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Anche il PD equipara antisionismo e antisemitismo…
INCREDIBILE L’ASCESA DELLA EQUIPARAZIONE TRA ANTISIONISMO E ANTISEMITISMO: L’ENNESIMO DECRETO DI LEGGE DI STAMPO REVISIONISTA APRE UNA NUOVA CACCIA ALLE STREGHE…QUESTA VOLTA DA PARTE DEL PARTITO DEMOCRATICO CON GRAZIANO DELRIO. Incalcolabili sono i danni recati dalla parentesi renziana a capo del Partito Democratico, danni che poi portano alcuni nomi e cognomi con posizioni in politica estera analoghe, o fotocopia, di quelle delle destre. A volte tornano sotto i riflettori distinguendosi con l’inutile servilismo verso lo Stato di Israele, presentando una proposta di legge che equipara l’antisionismo all’antisemitismo, superando a destra i parlamentari di Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega. Il Disegno di Legge, presentato da Graziano Delrio, denominato “Disposizioni per il rafforzamento della strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, e per la prevenzione ed il contrasto all’antisemitismo e delega al Governo in materia di disciplina degli interventi relativi ai contenuti antisemiti diffusi sulle piattaforme online di servizi digitali” già dal titolo fa capire il fine della iniziativa: un controllo repressivo che riguarderà scuole, università, realtà sociali e i social destinatari della campagna securitaria (clicca qui per le info). Il disegno di legge segue i classici copioni sperimentati in qualche trasmissione televisiva: narrare la piaga dilagante dell’antisemitismo, dell’odio verso gli ebrei condito da rigurgiti razzisti. E così gli autori del genocidio, i sionisti, in un colpo solo diventano le vittime. E la fonte da cui attingere dati e informazione non è certo super partes, parliamo del monitoraggio operato dal Centro di documentazione Ebraica Contemporanea (CDEC) (https://www.osservatorioantisemitismo.it/), vicino ad ambienti sionisti e da anni attivo nel catalogare ogni espressione di odio contro gli ebrei che spesso e volentieri vengono confusi con i fautori del sionismo. Peccato che tra le segnalazioni si possa ritrovare anche un semplice adesivo di solidarietà con la Palestina affisso alla fermata dei bus o all’ingresso di una mensa. La narrazione parla di un incremento degli episodi antisemiti molti dei quali non sarebbero tracciati giusto a drammatizzare ulteriormente la situazione. Leggiamo testualmente: «Le evidenze raccolte non sono solamente allarmanti da un punto di vista quantitativo, essendo rilevante l’esame qualitativo della tipologia degli atti segnalati, consistenti, tra l’altro, in invettive e stereotipi antisemiti nella realtà virtuale e nella vita quotidiana, in particolare nelle istituzioni scolastiche e universitarie. Si ravvisano altresì minacce a persone ed istituzioni ebraiche, atti di discriminazione (si pensi a esponenti politici e giornalisti cui è stata resa impossibile la partecipazione agli eventi pubblici) e persino alle aggressioni fisiche in luoghi pubblici». Avete letto bene? In Italia radio, giornali e tv sarebbero occupati da antisemiti, giornalisti e politici, manipoli di razzisti si aggirerebbero per le città nel solo intento di impedire l’esercizio di parola agli ebrei recendo loro violenza verbale e fisica. La verità è che le reti Mediaset e la Rai sono sistematicamente occupate da esponenti del centrodestra con posizioni filoisraeliane, parliamo di oltre il 90% degli ascolti televisivi, aggiungiamo i giornali nelle mani di pochi gruppi editoriali e schierati a destra o, se su posizioni del centro sinistra, vicino alle posizioni governative in materia di politica estera. Vittimismo o strategia del complotto? Continuando a leggere il disegno, l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo si fa sempre più forte fino a denunciare un’autentica persecuzione degli ebrei ai quali sarebbe impedito di manifestare la loro stessa religione e identità. Negli ultimi anni da parte dei movimenti solidali con la causa palestinese non c’è stato alcun gesto contro simboli ebraici e sinagoghe, al contrario gli episodi di aggressione ai danni di attivisti filopalestinesi risultano innumerevoli. La narrazione vittimista è funzionale a descrivere una realtà falsata, le grandi adesioni alle mobilitazioni contro il genocidio possono essere avversate non criminalizzando i milioni di partecipanti, ma facendo credere che nel Paese il germe del razzismo antisemita sta prendendo corpo, il passaggio successivo sarà la criminalizzazione di tutti i solidali e gli antisionisti trasformati in odiatori da tastiera al pari di chi lancia invettive senza costrutto assalito dall’odio instillato dalle dichiarazioni avventate di politici senza memoria. E tra gli odiatori chi ritroviamo? Una lunga sequela di nemici che vanno dai movimenti sociali ai sindacati, dagli intellettuali non allineati agli islamici tout court, tutti accomunati da odio ed aggressività. Ma qual è il fine di questo disegno di Legge? Leggiamo dal testo: «Il presente disegno di legge si pone l’obiettivo di adattare la disciplina vigente in ambito digitale e formativo, recando misure volte a prevenire e contrastare le nuove forme di antisemitismo nonché a rafforzare efficacemente l’attuazione della Strategia nazionale per la lotta contro l’antisemitismo, elaborata nel quadro di quella europea dal Coordinatore nazionale presso la Presidenza del Consiglio dei ministri». Incredibile la descrizione del propagarsi dell’odio antisemita che, secondo questo disegno di legge, sarebbe una minaccia pericolosa alla democrazia e alla libertà. Passando in rassegna il testo si va dalla delega al Governo per l’adozione – entro sei mesi – di uno o più decreti legislativi, volti a disciplinare in modo organico il contrasto all’antisemitismo online (il che fa presagire il controllo della rete stessa, la chiusura di bollettini, siti, pagine social e riviste di orientamento antisionista), fino alla tutela della libertà della ricerca e di insegnamento in ambito universitario, come se l’autentica minaccia all’università non fosse rappresentata dalla Bernini e dai suoi provvedimenti che andranno ad espellere migliaia di ricercatori. Il vero obiettivo di questo disegno è la normalizzazione del controllo nelle scuole e nelle università a partire dalla sorveglianza dell’operato dei docenti, istaurando un clima repressivo e di soffocante controllo pur celandosi dietro al sommo «valore della conoscenza ed il principio della libera manifestazione del pensiero, nella fondamentale ottica del reciproco rispetto e del confronto civile» (Cass. civ. 28853/2025). E dopo l’alza bandiera arriveranno le buone azioni contro l’antisemitismo, spingendo le scuole a segnalare tutte le iniziative intraprese a sostegno di queste indicazioni con tanto di segnalazioni alle forze di polizia e al Ministero di ogni azione e opinione che possa configurarsi come antisemita. E ancora una volta si va a confondere antisemitismo con antisionismo. Chiunque criticherà l’operato di Israele verrà tacciato di istigatore dell’odio razziale alla stessa stregua di un nazista. Se questo è il disegno di legge partorito dalla fervida immaginazione di un parlamentare del PD, la prossima mossa del centrodestra sarà quella di venirci a prendere a casa per portarci in qualche carcere. Occorre fermare oggi questa follia; occorre fermarli con le ragioni, le azioni propositive e le argomentazioni di cui siamo capaci, è ormai un dovere etico e civile. Federico Giusti Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università
I libri sono liberi, ma le opinioni non sempre lo sono
Evidentemente l’Italia ha maturato un problema con i libri. E’ un problema che ha sempre avuto, ma in questi anni si è acutizzato. Non tanto perchè fanno discutere per i loro contenuti, ma perchè fa discutere ciò che rappresentano spesso politicamente. Hanno fatto discutere a partire da chi li ha scritti, dalle opinioni degli scrittori, o lo hanno fatto a partire dai contenuti del libro stesso. Abbiamo anche un problema di schizofrenia con la democrazia, il fascismo, l’antifascismo, la libertà d’espressione e la censura. Problemi che in questi anni ritornano periodicamente al centro del dibattito perchè evidentemente non si sanno gestire. Uso il termine schizofrenia perchè evidentemente ogni anno diventa sempre più patologico. Sembra che non si riesca più a distinguere ciò che è fascista da ciò che non lo è, libertà d’espressione da ciò che non lo è, censura da ciò che non lo è, democrazia da ciò che non lo è. Tutto questo accompagnato da comportamenti confusionari: un anno si critica uno scrittore per le sue opinioni e si invita alla censura; un anno si invita uno scrittore a non presentarsi ad un festival pur essendo stato invitato; un anno nel silenzio assoluto viene esclusa una casa editrice dichiaratamente antifascista dal Salone del Libro di Torino senza che non troppe voci mediatiche si levino in aiuto; un anno alcuni scrittori fanno un appello in contrarietà alla presenza di una casa editrice dichiaratamente fascista senza essere ascoltati. Tutto questo sembra un teatro, una commedia senza trama di cui si intuisce il contenuto e si ignora la conclusione, perchè la fine è sempre diversa: un misero spettacolo da cui si può indagare la salute della nostra democrazia. I fatti recenti, dopo l’appello – firmato tra gli altri da Alessandro Barbero, Anna Foa, Antonio Scurati, Carlo Ginzburg, Giovanni De Mauro, Christian Raimo e Zerocalcare – per chiedere di escludere dall’evento “Passaggio al Bosco”, la casa editrice che pubblica scritti di e su Mussolini, Degrelle, Codreanu e neofascismo, ce lo manifestano senza tante sfumature. Ciò che mi riporta alla mente sono episodi simili che negli ultimi vent’anni l’Italia ha vissuto su questo tema. Nel 2008 il Salone del Libro di Torino dedicò la sua edizione ad Israele “per i sessanta anni della sua nascita”. Un evento percepito mediaticamente come festoso ed importante che solo qualcuno seppe contestare. Il Forum Palestina e altre reti solidali con i palestinesi, organizzarono una efficace campagna di boicottaggio che aprì un discussione a tutto campo nel mondo della cultura e della politica. Moltissimi scrittori, palestinesi e non solo, decisero di non partecipare perchè non aveva senso che una democrazia come l’Italia dedicasse un evento culturale alla nascita di un Paese nato sulla pulizia etnica da parte di gruppi d’estrema destra sionisti e la Nakba del 1948 del popolo palestinese, al quale – già all’epoca – imponeva di vivere in un sistema di apartheid razzista e coloniale fatto di violenza e soprusi quotidiani e repressione militare sistematica. Conclusione: non troppo clamore mediatico e il mondo della cultura italiana celebrava Israele senza che nessuno si indignasse per la sua storia. Nel 2011 nel Veneto leghista, l’allora assessore alla cultura della Provincia di Venezia, Raffaele Speranzon, iniziava una crociata una serie di scrittori italiani invitando alla censura dei loro testi: “Via quegli autori dalle biblioteche pubbliche” – disse pubblicamente. La loro colpa era aver firmato nel 2004 un appello per la liberazione e l’indulto a Cesare Battisti, combattente militante negli anni Settanta nei Proletari Armati per il Comunismo (PAC), organizzazione italiana della lotta armata di estrema sinistra. Fu così che si chiedeva che gli “scrittori pro-Battisti” – così vennero chiamati – venissero messi al bando nelle scuole. “Non chiediamo nessun rogo di libri, intendiamoci. Semplicemente inviteremo tutte le scuole del Veneto a non adottare, far leggere o conservare nelle biblioteche i testi diseducativi degli autori che hanno firmato l’appello a favore di Cesare Battisti”, disse l’assessore regionale all’istruzione Elena Donazzan, 39 anni di Bassano del Grappa, fervente cattolica del PDL, con alle spalle una militanza nel Fronte della Gioventù e un passaggio in An. “Un boicottaggio civile è il minimo che si possa chiedere davanti ad intellettuali che vorrebbero l’impunità di un condannato per crimini aberranti”, sbottava annunciando una lettera a tutti i presidi, mentre nelle biblioteche comunali, nel silenzio generale, stavano sparendo le opere degli autori politicamente scomodi. Donazzan, nota alle cronache regionali per aver deciso di donare a tutti gli scolari delle elementari una copia della Bibbia, dichiarò: “Un autore, un intellettuale, esiste per quello che scrive. Questo è il suo ruolo nella società. Quella a favore di Battisti non è stata una petizione popolare. Ci troviamo davanti a un messaggio aberrante lanciato da intellettuali. A favore di un personaggio che si è macchiato dei peggiori crimini di sangue. L’unica cosa che possiamo fare è boicottare i loro libri. Smettere di leggerli. Non accoglierli nelle biblioteche pubbliche e nelle scuole. (20 gennaio 2011)”. In seguito, a chiederne ufficialmente la censura nelle scuole, era stato l’assessore regionale con l’appoggio del presidente della Regione Luca Zaia, che definì la vicenda di Battisti “abominevole”: “I delinquenti vanno messi in galera, non lasciati liberi”. Intanto casi di censura leghista, strisciante o esplicita, venivano denunciati da alcuni bibliotecari veneti. A venire sconsigliati erano soprattutto i libri di Roberto Saviano. Soddisfatto di aver sollevato “un gran vespaio”, come lo definì lui, l’assessore provinciale Speranzon disse che “Era proprio quello che volevo” anche se poi la presidente della Provincia, la leghista Francesca Zaccariotto, fu costretta a fargli fare marcia indietro. Riassumendo: dei politici locali decisero che era giusto censurare i libri di alcuni scrittori ed intellettuali, che non avevano violato nella regola della nostra fantomatica “democrazia”, solo perchè avevano chiesto in un appello la liberazione di un guerrigliero politico degli anni Settanta, oltre alla richiesta di fare pace con la travagliata storia degli Anni di Piombo, di “assalto al cielo” e di radicalità delle masse. L’azione dei politici leghisti locali fu sicuramente fascista e antidemocratica che violava il diritto alla libertà d’espressione e limitava la diffusione di cultura. Questi politici volevano censurare dei libri sulla base di una loro politicizzazione strumentale di alcuni fatti passati, fondata sulla loro opinione che volevano trasmutare in convinzione di massa. Le opinioni, proprio perchè tali, sono sempre di bassa lega rispetto ai pensieri strutturati e argomentati con cognizione di causa. Ma la storia non finisce qui. Nel 2019, Wu Ming 4 che avrebbe dovuto presentare al Salone del Libro di Torino l’antologia di suoi scritti su “J.R.R. Tolkien Il Fabbro di Oxford” edito da Eterea, decide di annullare la sua presentazione in quanto al Salone del Libro sarebbe stata presente uno stand Altaforte, di fatto la casa editrice di CasaPound, organizzazione d’estrema destra occupante di un palazzo del Ministero dell’Interno che nessuno ha mai sognato di sgomberare. Nei giorni prima la notizia aveva suscitato molte critiche ed esortazioni a tenere fuori dalla kermesse una presenza platealmente neofascista. Dello stesso avviso anche il fumettista ZeroCalcare, che scrisse: “oggettivamente sta roba prima non sarebbe mai successa. Qua ogni settimana spostiamo un po’ l’asticella del baratro”. Come ha risposto il Comitato d’indirizzo del Salone? Con un comunicato che in sostanza dice: “CasaPound non è fuorilegge, dunque può stare al Salone, basta che paghi”. Non tutti seguirono l’esempio, il saggista Christian Raimo, dimessosi da consulente del Salone del Libro, decise di esserci lo stesso “soprattutto per parlare, discutere, ascoltare, e contestare. Ogni spazio pubblico è un campo di battaglia”. Un’opinione condivisibile, soprattutto se il motivo era provare coi propri mezzi a non normalizzare quella presenza inquietante. Riassumendo: Il Salone del Libro decide di invitare una casa editrice di stampo neofascista perchè CasaPound non è fuori legge, ma si dimentica di due punti fondamentali: la Legge Mancino (1993), che punisce l’incitamento all’odio, alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi, inclusi gesti e simboli; e la Legge Scelba (1952) che vieta la ricostituzione del disciolto Partito Fascista e punisce l’apologia del fascismo, condannando manifestazioni, propaganda e organizzazioni che ne richiamino principi o metodi, con la Mancino che funge da norma sussidiaria per condotte meno specificamente fasciste ma discriminatorie. Questo basterebbe per dire che il neofascismo non è un’opinione tra le altre e che la sua apologia è reato. Nel 2021, invece, al Salone del Libro di Torino succede qualcosa di estremamente insolito: l’esclusione della casa editrice udinese Kappa Vu da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia (con la famigerata Mozione 50) dalla partecipazione al “Salone del libro” di Torino previsto dal 14 al 18 ottobre 2021. La comunicazione è avvenuta non con una comunicazione scritta ma con una telefonata, non alla casa editrice diretta interessata, ma all’Associazione di editori di cui Kappa Vu fa parte, con l’avvertimento di esclusione di tutti gli altri editori appartenenti all’Associazione. Si tratta di un fatto gravissimo un fatto grave: una decisione avvenuta in base ad un “giudizio di merito” dal punto di vista politico da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia, sulle pubblicazioni della casa editrice stessa in merito alle esecrabili vicende del confine orientale e sulle foibe. Non si tratta di una casa editrice qualunque, ma una casa editrice che pubblica libri su argomenti storici importanti: l’occupazione fascista della Jugoslavia, l’italianizzazione fascista delle terre slave, la resistenza antifascista jugoslava, le foibe, le amnesie di Stato italiane sulle vicende del Confine Orientale, l’antislavismo fascista, i campi di concentramento fascisti dove vennero rinchiusi e sterminate le popolazioni slave etc. La politica non potrebbe operare discriminazioni sulla base di pubblicazioni non ritenute “proprie”. L’Anpi Udine con il coordinatore Dino Spanghero affermò: “inaccettabile e antidemocratico, una violazione della libertà di stampa sancita dalla Costituzione”. Conclusione: evidentemente la Regione Friuli Venezia Giulia ha delle simpatie revisioniste della storia a tal punto da impedire la presenza di una casa editrice che, attraverso la ricerca storica, ha dichiarato guerra al revisionismo storico. Interessante che il Salone del Libro non si sia espresso…. Per concludere, l’art. 21 della nostra Costituzione afferma che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”, essendo il pluralismo delle idee e dei pensieri, e non la censura, patrimonio delle società democratiche. Un conto è esprimere la propria opinione libera; un conto è imporre forzatamente la propria opinione pensando che debba essere legge; un conto è dichiararsi fascisti e, in quanto tale, pretendere di avere voce in capitolo; un conto è accettare che i fascisti possano essere normalizzati in quanto agenti d’opinione; un conto è escludere chi la pensa diversamente a prescindere proprio per il suo pensiero; un conto è esporsi per chiedere democraticamente chiarimenti su fatti democraticamente inspiegabili come appunto la presenza di case editrici apertamente schierate Credo che sia urgente più che mai discutere ampiamente sui temi della libertà di espressione, dei valori dell’antifascismo e sul fatto che l’apologia di fascismo sia reato. Un questione che prima o poi si dovrà affrontare se vogliamo continuare a vivere in un clima pacifico di dialogo. Lorenzo Poli
Tensione tra giudiziario e politica: un’analisi democratica attraverso il caso İmamoğlu in Turchia e il referendum sulla riforma della giustizia in Italia
Negli ultimi anni, sia la Turchia sia l’Italia hanno attraversato svolte critiche che ridefiniscono l’influenza delle istituzioni giudiziarie sulla sfera politica. In Turchia, l’arresto e il processo del sindaco metropolitano di Istanbul Ekrem İmamoğlu, minacciato da una pena fino a 2.430 anni di carcere e da un potenziale divieto politico, hanno provocato una profonda crisi che mette in discussione la posizione del potere giudiziario rispetto all’esecutivo e l’equità della competizione democratica. Nel frattempo, in Italia, la riforma della giustizia proposta dal governo Meloni  volta a separare le carriere di giudici e pubblici ministeri e a ristrutturare il Consiglio Superiore della Magistratura  è stata sottoposta a referendum costituzionale. Se approvata nel voto popolare, previsto tra marzo e aprile 2026, ridefinirebbe il ruolo istituzionale della magistratura. Questo articolo intende analizzare, in prospettiva comparata, il nesso tra il meccanismo politico-giudiziario reso visibile dal processo İmamoğlu in Turchia e la decisione del governo Meloni di ricorrere al referendum per attuare la riforma della giustizia in Italia. Che cosa è accaduto in Turchia? E che cosa sta accadendo ora? La transizione verso l’autocrazia in Turchia (2016–2025) L’apparente democratizzazione della Turchia dei primi anni 2000 ha ceduto il passo, nell’ultimo decennio, a una progressiva deriva autocratica. Dopo il fallito golpe del 2016, epurazioni massicce e riforme costituzionali hanno ampliato il potere esecutivo, portando alla rimozione di migliaia di magistrati e rendendo il sistema giudiziario strutturalmente dipendente dalla presidenza. Pertanto, il periodo 2016–2025 segna una fase in cui l’autoritarismo si è istituzionalizzato e la magistratura è emersa come uno strumento strategico del potere politico. L’arresto improvviso di İmamoğlu nel marzo 2025 ha provocato uno shock nazionale. Figura ampiamente ammirata, la sua detenzione ha generato proteste di massa riunite sotto lo slogan “Hak, Hukuk, Adalet” (“Diritti, Legge, Giustizia”). Considerato il principale sfidante dell’opposizione per la presidenza, il suo caso è stato definito “il segno che una competizione elettorale autentica in Turchia è ormai terminata” (Nistor & Popescu, 2025) e un “classico esempio di lawfare” volto a eliminare un rivale in ascesa e consolidare il potere del partito di governo (Tecimer, 2025). Le valutazioni concordano: i meccanismi legali operano ormai in modo trasparente a favore del potere esecutivo. Nel complesso, il periodo 2016–2025 rappresenta la trasformazione della Turchia da un regime competitivo-autoritario a un modello sempre più non competitivo. Il caso İmamoğlu costituisce una manifestazione simbolica di un sistema in cui la competizione democratica non solo è ostacolata, ma strutturalmente smantellata. La riforma della giustizia di Meloni e il percorso verso il referendum La decisione di sottoporre la riforma a referendum ha riacceso un dibattito fondamentale sul ruolo della magistratura nel sistema politico italiano. Oltre ai dettagli tecnici, il nodo centrale riguarda il futuro equilibrio tra potere esecutivo e potere giudiziario. La segretaria del Partito Democratico, Elly Schlein, ha dichiarato: “Questa non è una riforma della giustizia… Non interverrà sulla lunghezza dei processi, sul sovraffollamento carcerario né sulle misure alternative. L’obiettivo è un altro: indebolire l’indipendenza della magistratura affinché sia più assoggettata al potere di chi governa.” Aggiunge inoltre: “Il punto è semplice: Meloni ha detto che questa riforma le serve per avere le mani libere e porsi al di sopra della Costituzione.” Il dibattito tocca anche lo strumento referendario. Come sintetizzato da Pagella Politica: “La legge sottoposta a referendum non è promulgata se non è approvata dalla maggioranza dei voti validi, ma non ha bisogno del quorum.” Ciò aumenta il rischio politico poiché anche un’affluenza bassa ma altamente mobilitata potrebbe deciderne l’esito. I sostenitori affermano che la riforma spezzerebbe il corporativismo giudiziario e aumenterebbe la responsabilità; i critici temono che possa ridurre il controllo sull’esecutivo. La campagna assume così la forma di un plebiscito sull’indipendenza della magistratura e sui limiti del potere governativo, fondandosi non solo su valutazioni giuridiche ma anche sulla fiducia nelle istituzioni. Le voci accademiche sottolineano che l’asse reale della riforma riguarda il potere, non l’efficienza. Giovanni Verde (Il Sole 24 Ore) scrive: “La riforma avrà scarse o nulle ricadute sull’efficienza del servizio, avendo come obiettivo quello del riequilibrio tra i poteri dello Stato.” Avverte inoltre: “Sarebbe necessaria una robusta partecipazione al voto, dato che la riforma riguarda il modo di essere della nostra democrazia.” Paolo Balduzzi osserva che un “Sì” chiuderebbe una battaglia durata decenni, mentre un “No” rappresenterebbe una sconfitta politica diretta per il governo. Qual è il collegamento? Quali sono le implicazioni future? La persecuzione di İmamoğlu e il referendum italiano rivelano una sfida comune alle democrazie contemporanee: stabilire se la magistratura resti garante della competizione democratica o diventi uno strumento dell’esecutivo. In Turchia, il caso İmamoğlu incarna un lawfare ormai istituzionalizzato che restringe lo spazio politico; in Italia, pur attraverso un processo democratico, la riforma costituzionale solleva dubbi di legittimità perché ridefinisce l’equilibrio tra esecutivo e magistratura. La traiettoria turca, culminata nel processo contro il sindaco della sua città più popolosa, minacciato da migliaia di anni di carcere, mostra come una giustizia politicizzata possa spingere un paese fuori dall’ordine democratico. Criminalizzare un sindaco eletto perché considerato una minaccia politica è un chiaro indicatore di come la perdita dell’indipendenza giudiziaria laceri la democrazia in modi difficili da recuperare. Per questo motivo, il dibattito italiano e il referendum del 2026 non rappresentano mere modifiche tecniche: sono un bivio esistenziale per l’equilibrio dei poteri. L’esperienza turca è un monito: quando la magistratura cade sotto l’influenza politica essa smette di amministrare giustizia e diventa uno strumento di coercizione. Le istituzioni resistono non solo grazie ai testi legali, ma perché la società ne difende l’indipendenza. In conclusione, la scelta dell’Italia nel referendum del 2026 plasmerà non solo il presente, ma anche la sicurezza democratica delle generazioni future. L’auspicio è che l’Italia non debba mai assistere al doloroso percorso che la Turchia ha già vissuto.   Reference List Aydın, Y. (2025). Turkey on the Path to Autocracy. In https://www.swp-berlin.org/publications/products/comments/2025C20_TurkeysPathToAutocracy.pdf. SWP (Stiftung Wissenschaft und Politik). Tecimer, Cem: The Arrest of Istanbul’s Mayor is TextbookLawfare, VerfBlog, 2025/3/28, https://verfassungsblog.de/the-arrest-of-istanbuls-mayor-is-textbook-lawfare/, DOI: 10.59704/a90a551daa4f28f6. Nistor, A., & Popescu, F.-A. (2025, November 17). ERDOĞAN’S TURKEY: BETWEEN THE DREAM OF DEMOCRACY AND THE AUTHORITARIAN TEMPTATION. HeinOnline. https://heinonline.org/HOL/LandingPage?handle=hein.journals/agoraijjs2025&div=29&id=&page= İBB iddianamesi açıklandı: Suçlamalar, cezalar, detaylar – BBC News Türkçe. (2025, November 11). BBC News Türkçe. https://www.bbc.com/turkce/articles/c3dny8yzgv3o Mantero, Maria. “Referendum costituzionale sulla riforma della giustizia, ecco cosa c’è da sapere.” SkyTG24, 30 ottobre 2025. Redazione Digital. https://www.italiaoggi.it/economia-e-politica/attualita/se-la-cucina-italiana-diventasse-patrimonio-unesco-quale-sarebbe-limpatto-sul-turismo-dly6eoke?refresh_cens Balduzzi, P. (2025, November 11). La riforma della giustizia alla battaglia finale. Lavoce.info. https://lavoce.info/archives/109370/la-riforma-della-giustizia-alla-battaglia-finale/ Giordano, E. (2025, October 30). Meloni’s bid to overhaul Italy’s justice system wins backing from lawmakers. POLITICO. https://www.politico.eu/article/giorgia-melonis-plan-overhaul-italy-justice-system-win-support-senate/ Non è una riforma della giustizia, serve solo a dire che la legge non è uguale per tutti. (2025, October 30). Partito Democratico. https://partitodemocratico.it/schlein-non-e-una-riforma-della-giustizia-serve-solo-a-dire-che-la-legge-non-e-uguale-per-tutti/ Lazzeri, F. (2021, September 21). Referendum sulla giustizia: guida alla lettura dei sei quesiti (di F. Lazzeri). www.sistemapenale.it. https://www.sistemapenale.it/it/scheda/referendum-giustizia-guida-lettura-quesiti Verde, G. (2025). Giustizia: una guida per il cittadino chiamato al prossimo referendum. Il Sole 24 ORE, 35. https://i2.res.24o.it/pdf2010/S24/Documenti/2025/09/19/AllegatiPDF/20250920-GDNAZCAR-10-NAZ-primo-piano-001.pdf Redazione Romagna
Mai più catene. La lotta per l’abolizione della schiavitù è un impegno collettivo
Contrariamente a quanto si potrebbe supporre, secondo le ultime stime dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro (OIL), il lavoro forzato e i matrimoni forzati sono aumentati notevolmente negli ultimi cinque anni. Nel 2021 c’erano 10 milioni di persone in più in condizioni di schiavitù moderna rispetto al 2016, per un totale di 50 milioni in tutto il mondo, con donne e bambini tra i più vulnerabili. La schiavitù è oggi presente in quasi tutti i Paesi del mondo e attraversa tutte le linee etniche, culturali e religiose. In netto contrasto con quanto potrebbe affermare il senso comune, secondo i dati forniti dalle Nazioni Unite, più della metà (il 52%) di tutti i lavori forzati e un quarto di tutti i matrimoni forzati si verificano in Paesi a reddito medio-alto o alto. Alcuni dati che rendono conto della portata di questo flagello: Circa 50 milioni di persone sono soggette alla schiavitù moderna: circa 28 milioni al lavoro forzato e 22 milioni ai matrimoni forzati. Quasi una persona su otto sottoposta a lavoro forzato è un bambino o una bambina (3,3 milioni). Più della metà di loro è vittima di sfruttamento sessuale a fine di lucro. La maggior parte dei casi di lavoro forzato (l’86%) si verifica nel settore privato. Quasi quattro persone su cinque sottoposte a sfruttamento sessuale a fine di lucro sono donne o bambine. Oltre a ciò, la schiavitù ha assunto oggi forme più sottili. Le dolorose catene di un tempo sono state sostituite da catene più sottili e meno visibili, ma quasi altrettanto opprimenti. L’appropriazione dell’intenzionalità della maggior parte degli esseri umani da parte delle minoranze è ancora presente e va denunciata in tutte le sue sfaccettature come una violenza inaccettabile. Se si considerano le restrizioni nelle scelte esistenziali a cui tutte le persone sono sottoposte da un sistema che non privilegia l’essere umano come valore centrale, si può affermare che è ora di lottare non solo per l’abolizione delle forme più terribili di schiavitù e servitù, ma anche per il superamento stesso di un sistema violento e, nella sua essenza, schiavizzante. Questo articolo fa parte della campagna “No más cadenas” (“Mai più catene”), lanciata da Pressenza con l’obiettivo di smuovere le coscienze e ottenere l’abolizione definitiva di ogni forma di schiavitù. Traduzione dallo spagnolo di Stella Maris Dante. Revisione di Anna Polo Javier Tolcachier
10 dicembre: testimonianze e flash-mob in tutta Italia
In occasione della Giornata Internazionale dei Diritti Umani le reti di operatrici e operatori della sanità #DigiunoGaza e Sanitari per Gaza lanciano la mobilitazione nazionale per chiedere la liberazione degli oltre 90 sanitari palestinesi detenuti illegalmente nelle carceri israeliane. Le iniziative verranno svolte mercoledì 10 dicembre tra le ore 10 e 19 davanti a e all’interno di ospedali e strutture sanitarie di tutta Italia. LA SANITÀ NON SI IMPRIGIONA I sanitari palestinesi ancora detenuti nelle prigioni israeliane sono circa 94, lo scorso ottobre Israele ne ha liberati 55 in seguito all’accordo di cessate il fuoco. La loro età media è 38 anni, 80 provengono da Gaza e il resto dalla Cisgiordania e sono 17 medici, 30 infermieri, 14 paramedici, 15 dirigenti e impiegati amministrativi, 2 farmacisti e 1 tecnico sanitario. Nell’ultimo report di Healthcare Workers Watch sono riportati i loro nomi e informazioni su di loro e sulla loro detenzione. Ricordiamo che il personale sanitario palestinese ha pagato un costo altissimo nel genocidio compiuto dall’esercito israeliano: sono oltre 1.700 i sanitari palestinesi uccisi in questi due anni (qui l’elenco). La più grande strage di personale sanitario mai registrata in questo secolo. Chiediamo al personale sanitario di tutta Italia di mobilitarsi mercoledì 10 dicembre per manifestare la propria solidarietà ai colleghi palestinesi illegalmente imprigionati e chiedere al governo, alle istituzioni sanitarie e scientifiche italiane che si attivino al più presto per ottenere da Israele la liberazione immediata dei sanitari palestinesi illegalmente imprigionati dal governo israeliano. Tra loro il pediatra Hussam Abu Safiya, direttore dell’ospedale Kamal Adwan nella Striscia di Gaza, arrestato nel dicembre 2024 dall’esercito israeliano, ancora detenuto senza nessuna accusa formale e sottoposto a “condizioni estreme di fame, tortura e isolamento”, come tutti i sanitari palestinesi incarcerati. Ecco le azioni previste per mercoledì 10 dicembre a cui sono invitati a partecipare tutti gli operatori e le operatrici del sistema sanitario, e non solo: * indossare su camici e divise i cartellini con i nomi e le foto dei sanitari palestinesi detenuti (scarica i cartellini, stampali a colori e distribuiscili tra colleghe e colleghi) e continuiamo ad indossarli fino a che non saranno liberati; * all’interno o all’esterno degli ospedali esporre i poster per tutta la giornata; * postare foto e video sui social-media, sempre con la ‘parola chiave’ #LiberiTutti; * tra le 10 e le 19 organizzare flash mob davanti a ospedali e strutture sanitarie di tutta Italia con i poster (scarica i poster e stampali a colori) e con cartelli che chiedono il rilascio dei sanitari palestinesi  detenuti; * scattare foto del flash mob e pubblicarle sui social-media con la ‘parola chiave’ #LiberiTutti; * partecipare alla maratona online “Una giornata di lavoro e solidarietà per Gaza” che si svolgerà dalle ore 17 sul canale Youtube @digiunogaza con collegamenti dagli ospedali di tutta Italia e durante la quale verrà lanciata la raccolta fondi a sostegno dell’ospedale Emergency di Al-Qarara, nella striscia di Gaza. Sono già 31 gli ospedali che parteciperanno alla mobilitazione: Toscana, Piemonte, Emilia Romagna e Lazio le regioni con il numero più alto di ospedali coinvolti, ospedali in Lombardia, Campania, Liguria, Umbria, Puglia, Trentino-Alto Adige e altri potrebbero aggiungersi nei prossimi giorni. In alcuni la mobilitazione si estenderà per tutta o parte della giornata e vedrà, oltre ai flash mob, altre iniziative. Ad esempio, a Trento, oltre a due flash mob alle 13 e alle 17, è prevista all’interno dell’ospedale S. Chiara una mostra sui sanitari palestinesi detenuti e la doppia proiezione del film Gaza: doctors under attack alle ore 17.30 e alle 19.30 presso l’Auditorium dell’ospedale. Promossa da personale sanitario delle reti #DigiunoGaza e Sanitari per Gaza la giornata “La sanità non si imprigiona” è aperta alla partecipazione di cittadine, cittadini, associazioni e movimenti. Chiunque voglia organizzare presso il proprio ospedale un flash mob o altre iniziative per i sanitari palestinesi detenuti trova indicazioni e materiali utili a questo link (è importante comunicare sede e orario scrivendo a digiunogaza@gmail.com). Redazione Italia
Donne d’Eritrea al centro del cambiamento
Nei mercati di Asmara e nei villaggi rurali, le donne eritree reggono l’economia familiare tra agricoltura, artigianato e cura domestica. Un progetto di cooperazione internazionale offre formazione e strumenti per trasformare resilienza in autonomia, aprendo nuove opportunità di lavoro dignitoso, inclusione sociale ed empowerment femminile. In Eritrea il lavoro delle donne è molto più di una necessità economica: è un atto quotidiano di resilienza, di costruzione del futuro e di partecipazione silenziosa allo sviluppo del Paese. Nei mercati di Asmara, nei villaggi rurali del Gash Barka e nelle regioni montuose del nord, le donne sono protagoniste della sopravvivenza delle famiglie, combinando la cura dei figli e della casa, con il lavoro nei campi, le attività artigianali di piccolo commercio e l’allevamento di animali. Le testimonianze raccolte restituiscono un quadro complesso: da un lato la fierezza di contribuire al benessere della comunità, dall’altro la consapevolezza delle difficoltà legate alla mancanza di strumenti, di formazione e di accesso a opportunità lavorative, dignitose e stabili. La trasmissione di competenze e l’accesso a percorsi di formazione professionale diventano quindi leve fondamentali per garantire sicurezza alimentare e nuove prospettive occupazionali. Allo stesso tempo, la formazione diventa anche uno strumento di empowerment che rafforza la consapevolezza dei propri diritti e che favorisce una partecipazione più attiva e inclusiva ai processi di cambiamento. Questo concetto diventa ancora più fondamentale per le donne, maggiormente escluse dalle opportunità educative e formative e quindi dal mondo del lavoro, in particolare per coloro che fanno parte del 75% della popolazione del Paese che vive in zone rurali, lontane dalla capitale Asmara. È in questo contesto che si inserisce il progetto di cooperazione internazionale “Miglioramento della sicurezza alimentare e dell’accesso al mercato del lavoro in Eritrea”, promosso da Nexus Emilia Romagna ETS con l’obiettivo di migliorare le condizioni di inclusione socio-economica delle fasce di popolazione più vulnerabili. Attraverso interventi di formazione tecnico-professionale e dotazione di materiali, il progetto intende migliorare la sicurezza alimentare, la consapevolezza e la possibilità di lavoro dignitoso per le persone più vulnerabili e residenti nelle aree rurali del Paese, con un’attenzione particolare a donne, giovani e persone con disabilità. l progetto pone grande enfasi sulla parità di genere e sull’inclusione sociale. La maggioranza dei beneficiari dei corsi di formazione professionale sono donne, in particolare provenienti da piccoli villaggi rurali. Donne con voglia di apprendere e avere alternative per il futuro che non siano solo la cura dei figli e della casa: un desiderio di empowerment economico che va oltre al desiderio di inclusione sociale. Le attività formative pratiche e teoriche sono state pensate per creare prospettive professionali concrete per chi in genere è escluso da tali opportunità. I moduli proposti garantiscono loro l’acquisizione delle competenze necessarie per l’accesso al mondo del lavoro e per raggiungere un’autonomia economica. Una beneficiaria del progetto ha raccontato quanto sia difficile conciliare vita lavorativa e familiare in un contesto che richiede forza, sacrificio e una costante capacità di adattamento. Grazie al corso di formazione in cucina ha trovato lavoro in una mensa dotata di asilo, che le permette di lavorare e contemporaneamente accudire il figlio. Altre beneficiarie, impegnate in attività agricole informali, hanno sottolineato come spesso il loro contributo non venga riconosciuto come “lavoro vero e proprio”, pur rappresentando una parte essenziale del reddito familiare. Una giovane donna, che ha partecipato al corso di formazione in agricoltura, ha trasformato il suo campo in una fonte affidabile di cibo per la sua famiglia e riesce a vendere l’eccedenza al mercato locale; ha raccontato che questo nuovo lavoro le ha permesso non solo di guadagnare un reddito che prima non aveva, ma anche di rivendicare diritti e riconoscimento sociale. Inoltre, la partecipazione al corso le ha permesso di conoscere altre donne, confrontarsi e scambiare idee. Queste testimonianze mettono in luce il cuore della questione: in Eritrea, come in molti altri Paesi del mondo, il lavoro femminile è imprescindibile, ma resta ancora fragile e necessita tutele. Il progetto si inserisce nel percorso intrapreso dall’Eritrea nel 1995 con la ratifica della Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW) che, pur complesso, sta aprendo nuovi spazi di partecipazione femminile. Uno degli attori principali di questo processo, e partner del progetto, è NCEW (National Confederation of Eritrean Workers), l’organizzazione sindacale nata ufficialmente nel 1994, ma con radici che affondano nella lunga storia del movimento operaio eritreo. La parità di genere è uno degli ambiti fondamentali del lavoro sindacale: NCEW promuove momenti di formazione, sensibilizzazione e iniziative volte a prevenire discriminazioni, molestie e violenze. Attraverso corsi, seminari e programmi di empowerment, l’organizzazione fornisce strumenti concreti alle lavoratrici per accedere a differenti opportunità professionali e, quindi, contribuire attivamente alla vita sociale ed economica del Paese. La parità di genere – insieme ad altri temi cruciali, quali lavoro dignitoso, salute e sicurezza sul lavoro – è stata inoltre al centro della campagna di advocacy, promossa nell’ambito del progetto e portata avanti da NCEW, che ha raggiunto un ampio pubblico attraverso incontri e iniziative comunitarie. Una tematica trasversale a tutto il progetto è la salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. Tutte le attività formative prevedono infatti un modulo di base sugli aspetti principali in materia, tra cui la prevenzione di rischi e infortuni. Il progetto prevede inoltre la realizzazione di un percorso formativo specifico su salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. La formazione è organizzata da esperti dei sindacati italiani ed è rivolta a persone appartenenti a unità sindacali di base; è prevista anche la distribuzione di dispositivi di protezione individuale e di toolkit di diversa natura per poter replicare la formazione a cascata nei luoghi di lavoro. L’attenzione alle questioni di genere, alle disabilità e alla sicurezza nei luoghi di lavoro dimostra come l’iniziativa stia andando oltre l’obiettivo immediato della sicurezza alimentare, ponendo le basi per un cambiamento strutturale, in grado di incidere nel lungo periodo sulle dinamiche del mercato del lavoro in Eritrea. In un Paese complesso come l’Eritrea, dove la memoria della lotta per la libertà si intreccia con le sfide dello sviluppo contemporaneo, il lavoro femminile e giovanile diventa non solo un mezzo di sostentamento, ma anche uno strumento di emancipazione e coesione sociale. E proprio qui, nelle storie delle donne e nella capacità di valorizzarne il contributo, si intravede la speranza di un futuro più giusto, stabile e sostenibile. Medeber, Asmara, Eritrea Lavoro, diritti e inclusione Il progetto “Miglioramento della sicurezza alimentare e dell’accesso al mercato del lavoro in Eritrea” (AID 012848/01/0)intende promuovere lo sviluppo sostenibile attraverso il miglioramento delle condizioni di lavoro e l’integrazione socio-economica di gruppi vulnerabili, con un’attenzione particolare a donne, giovani e persone con disabilità. Finanziato dall’Agenzia Italiana per la Cooperazione allo Sviluppo (AICS) – sede di Addis Abeba, è realizzato da Nexus Emilia Romagna ETS con Progetto Sud ETS e ISCOS e il partner locale NCEW, in collaborazione con CGIL, CISL e UIL. Nexus Emilia Romagna ETS Per sostenere Nexus Emilia Romagna ETS Codice Fiscale: 92036270376 Via Marconi 69, 40122 Bologna Tel.: 051 294775 Sito: www.nexusemiliaromagna.org Email: er.nexus@er.cgil.it Iban: IT85 O053 8702 Africa Rivista
Rapporto di Amnesty International sulle violazioni dei diritti umani nei centri di detenzione USA Alligator Alcatraz e Krome
Il 4 dicembre 2025 Amnesty International ha diffuso un rapporto sui trattamenti crudeli, inumani e degradanti all’interno di due centri di detenzione per persone migranti della Florida, Usa: l’Everglades Detention Facility (noto come “Alligator Alcatraz”) e il Krome North Service Processing Center. Il rapporto, basato su una missione di ricerca svolta nel settembre 2025, denuncia violazioni dei diritti umani di tale gravità da costituire in alcuni casi tortura, in un contesto di crescente ostilità nei confronti delle persone migranti che vede l’amministrazione del governatore Ron DeSantis ricorrere sempre più alla criminalizzazione e agli arresti di massa di persone in cerca di salvezza. “Le nostre conclusioni confermano l’esistenza di un intenzionale sistema di punizione, disumanizzazione e occultamento della sofferenza delle persone detenute. Le politiche sull’immigrazione non possono operare al di fuori della legge o sentirsi esonerate dal rispetto dei diritti umani. Quello a cui stiamo assistendo in Florida dovrebbe allarmare l’intera regione americana”, ha dichiarato Ana Piquer, direttrice di Amnesty International per le Americhe.  “Alligator Alcatraz”: un disastro per i diritti umani prodotto dallo Stato della Florida Dalla ricerca di Amnesty International è emerso che le persone detenute arbitrariamente ad “Alligator Alcatraz” vivono in condizioni inumane e insalubri: gabinetti traboccanti con feci che invadono i dormitori, accesso limitato alle docce, esposizione a insetti senza prodotti o sistemi di protezione, luci accese 24 ore al giorno, scarsa qualità del cibo e dell’acqua e mancanza di riservatezza con telecamere collocate persino sopra i gabinetti. Le persone intervistate hanno concordemente dichiarato che l’accesso alle cure mediche è incostante, inadeguato o del tutto negato con conseguenti gravi rischi per la salute fisica e mentale. Anche all’aperto sono sempre coi ceppi. C’è poi la cosiddetta “scatola”, una gabbia di due metri per due usata come luogo di punizione, dove si resta a volte per ore, esposti agli elementi atmosferici, praticamente senza acqua e con mani e piedi bloccati ai ceppi fissati sul pavimento. “Alligator Alcatraz” non è supervisionata a livello federale e mancano i sistemi di tracciamento usati nelle strutture gestite dall’Ice (Immigration and Customs Enforcement), l’agenzia federale per l’immigrazione). L’assenza di meccanismi di registrazione o tracciamento favorisce la detenzione senza contatti col mondo esterno e costituisce una forma di sparizione forzata nella misura in cui i familiari delle persone detenute non hanno informazioni o queste ultime non possono contattare i loro avvocati. “Le spregevoli e nauseanti condizioni di ‘Alligator Alcatraz’ fanno parte di un sistema di intenzionale diniego dei diritti, congegnato per disumanizzare e punire le persone detenute. È una situazione irreale: dov’è la supervisione su tutto ciò?”, ha affermato Amy Fischer, direttrice del programma Diritti delle persone migranti e rifugiate di Amnesty International Usa. Krome: un luogo sovraffollato, caotico e pericoloso Krome è un centro di detenzione che fa capo all’Ice, diretto da un’agenzia privata for-profit. Nonostante sia dotato di servizi medici, le persone detenute hanno denunciato gravi negligenze, come la mancata fornitura di medicinali e l’assenza di valutazioni diagnostiche. La ricerca di Amnesty International ha confermato precedenti denunce di violazioni dei diritti umani: sovraffollamento, isolamento arbitrario e per lunghi periodi di tempo, mancanza di assistenza medica, gabinetti traboccanti, assenza di docce, illuminazione costante e sistema d’aria condizionata non funzionante. Le persone detenute hanno riferito episodi di violenza e maltrattamenti da parte degli agenti penitenziari. Il personale di Amnesty International ha visto uno di loro colpire con la parte metallica di una porta di una cella d’isolamento la mano ferita di un detenuto. Sono stati denunciati anche casi di persone detenute picchiate e prese a pugni. È stata segnalata poi la difficoltà nell’accedere ai servizi di assistenza legale: le persone non sapevano per quanto tempo sarebbero rimaste all’interno della struttura, né cosa sarebbe loro accaduto in seguito. “L’estremo sovraffollamento, il diniego di assistenza medica e le denunce di trattamenti umilianti e degradanti costituiscono un quadro di orrende violazioni dei diritti umani a Krome”, ha commentato Fischer. “Ogni persona che si trovi in un centro di detenzione sta soffrendo”: la gestione dell’immigrazione e la detenzione in Florida Nel febbraio 2025 lo Stato della Florida ha emanato leggi durissime e discriminatorie che mettono in grave pericolo le comunità migranti. La modifica degli accordi 287 (g), che affidano alle agenzie locali per il mantenimento dell’ordine pubblico l’applicazione delle leggi federali in materia d’immigrazione, ha fatto sì che persone venissero arrestate per sbaglio, ha introdotto la profilazione razziale e ha diffuso una paura di massa tale da far sì che le persone migranti non frequentassero più le scuole, gli ospedali e luoghi dove poter ricevere servizi essenziali. La Florida è diventata un luogo dove si sperimentano politiche in materia d’immigrazione che violano i diritti umani, strettamente allineate con l’agenda razzista e anti-immigrazione dell’amministrazione Trump. Sotto il mandato del governatore Ron DeSantis, lo Stato della Florida ha intensificato la criminalizzazione delle persone migranti e ha fatto uso di poteri d’emergenza per aumentare rapidamente il numero degli arresti. Dal gennaio 2025 il numero delle persone detenute nei centri per persone migranti è aumentato di oltre il 50%. Solo tra luglio e agosto 2025, lo Stato ha concluso 34 contratti senza gara per “Alligator Alcatraz”, per un valore di oltre 360 milioni di dollari. Il costo annuo di questa struttura è calcolato in 450 milioni di dollari. Contemporaneamente, vengono tagliati milioni di dollari destinati a cure mediche essenziali, sicurezza alimentare, servizi di emergenza e programmi abitativi. “La scelta di dare priorità alla punizione, alla disumanizzazione e alla crudeltà rispetto ai servizi pubblici è miope e agghiacciante”, ha sottolineato Fischer. I centri di detenzione statunitensi per le persone migranti vantano una triste storia di violazioni dei diritti umani. Il presidente Trump ne ha aumentato l’uso di quasi il 70% dall’inizio del suo mandato e le condizioni al loro interno sono rapidamente peggiorate. Delle almeno 24 morti di persone migranti verificatesi dall’ottobre 2024 all’interno dei centri diretti dall’Ice, sei sono avvenute in quelli della Florida, quattro delle quali a Krome. Raccomandazioni Amnesty International chiede al governo dello Stato della Florida e all’amministrazione Usa di porre rimedio alle violazioni sistemiche dei diritti umani all’interno dei centri di detenzione per persone migranti. L’organizzazione chiede alle autorità della Florida di chiudere “Alligator Alcatraz” e di vietare l’uso di qualsiasi centro di detenzione gestito a livello statale. Dev’essere posta fine ai poteri di emergenza e alle assegnazioni di contratti senza gara. I fondi devono essere destinati alle cure mediche essenziali, ai programmi abitativi e a quelli di soccorso a seguito di disastri. Altre raccomandazioni comprendono: vietare l’uso dei ceppi, l’isolamento solitario e il confinamento durante l’ora d’aria; garantire accesso in condizioni di riservatezza all’assistenza legale e ai servizi d’interpretariato; condurre indagini trasparenti e indipendenti sulle denunce di tortura e di diniego di cure mediche e istituire un sistema di supervisione efficace e indipendente su tutti i centri di detenzione. Al governo federale, Amnesty International chiede di porre fine al suo crudele sistema di detenzione di massa delle persone migranti, alla criminalizzazione dell’immigrazione e all’uso di centri di detenzione statali per applicare le norme federali in materia d’immigrazione; di condurre indagini approfondite su tutte le morti nonché sulle denunce di tortura e di altre violazioni dei diritti umani e rispettare le norme internazionali sui diritti umani; di intraprendere una revisione complessiva sui contratti dell’Ice con agenzie statali e private, al fine di garantire il rispetto dei diritti umani; di ripristinare la protezione per “luoghi sensibili” come scuole, ospedali e chiese e di aumentare i fondi federali per rafforzare l’assistenza legale e i servizi d’interpretariato durante i procedimenti riguardanti l’immigrazione. “Le condizioni che abbiamo documentato ad ‘Alligator Alcatraz’ e a Krone non sono isolate, ma rappresentano un deliberato sistema di crudeltà inteso a punire le persone che cercano di rifarsi una vita negli Usa. Occorre cessare di arrestare le persone appartenenti alle nostre comunità migranti e in cerca di salvezza e agire, invece, per realizzare politiche in materia d’immigrazione umane e rispettose dei diritti”, ha concluso Fischer.   Amnesty International
Tunisia: arrestato un altro oppositore politico
Ahmed Néjib Chebbi è stato arrestato oggi giovedì 4 dicembre a Tunisi  dopo essere stato condannato a 12 anni di prigione in un processo farsa in cui era accusato di “complotto contro la sicurezza dello Stato”. Chebbi, che ha 81 anni, è uno degli oppositori di sinistra più conosciuti nel paese e con una lunga carriera politica che lo ha portato ad essere candidato alla presidenza della Tunisia nel 2009, ministro nel primo governo di unità nazionale dopo la caduta di Ben Alì e membro della Costituente. Nei giorni scorsi Chebbi aveva dichiarato in un video:” vado in prigione con la coscienza tranquilla e sapendo di non aver commesso nessun errore”. Il suo arresto non è un caso isolato, segue infatti l’arresto dell’avvocato Ayachi Hammami e dell’attivista Chaïma Issa, condannati nello stesso processo. Dure le reazioni delle associazioni di difesa dei Diritti Umani. Secondo Sara Hashash, direttrice regionale di Amnesty International, “queste detenzioni confermano l’allucinante determinazione delle Autorità nel soffocare l’opposizione pacifica”; Ahmed Benchemsi, portavoce locale di Human Rights Watch sottolinea che l’opposizione tunisina è ormai in prigione o in esilio. Pressenza IPA
Contro la violenza dei coloni in Cisgiordania servono scelte vincolanti
La violenza dei coloni israeliani in Cisgiordania contro la popolazione palestinese è in costante escalation. Le cronache e i rapporti delle organizzazioni per i diritti umani documentano migliaia di attacchi negli ultimi due anni, registrando un record assoluto proprio lo scorso ottobre con almeno 264 attacchi in un mese: incursioni armate nei villaggi, pestaggi, distruzione sistematica di case, campi e infrastrutture, furti e saccheggi. Uno degli episodi più recenti è avvenuto nella zona di Ein al-Dujuk, vicino a Gerico: quattro attivisti – un canadese e tre italiani – sono stati aggrediti nel sonno, picchiati e derubati da un gruppo di coloni mascherati, armati di bastoni e fucili. È l’ennesima prova di una violenza di tipo squadrista, resa possibile dall’impunità garantita dalle autorità israeliane, che mira strategicamente a terrorizzare la popolazione palestinese per spingerla ad abbandonare la propria terra. Ogni giorno palestinesi subiscono gli stessi attacchi terroristici – spesso ancora più violenti e con esito letale – lontano dalle telecamere e dall’attenzione dei governi occidentali: «Siamo stati aggrediti nel sonno, picchiati, derubati di documenti, telefoni, carte di credito e di tutti i nostri effetti personali. Quello che è accaduto a noi è la realtà quotidiana dei palestinesi: siamo qui a supporto della popolazione e per documentare quanto accade, perché la nostra esperienza sia cassa di risonanza della loro quotidianità.», ci ha raccontato uno dei volontari aggrediti. Di fronte all’aggressione a Ein al-Dujuk, il Ministro degli Esteri Antonio Tajani si è limitato a un commento generico, minimizzando l’accaduto, condannando timidamente a Israele e invitandolo a fermare le azioni dei coloni in Cisgiordania. Non è sufficiente: il governo Meloni deve assumere decisioni concrete, all’altezza della gravità delle violazioni del diritto internazionale da parte dell’entità sionista. «L’Italia deve agire nei confronti di Israele alla stregua di quanto la comunità internazionale fece contro il regime di apartheid sudafricano, adottando misure non simboliche ma vincolanti, per isolare un regime criminale» ha dichiarato Maria Elena Delia, portavoce italiana di GMTG/GSF. «Per questo chiediamo che il governo italiano assuma immediatamente i seguenti impegni concreti»: * embargo sulle armi e sui componenti militari destinati a Israele; * sospensione degli accordi di cooperazione politica, commerciale, militare, di sicurezza e ricerca strategica che rafforzano l’occupazione; * disinvestire e smantellare ogni forma di collaborazione nelle arene politiche, culturali e sportive, finché non sarà messo fine all’occupazione e i responsabili del genocidio saranno perseguiti e chiamati a rispondere dei propri crimini. A Gaza, intanto, centinaia di migliaia di persone affrontano l’inverno in tende allagate e insicure, con accesso limitato a cibo, acqua e cure mediche. Chiediamo con forza al ministro Tajani di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione del governo per ottenere l’apertura di corridoi umanitari permanenti e rimuovere gli ostacoli politici e burocratici all’ingresso degli aiuti. La credibilità di una nazione si misura sulla capacità di trasformare le dichiarazioni di facciata in scelte concrete, nel rispetto degli obblighi internazionali che l’Italia ha sottoscritto e ratificato. Global Movement to Gaza
Non in nostro nome! Incontro a Milano con il Rabbino Dovid Feldman
Mercoledì 3 dicembre presso l’Università Statale si è svolto un interessante incontro con il Rabbino Dovid Feldman di New York, di passaggio a Milano dopo aver partecipato venerdì scorso 28 novembre alla manifestazione a Genova e sabato 29 a quella di Roma a favore della Palestina, sempre sfoggiando una kefiah al collo. Purtroppo i tempi per ottenere l’autorizzazione all’evento da parte dell’Università erano troppo stretti e gli organizzatori, il Prof. Antonio Violante e Alessandro Corti, hanno optato per tenere comunque l’incontro davanti all’Università. Erano presenti diverse decine di persone e molti passanti incuriositi si sono fermati per ascoltare. Il Rabbino Dovid Feldman appartiene al movimento Neturei Karta International, un gruppo religioso ebraico ortodosso che non riconosce l’autorità e la stessa esistenza dello Stato di Israele, in base all’interpretazione del giudaismo e della Tōrāh. I seguaci, concentrati principalmente a Gerusalemme, sono circa 5.000, ma sono presenti anche a New York, a Londra e in Canada. Nonostante le ridotte dimensioni la Neturei Karta  ha esercitato una notevole influenza nei dibattiti sulla relazione tra ebraismo e sionismo. I suoi membri non commerciano con banconote israeliane, non si uniscono alla riserva dell’esercito dello Stato ebraico, obbligatoria per i cittadini israeliani adulti, non cantano l’inno nazionale, non celebrano il Giorno dell’Indipendenza di Israele e non pregano nel luogo più sacro al giudaismo: il Muro del Pianto. Intrattengono rapporti con le autorità palestinesi e il mondo arabo e contestano ai sionisti la strumentalizzazione dell’Olocausto. Il movimento fu fondato nel 1938 a Gerusalemme da ebrei appartenenti all’antica comunità ortodossa stanziata da molte generazioni in Palestina. Gli antisionisti più radicali si raccolsero attorno ai Neturei Karta. Secondo questi la terra oggi occupata dallo Stato di Israele apparteneva a coloro che la abitavano da secoli: arabi, a qualunque confessione appartenessero ed ebrei che vivevano nelle terre palestinesi prima dell’affermarsi della colonizzazione. Il Rabbino Feldman ha tenuto il suo pacato e  lucido discorso in inglese. Non è sembrato vero poter udire una voce ebraica così autorevole e chiara nel definire lo stato attuale delle cose e le responsabilità dello Stato di Israele, nel genocidio del popolo palestinese, definendo criminali gli atti compiuti. Il rabbino ha insistito nel distinguere i concetti di ebraismo e sionismo, arrivando a dire: “ Il sionismo è proibito dalla religione ebraica. Il creatore del mondo ci ha mandato in esilio e ci ha proibito di lasciare tale esilio con il nostro potere umano. Lasciare l’esilio da soli sarebbe una ribellione contro Dio e quindi gli ebrei che credono in Dio non possono sostenere il sionismo. Ciò è ancora più vero alla luce del fatto che il progetto sionista è stato intrapreso a spese di molte persone innocenti e ha comportato la sottrazione della loro terra e delle loro proprietà, l’uccisione di molti di loro e l’espulsione degli altri senza che avessero alcuna colpa.” Il rabbino ha inoltre enumerato i vari pericoli dell’equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, definendolo un crimine contro la verità, perché crea la falsa impressione che ebrei e sionismo siano una cosa sola. Si tratta di una profanazione del nome di Dio, poiché implica che gli ebrei si siano ribellati a Dio. Inoltre questa stessa nozione porta le persone a indirizzare erroneamente la loro opposizione politica ai crimini dello Stato di Israele verso tutti gli ebrei del mondo. La definizione di antisemita in realtà rischia di scatenare l’antisemitismo là dove tenta di mettere a tacere la rivendicazione palestinese, causando un effetto boomerang e portando molte persone a etichettare tutti gli ebrei come sionisti. In conclusione, afferma il rabbino, l’attribuzione del termine antisemita a chi si oppone al sionismo e allo stato di Israele è sbagliata e criminale. Voci come questa dovrebbero poter risuonare ovunque per fare chiarezza e giustizia di tanta confusione e iniquità che pervade i dibattiti e le nostre relazioni. Era presente anche il giovane Assessore del Municipio 1 Lorenzo Pacini, che ha salutato ed espresso solidarietà e posizioni davvero coraggiose rispetto al dramma palestinese e la questione sionista, in evidente contrasto con le opinioni e le dichiarazioni dei suoi colleghi. Un incontro emozionante per la chiarezza, la pulizia, la moralità e l’umanità che questo religioso ha saputo portare e trasmettere. Loretta Cremasco