I furbetti del sovranismo

Jacobin Italia - Thursday, December 4, 2025
Articolo di Salvatore Cannavò

Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di Monte dei Paschi (Mps) la mano pubblica è indicata chiaramente. Più che pubblica è una mano di governo, di potere, che obbedisce non certo alla logica dell’interventismo nazionale, pure spesso rivendicato dalla propaganda della destra una volta sociale. E le impronte lasciate sull’operazione, che ora vengono passate al vaglio dei magistrati, indicano che esiste ancora in Italia un conflitto tra poteri che non nascondono la loro vocazione sovranazionale – nel senso di autonomia totale dai poteri nazionali e quindi dagli Stati – e poteri che invece, anche per la loro debolezza, preferiscono la coperta dello Stato e l’appoggio politico per garantirsi maggiori spazi ei profitti. In questa diatriba, però, non si ravvisa uno scontro ideologico degno di nota, non si intravede insomma il portato di una cultura a vocazione nazionale che abbia a cuore il tessuto sociale, il ruolo pubblico, la democratizzazione dei poteri. Tutt’altro, lo scontro di potere è fine a sé stesso con le conseguenze evidenti sul piano politico ed economico. 

Il sostegno del Mef

Il ruolo del governo in questa vicenda è stato evidenziato dai magistrati. Nell’indagine della Procura di Milano sulla scalata a Mediobanca da parte di Mps, in cui sono indagati l’imprenditore Francesco Gaetano Caltagirone, il presidente di Luxottica e Delfin Francesco Milleri e l’ad di Mps, Luigi Lovaglio, accusati di aver «concertato» insieme la vendita delle quote Mps da parte del Ministero dell’economia e delle finanze (Mef) a soggetti privati con l’obiettivo futuro di organizzare la scalata al «tempio» finanziario milanese Mediobanca, il Mef «non è oggetto di accertamento» in quanto «non è persona fisica e non può commettere reati». Ma, hanno informalmente precisato dalla Procura, anche se il ministero «non commette reati» avrebbe però dato un «sostegno» all’operazione. In questo ginepraio di dichiarazioni rese a mezza bocca, il termine che rimane sul tavolo, e che aiuta a dare il senso di questa complessa operazione, è proprio «sostegno». La dismissione del novembre 2024, quindi, avrebbe rappresentato per l’accusa uno dei «tasselli» della più ampia «strategia coordinata» tra Delfin e Caltagirone, con l’avallo di Lovaglio, per arrivare al controllo di Mediobanca, attraverso Mps e a cascata, dunque, anche di Generali.

A corollario di questo interessamento politico delle sorti di Mediobanca e del ruolo che Mps avrebbe dovuto svolgere nel rinnovamento della finanza italiana c’è anche un altro particolare. I tre consiglieri indipendenti di Mps, Annapaola Negri Clementi, Paolo Fabris De Fabris e Lucia Foti Belligambi, hanno infatti dichiarato che le loro dimissioni «sono state richieste o imposte dal Mef o, in un caso, dal deputato della Lega» Alberto Bagnai «che aveva detto di esprimersi per conto» del Tesoro. Non solo il Mef, di Giancarlo Giorgetti, ma anche il parlamentare leghista più attivo sul fronte della finanza e con un approccio decisamente «sovranista», come conferma la sua lunga battaglia per l’uscita dell’Italia dall’euro (peraltro spesso adottando argomenti non banali). Le dimissioni dei consiglieri Mps, che erano stati eletti nella lista del Mef, hanno lasciato a suo tempo adeguato spazio ai due soci di minoranza, Delfin e Gruppo Caltagirone, per «entrare nella cabina di regia» dell’istituto di Rocca Salimbeni. Da lì in avanti si organizza la scalata a Mediobanca che prenderà corpo con il voto determinante dei sette consiglieri espressione del Mef e dei nuovi cinque consiglieri. Un piano di cui, per ammissione alla Consob dello stesso amministratore delegato di Mps, il ministero dell’Economia era stato informato.

Non si può sapere come finirà l’inchiesta, ma non è questo il dato importante. Alla luce dei fatti accertati, delle dichiarazioni rese, il ruolo politico del governo Meloni in questa riorganizzazione bancaria è evidente a chi vuol vedere. E di questo, infatti, si discute negli ambienti che conoscono le dinamiche bancarie e finanziarie, italiane e internazionali, e negli ambienti della politica. Quale governo, del resto, riuscirebbe a resistere alla tentazione di dotarsi di un sistema bancario il più possibile amico? Non è stato inchiodato il governo D’Alema, nel 1999, alla famosa espressione di «palazzo Chigi, unica merchant bank in cui non si parla inglese» coniata da Guido Rossi? 

Non c’è solo il potere che ne deriva in termini di leva finanziaria, ma anche la garanzia di avere un interlocutore stabile nella gestione del risparmio italiano, decisivo ai fini di una collocazione ottimale dei titoli di Stato. Non a caso, uno dei problemi insiti nello scontro bancario riguarda il controllo di Generali dove il suo amministratore delegato, espressione della vecchia gestione, Philippe Donnet, ha lavorato a lungo insieme alla francese Natixis per creare «un operatore globale da 1.900 miliardi di masse gestite, al nono posto a livello mondiale e leader nell’asset management in Europa con 4,1 miliardi di ricavi». 

La caratteristica dell’operazione, come si intuisce, è quella di portare la gestione, e quindi la capacità di influenzare operazioni, sul risparmio gestito fuori dalla portata dei vari governi e di collocarla su scala sovranazionale e in mani rigorosamente tecniche. La logica del capitalismo globale, né più né meno, quella che generalmente viene favorita e garantita dalle politiche dell’Unione europea e della Banca centrale europea che ai governi, spesso, non risponde nemmeno al telefono. 

Di fronte a questi scenari, la cultura economica della destra al governo ha sempre detto di voler favorire il ruolo dello Stato, senza avventurarsi mai, però, nelle pieghe di un vero intervento pubblico. L’ipotesi che, per resistere nelle tempeste dell’economia globalizzata, gli Stati debbano dotarsi almeno di un grande istituto bancario pubblico e tornare ad avere la decisione sulle politiche finanziarie, a partire dal tasso di sconto, è cosa che ormai è espunta dal dibattito pubblico e di fatto riguarda fondamentalmente solo la Cina, spiegandone gran parte dei successi economici. L’approccio di Giorgetti e dei suoi collaboratori, invece, è piuttosto quello di fare da protezione a un progetto «amico», al di là del grado di rispondenza al governo, soprattutto un progetto di potere e non certamente in grado di garantire una reale alternativa alle dinamiche perverse della finanza mondiale. Ma in ogni caso, ammantato di patriottismo e di un grado di sovranismo che non ha risparmiato armi e misure audaci per vincere. Come l’utilizzo del cosiddetto golden power, prerogativa governativa a tutela di istituti o aziende considerate vitali ai fini del patrimonio nazionale, che è stato opposto alla scalata di Unicredit su Bpm, uno degli istituti bancari di area leghista e uno degli attori dell’operazione su Mediobanca. O alla benevolenza con cui si guarda la sostanziale scalata di Poste Italiane e Tim dove il vertice della prima è ancora di nomina politica (e si potrebbe continuare con le azioni della Cassa Depositi e Prestiti o la delega assoluta lasciata a colossi come Eni e Enel).

Quello che ha ispirato il governo nella sua azione politica-economica è stata la reiterata lotta tra un supposto perimetro nazionale della finanza pubblica contro una dimensione sovranazionale additata come nemica mortale in quanto appannaggio di altri centri di potere. Attorno alla Mediobanca della vecchia gestione Nagel, infatti, si sono saldati i grandi fondi speculativi come Blackrock e Vanguard, le grandi banche JP Morgan e Morgan Stanley, il gruppo assicurativo francese Axa e molti altri, non sufficienti a fermare l’operazione messa a punto in casa senese. Che invece ha potuto solleticare un nuovo «orgoglio nazionale», ma fondamentalmente attirato dai margini di profitto e di potere conseguente, di figure come il costruttore Francesco Gaetano Caltagirone, il pilota del successo internazionale di ExilorLuxottica, Mauro Milleri, o il patròn di Bpm, Giuseppe Castagna. 

Il sovranismo liberista

Se la scalata organizzata dalla  «progressista»  Mps alla Antonveneta fu all’insegna dei «furbetti del quartierino», espressione coniata dall’immobiliarista Stefano Ricucci, finito poi anche in prigione, oggi si potrebbe parlare di «furbetti del sovranismo», di un personale politico che si nasconde dietro la difesa delle prerogative nazionali, per non dire della Patria, ma non mette in moto nessuna leva nazionale degna di questo nome. Come le già citate banca pubblica o controllo dei tassi di interesse (mentre prova a spostare il controllo dell’oro dalle prerogative della Bce a quelle del governo nazionale). Un sovranismo furbo che non esce dalle coordinate del liberismo imperante e che per farlo inquina anche il rispetto delle regole che pure i vari governi si sono dati, senza rimettere davvero in discussione l’ordine globale. 

Basta una controprova per rendere chiaro il significato di un sovranismo liberista che sembra un ossimoro ma che è sempre più il filo a piombo che lega l’attuale destra vincente in Europa e nel mondo. L’attaccamento alle prerogative nazionali scompare quando in ballo ci sono i destini dell’Ilva. L’1 dicembre i lavoratori sono di nuovo entrati in sciopero con l’obiettivo di cercare di salvare lo stabilimento di Taranto, i suoi livelli di produzione pur in un quadro di decarbonizzazione. Il progetto di tenere insieme il lavoro e la salute, l’ecologia e l’economia sembra piuttosto complicato, i soggetti deputati a farlo, anche a sinistra, anche in ambito sindacale, non hanno sempre l’approccio corretto, ma quale soggetto se non una struttura pubblica a pieno controllo statale e con meccanismi di partecipazione e co-decisione operaia e territoriale potrebbe affrontare seriamente i problemi? Cosa, se non la città di Taranto, e di Genova, insieme alla sua comunità operaia, potrebbe davvero indicare la strada di una rigenerazione possibile? 

Eppure, al solo sentir parlare di nazionalizzazione il governo Meloni potrebbe metter mano alla pistola, per utilizzare una celebre espressione. Curiosa contraddizione per chi dice di fare gli interessi della propria nazione. Ma su questo punto il discrimine tra una sinistra di classe e quel che resta della destra sociale è fortunatamente ancora evidente. Peccato che la sinistra esistente, quella che contende alla destra il governo nazionale, da queste orecchie ci sente anche meno. Nella partita bancaria che abbiamo descritto, infatti, dove si è schierato il Partito democratico? Ovviamente con la finanza globale di Mediobanca. Difficile stabilire dove sia la padella e dove sia la brace. 

*Salvatore Cannavò, già vicedirettore de Il Fatto quotidiano e direttore editoriale di Edizioni Alegre, è autore tra l’altro di Mutualismo, ritorno al futuro per la sinistra (Alegre, 2018) e Si fa presto a dire sinistra (Piemme, 2023).

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