Literary History, Vol 29, No. 4. Critics without Schools? (Autumn, 1998 ↑   L'articolo L’anniversario fatale dell’ucronia proviene da Pulp Magazine.
Sebastiano Mondadori / Prigionieri delle parole
Che bel titolo, Di cosa siamo capaci. Evocativo di tutta la bellezza e di tutto l’orrore di cui siamo circondati. Il romanzo di Sebastiano Mondadori però, spiace molto dirlo, un po’ delude. O meglio, un po’ affatica. Racconta la storia di Adele e quella di Nina, madre e figlia. Adele è cresciuta negli anni della ribellione, quel sessantotto dell’immaginazione al potere, delle promesse di un mondo migliore, fatto di uguaglianza, solidarietà, comunanza, amore, scambio. Ha studiato a Milano, quando l’università era gratuita ed era un diritto, quando era aperta a tutti, un laboratorio di idee e di relazioni. Ha passato un’estate indimenticabile in Toscana, nella residenza di una giovane marchesa, anche lei – almeno nelle apparenze e nella generosità – rivoluzionaria: ha aperto le porte della sua tenuta a chiunque, ha imbandito tavole nell’aia, ha lasciato spazio a una sorta di comune, durata una sola estate come il canto delle cicale. Appena prima di quell’estate, Adele aveva creato un terzetto alla Jules et Jim, e poi ha sposato il suo Jules. In una lunga vita milanese, ha scritto, ha insegnato all’università, ha fatto politica, ha sedotto più o meno intellettualmente uomini e donne. Ha avuto due figli, Nina e Marco. Che sono cresciuti negli anni ’80, figli di genitori benestanti e progressisti, ma anche figli anche di una società disorientata, richiusa su se stessa, in cui i valori predominanti sono il denaro e la fama, in cui chi si oppone alla “prevalenza del cretino” rappresenta una minoranza sempre meno rilevante. Mentre Marco, una volta grande, si ritira dal mondo e vive una vita solitaria su un’isola quasi deserta, Nina come sua madre vive intensamente, sperimenta, sbaglia e riprova. Viaggia, sposa un attore di teatro francese, ha un figlio. E ciò nonostante vaga inquieta, irrisolta. Questo bel ritratto di due epoche soffre, secondo me, di un’eccessiva ricercatezza di linguaggio. Lo sforzo di trovare, per quasi ogni frase, un neologismo o un gioco di parole o un effetto, si traduce in una fatica da parte del lettore. E influisce anche sui personaggi. Adele, che sembra sempre alla ricerca di un effetto speciale nelle parole e che si annota ogni frase che coglie come originale e bella, finisce per essere prigioniera del suo stesso modo di parlare e scrivere. La sua verità, la sua umanità, ci sfuggono, perse in quell’ansia di diversità e di intelligenza alla lunga sterili. Nina ripercorre molto del tragitto della madre, anche quello delle parole; riesce a percepire l’eccesso e il vuoto e anche la copertura che quelle parole rappresentano, ma il suo legame con la madre le impedisce di andare oltre. Nina resta a metà del guado, ferma nell’incertezza. Ogni tanto prende delle decisioni improvvise, come degli scatti, ma fatica a trovare una sua direzione. E gli uomini stanno sullo sfondo. Bebo, Rudi, Ruben. Sono accompagnatori e compagni, sono uomini interi e delicati, a cui viene lasciato però uno spazio limitato. Quello che resta solido, costante, è il matrimonio di Adele. Che era stato celebrato durante l’estate indimenticabile in Toscana, quasi per gioco, e che ha resistito nonostante tutto. Un matrimonio per cui non vengono spese tante parole, e forse questo è il segreto della sua durata. Quando le parole si sostituiscono alla realtà, quando smettono di essere il veicolo che porta fuori da noi quello che è dentro di noi, finiscono per diventare delle prigioni. Succede a Adele e succede un po’ a Nina. Peccato, perché con un linguaggio un po’ più semplice e leggero avremmo apprezzato maggiormente il ritratto di un tempo perduto e forse rimpianto che sta al cuore del romanzo.       L'articolo Sebastiano Mondadori / Prigionieri delle parole proviene da Pulp Magazine.
Charles Olson / Un poeta americano imbarcato sulla baleniera
Il breve saggio di Charles Olson (1910-1970) che minimum fax ha appena ristampato (esisteva una precedente edizione Guanda del 1972), rivoluzionò alla sua uscita nel 1947, non solo gli studi su Moby Dick e su Herman Melville, ma il modo stesso di concepire e scrivere la critica letteraria. Olson, che fu anche poeta e che avrebbe molto influenzato la Beat Generation, introdusse nella saggistica letteraria non solo una radicale novità di temi, ma soprattutto uno stile e una scrittura assolutamente dirompenti che avrebbero stupito o addirittura scandalizzato il coevo mondo accademico. Alle pagine di analisi e critica del testo, la cui tesi più originale è il leitmotiv shakespeariano che animerebbe e sostanzierebbe il capolavoro di Melville e l’essenza dei suoi protagonisti, Ahab e Ismaele, si alternano pagine libere in cui si descrivono episodi marinari analoghi e, se possibile, ancora più macabri e sanguinosi di quelli raccontati nel romanzo: naufragi, ammutinamenti, cannibalismo. La carriera di navigatore di Melville viene poi delineata nella sue varie fasi esperienziali e narrative, dalla marina mercantile (Redburn), a quella militare (White Jacket), ai contatti con le marinerie non statunitensi (Benito Cereno, Le isole incantate, Billy Budd), all’esotismo e all’espansionismo Pacifico (Typee, Omoo, Mardi), con l’Oceano che, nella visione di Olson, Melville pone come una nuova frontiera, una sorta di West marino in cui si eserciterà, con tutte le sue terribili contraddizioni, il Manifest Destiny della democrazia americana: non la Grande Interiorità di Poe o di Hawthorne, o il Progresso sociale di Whitman, ma l’immensità dello Spazio. E la baleneria vi si impone come grande impresa statunitense, impresa nel senso dell’avventura ma soprattutto impresa nel senso di espansione economica e dominio e gestione delle risorse. A scandirne il massimo controllo nell’epopea manifatturiera di Nantucket emerge una radicalità veterotestamentaria, la dimensione biblica, la legge israelita dell’occhio per occhio, l’eco di Noè e di Giona, del libro della Legge del Sangue, in cui Mosè si contrappone a un Cristo del tutto assente da Moby Dick, un libro empio – come lo stesso Melville lo descrisse a Hawthorne – in cui perfino la perversa benedizione rivolta da Ahab al rampone, Ego non baptizo te in nomine patris, sed in nomine diaboli, non fa nemmeno cenno alle altre due persone della Trinità. Melville anni dopo viaggerà in Terra Santa e scriverà il lungo poema Clarel quasi per riconnettersi ad un’esperienza cristiana negata nel suo capolavoro e i suoi ultimi personaggi, Bartleby, Benito Cereno, Billy Budd, non saranno che rifrazioni diverse e diversi ritratti di Cristo. Ma tutto questo passa inevitabilmente attraverso Shakespeare: Ahab è un po’ Amleto, e molto Macbeth e, come lui, “ha ucciso il sonno”. Il rapporto tra Ahab e Pip, il piccolo mozzo impazzito dopo essere caduto in mare, rispecchia quello tra Re Lear e il Buffone; il Pequod è la Roma e l’Oriente di Antonio e Cleopatra, l’opera shakespeariana che Melville annotò di più; Fedallah appare e scompare come le Tre Streghe del Macbeth e, se Jago diventerà Claggart in Billy Budd, confermando fino all’ultimo l’influenza su Melville dei personaggi negativi e totalitari del Bardo, sarà invece Ismaele, l’“Orfano”, a correggere Shakespeare in senso democratico dando voce e dignità all’equipaggio marinaro, composito e multietnico, unito fino all’epilogo della tragedia senza alcuna remissione dei peccati: Ismaele perennemente orfano ma, almeno in nome e memoria di tutti gli altri, salvo come Noè dopo il Diluvio.         L'articolo Charles Olson / Un poeta americano imbarcato sulla baleniera proviene da Pulp Magazine.
Pietro Spirito / Il giornalista che rubava i libri
Trieste è un crinale geografico e della mente. Trieste è consapevole d’essere confine, basta sorvolarla per comprendere subito come la gente da quelle parti (ricordiamo sempre che se ne fece alleato un grande scrittore come Daniele Del Giudice, “staccando l’ombra da terra”) presidi con leggerezza i propri ricordi fino a rasentarne i confini segreti. Che di ricordi e di storie sono pieni questi territori, e di buio se ne trova vasta estensione. Il buio della notte, e il buio più pericoloso – quello che si mischia al sangue, alla politica sporca, ai vizi delle spie, romanticamente posti nella sezione definita (con eleganza) dalla griffe “servizi”. Lo scrittore Pietro Spirito conosce tutti i colori del “nero” (l’ideuzza è buttata lì, quasi per caso, da Manganelli), ci fa i conti con questo nuovo romanzo che attraversa i giorni in cui anche in Italia si provò a mettere in moto il piano di colpo di stato promosso da Junio Valerio Borghese: era il dicembre del 1970, l’eversione stuzzicava militari e massoni, ma non se ne fece niente. Il quotidiano “Paese Sera” lo denunciò in un articolo tre mesi dopo. Solite indagini, solite fughe, condanne e (solite) assoluzioni. È notte sul confine segue i destini del giornalista Ettore Salassi, il disordine che lo contraddistingue (senza essere proprio sicuri che sia il suo tratto peculiare, altro si scopre seguendo da vicino le sue gesta, tra successi e fiaschi) e la simpatica abitudine di rubare i libri, amare le donne (appropriarsene, a dire il vero, da teppista dei sentimenti). Avendo passato dubbio e istinto innato per i guai e per le trame losche, che fa? Decide di collaborare con i servizi segreti (il Sid di quel tempo). Il nostro simpatico protagonista si svaga adocchiando in libreria La meccanica di Gadda e le Poesie di Prévert: novità il primo, sofisticata lettura per pochi, molto di moda invece il secondo – mellifluo, ma pur sempre poesia. Basandosi sulla difficoltà di occultarli nei pantaloni vediamo quale dei due decide di pagare alla cassa, e quale intascare in barba al proprietario della libreria. Riuscito il furto, Salassi sa già cosa fare del Prévert, sa bene che lo regalerà alla bella Maja, la slovena Maja nipote della portinaia dello stabile dove abita. Pensando ai futuri piaceri, deve trovare il modo di varcare gli occhi di ghiaccio della ragazza. Pensa al suo “corpo da pin-up”, ma infervorato dalle solite modalità maschiliste del suo essere latino, ancora non sa cosa lo attende dopo aver portato a compimento le sue manovre di conquista. Inchieste quotidiane vengono incrociate a vecchi fantasmi e nuovi (effetto di morti d’origine violenta), mentre la Storia a tratti sembra voler prendere il sopravvento su esperienze e faccende private, dove le decisioni hanno la loro origine in ambienti più alti le cui risorse girano intorno a traffici non proprio legali. A Spirito, come ben sa chi conosce l’autore, interessa l’aspetto civile delle storie, e la vita bassa descritta è fiero pretesto per smascherare il grigio italico, le manipolazioni, i molti vizi esplicitati da poco nobili fette della società. Gli anni 70, poi, brillarono per un’emergenza fumogena e guerrigliera, terribilmente complicata dove valenti giornalismi avevano a che fare con le sabbie mobili del potere e l’immanenza bombarola. Il romanzo nemmeno osa a placarsi, il terreno dove si sviluppa è quello dei confini aleatori lasciati in eredità dal conflitto mondiale, dal fasciamo e dalle foibe. È quest’aria nebbiosa dove s’incrociano orrori, odiati e odiatori, funeste scelte politiche, eventi atroci, a far decollare un racconto dotato di minuzia stilistica, di serietà interpretativa. Immaginiamo il protagonista nei panni di certi personaggi stilizzati da Monicelli, mentre si aggira come ombra inconsapevole nelle mani di traditori e faccendieri destrorsi, ma capace di deviare le poche risorse a effimero vantaggio suo – per capacità innata o per crudo azzardo. Trieste guarda, immobile là dove il mare inizia, forse timida o forse antica vestigia di cose ignote, di frontiera sommersa e emersa, però sa che i suoi abitanti hanno in essa protezione e nobiltà clamorosa di grandi intelletti. Spirito tiene con buona coscienza tutto questo, ha letto troppo per non esserne consapevole. Egli ha in mano non teorie letterarie, ha in mano civilissime azioni umane là dove le esistenze hanno avuto il tempo di pensarsi. E ne fa cortese cronaca.   L'articolo Pietro Spirito / Il giornalista che rubava i libri proviene da Pulp Magazine.
Ciao gi. Ricordo di Gilberto Severini
Si è spento a 84 anni Gilberto Severini, uno degli scrittori più significativi dei nostri tempi. Dotato di uno stile elegante e raffinato, di una essenzialità straordinaria, non ha fatto mai niente per accattivarsi i lettori, il suo pubblico che lo ha seguito fedelmente in più di quaranta anni di attività. Osannato dalla critica, definito da Piervittorio Tondelli “lo scrittore più sottovalutato d’Italia”, etichetta che disturbava da tempo l’autore marchigiano che detestava la retorica, ma che fa capire come lo scrittore riminese sia stato il primo a comprenderne le potenzialità. Finalista allo Strega nel 2011 con A cosa servono gli amori infelici i suoi romanzi, insieme ai pochi purtroppo racconti che ha scritto, sono viaggi nel paesaggio interiore ed esteriore della provincia italiana. Era nato a Osimo, dove ha passato buona parte della sua vita, un piccolo paese in provincia di Ancona che era il suo luogo di osservazione privilegiato: negli ultimi anni affermava che la tecnologia e la digitalizzazione avevano reso anche la periferia centro. La qualità della sua scrittura proveniva dalla sua personalità. Uomo sempre elegante e raffinato, nei modi, nei gesti e nel parlare, riusciva a esprimere le proprie idee, scritte o comunicate a voce che fossero, con una precisione chirurgica. La ricerca delle parole giuste, della musicalità della lettura sono sempre state le sue priorità, e quando revisionava i testi lo faceva sottraendo, ogni parola superflua che eliminava era una gioia per lui. Non a caso, alcuni dei suoi passaggi letterari di una o due righe spalancavano a riflessioni e mondi a cui altri autori sarebbero occorse più pagine. Conoscevo e frequentavo Gilberto da più di trenta anni. Un martedì al mese ci ritrovavamo a casa sua – le abitudini rendono la vecchiaia più sostenibile, affermava – a chiacchierare di letteratura, politica, psicologia, filosofia, tecnologia, attualità e musica: ogni volta che uscivo dal suo studio, tappezzato da migliaia di libri, mi sentivo più ricco, sia culturalmente che umanamente. A essere sincero io più che altro ascoltavo e quando si scusava per essere stato prolisso io gli sorridevo. A volte andavamo a pranzo anche con Claudio Piersanti, uno dei suoi più cari amici e penna sopraffina contemporanea, ed era una gioia ascoltarli. Mancherà molto ai lettori Gilberto e a me mancheranno anche quei martedì che con cadenza periodica e precisa riempiva un mio spazio prezioso. Uomo e persona sobria, non amava la ribalta, le sue apparizioni e le presentazioni dei suoi romanzi erano un evento raro: non voleva che il pubblico confondesse l’immagine con il contenuto e non gli importava cosa i lettori volessero leggere. Ha sempre scritto cose che lo interessavano non scendendo mai a compromessi neanche con le case editrici più grandi– tra cui Rizzoli e Mondadori –, che spingevano per un suo presenzialismo maggiore. Nemico del politicamente corretto, della retorica, del pressapochismo culturale, non lesinava frecciate, fatte sempre con garbo, alla società e alla letteratura contemporanea. Imperdibile, oltre A cosa servono gli amori infelici, Congedo ordinario, riproposto nel 2011 da Playground, la casa editrice che meritoriamente sta riproponendo le sue opere dopo aver pubblicato tutti i suoi ultimi romanzi dal 2009 in poi. Una narrativa che a distanza di anni mantiene intatta una attualità strabiliante, come tutte le opere di un certo spessore. Nella sua carriera quarantennale Severini ha partorito una dozzina di titoli che andrebbero letti. La sua dimensione è stata sempre il romanzo breve perché la sua capacità di sintesi gli permetteva di dire tutto quello che voleva in poco spazio. Rimasto orfano di padre, morto in guerra quando aveva sei mesi e da lui mai conosciuto, nel 2013 pubblica Backstage, una lunga lettera al suo editore, Andrea Bergamini, in cui Severini gli comunica la sua impossibilità di scrivere un romanzo sulla condizione di orfano. Questo termine però assume, come spesso è accaduto nei precedenti suoi testi, un significato molto più ampio: non s’intende la sola mancanza di un padre, ma anche la mancanza della fede, della politica, di un avvenire e la progressiva scomparsa degli amici a cui si voleva bene. Attingendo dalle sue esperienze (ma attenzione a non considerare Backstage troppo autobiografico, ha dichiarato Severini in una delle rarissime presentazioni a cui ha partecipato), l’autore mette in campo anche le inquietudini che crea il passare del tempo, gioca sull’affermazione di Pietro Citati che dichiara che l’età massima per scrivere un romanzo è settantatré anni (smentito però da Carlo Fruttero che di anni ne aveva ottanta quando pubblicò Donne informate sui fatti), riflette sul senso di una vita che comunque va vissuta per tutto il tempo che si è vivi qualunque cosa accada, ritorna sull’amore come sentimento assoluto. Severini, come già detto nella recensione al romanzo pubblicata in queste pagine, estrapola dai suoi ricordi alcuni frammenti che prende come spunto per illuminare il lettore, per regalargli schegge di luce che indagano sulla vita quotidiana. E ci accorgiamo, durante la lettura, che siamo tutti orfani di qualcosa. “La maggioranza vince, ma non ha sempre ragione”, era uno dei suoi slogan preferiti. E non hanno ragione, lasciatemelo dire, coloro che l’hanno celebrato alla sua morte con ritratti che non rispondono a verità. Ho letto di “un comunista convinto” e di “uno scrittore di campagna”, due definizioni anni luce lontane dal personaggio. Che fosse di sinistra è fuori discussione ma era allergico agli estremismi. È stato il cantore della provincia italiana osservando, in ogni sua opera, i cambiamenti e l’evoluzione della società, puntando sui dettagli. Sono quelli che hanno annunciato le più grandi novità degli ultimi quaranta anni e a Gilberto non ne è sfuggito neanche uno. La sua riservatezza e il suo essere selettivo in ogni campo spesso sono state scambiate per presunzione ma chi lo ha conosciuto sa che era estremo rispetto per gli altri e per se stesso. Ciao gi, in minuscolo come spesso si firmava a fondo alle e-mail. Ricorderemo la tua profonda sensibilità, il tuo stile e leggeremo ancora i tuoi testi che rimarranno scolpiti nella letteratura italiana di fine/inizio secolo e millennio. Bibliografia di Gilberto Severini Nelle aranciate amare (*), Il lavoro editoriale, 1981; Consumazioni al tavolo, Il lavoro editoriale, 1982 Sentiamoci qualche volta, Il lavoro editoriale, 1984; Fuoco magico, Transeuropa, 1988; Partners (**), Transeuropa, 1988; Un breve autunno, Transeuropa, 1991; Congedo ordinario, Pequod, 1996; Playground 2011; Feste perdute, Pequod, 1997; Quando Chicco si spoglia sorride sempre, Rizzoli, 1998; Capodanni, Pequod, 1999; La sartoria, Rizzoli, 2001; Ospite in soffitta, Pequod, 2002; Ragazzo prodigio, Pequod, 2005; Il praticante, Playground, 2009; Playground 2021; A cosa servono gli amori infelici, Playground, 2011, 2024; Backstage, Playground, 2013; Dilettanti, Playground 2018; Consumazioni l tavole/Sentiamoci qualche volta, Playground 2019: La sartoria/Il praticante, Playground 2021; (*) Nel 1997 è uscita una nuova edizione con l’aggiunta di nuove liriche: Nelle aranciate amare e altri refrain, Pequod; (**) il volume raccoglie i tre romanzi: Sentiamoci qualche volta, Consumazioni al tavolo e Feste perdute;   L'articolo Ciao gi. Ricordo di Gilberto Severini proviene da Pulp Magazine.