L’Italia di Meloni torna ultima

Jacobin Italia - Monday, November 24, 2025
Articolo di Danilo Corradi, Marco Bertorello

Il governo Meloni è al terzo anno e alla quarta finanziaria, per cui è possibile avanzare un primo fondato giudizio sulle sue politiche economiche. Proveremo a farlo cercando anche di capire perché il governo non esca da questi tre anni particolarmente logorato, nonostante risultati a tratti fallimentari. 

Dal 2008 generalmente, in Italia e non solo, chi governa paga dazio, caricandosi la responsabilità di gestire una fase economica particolarmente instabile e tendenzialmente stagnante a livello internazionale. Governare logora più di quanto Giulio Andreotti fosse disposto a riconoscere in ben altra epoca caratterizzata da una preminente stabilità. Chiaramente ci sono specificità che si condensano in questa fase, vuoi per una discreta omogeneità delle forze della maggioranza oltre che per l’assenza di una credibile alternativa, ma certamente la longevità dell’attuale governo è frutto, per ora, anche di un sapiente mascheramento di una politica orientata alla  continuità.

Il governo Meloni, ha finito per «intervenire» meno di quanto generalmente ci si aspetterebbe da una destra conservatrice e sovranista, al di là di alcune scelte simboliche. Anche questo governo non intende disturbare l’impresa e la sua accumulazione, lascia fare alle dinamiche di mercato fino a quando non necessitano di supporto e assistenza. Porta avanti un liberismo asimmetrico che governa al servizio del capitale produttivo e finanziario, una versione ordoliberale in salsa tricolore. Altro che rivoluzione sovranista, siamo di fronte a una riproposizione di liberismo e austerità che attraversano il nostro paese da oltre tre decenni, questa volta accompagnata da un retorica patriottarda e nazionalista più marcata. La destra al governo, come vedremo, ha sfruttato l’inflazione per mascherare la solita ricetta fatta di tagli ai salari, tagli allo stato sociale e aumento della pressione fiscale per il mondo del lavoro.

Si torna ultimi

Partiamo dal quadro generale e dal fallimento più evidente del governo: l’Italia torna ultima per crescita attesa dal 2025 al 2027. Il governo ereditava la fase post-Covid caratterizzata da un rimbalzo poderoso dell’economia italiana, ma che nei fatti non riusciva nemmeno a compensare il crollo particolarmente duro subito nel 2020. Un quadro reso più incerto dall’aumento dei costi energetici dovuti alla rottura con la Russia, dalla crescente concorrenza asiatica, e poi dai dazi trumpiani che hanno creato un panorama fortemente instabile che pesa sull’intera economia continentale e in particolare sulla locomotiva tedesca costruita sulle esportazioni. 

C’è stato chi ha messo l’accento sul recupero dell’Italia rispetto alla Germania per ritmo di crescita. Ma si è confuso il senso di marcia: non è Roma che si avvicina a Berlino, bensì il contrario. Forse anche per questo il Governo si è illuso di poter surfare su un’inerzia favorevole, ma era un’illusione. Infatti, l’Italia, in quanto seconda forza manifatturiera europea, fa anche parte della catena del valore teutonica e da essa dipende in modo considerevole. Non era pensabile che un clima difficile per le esportazioni favorisse l’Italia a danno della Germania. Il mercantilismo tedesco in questo contesto paga un prezzo che, successivamente, si presenta anche all’Italia. 

Nel 2025, infatti, l’economia nostrana torna fanalino di coda del Vecchio continente. Le previsioni per quest’anno oscillano tra una crescita del Pil dello 0,5% di fonte governativa allo 0,4% della Commissione europea. La media europea prevista per lo stesso periodo si attesta all’1,3%. Torniamo tra gli ultimi paesi per crescita, secondo la Commissione fanno peggio solo Germania, Austria e Finlandia. La Francia, attanagliata da una profonda crisi politico-istituzionale, totalizzerà nel 2025 lo 0,7%. Va chiarito che sia Germania che Francia per contenere la stagnazione economica hanno fatto ricorso all’indebitamento pubblico in maniera significativa. La prima in quanto ha a disposizione ampi margini fiscali e la seconda indebitandosi fortemente finendo per raggiungere le grandezze nostrane. Nel 2025, infatti, il debito pubblico transalpino raggiungerà il 115% del Pil e in termini assoluti supererà i 3.400 miliardi (l’Italia ha superato la soglia psicologica dei 3.000). L’Italia, dunque, torna nel gruppo degli ultimi, sebbene tale gruppo sia composto da paesi differenti da quelli a cui eravamo abituati negli ultimi due decenni. L’amicizia con Trump e i proclami sulla riduzione delle imposte non hanno prodotto nessuno scarto, la politica di austerità ha depresso ulteriormente la domanda interna e ci ha spinto nuovamente in fondo alle classifiche continentali. 

Guardiani dell’austerità

Come detto i principali paesi si stanno indebitando per fronteggiare una crescita anemica, che contribuisce ad aumentare il rapporto debito/Pil. L’Italia ha minori margini di manovra a causa di un debito elevato e delle procedure europee di infrazione. Queste ultime dovrebbero rientrare proprio perché il governo ha deciso di riportare sotto controllo il proprio deficit con una politica di riduzione della spesa e aumento della pressione fiscale in assoluta continuità con i precedenti esecutivi.

L’effetto sulla finanza pubblica è stato inizialmente positivo: nel 2024 il rapporto debito/Pil si è ridotto fino a tre punti rispetto al 2022, ma ciò è avvenuto, come vedremo, per l’enorme «tassa da inflazione» che l’esecutivo ha lasciato agire deprimendo la domanda interna. Grazie anche a questo approccio, si è ridotto lo spread, ossia il valore decennale dei titoli di Stato verso i titoli tedeschi. Ma attenzione, il debito è in rapida risalita: nel 2025 brucerà metà del recupero e nel 2026, secondo le previsioni del Fondo monetario internazionale, lo azzererà. Del resto è difficile ridurre il rapporto debito/Pil se si deprime il Pil. Non solo, i titoli decennali italiani pagano un tasso d’interesse ancora tra i più elevati d’Europa (3,4%), superiore a Grecia e Portogallo e al livello raggiunto con il governo Draghi. La riduzione dello spread sembra anch’essa derivare dall’aumento delle difficoltà degli altri paesi piuttosto che da una ritrovata salute dell’economia di Roma. 

Inoltre, il dato in decimali della crescita andrebbe contestualizzato rispetto al Pnrr. Questo, infatti, al di là dei fiumi di retorica spesi a partire dal secondo governo Conte (ricordate come tutte le forze politiche e sociali definivano insostituibili tali risorse?), avrebbe dovuto intervenire in maniera quasi miracolistica proprio nel triennio 2024-26. Difficile calcolarne precisamente gli effetti, in quanto gli investimenti erano stati concentrati anche su segmenti come la digitalizzazione, i cui impatti probabilmente si vedranno a medio termine. Però chi ha tentato un calcolo, come la Bce, ipotizza un’incidenza positiva dell’1,9% sul Pil fino al 2026 compreso, mentre il governo Meloni stimava un’incidenza pari al 3,4% e l’Ufficio parlamentare di bilancio prevedeva un più cauto 2,9%. Se togliessimo meccanicamente questi valori dalla crescita accumulata negli ultimi due anni (0,7% nel 2024 e 0,4% nel 2025) a cui andrebbe aggiunta l’incidenza per la previsione di crescita del 2026 (pari a 0,8%) il risultato potrebbe portare a un valore di crescita complessivo in terreno negativo. Esiste poi uno studio, sempre della Commissione europea, che afferma come l’impatto diretto e indiretto degli investimenti del Pnrr in Italia sia inferiore a 100, cioè che l’impatto complessivo non arrivi a eguagliare il valore dei fondi ottenuti. Un dato che ci pone al sedicesimo posto su venticinque paesi coinvolti, al di sotto della media e molto lontani da paesi come Svezia, Paesi Bassi, Austria e Germania che registrano valori superiori a 200. 

Dal Pnrr, come prima dal Bonus edilizio e, ancor prima, quello industria 4.0, derivano investimenti pubblici che si riversano direttamente sull’economia privata e che dovrebbero rilanciarla. Immancabilmente ognuno di questi provvedimenti si è dimostrato di corto respiro, finendo per azzerare i suoi benefici effetti già allo scadere dell’investimento stesso. In poche parole questi piani non riescono a rilanciare l’economia nel suo complesso, finendo per evidenziare come l’impresa in Italia non sia in grado di avviare un ciclo autonomo di sviluppo. 

La scelta austeritaria del rigore e di uno Stato snello rende poi complicato gestire con efficienza piani d’investimento pubblici una tantum, rafforzando la loro incapacità d’invertire la tendenza alla stagnazione e all’impoverimento. Si genera un corto circuito dei conti pubblici che, risentendo della mancata crescita, spingono l’azione politica verso nuovi tagli al welfare rafforzando una spirale depressiva.

Mimetizzare la diseguaglianza

La stabilità finanziaria, per quanto precaria, è stata ottenuta al prezzo di un’ulteriore compressione dei salari e di un aumento della pressione fiscale complessiva, ottenute entrambe utilizzando la fiammata inflazionistica. Dal 2022 al 2024 i prezzi sono aumentati circa del 17%, a questa impennata non è corrisposta una proporzionale rivalutazione degli stipendi. I dati sui salari sono impressionanti con una perdita del potere d’acquisto reale del 10%. Anche considerando gli interventi fiscali del Governo, la perdita netta è pari ad almeno una mensilità all’anno. L’inflazione ha mascherato la riduzione dei salari pubblici (e privati), ma anche la riduzione della spesa sanitaria, scolastica, sociale grazie alla non rivalutazione al costo reale della vita. La propaganda del governo ha sottolineato la crescita nominale degli impieghi statali nei vari settori, sorvolando sul fatto che questa crescita nominale in termini reali ha significato tagli senza precedenti recenti. Facciamo un esempio. Come ha evidenziato Nino Cartabellotta, presidente della Fondazione Gimbe, l’esecutivo ha dal 2022 aumentato di 19,6 miliardi di euro lo stanziamento per la sanità ma, calcolando l’inflazione, questo significa aver tagliato la spesa sanitaria in rapporto al Pil, passando dal 6,3% del 2022 a circa il 6% attuale. Un finto aumento di risorse che in realtà è un taglio quantificabile in circa 17,5 miliardi. Discorso simile per l’istruzione passata dal 4,1% del Pil nel 2022 al 3,9% attuale. Lo stesso meccanismo ha finito per aumentare la pressione fiscale, cresciuta solo nell’ultimo anno dell’1,2% attestando la pressione complessiva al 42,6% (superiore di 2,2 punti rispetto alla media Ue). Se l’Iva e le imposte indirette hanno sostanzialmente seguito la crescita dei prezzi, la crescita dei redditi nominali, per quanto inferiore alla crescita dell’inflazione, ha incrementato l’imposizione fiscale perché la parte aggiuntiva dei redditi afferiva agli scaglioni più alti dell‘Irpef. Risultato: la percentuale del reddito (svalutato dall’inflazione) che finiva nelle casse dello Stato era superiore a quella pre-impennata dei prezzi. Oltre il danno della perdita di potere d’acquisto, la beffa di pagare più tasse su redditi più bassi. Il nome tecnico di questo fenomeno è Fiscal Drag o drenaggio fiscale. 

La finanziaria 2025 ha addirittura riservato la maggior parte dei pochi sgravi fiscali ai redditi più alti di 50.000 euro annui. Insomma, in tre anni la destra al governo avrebbe dovuto rompere con le politiche precedenti e invece le ha riproposte in modo ancora più radicale, sfruttando abilmente il fattore inflazione per mimetizzare una politica dei redditi all’insegna della diseguaglianza.

Finché la barca va…

L’Italia meloniana scommette sulla solita ricetta: basso costo del lavoro per competere a livello internazionale sui prezzi in settori dal basso valore aggiunto, lasciando inalterato l’apparato produttivo. A sostegno di questa linea cerca di compattare un blocco sociale il cui perno sono le  imprese, dalle piccole alle grandi, impaurite dalla crisi globale, in larga parte immobili e incapaci di intravedere nuove prospettive. Un blocco sociale interessato agli annunci su un’ipotetica riduzione della pressione fiscale e alla concreta contrazione della spesa in welfare, che determina un risparmio per le casse dello Stato e una conseguente ritirata della sfera pubblica da settori che diventeranno rendita certa per capitali privati. Una prospettiva per continuare a vivacchiare condita da maggiore tolleranza verso evasione ed economia informale. 

La ricetta è insomma quella di non disturbare il manovratore e fidelizzarlo con una redistribuzione al contrario della ricchezza cercando di non perdere troppi consensi popolari grazie al mascheramento inflazionistico e alle (inconcludenti) politiche anti-migranti, scaricando sugli ultimissimi la rabbia sociale. Scommettere poi sul turismo, come se fosse un comparto che può sostituire il ruolo del manifatturiero in un paese a forte vocazione industriale, dimostra l’assenza di una visione. La caduta generalizzata dei salari è sintomo di un’economia che va spostandosi sempre più verso servizi a modesta specializzazione che comporta una debole domanda interna. 

La destra doveva segnare una forte discontinuità con il passato, mettere al centro l’interesse nazional-popolare contro la globalizzazione guidata dalla finanza. Ma una volta al governo gli slogan sono evaporati ed è rimasta una realtà che oscilla tra sostegno ai ricchi e retorica nazionalista, tenuta della finanza e galleggiamento in un mare agitato. Finchè la barca va lasciala andare, cantava Orietta Berti… Ma la barca non va, soprattutto per chi lavora. 

*Marco Bertorello e Danilo Corradi collaborano con il manifesto. Insieme hanno pubblicato Capitalismo tossico (Alegre, 2011) e Lo strano caso del debito italiano (Alegre, 2023). Marco Bertorello lavora nel porto di Genova, Danilo Corradi insegna filosofia e storia nel liceo di Tor Bella Monaca di Roma.

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