L’assalto alla Stampa e la guerra informativa

Jacobin Italia - Wednesday, December 3, 2025
Articolo di Alberto Manconi

In questi giorni, un coro unanime si è scagliato contro l’azione dentro al quotidiano La Stampa svolta da un centinaio di giovani a Torino staccatisi dal corteo per lo sciopero generale dello scorso venerdì 28 novembre. 

Comprensibilmente, il fatto che la redazione di un quotidiano – peraltro, come fatto notare da molti, non certo il peggiore nel modo di trattare il genocidio in Palestina – sia diventato bersaglio diretto di un’azione del genere, ha impressionato gli stessi operatori dell’informazione più sensibili. Tanto più che quel giorno la categoria dei giornalisti era in sciopero per il proprio contratto e per poter svolgere seriamente la propria professione. 

Certamente, possiamo dire che a Torino venerdì scorso si è svolta un’azione che si è rivelata non utile e non intelligente, e che come prevedibile è stata utilizzata dal sistema mediatico e politico complessivo per rendere invisibile l’intero fine settimana di scioperi e manifestazioni contro la finanziaria di guerra e per denunciare che in Palestina non c’è nessuna «pace» e il genocidio continua.

Questo articolo però muove dall’impressione – non inedita, ma certamente singolare negli ultimi mesi che hanno mostrato le prime crepe del Governo Meloni – provata di fronte alla condanna così dura e ampia che tale azione ha suscitato nel dibattito pubblico. Sottolineo la parola condanna perché tale termine, insieme a quello di assalto, è stato quello decisamente più in voga per riferirsi a tali fatti. «Condanno l’assalto a La Stampa» è stata l’espressione più utilizzata, anche tra gli operatori dell’informazione e della cultura che più si sono schierati per Gaza negli ultimi due anni. I toni sono giunti a incredibili accuse di «squadrismo» e «fascismo», e per capire il livello a cui sono arrivati basti leggere l’editoriale di Antonio Polito sul Corriere della sera che scaglia epiteti di ogni tipo contro Francesca Albanese, definita la «maestrina estremista», manipolando ad arte le sue dichiarazioni, come hanno fatto del resto in molti.


Secondo gli stessi canali social de La Stampa quella di venerdì scorso è stata un’«irruzione» all’interno degli uffici della redazione in quel momento vuota per l’adesione allo sciopero da parte dei giornalisti. Una volta dentro, come si evince dalle immagini, i cento manifestanti hanno buttato a terra dei documenti e fatto alcune scritte sul muro in una stanza piena di altri oggetti di maggior valore, in primis i computer, che non sono stati in alcun modo danneggiati. 

Se ascoltiamo invece i dibattiti e le dichiarazioni degli ultimi giorni, incontriamo lo stesso piano discorsivo e gli stessi toni nel descrivere l’«assalto» a La Stampa e gli «assalti» quotidiani dell’esercito israeliano a Gaza, che tra l’altro persino nella prima settimana della «pax trumpiana» ha ucciso vari giornalisti e ne ha uccisi centinaia dopo il 7 ottobre. Si finiscono così per confondere azioni e parole, vernice e bombe, cadaveri e fogli, in un vortice infinito di equivalenze senza alcun senso e contesto. 

Ma da dove deriva una reazione così spropositata? «L’appello alla causa palestinese può creare una miscela esplosiva», scrive sempre Polito sul Corriere. La Palestina continua a essere la pietra dello scandalo. Editorialisti, leader politici e istituzionali sembrano letteralmente impazziti di fronte al fatto che la causa palestinese susciti così tanta solidarietà e movimento, al punto che di fronte al primo errore o parola sbagliata di una parte dei manifestanti si lanciano in accuse a corpo morto, provando  a personalizzare l’attacco contro chi ha rappresentato pubblicamente questo sentimento solidale con la Palestina. 

In tutto questo si perde il contesto politico dell’inefficace azione a La Stampa, contesto caratterizzato da una settimana molto rilevante per Torino e per il relativo movimento di solidarietà alla Palestina, dovuto all’incarceramento in un Cpr dell’Imam di San Salvario Mohamed Shahin per un reato d’opinione. Shahin è ora in attesa di essere deportato in Egitto, un paese – come dimostrano le vicende di Giulio Regeni e Patrick Zaki – autoritario e pericoloso per i dissidenti ma fondamentale, insieme all’italia, per il controllo del Mediterraneo all’interno dello scacchiere geopolitico che unisce Stati uniti e Israele. Il tentativo di deportazione di questo padre di due figli residente in Italia da 21 anni per aver contestualizzato in modo discutibile il 7 ottobre, ma senza assolutamente giustificare l’attacco di Hamas, è portato avanti direttamente dal governo. La procura di Torino, infatti, non ha trovato alcun elemento per ipotizzare una violazione del codice penale, neanche un’istigazione a delinquere. E lo stesso vescovo di Pinerolo ha lanciato un appello pubblico in sua difesa. Tuttavia, l’onorevole Augusta Montaruli, amica di Giorgia Meloni e nota ai più per una condanna per peculato e per aver letteralmente abbaiato in diretta Tv, ha chiesto a gran voce l’espulsione dell’imam di Torino, trovando il favore del ministro dell’interno Matteo Piantedosi. Si tratta di un tentativo non solo di espellere, ma di spaventare in modo particolare le persone razzializzate che hanno avuto un ruolo decisivo nell’emersione del primo movimento, quello per la Palestina, in grado di durare e di mettere in difficoltà il governo Meloni. Il 9 Ottobre, giorno della manifestazione incriminata per le dichiarazioni di Shahin, La Stampa cita l’imam solo en passant. Poi però assume un ruolo forte in questa vicenda: l’11 ottobre esce col titolo «Il 7 ottobre non fu violenza ma resistenza, bufera sulle parole dell’imam in piazza Castello». Poche ore dopo, si unisce il Corriere della sera che aggiunge «Fdi ne chiede l’espulsione». E qui inizia il processo mediatico e politico per cui Shahin ora rischia la deportazione. 

Il contesto politico generale è questo, e dovremmo sapere che la valanga di sproporzionate condanne dell’azione a La Stampa è fatta ad arte per legittimare molte altre condanne contro semplici prese di posizione – come dimostra oggi l’appello a revocare le cittadinanze onorarie a Francesca Albanese – ma anche condanne legalmente ben più gravi che potrebbero arrivare anche per le azioni svolte dai movimenti degli ultimi mesi, ad esempio l’occupazione di varie strade e autostrade per bloccare il paese contro il genocidio. 

Se prendiamo sul serio i rischi di autoritarismo di cui pure parlano ogni giorno molti operatori di stampa, insieme a sindacati, organizzazioni della cooperazione internazionale e alcune organizzazioni politiche, non si dovrebbe far fatica a riflettere sulle conseguenze che possono avere i toni di condanna usati.

Quella del giornalista è una figura professionale fondamentale per qualsiasi idea minima di democrazia o di controllo del potere politico. Una categoria lavorativa che spesso lavora precariamente, che è messa in questione dai vari passaggi tecnologici che riguardano la sfera mediatica e che arriva malconcia alla sfida che l’intelligenza artificiale pone a tutta la classe professionale. Ma soprattutto, e più concretamente nell’attuale congiuntura politica, è una figura che quando fa il proprio mestiere con solerzia rischia grosso, come dimostra proprio la Palestina, ma anche gli attacchi diretti contro Sigfrido Ranucci. Questa categoria, però, è stata spesso sfigurata in Occidente – e in Italia in particolare – dal ruolo maggioritario svolto dall’informazione con il ritorno della guerra in Europa e con il genocidio a Gaza. Questa delegittimazione degli operatori dell’informazione ricade purtroppo su tutti e tutte. Mette spesso sullo stesso piano chi si assume grossi rischi per fare informazione libera e di qualità con chi si offre come ripetitore e difensore strenuo della linea dettata dalle principali «firme» e agenzie stampa che determinano l’agenda e le parole chiave contribuendo a militarizzare tutto. A partire dal dibattito pubblico.

Se una delle critiche condivisibili all’azione di Torino è quella di aver fatto di tutta l’erba un fascio, siamo certi che la condanna corale e sproporzionata di quell’azione non contribuisca a esasperare l’idea che esista una «casta» giornalista corporativa? Un rischio le cui conseguenze finiscono per ricadere soprattutto sulle figure più scomode che fanno un prezioso lavoro giornalistico giorno per giorno. Per questo stupiscono le prese di posizione di quanti tra quest’ultimi si sono appiattiti sui termini assurdi per descrivere quanto avvenuto a Torino propinati dai media mainstream, perché l’obiettivo è espellere l’ormai temutissima solidarietà al popolo palestinese dal dibattito pubblico, come si espelle l’Imam Shahin per un reato d’opinione stabilito dal governo.

L’estrema destra al governo dimostra di conoscere la nozione di rapporti di forza: attaccano chi li contrasta e difendono, sempre, la loro parte e chi potrebbe unirvisi. È giusto che noi evitiamo di essere come soldati in guerra, e che segnaliamo liberamente ciò che non si condivide. Ma non si possono negare le guerre che vengono fatte sulla nostra pelle. Tra queste c’è anche la guerra informativa, e anch’essa determina i rapporti di forza in cui ci troviamo. 

*Alberto Manconi è dottorando presso l’Università di Losanna, si occupa di attivismo climatico e partecipa al movimento Insorgiamo, di solidarietà al Collettivo di Fabbrica ex-Gkn, e al percorso degli Stati Generali della Giustizia Climatica e Sociale.

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