
Rischio idrogeologico, il caso Genova
Jacobin Italia - Wednesday, November 26, 2025
Articolo di Claudio MarcianoL’Italia è una repubblica fondata sul rischio idrogeologico. Sette milioni di persone vivono in zone esondabili, e circa due terzi delle frane censite a livello europeo si trovano nel nostro paese. Nelle sole città con più di 50.000 abitanti, Legambiente ha censito negli ultimi dodici anni 336 alluvioni, 1.346 allagamenti urbani e un numero imprecisato di frane non sistematicamente registrate. In questo quadro già fosco, c’è un caso che spicca per il suo lugubre primato: Genova. Qui, eventi estremi che altrove si manifestano sporadicamente avvengono con cadenza quasi annuale da almeno trent’anni.
Questi eventi non hanno prodotto solo vittime e devastazioni, ma hanno accelerato il declino di leader politici locali, stimolato innovazioni organizzative e tecnologiche nella protezione civile, ispirato la nascita di associazioni e movimenti civici, e trasformato il modo in cui gli abitanti percepiscono il territorio. Genova, esposta ripetutamente allo stesso tipo di shock, è diventata – suo malgrado – un campo di osservazione privilegiato delle tensioni politiche e sociali che modellano la gestione del rischio naturale. Il caso genovese parla non solo di perché le alluvioni accadono spesso e causano danni rilevanti, ma anche di perché si prendono (o non si prendono) decisioni per affrontarne le cause. Inoltre, l’approfondimento del caso genovese è significativo perché mostra come la governance del rischio naturale sia un campo dove si manifestano i conflitti politici e sociali dell’adattamento ai cambiamenti climatici. Questo concetto, veicolato nell’arena delle policy come se fosse neutro, descrive, all’atto pratico, visioni politiche e interessi materiali divergenti che attengono le scelte su cosa finanziare, dove intervenire, come e chi includere nei processi decisionali.
Lo scorso 15 novembre la città è stata investita da una perturbazione particolarmente violenta: si sono registrati 62 allagamenti urbani, 14 frane e l’esondazione di un torrente. Dal mare è arrivata anche una tromba d’aria che ha sradicato dodici alberi e sollevato il tetto di un’officina del gestore dei rifiuti, causando danni a edifici e arredi pubblici. Questo episodio è stato il più grave, finora, del 2025, ma risulta di entità moderata rispetto a quelli che l’hanno preceduto. Dopo la tragica alluvione del 1970, in cui persero la vita 44 persone, le alluvioni hanno colpito nuovamente nel 1992 e nel 1993 i quartieri di Sturla e Prà, causando complessivamente sette vittime. Nel 2010 alcuni torrenti del Ponente hanno trascinato in mare un operaio, provocando danni per decine di milioni di euro. Nel 2011 l’esondazione del rio Fereggiano ha causato sei vittime, tra cui due bambine e la loro madre. Nel 2014 si è registrata una sola vittima, ma i danni provocati dall’esondazione del Bisagno sono stati nuovamente devastanti. La maggior parte di questi eventi ha determinato la dichiarazione dello stato di emergenza nazionale. Dal 2010, nella sola Genova, sono stati censiti danni ad abitazioni e imprese per oltre 240 milioni di euro, dei quali solo circa il 20% ha ricevuto ristori statali.
La maggior parte di questi eventi ha cause simili. Le precipitazioni intense non sono solo episodi di «mal tempo», ma l’effetto più visibile e distruttivo dell’aumento delle temperature medie. Un’atmosfera più calda trattiene più vapore acqueo e, quando questa massa d’aria calda e umida incontra correnti più fredde, scatena fenomeni convettivi di violenza inaudita. Questi nubifragi si abbattono su un territorio reso vulnerabile dall’urbanizzazione: i numerosi corsi d’acqua che attraversano il Comune di Genova – oltre 150 – sono stati in gran parte tombati per far spazio a edifici, impianti produttivi e infrastrutture. Nelle aree collinari, l’abbandono dei terrazzamenti agricoli ha favorito la ricolonizzazione spontanea da parte del bosco, che non sempre garantisce stabilità sui versanti più ripidi. L’interazione di questi fattori riduce drasticamente il tempo di corrivazione dei bacini, ovvero l’intervallo tra l’inizio della pioggia e il raggiungimento della piena.
Sociologi e psicologi dell’organizzazione sostengono che le strutture apprendono, quando riconoscono di aver fallito. Per anni, a Genova la risposta politica ai disastri è stata di naturalizzare le cause, negando o minimizzando le responsabilità antropiche, e di tecnicizzare le soluzioni, presentandole come dati di fatto derivanti da un sapere scientifico neutro.
Quest’approccio ha iniziato a cambiare dopo l’alluvione del 2011, quando il 4 novembre persero la vita due bambine con la madre, una ragazza di 19 anni e altre due persone nello stesso tratto di via Fereggiano, strada che corre sopra il torrente tombato omonimo. La tragedia, la quarta in meno di dieci anni, ha profondamente scosso la città. Agli «angeli del fango», sono seguite manifestazioni e contestazioni. In una sentenza che ha fatto molto discutere ma anche creato un pesante precedente, la magistratura ha inquisito e poi condannato in sede penale l’allora sindaca Marta Vincenzi per non aver adottato provvedimenti adeguati malgrado l’allerta diramata. Il conflitto si è esteso anche sulle azioni di mitigazione. Nel 2012, associazioni e comitati della Val Bisagno hanno contestato la demolizione di un ponte settecentesco ritenuto un fattore di rischio idrogeologico, mettendo in evidenza l’assurdità di tale provvedimento quando, al contempo, il Comune autorizzava la costruzione di un centro commerciale nei pressi del torrente.
In modo più o meno coercitivo, questi eventi hanno prodotto un apprendimento nel sistema locale di protezione civile, che ha portato all’introduzione di routine orientate a ridurre esposizione e vulnerabilità agli impatti delle alluvioni. Il Piano comunale e le mappe delle zone esondabili sono state aggiornate; sono stati potenziati mezzi e personale dedicato alle emergenze; è stato organizzato un presidio territoriale sui torrenti più a rischio; sono state censite le abitazioni al piano terra o interrate in aree esondabili ed è stato attivato un servizio di chiamata a chi vi risiede in caso di allerte rosse; sono stati elaborati piani di evacuazione nelle scuole e organizzate campagne di sensibilizzazione.
Le alluvioni di Genova sono state un fatto nazionale e hanno prodotto un apprendimento più ampio rispetto a quello locale. Dopo il 2011, il Dipartimento di Protezione Civile ha accelerato sull’attuazione del metodo Augustus per l’organizzazione dei Centri Operativi Comunali (Coc), e dopo il 2014 ha introdotto i sistemi di allerta a colori. Qualcosa avvenne anche sul finanziamento del rischio idrogeologico: dopo il 2011, il governo Monti stanziò 25 milioni di euro per la realizzazione dello scolmatore del Fereggiano, anche se per completare l’opera il Comune dovette aggiungere altri 15 milioni. Solo dopo l’alluvione del 2014, il governo Renzi creò Italia Sicura, che destinò a Genova circa 400 milioni di euro per la messa in sicurezza del Bisagno e la realizzazione dello scolmatore.
La filosofia che ha ispirato quest’intervento, e più in generale il programma di Italia Sicura, è quella delle grandi opere idrauliche che agiscono sugli effetti a valle delle alluvioni (ovvero l’esondazione), anziché sulle cause a monte (abbandono dei terreni e restringimento degli argini). Il rifacimento della copertura del Bisagno alla Foce e l’abbassamento di due metri del torrente in quella sezione hanno aumentato i litri al secondo che il bacino può reggere. Tuttavia, i corsi d’acqua che richiederebbero interventi simili sono molti, e la trasferibilità di opere di questa scala è finanziariamente impossibile. Lo scolmatore del Bisagno, progettato a metà anni Duemila e finanziato nel 2015, è ancora lontano dall’essere completato, e le tempistiche più ottimistiche datano la fine lavori a dicembre 2027.
Perché si investe a valle invece che a monte, pur essendo quest’ultimo l’intervento più efficace? A questa domanda decine di tecnici e amministratori rispondono essenzialmente in due modi: l’orizzonte breve dei cicli politici, che spinge verso soluzioni visibili rapidamente; e il diverso valore economico dell’esposto. Alla prima risposta si può credere fino a un certo punto: oltre a offrire un’interpretazione cinica della politica locale, è poco accurata, poiché queste opere risaputamente richiedono decenni per essere realizzate. La seconda risposta sembra cogliere degli aspetti più profondi. Il rischio idrogeologico non fa franare solo i versanti, ma anche i valori immobiliari. Per decenni, la principale linea di disuguaglianza della città è stata quella orizzontale, Levante/Ponente. Negli ultimi anni, la forbice più evidente si è aperta in senso verticale, tra centro e alture, tra costa e versanti interni. Il rischio idrogeologico colpisce entrambi, ma la gran parte degli interventi ha finora protetto soprattutto il valore delle aree costiere, lasciando più vulnerabili e svalutate le zone collinari.
La governance del rischio naturale è attraversata da questa e altre fratture in cui interessi e valori si spingono in direzioni contrapposte, generando ritardi, timidezze e conflitti. Un’altra frattura è quella tra applicazione rigorosa delle misure di prevenzione e sostenibilità sociale. È un discorso simile a quello della Just Transition: l’auto-protezione è virtuosa, ma chi paga? In caso di allerta rossa, chi tiene i bambini a casa se le scuole chiudono? Chi sostiene lavoratrici e lavoratori precari che perdono lo stipendio? Quale credibilità hanno le istituzioni che chiedono ai cittadini di assicurare le proprie attività e abitazioni, ma al tempo stesso autorizzano interventi edilizi controversi vicino agli argini dei fiumi o alleggeriscono vincoli urbanistici per opere private? Su questo versante si collocano anche le «buone ragioni» di chi ha micro-interessi contrapposti alle opere di mitigazione del rischio. La geografa Sara Bonati ha mostrato come lavori finanziati da Italia Sicura – strade chiuse, cantieri di escavo, movimentazione di terre – abbiano generato conflitti anche tra i presunti beneficiari delle opere. Qui si posiziona una frattura che è ben nota a chi si occupa di DRM, quella tra i cittadini che contestano e le autorità che impongono. È la tragedia della non partecipazione. Politiche pubbliche efficaci solo sulla carta, ma mai concordate e concertate con chi dovrebbe attuarle o esserne oggetto, innestano conflitti laceranti. Agli estremi, si coagulano due schieramenti: cittadini incazzati che arrivano a negare le ragioni degli interventi, amministratori e tecnici indignati, che rifiutano di confrontarsi con «gli ignoranti».
L’apprendimento organizzativo è spesso legato all’esperienza diretta, ma può avvenire anche attraverso l’osservazione delle esperienze altrui. Nel campo del rischio naturale questo «apprendimento indiretto» sarebbe quanto mai auspicabile, ma si verifica raramente. La storia di Genova, e quella di tanti altri luoghi esposti al rischio naturale, dimostra infatti che l’apprendimento segue quasi sempre le catastrofi, e che spesso non ne basta una, ma devono ripetersi, perché qualcosa cambi.
Questo deficit di apprendimento indiretto non riguarda solo il rischio idrogeologico. Nel 1995 a Chicago – come ha raccontato magistralmente il sociologo Eric Klinenberg – in cinque giorni morirono oltre 700 persone per una grave ondata di calore. Nel 2003, a Genova (e in tutta Italia) si è verificato qualcosa di molto simile: la combinazione di caldo e umidità per tre settimane di fila ha aumentato il tasso di mortalità (ad Agosto 2003 a Genova morirono 1.020 persone, rispetto alle 650 della media annuale), in particolare fra gli anziani poveri e socialmente isolati, e il tutto è emerso solo quando i servizi funerari sono entrati in crisi per l’assenza di bare. Vent’anni dopo, malgrado le ondate di calore costituiscano ormai una norma delle estati mediterranee, una policy strutturata contro il rischio da caldo non esiste ancora: le misure per proteggere i lavoratori più esposti sono recentissime, dipendono da ordinanze contingenti e rimangono labili; la cura delle vulnerabilità continua a essere delegata all’«auto-protezione».
Ci sono però eccezioni, che mostrano come si possa apprendere anche senza pagare il prezzo di perdite e danni. Ad esempio, il sistema di presidio territoriale implementato a Genova dopo le alluvioni, basato su monitoraggio in tempo reale dei torrenti tramite sensori, telecamere e squadre di volontari, ha ispirato una direttiva nazionale della Protezione Civile ed è stata replicata da altri Comuni. Dopo le tremende alluvioni dell’Emilia-Romagna del 2024, alcuni dirigenti del Comune di Bologna hanno cercato attivamente scambi di esperienza con Genova.
Probabilmente, osservando da vicino la vita quotidiana dei sistemi locali di protezione civile, si scoprirebbe un certo «sperimentalismo» in azione. Ciò che manca è, forse, una cornice strutturale: non un semplice osservatorio di buone pratiche, ma una governance sperimentalista – sul modello teorizzato da Charles Sabel per la transizione energetica – in cui un’autorità sovralocale, come il Dipartimento di Protezione Civile Nazionale, fissi obiettivi vincolanti e ambiziosi, lasciando agli attori locali la libertà di trovare le soluzioni migliori, ma imponendo momenti pubblici di revisione e l’obbligo di adottare i metodi più efficaci.
*Claudio Marciano è ricercatore in sociologia dell’ambiente e del territorio presso il Dipartimento di Scienze politiche e internazionali dell’Università di Genova. Una parte delle riflessioni proposte in questo articolo sono il frutto di un lavoro di ricerca collettivo, tuttora in corso, condiviso con le colleghe Cecilia Paradiso, Giusy Imbrogno, Margherita Rago, Sergio Lagomarsino e Andrea Pirni.
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