Quando il potere normalizza la violenza: anatomia di una deriva autoritaria

Pressenza - Saturday, June 28, 2025

Dal carcere di Ilaria Salis alla legge sicurezza, il dibattito a Sherwood Festival smaschera la deriva autoritaria che trasforma la giustizia in arma e cancella il conflitto dalla democrazia. Un confronto tra esperienze, lotte e visioni per costruire nuove forme di resistenza_

All’interno di Sherwood Festival, il dibattito “Violenza del potere e deriva autoritaria” ha visto protagoniste tre figure centrali del presente giuridico e istituzionale: Ilaria Salis, europarlamentare, Eugenio Losco, avvocato penalista, e Alessandra Algostino, professoressa di diritto costituzionale all’Università di Torino. In dialogo con l’avvocato Giuseppe Romano, i relatori hanno offerto un’analisi condivisa: lo Stato democratico, in Italia come in Europa, ha tradito le sue promesse di garanzia e diritti, trasformando la legge in strumento di controllo, la giustizia in arma, la repressione in prassi ordinaria.

Ilaria Salis ha aperto il confronto raccontando la propria esperienza carceraria e giudiziaria, non come vicenda individuale, ma come esempio sistemico. Ha ricostruito i quindici mesi di detenzione preventiva in Ungheria come forma deliberata di violenza, volta a spezzare non solo la volontà dell’imputato, ma anche il legame con la propria comunità politica. Ha denunciato l’uso della custodia cautelare come deterrente, il tentativo di farne un simbolo negativo, e la funzione della repressione giudiziaria come strumento di dissuasione diffusa.

Secondo Salis, «non si colpisce un individuo per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta». Il caso giudiziario diventa costruzione simbolica: la detenuta antifascista trasformata nel “mostro” su cui proiettare una narrazione d’ordine. Ma questa narrazione, ha osservato, si è incrinata. «La mia immagine in catene non ha generato paura, ma indignazione». E tuttavia, ha ricordato, ciò è stato possibile solo perché il suo corpo – bianco, femminile, istruito – rientrava nei confini dell’empatia mediatica. «Altri corpi non fanno notizia: migranti, detenuti nei CPR, reclusi senza visibilità politica. Per loro, la repressione resta invisibile e sistemica».

Ancora oggi, da europarlamentare, Salis denuncia come la repressione non finisca con la liberazione fisica: pende su di lei una richiesta di revoca dell’immunità parlamentare da parte delle autorità ungheresi, giunta subito dopo un suo intervento critico verso il governo Orbán. Per Salis, la repressione non si limita a tribunali e carceri: si estende a decreti, conferenze stampa, leggi.

Durante il suo intervento, ha richiamato il caso di Maya T., militante antifascista tedesca detenuta in Ungheria per accuse analoghe. Maya rischia fino a 24 anni di carcere: una vicenda che testimonia l’accanimento repressivo e la sproporzione giudiziaria. Attualmente in sciopero della fame, la sua situazione è emblematica della criminalizzazione dell’antifascismo in Europa. A lei, Salis ha rivolto un abbraccio solidale: gesto politico e invito alla mobilitazione internazionale contro l’arbitrio giudiziario.

Eugenio Losco, avvocato difensore di Salis, ha ricostruito il processo di Budapest come esempio lampante di giustizia politica. Emblematica l’assurdità dell’impianto accusatorio: tra i capi d’imputazione figura la presunta “violazione dei diritti di una minoranza”, riferita – paradossalmente – a soggetti appartenenti a gruppi neonazisti. A ciò si sommano gravi criticità procedurali: Salis ha affrontato il processo in un contesto linguistico incomprensibile, con limitati contatti con l’esterno e ostacoli costanti al pieno esercizio del diritto alla difesa.

Losco ha denunciato la sproporzione tra i reati contestati e la detenzione inflitta, l’assenza di garanzie fondamentali e l’impostazione ideologica di una magistratura che premia l’estrema destra e punisce l’antifascismo. E soprattutto ha sottolineato come questo modello – apparentemente distante – stia rapidamente riproducendosi anche in Italia.

A completare il quadro, l’intervento di Alessandra Algostino ha collocato la repressione del dissenso all’interno di una più ampia trasformazione autoritaria, che ha definito “tecnofeudalesimo”: un sistema in cui il potere si concentra in mani opache e verticali, svuotando gli spazi democratici. In questo contesto, ha rivendicato la legittimità delle mobilitazioni studentesche, che rompono la narrazione dominante e riaffermano il diritto al conflitto. Ha criticato duramente la retorica istituzionale che etichetta ogni contestazione – come quelle contro Roccella – come “violenza”, evidenziandone la funzione repressiva e silenziatrice.

Nel secondo giro di interventi, Salis ha decostruito con forza il concetto di “sicurezza” nel discorso politico dominante, mettendone in luce l’uso strumentale e repressivo. La sicurezza – ha detto – non è più tutela dei diritti o delle condizioni di vita, ma controllo, ordine pubblico e punizione. Si criminalizzano poveri, occupanti, attivisti, mentre le politiche securitarie colpiscono chi rivendica giustizia sociale. La retorica del “furto di case” ha solo legittimato la repressione delle occupazioni e giustificato interventi penali sproporzionati. In questo scenario, lo Stato non appare più come garante, ma come apparato punitivo al servizio di proprietà e privilegio.

Losco ha poi affrontato la recente “legge sicurezza” (ex ddl 1660-1236), definendola una mutazione profonda dell’ordinamento giuridico. Non reprime solo condotte pericolose: seleziona soggetti da colpire. «Il legislatore non punisce un reato. Costruisce un nemico. E poi scrive la norma per colpirlo». Chi lotta per la casa, chi partecipa a un picchetto, chi blocca una strada, diventa destinatario di norme penali scritte appositamente per intimidirlo.

Il nuovo reato di blocco stradale, le aggravanti per resistenza in manifestazione, le sanzioni per chi sostiene occupazioni: strumenti pensati per disattivare la solidarietà. Parallelamente, lo Stato garantisce tutela giuridica e protezione economica a chi esercita la forza, ovvero le forze dell’ordine, sempre più armate e sempre meno responsabili. «Si configura un doppio binario: repressione per chi contesta, immunità per chi reprime».

Particolare attenzione è stata posta all’incremento delle garanzie accordate alla polizia: non solo nuove prerogative operative – come il porto d’armi fuori servizio – ma anche coperture legali e finanziarie che allontanano ogni forma di accountability. Le forze dell’ordine non solo agiscono con maggiore libertà, ma vengono sollevate dal dovere di rispondere delle proprie azioni, grazie a fondi pubblici per la difesa legale e a un clima politico che scoraggia ogni indagine. «In questo assetto – ha detto – la polizia non è più un corpo al servizio della legge, ma una zona franca autorizzata a esercitare la forza con copertura preventiva».

Algostino ha quindi messo in discussione la legittimità costituzionale dell’intero impianto normativo. Secondo lei, assistiamo a un vero e proprio rovesciamento del principio democratico. La Costituzione nasce per limitare il potere, tutelare i diritti e riconoscere il conflitto. La nuova legislazione, al contrario, lo rimuove, sanziona il dissenso, nega la solidarietà. «Il decreto sicurezza è incostituzionale nell’anima». «Il conflitto rende vitale la democrazia; il dissenso è un suo elemento essenziale»

Algostino ha denunciato l’espulsione della Costituzione dal linguaggio politico e legislativo. «Oggi si legifera come se la Costituzione non esistesse più». Non è solo una questione di articoli violati, ma di perdita di senso complessivo. La democrazia italiana è nata riconoscendo il diritto alla disobbedienza, alla protesta, alla lotta sociale. La legge sicurezza nega questi spazi. La norma diventa strumento d’ordine, non di giustizia.

In questa cornice, il diritto non limita più il potere, ma ne diventa giustificazione. Lo Stato si configura sempre più come apparato coercitivo, autoritario, selettivo. E la deriva non è episodica: è strutturale.

Con uno sguardo che intreccia analisi costituzionale e pensiero critico, Algostino ha chiarito che non si tratta di una semplice deviazione autoritaria, ma di un cambiamento strutturale del paradigma politico. Ha denunciato l’introduzione, nella legge sicurezza, di aggravanti costruite per criminalizzare il dissenso organizzato, in particolare contro le grandi opere. È il caso del movimento No TAV, cui lo Stato ha risposto con sorveglianza, intimidazione e carcere. Una norma confezionata per disinnescare un conflitto legittimo.

Richiamandosi a Walter Benjamin, ha sostenuto che il diritto, quando non è strumento di giustizia, diventa puro esercizio di forza. Non regola il potere, ma lo esprime nella sua forma più nuda: violenza legittimata. In questo schema, lo Stato non punisce reati, ma definisce i nemici: migranti, poveri, dissenzienti. È questa la logica del diritto penale del nemico.

Ma Algostino è andata oltre, evidenziando come questa visione del potere sia non solo autoritaria, ma neoliberale. Un potere che si presenta come neutro, tecnico, inevitabile e che, in nome dell’efficienza e della sicurezza, espelle il conflitto dalla democrazia. Il dissenso non viene ascoltato né rappresentato: viene patologizzato, punito, escluso.

Secondo lei, la democrazia non è solo sotto attacco: è già in parte svuotata. La legge sicurezza lo dimostra: non ammette pluralismo, non tollera opposizione, non contempla solidarietà. Solo ordine, decoro, disciplina.

Nel passaggio finale, il dibattito si è spostato sull’istruzione con l’intervento di Gaia Righetto, docente precaria e attivista, recentemente oggetto di una campagna mediatica per il suo impegno politico. La sua vicenda mostra come anche la scuola diventi oggi terreno di repressione. Righetto ha raccontato come la precarietà sia usata come forma di controllo: chi insegna con contratti temporanei è spinto a non esporsi, a non deviare dalla “neutralità” imposta.

Secondo lei, non si colpisce più solo chi occupa o protesta, ma anche chi educa alla critica. «Si vuole una scuola addomesticata, senza conflitto, senza pensiero. Una scuola che formi cittadini docili, non consapevoli». Gli attacchi che ha subito non sono casuali, ma parte di una strategia più ampia: delegittimare chi ha voce e mette in discussione l’autorità.

Ilaria Salis ha quindi poi espresso piena solidarietà a Gaia Righetto, sottolineando come la repressione colpisca non solo chi protesta, ma anche chi educa alla critica e al pensiero libero. Ha ricordato poi l’assurdo caso del questore di Monza, Ferri, condannato per i fatti di Genova nel 2001, a dimostrazione di come le forze dell’ordine agiscano impunemente, nonostante gravi responsabilità.

Eugenio Losco ha in chiusura evidenziato l’uso crescente di strumenti amministrativi come fogli di via, daspo e “zone rosse”, decisi da questori e prefetti senza sentenze né processi. Questi provvedimenti, privi di garanzie, vengono applicati arbitrariamente per allontanare e isolare persone legate a mobilitazioni sociali o politiche, trasformando l’amministrazione in uno strumento di repressione preventiva e controllo politico.

Il dibattito ha restituito l’immagine di un potere sempre meno democratico e sempre più disciplinare. Ma anche la possibilità concreta di costruire forme di resistenza non più solo difensive, ma attive. La risposta non può essere l’attesa di un ritorno alla normalità: serve un nuovo fronte di conflitto democratico, che unisca chi lotta nei tribunali, nei parlamenti, nelle scuole, nei quartieri.

È bene specificare poi che tutti i relatori, pur con percorsi diversi, hanno sottolineato la necessità di mettere in discussione il carcere come strumento sociale e politico, aprendo a una prospettiva abolizionista che non si limiti a riformare l’esistente, ma immagini modelli di giustizia radicalmente alternativi.

Infine, a conclusione della serata, il dibattito si collega anche alla mobilitazione lanciata contro la presenza di Jeff Bezos a Venezia per il suo matrimonio “No space for Bezos, No space for war” (28 giugno). La sua presenza – d’altronde – non è solo un evento mondano, ma un simbolo di un modello tecno-autoritario basato sull’iper-sfruttamento del lavoro, la privatizzazione degli spazi e l’accumulazione algoritmica di potere. Contestare Bezos significa rifiutare questa governance e affermare un’altra idea di futuro, fondato su giustizia sociale, democrazia e difesa dei beni comuni.

guarda riprese video su. Globalproject.info

Redazione Italia