
Il Doge delle città di pianura
Jacobin Italia - Thursday, November 20, 2025
Articolo di Lorenzo ZamponiLo stravedamento è un fenomeno tipico della laguna veneziana, un termine inventato dai pescatori chioggiotti per indicare quella straordinaria nitidezza dell’aria che permette, per brevi momenti, con il mare alle spalle e la città di fronte, di vedere le montagne all’orizzonte. Con l’aggiunta di un teleobiettivo potente, si può ottenere quello che è ormai un topos della fotografia social veneziana: le Dolomiti a picco su Piazza San Marco.
Peccato che tra il massiccio del Civetta e la basilica dell’evangelista ci siano, in realtà, centocinquanta chilometri: quelli delle «città di pianura» che danno il titolo al piccolo caso cinematografico nelle ultime settimane diretto dal bellunese Francesco Sossai. Il Veneto ospita sei delle prime dieci destinazioni turistiche per presenze in Italia, ma sono tutte sulla costa adriatica (Venezia, Cavallino-Treporti, Jesolo, Caorle e San Michele del Tagliamento – Bibione) o su quella del Lago di Garda (Lazise). Tra le due coste, e tra il sito Unesco lagunare e quello dolomitico, in quello che gli storici chiamano il «profondo Veneto», vengono prodotti il 9,3% del Pil nazionale e una parte significativa dei consensi della destra di governo.
Lo stravedamento sociale e culturale si è fatto narrazione: «Dolomiti Bellunesi: The Mountains of Venice» è il brand scelto dal marketing territoriale per collegare nella promozione turistica Venezia e Cortina, in vista delle Olimpiadi Invernali 2026. Sull’A27 sfrecciano i furgoncini Ncc con i vetri oscurati che portano i turisti facoltosi dall’aeroporto di Venezia alle montagne, insieme ai pullman delle varie compagnie che investono sul trend, oltre che sullo smantellamento dei collegamenti ferroviari.
È paradossale che tutto ciò avvenga proprio sotto l’egida del figlio prediletto delle città di pianura. Luca Zaia, il cui terzo mandato di presidente della Regione scade con le elezioni di domenica prossima, è cresciuto a Bibano, frazione di Godega di Sant’Urbano, nell’Alto Trevigiano. Più o meno a metà strada tra Venezia e Cortina. Governa il Veneto da quindici anni, contando anche le esperienze in Provincia e al governo si arriva quasi a trenta. Ora si ricandida come consigliere, rimandando al futuro la scelta tra una poltrona alla Camera, al Coni, all’Eni, o da qualche altra parte. «Dopo Zaia, scrivi Zaia» recita lo slogan che accompagna i buffi video elettorali fatti con l’intelligenza artificiale che lo ritraggono affettuosamente abbracciato a un cucciolo di leone alato di San Marco. Eppure, tra una settimana Luca Zaia non sarà più presidente del Veneto: è l’occasione giusta per tracciare un bilancio della sua lunga stagione al potere.
La resistibile ascesa
L’autoagiografia ufficiale di Zaia, incredibilmente pubblicata sul sito istituzionale della Regione, racconta una storia identica a quelle di mille altri suoi conterranei: nonni emigranti, genitori di origine contadina dalle famiglie numerose, poi il salto verso la piccola borghesia artigiana, ovviamente continuando a coltivare la terra, nella più perfetta tradizione metalmezzadrile. Da pr della discoteca Manhattan di Godega, Zaia a 25 anni entra nel consiglio comunale del paese, a 27 è assessore provinciale e già professionista della politica.
La sua figura emerge nel contesto dello snodo storico di metà anni Novanta. La fase di crollo del sistema di potere democristiano e di transizione verso il nuovo assetto a trazione berlusco-leghista. L’esplosione leghista in Veneto è avvenuta prima di altrove, con un 16% dei voti raggiunto già alle politiche del 1992, ma c’è voluto tempo perché le radici attecchissero. Le elezioni regionali del 1995 furono vinte di soli sei punti dal berlusconiano Giancarlo Galan sul democristiano di centrosinistra Ettore Bentsik, con la Lega solitaria al terzo posto. Il voto leghista è a lungo un voto di protesta, che esplode alle elezioni politiche ma fatica a sedimentarsi e farsi forza di governo sul territorio, soprattutto nelle aree urbane, dov’è invece soprattutto Forza Italia, e in misura minore e più effimera la componente popolare del centrosinistra, a ereditare personale politico, legami sociali e consenso del sistema della Prima Repubblica. Treviso in quegli anni è un laboratorio: unico capoluogo governato da un leghista (lo «sceriffo» Giancarlo Gentilini), lo resterà fino all’elezione di Flavio Tosi a Verona nel 2007, a cui seguiranno due brevissime parentesi nello scorso decennio a Padova e Rovigo.
È questa Lega a eleggere, con il 41% in solitudine, contro destra e centrosinistra, il trentenne Luca Zaia alla presidenza della Provincia di Treviso nel 1998. La Lega della secessione da «Roma-Polo e Roma-Ulivo», delle campagne elettorali fatte con le scritte sui piloni degli svincoli trafficati delle zone industriali: «Basta tasse, vota Lega», «Basta Roma, vota Zaia». Sono anni di conflitti e di alternative. Gli anni dell’Humanity Day contro Gentilini a Treviso, del referendum regionale contro la buona scuola, del raduno «Radici» al Palaverde di Villorba, di una vitalità associazionistica diffusa non ancora rassegnata a non avere voce politica. Ma il centrosinistra sceglie altre strade: preferisce competere sul piano dell’impresa e della sicurezza, senza però riuscire minimamente a scalfire la sua estraneità al tessuto sociale territoriale.
Quattro anni dopo, la Lega governa a Roma con tre ministri nel secondo esecutivo Berlusconi: Zaia viene rieletto a capo di un monocolore leghista, ma è solo un vezzo locale. All’inizio degli anni 2000, l’integrazione tra l’eredità post-Dc e post-Psi di Forza Italia e il risentimento antistatalista della Lega si è già fatta forza di governo. E infatti nel 2005 Zaia viene chiamato a fare da vice a Galan arrivato al terzo mandato in Regione. Nel 2008 una breve parentesi romana come ministro delle politiche agricole, per poi scambiarsi di posto con lo stesso Galan nel 2010, ereditando la presidenza del Veneto. Ormai la transizione è pienamente compiuta, leghisti e berlusconiani hanno sostituito fanfaniani e dorotei nella spartizione del potere interna a un sistema il cui consenso è talmente solido da non prevedere alcuna alternanza. Nel 2014 lo scandalo Mose colpisce l’ex presidente Galan e l’assessore alle infrastrutture prima di Galan e poi di Zaia. Ricadute su quest’ultimo: nessuna. Nel 2015 rielezione trionfale, e nel 2020 l’apoteosi: durante la pandemia la narrazione dell’amministratore, dell’uomo del fare, della concretezza post-ideologica raggiunge l’apice, con le conferenze stampa quotidiane trasmesse in diretta dalle tv locali e il plebiscito di settembre. Zaia rieletto con il 77% dei voti, la sua lista primo partito con il 45% davanti alla Lega ferma al 17%, il centrosinistra al 16%.
Zaia diventa il punto di equilibrio nella tempesta della politica. Non si espone mai su temi spinosi, non partecipa in prima persona alla deriva beceramente razzista della Lega ma non ne prende mai davvero le distanze, ospita il Congresso mondiale delle famiglie ma lo redarguisce contro l’omofobia. Non entra nelle polemiche politiche, sui suoi social si limita a cantare la bellezza del territorio e la grandezza della sua gente, investendo tutto sul senso di comunità. Incarna lo stereotipo del veneto a testa bassa e bareta fracada, che lavora tanto e parla poco. Nella sua indimenticabile opera prima Ragionamoci sopra, libro basato sulle sue riflessioni serali durante la pandemia, la parola «amministratore» compare 80 volte. Del caudillismo che contraddistingue la via italiana al federalismo, la versione veneta è la più smaccatamente antipolitica. Nessun corpo sociale esiste se non quello comunitario, a livello locale e regionale, nessun interesse se non quello territoriale, nessuna prospettiva se non la soluzione tecnico-amministrativa.
«Chi è convinto di trovare qui un manifesto politico rimarrà deluso – scrive Zaia – Mi definisco ‘amministratore’ perché tale mi sento: dal 1993 ho vissuto un’esperienza amministrativa a trecentosessanta gradi. Posso dire, infatti, di essere uno dei pochi ad aver attraversato tutti i livelli di governo, dal ruolo di consigliere comunale in un piccolo paese di campagna a ministro, passando dal vertice delle amministrazioni provinciale e regionale».
Da Bibano a Venezia. Le città di pianura al potere. L’ascesa di Zaia, capace di resistere a terremoti quali la fine dell’era Bossi, lo scandalo Mose, la transizione della Lega Nord al partito nazionale di Salvini, rappresenta la costruzione di un sistema politico e sociale che rimuove conflitti e fratture verticali a vantaggio di quelli orizzontali. Non c’è lotta di classe, non c’è contrapposizione tra alto e basso, non c’è sfida all’eterna governance locale e regionale. In verticale, anzi, c’è una catena di rappresentanza d’interessi che parte dall’infrastruttura locale comunitaria e associazionistica, attraversa i sindaci e arriva al «governatore», senza attriti né pluralismo politico. Il conflitto è, invece, orizzontale: competizione all’interno del partito, tra partiti della coalizione, tra settori industriali, tra territori per l’accesso ai servizi. Come scrivevamo quattro anni fa, da una parte c’è un’interpretazione della politica in cui il cuore di tutto è la comunità locale, le cui contraddizioni interne sono quasi sempre celate, e che esprime in maniera organicistica la sua rappresentanza comune nel sindaco, avvocato del territorio, rappresentante degli interessi della comunità nell’altrove che si estende fuori dai suoi confini. Dall’altra, il cosiddetto producerismo, ideologia che fonde gli interessi di lavoro e capitale nel comune obiettivo di produrre più ricchezza possibile, e vede quindi chi lavora e produce, in maniera assolutamente interclassista, contrapposto a un vasto gruppo sociale di «parassiti», incarnato di volta in volta da meridionali, migranti, politici, dipendenti pubblici.
Autonomia e libertà
Su questi due assi, Zaia e la sua coalizione ricostruiscono con la maggioranza dei veneti il patto sociale che aveva garantito quarant’anni di dominio democristiano: il patto del non-governo. Di fronte alla mancata integrazione politica dei territori nella Regione, priva di un vero centro e vittima dello stravedamento di cui sopra, e della Regione nel corpo nazionale, la linea è un adattamento della nota massima agostiniana: «Votaci, e fa’ ciò che vuoi» diceva la Dc ai veneti, e hanno continuato a dire in questi decenni le maggioranze di destra. Nessun reale tentativo di incidere in profondità nella realtà sociale, di razionalizzare il caos delle zone industriali, dei distretti senza direzione, della proliferazione di supermercati e centri commerciali, della speculazione immobiliare. Libertà totale di costruire, con 43 mila ettari di suolo cementificati in quindici anni, un’area più grande del Lago di Garda, e il più alto valore di suolo edificato pro capite in Italia. E libertà di inquinare, come dimostra il caso Miteni, industria nel vicentino nelle cui vicinanze sono state riscontrate le più alte concentrazioni di Pfas al mondo. Un governo che nulla vieta, nulla propone, e nulla promette, se non, ovviamente, infrastrutture. Già in Provincia il leitmotiv di Zaia erano state le «opere», in particolare le rotatorie, con cui immettere risorse pubbliche nell’economia e legare a sé e alla Lega i territori interessati: in Regione tutto aumenta in scala, con il fiorire dei project financing, primo fra tutti quello per la Superstrada Pedemontana Veneta. Una voragine di spesa pubblica, con la Regione tuttora impegnata a versare ogni anno un contributo di circa 300 milioni di euro ai costruttori, accollandosi il rischio di impresa legato ai pedaggi.
Pagare le «opere» sembra essere l’unica ragion d’essere del pubblico, nel sistema Zaia. «Non rimarrà più nulla di questa regione. Solo un’enorme infrastruttura e modi per spostarsi, ma nessun luogo dove andare» commenta uno dei protagonisti de Le città di pianura. Infrastrutture che non comprendono il Sistema ferroviario metropolitano regionale promesso da quarant’anni e mai realizzato. In un territorio senza centro, con popolazione e produzione dislocate fuori dai capoluoghi, ciò implica un traffico fuori controllo. La conseguenza? Tra le tredici città europee con la peggiore qualità dell’aria, quattro sono in Veneto. E non comprendono la sanità, con il graduale smantellamento di una rete di ospedali e presidi pubblici un tempo capillare come da nessun’altra parte in Italia e la contemporanea crescita degli ambulatori privati.
Ma la madre di tutti i conflitti orizzontali è, ovviamente, l’autonomia. Il fiore all’occhiello del quindicennio Zaia. Sfruttando la possibilità offerta dalla maldestra riforma del Titolo V prodotta dal centrosinistra nel 2001 nel vano tentativo di contendere alla Lega il terreno del federalismo, il governo veneto nel 2014 inizia un negoziato con quello nazionale mirato a ottenere maggiori competenze e a stabilire il principio per cui «le tasse raccolte in Veneto devono restare in Veneto». Nella fase in cui Salvini trasforma la Lega in un partito nazionale, per coprire questa transizione, Zaia dà fondo a tutto il repertorio, arrivando a far approvare dal consiglio regionale un referendum per la proclamazione dell’indipendenza del Veneto (ovviamente bloccato dalla Corte Costituzionale), per poi far celebrare, nel centocinquantunesimo anniversario del plebiscito che nel 1866 sancì l’unione del Veneto all’Italia, un nuovo plebiscito, pardon, un referendum consultivo sull’autonomia. Oltre 2 milioni di elettori, il 57% degli aventi diritto, si presentano alle urne, e il Sì all’autonomia vince con il 98,1%.
L’autonomia sposta nuovamente sul rapporto con «Roma» qualsiasi tensione e frattura, neutralizzando sul nascere qualsiasi potenziale conflitto verticale. Per tutto ciò che non va, per le liste di attesa sanitarie che si allungano, per i servizi che mancano, la soluzione esiste: il problema è che «Roma» non ci lascia tenere sul territorio i soldi per realizzarla.
Eredità e cambi di regime
«Dopo Zaia, scrivi Zaia». Lo slogan è ovunque. Ma si tratta di un escamotage, e il fatto che venga ribadito con tutta questa insistenza pare rivelatore. L’asse con Vincenzo De Luca e Michele Emiliano per ottenere la possibilità di un terzo mandato (che per Zaia sarebbe stato il quarto) non ha dato i suoi frutti, perché sia Giorgia Meloni sia Elly Schlein avevano voglia di ricambio.
Non è riuscita, però, l’operazione di Fratelli d’Italia, primo partito in Veneto sia alle politiche del 2022 sia alle europee del 2024, di piazzarsi a capo della Regione. Le barricate leghiste, con tanto di minaccia di presentare la Lista Zaia e fare incetta di voti, hanno tenuto. Il candidato della destra è Alberto Stefani, trentadue anni, deputato, ex sindaco di Borgoricco, nell’Alta Padovana. Tanto diverso da Zaia (uomo di cultura, dottorando in diritto canonico), quanto uguale a lui (l’origine nel «profondo Veneto», la carriera rapidissima dal paese al vertice, l’equilibrio democristiano delle dichiarazioni), Stefani è ufficialmente un salviniano, il leader della corrente del segretario federale in Veneto, ma non si direbbe. Nelle interviste e nei comizi parla di ecologia e salute mentale. Uno Zaia 2.0, un po’ più da social e meno da sagra, nel tentativo di arginare il calo devastante di consensi che ha colpito la Lega negli ultimi anni. Fuggono gli amministratori, verso Fratelli d’Italia e Forza Italia, fuggono i riferimenti nel mondo industriale. Fuggono, in alcuni casi, anche i leader storici, come Toni Da Re, a lungo leader leghista nel Trevigiano e anche segretario della Liga Veneta, abituato a ricevere nel suo autolavaggio di San Vendemiano ministri e presidenti di regione. L’anno scorso, Da Re diede pubblicamente del «cretino» a Salvini, reo di seguire la via nazionalista con Vannacci abbandonando le radici nordiche e federaliste del partito. Fu espulso, e ora è in lista con Forza Italia, a sostegno del salviniano Stefani.
Una situazione di guerra di tutti contro tutti che con ogni probabilità non impedirà a Stefani di vincere, ma gli potrà rendere complicata la vita al governo. I sondaggi danno Fratelli d’Italia e la Lega, che candida Zaia capolista in tutte le province, in lizza per il primo posto in una lotta all’ultimo voto. C’era aria di cambio di regime, poi è stato trovato un erede al trono, ma le tensioni restano.
Restano anche perché i temi, uno su tutti quello sanitario, iniziano a farsi strada nel senso comune. Tanto che il candidato del centrosinistra alla presidenza, l’avvocato trevigiano Giovanni Manildo, ha voluto proporre un assessore alla sanità: Mimmo Risica, già primario di cardiologia a Venezia e volontario di lungo corso di Emergency e Mediterranea. Si parla spesso di sanità, a sinistra: «Contro la gestione della destra in una Regione dove gli ambulatori privati sono quadruplicati in 10 anni, contro una destra che si ispira al modello lombardo» tuona Carlo Cunegato (capolista di Alleanza Verdi Sinistra a Vicenza), mentre Elena Ostanel (capolista di Avs a Padova) propone di «riorganizzare l’assistenza medica di base per renderla più vicina alle persone e ai bisogni dei territori» e Rifondazione Comunista diffonde una parodia dei video di Zaia con al centro proprio l’affollamento negli ospedali. Si prova a verticalizzare e organizzare politicamente conflitti e risorse che esistono, in una società tutt’altro che inerte e pacificata.
Zaia nel suo libro parla di una terra «dove il lavoro è una sorta di religione, dove si nasce donne e uomini del fare, dove le partite Iva sono 430 mila». Un culto interclassista della produzione che continua a essere maggioritario, ma che è sfidato apertamente dalle 69 milioni di ore di cassa integrazione nel 2024, in aumento del 36,4% rispetto al 2023, così come dalle difficoltà di un export che genera circa la metà del Pil veneto.
Continueranno a bastare retorica comunitaria, infrastrutture e promesse di libertà dalle vessazioni fiscali, a nascondere le difficoltà di un territorio che non è più quello della trasformazione della piccola proprietà contadina in piccola impresa manifatturiera degli anni ’70, né quello del boom dell’export degli anni ‘90? Spostare il problema sempre all’esterno, raccontando i veneti come sconfitti dell’unità italiana e vincitori della globalizzazione, è ancora possibile? Non è un caso che i sondaggi diano serie possibilità di entrare in consiglio regionale a Riccardo Szumski, ex sindaco leghista di Santa Lucia di Piave (a pochi chilometri dal luogo natale di Zaia) ed ex medico di base radiato in quanto no vax. La radicalizzazione del leghismo in salsa ultralibertaria e comunitarista è un fenomeno, per quanto minoritario. È uno step ulteriore: la libertà incarnata da Fleximan, il misterioso eroe popolare che tempo fa segava con un flessibile gli autovelox di provincia. Una libertà declinata tutta al negativo, eredità di un popolo che non ha mai trovato nel servizio pubblico una prospettiva di emancipazione da contadino, e non la cerca più ora che ha trovato il benessere, ma chiede solo di essere lasciato stare. Almeno finché non ha bisogno di una Tac.
La base sociale della destra veneta arranca e mugugna, e si guarda in giro. C’è il rischio che si sia già cementificato il cementificabile. Che anche il tesoro nascosto, come ne Le città di pianura, sia stato coperto dalle fondamenta di una lottizzazione. Luca Zaia, perseguitato da problemi gastrici, non finirà a bere «l’ultima» con Doriano e Carlobianchi. Forse finirà in parlamento, forse a presiedere l’Eni, o addirittura il Coni, per poter inaugurare le Olimpiadi. Se ne parla persino come potenziale sindaco di Venezia. Un riscatto senza precedenti, non solo come leghista nella città un tempo rossa, ma soprattutto come figlio del «profondo Veneto» contadino, alla guida della «Dominante». Peccato che sia un riscatto tutto individuale: l’ennesima storia di successo personale di una terra che nel frattempo, come il suo capoluogo, ha iniziato a sprofondare.
*Lorenzo Zamponi è docente di sociologia alla Scuola Normale Superiore ed editor di Jacobin Italia. È coautore di Resistere alla crisi (Il Mulino, 2019).
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