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Eirenefest Napoli, “Il processo al libro”
19 Settembre 2025, Eirenefest Napoli – Presidio Permanente di Pace Il primo laboratorio di apertura: “Il processo al libro” La prima giornata dell’Eirenefest – edizione napoletana 2025, ospitata dal Presidio Permanente di Pace presso la Libreria IoCiSto, si è aperta con un’immagine potente: il sangue di San Gennaro. Le parole di saluto e presentazione hanno richiamato questo simbolo senza sapere che poche ore prima il vescovo di Napoli lo aveva legato al sangue innocente dei bambini di Gaza. Una coincidenza che ha reso la riflessione ancora più incisiva: la pace non è un miracolo da attendere, ma una responsabilità che ci tocca da vicino, nella carne viva delle vittime. Dopo questa apertura, la mattina si è accesa con il laboratorio “Il processo al libro”, condotto da Pietro Varriale, educatore e formatore di Global Districts, insieme a Serena Dolores Correrò, operatrice del progetto. L’iniziativa si inserisce nel percorso di WeWorld, organizzazione internazionale che da cinquant’anni lavora per i diritti di donne, bambini e persone ai margini; con Global Districts punta a superare le barriere che ostacolano la cittadinanza attiva delle nuove generazioni. Il laboratorio ha avuto la forza del teatro partecipato: i presenti, divisi in gruppi, hanno interpretato ruoli inediti — pubblica difesa, accusa, giuria, giudici — mettendo in scena un vero processo a tre libri. Due dei testi scelti, “Mediterraneo” di Armin Greder e “Io non sono razzista ma…” di Marco Aime, hanno fatto da specchio a due ferite brucianti del nostro tempo: la tragedia dei migranti nel Mediterraneo e la violenza del razzismo. Il momento più commovente è arrivato quando la difesa di due libri è stata affidata a una ragazza di appena 14 anni: voce incerta, pensieri forti. In quella fragilità si è fatta strada una forza che ricordava l’eco delle giovani vittime delle guerre evocate in apertura: voci che chiedono di essere ascoltate, nonostante tutto. Di fronte a lei, l’accusa era impersonata da adulti — rappresentanti di associazioni, volontari, operatori sociali — chiamati a indossare i panni di chi nega il dramma del Mediterraneo o legittima la discriminazione razziale. La dinamica ha prodotto un ribaltamento sorprendente: difendere il giusto è apparso difficile e faticoso, mentre accusare con argomenti razzisti e nazionalisti ha offerto una sorta di liberazione catartica, permettendo di esprimere odio e frustrazione senza pagarne le conseguenze. Qui è emersa la valenza psicoanalitica del laboratorio: il gioco di ruolo ha messo i partecipanti di fronte alle proprie ombre, mostrando come l’identificazione con l’aggressore possa attrarre e, al tempo stesso, destabilizzare; un passaggio che costringe a misurarsi con i lati oscuri della convivenza civile. L’esperienza ha confermato che l’educazione alla pace non può essere solo predicazione: deve passare attraverso il corpo, la voce, la possibilità di sentire dentro di sé anche la parte avversa. È in questo attraversamento che si sviluppano consapevolezza critica e capacità di scelta. La giornata si è chiusa con un clima di forte partecipazione: emozione, riso liberatorio, consapevolezze nuove. In questo spazio, anche piccolo e quotidiano come una libreria di quartiere, i libri si sono rivelati non solo oggetti da leggere, ma strumenti di confronto, specchi delle contraddizioni del presente e catalizzatori di immaginazione collettiva. È proprio questo il cuore dell’Eirenefest e del Presidio di Pace: fare della parola scritta e condivisa un terreno comune di resistenza e di costruzione. Seguendo lo slogan scelto per il festival dal Presidio, “ la pace è un cantiere aperto”, il primo mattone è stato posato. Stefania De Giovanni
La libreria IoCiSto ospita l’Eirenefest, “Le parole di Pace”
Si è svolta ieri venerdì 19 settembre nella libreria IoCiSto nel cuore del Vomero a Napoli, per la prima volta dopo Roma, la prima giornata dell’Eirenefestival del libro per la Pace e la non Violenza. Sostenuto dal Presidio di Pace Iocisto, il Festival nelle tre giornate napoletane vuole riflettere sul valore della parola, del libro, del confronto, del dibattito come potente strumento di dialogo e di disarmo in tempi segnati da odio e conflitti. La Pace non è gratuita, ma è un cantiere aperto in continua costruzione, è impegno civile di ciascuno e Eirenefestival porta a Napoli scrittori, attivisti di Pace, docenti, giornalisti, religiosi che attraverso incontri, presentazioni e Tavole Rotonde aprono a significativi spazi di confronto. Si è iniziato con un laboratorio di poesie. Una giornata molto partecipata quella di ieri, piena di emozioni e confronti, con un programma nutrito di laboratori, dibattiti e nuove uscite editoriali che hanno suscitato nei presenti un interrogarsi sull’ essere persone oggi in un momento drammatico per l’umanità, sul dovere di ciascuno di non voltarsi dall’altra parte ma scegliere di dare il proprio contributo alla costruzione della Pace. E qui le persone hanno scelto la via della parola per tentare di costruire un mondo più umano, pacifico, giusto. Nel pomeriggio un momento di grande emozione. La presentazione del libro di poesie “Con nome e cognome” di Maria La Bianca, raccolta di poesie civili ma anche di amore, che la scrittrice ha voluto dedicare ai bambini di Gaza e a tutti i bambini vittime di guerra, edito da Multimage. L’autrice palermitana lo ha proposto attraverso un’esperienza laboratoriale suggestiva e coinvolgente: i presenti sono stati invitati a scegliere ognuno un breve verso poetico tratto dall’opera, che la scrittrice aveva riportato su tanti foglietti scrupolosamente curati nel taglio e nella grafica e sistemati sospesi lungo un filo nella sala che ospitava il laboratorio. Ogni lettura di versi ricordava, evocava un momento, una memoria, una vittima. Le persone hanno scelto ognuna un foglietto e hanno potuto essere protagoniste con rispetto e cuore aperto di quel dolore evocato. Quella vittima, ricordata da quel verso, è stata reinterpretata e la sua memoria ha “rivissuto” attraverso la lettura: cosa è accaduto quel giorno? C’era una data e un numero di pagina su ogni foglietto che ha rimandato il lettore a un ricordo, a una esperienza di dolore, a uno stupro, a una violenza, a un conflitto, a un sopruso. “Stupro”, “Primo Maggio”, “Dio è morto”, “Lampedusa”, “Striscia di Gaza”, “Bambini in gabbia” “Bambini di Gaza” e tante altre le poesie lette, i cui versi hanno emozionato. Versi che sono potentemente civili ma anche pieni di amore. Di un amore non nel senso romantico o lirico, ma esplorato nelle sue implicazioni più ampie nell’intreccio con le ingiustizie, il dolore nella memoria delle vittime. Al centro di questo libro, come spiega l’autrice, c’è la voce delle vittime, di chi viene dimenticato nella narrazione ufficiale, “fotografato” solo come elemento di cronaca per poi essere avvolto dall’oblio del silenzio. Qui nel libro ogni vittima ha un “Nome e Cognome”, non è parte di una statistica ma è persona “viva” con la sua storia e la sua dignità. Il laboratorio intenso, emozionale, che ha toccato momenti di commozione, non è stato un “palco” ma un cerchio, un cerchio dove ogni voce è stata accolta, ogni parola ha avuto un senso Maria la Bianca ha usato la Poesia per attraversare la memoria di tanti conflitti, per dare voce al dolore ma senza alimentare mai alcun odio per trasformare l’esperienza della conoscenza di quei conflitti in consapevolezza civile. Senza paura di toccare ferite sociali, è stato un invito alla responsabilità a cui chiunque è chiamato. Qui la Poesia ha dimostrato di poter essere testimonianza, impegno civile, memoria, anche se questo suscita e ha suscitato letture dolorose di forte impatto emotivo e morale; poesia civile capace di smuover coscienze ma non per questo meno lirica e delicata. I versi letti non erano denunce astratte, ma ognuna identificata, con un volto, con un “nome e cognome”; questo per evitare che l’anonimato potesse consumare la memoria. Al “Nome e cognome” si aggiunge “quasi sempre l’amore” che suggerisce che l’Amore è presente come guida, come sfondo anche se accompagnato dalla rabbia e dal dolore. Davvero si è avvertito qui in questo laboratorio quanto la Poesia sia capace, pur con la gentilezza specifica del linguaggio poetico, di indignare, di inorridire, ma anche di evocare speranza e invitare alla consapevolezza. I presenti hanno vissuto un’esperienza di forte impatto: quelle vicende sono diventate collettive perchè ognuno si è fatto specchio di quella sofferenza. Sicuramente era l’obiettivo immaginato dalla scrittrice che però non è mai caduta nel sentimentalismo facile, ma ha saputo suscitare, seppure con delicatezza, un sentimento di rabbia e di indignazione, un invito ad un impegno civile. A conclusione il dibattito vivo e ricco di spunti di riflessione che simbolicamente può essere sintetizzato dalla riflessione sempre attuale di Albert Einstein: “La Pace non può essere mantenuta con la forza, può essere raggiunta solo con la comprensione” “Ci sono piccoli semi tra i solchi delle bombe e sbaglia chi pensa non crescerà un bosco”. Il verso che ci apre alla Speranza. Il Festival continua oggi a partire dalle ore 15.45 con una Tavola Rotonda sul disarmo nucleare e mediorientale con l’intervento di padre Alex Zanotelli. Lucia Montanaro
Cosa può una città? Margini, feticci e spazi sociali
Questo il titolo di Assemblea cittadina che si svolgerà alle ore 18 del 26 settembre prossimo, in occasione dei cinque anni della biblioteca sociale “booq” alla Kalsa a Palermo. Se ne discuterà insieme a Marco Assennato della Université PSL, Verdiana Mineo del Centro Sociale Ex Carcere, Laura Pavia della Fondazione Don Calabria ETS, un rappresentante di Corrente Cinema, Loriana Cavaleri di Send, Vivian Celestino di Handala e Flora La Sita di booq. Così gli organizzatori presentano il dibattito. > Un campetto, una piazza, una biblioteca di quartiere. Guardare la città a > partire da luoghi marginali può rivelare un’immagine non appiattita di un > territorio: delle sue tensioni e delle sue passioni. > > Nella Palermo duale, le distanze tra i dentro e i fuori, materiali e > simbolici, sono siderali. > Ogni spazio diventa terreno di contesa e l’accesso a beni, luoghi e diritti > diventa impresa individuale. La solitudine diviene, trasversalmente, una > condizione di massa. > Quello che era lo spazio della politica diventa oggi lo spazio dei consumi. > > Chi è impegnato nel lavoro sociale deve costantemente confrontarsi, oltre che > con le problematiche dei quartieri, anche con le narrazioni stridenti che > parlano di rinascita e rigenerazione. > > La città è stata sostituita dal suo feticcio, la partecipazione ridotta ad > edulcorata organizzazione del consenso, la cittadinanza ha smesso di essere > l’insieme degli abitanti di un territorio diventando lo spazio della > competizione individuale all’accesso ai diritti. > Il racconto di una città diventa un operazione di marketing, il suo nome un > brand e la polvere del territorio viene nascosta sotto il tappeto di una > mappa, artefatta e pacificata. > > Ma la spinta fagocitante della merce non è mai totalizzante e incontra > continui piani di resistenza. Costantemente emergono pratiche di > attraversamento dei territori che sfuggono ad ogni ipotesi preordinata e > disegnano relazioni inedite. > > È importante allora pensare pratiche che rompano gli argini e tengano insieme > solidarietà, cura e conflitto. > > In un suo recente articolo sul rapporto tra Urbanistica, Architettura e > Politica, Marco Assennato scrive: > > “occorre domandarsi quale soggettività politica, quale livello istituzionale, > insomma chi può (chi ha sufficientemente forza per) «rallentare, selezionare e > diversificare la mobilità del capitale» e la sua riproduzione urbana? > Possiamo limitarci a redarguire i gestori degli enti locali – il Comune e i > suoi Municipi – per la loro mancanza di coraggio e ricordare agli > amministratori il loro dovere di difesa dei pubblici diritti contro i privati > interessi? > O non è forse necessario chiedersi perché mai ciò non accada praticamente più? > Ed avviare una ricerca, difficile, rigorosa ma possibile attorno a > contropoteri efficaci e realistici rispetto alla delirante dinamica del > capitale contemporaneo e delle sue politiche”. > > Il recente sgombero, dall’altra parte del paese, del Leoncavallo ha portato, > oltre che ad una straordinaria risposta solidale, anche ad una ripresa del > dibattito pubblico sugli spazi sociali, la cui importanza non è riducibile > soltanto ad un discorso sui dispositivi di repressione e resistenza. Bisogna > interrogarsi piuttosto sulle soggettività politiche adeguate alle attuali > trasformazioni urbane. > > Ci chiediamo in altro termini: a chi appartiene una città? > > Quali sono oggi i luoghi della politica e come pensare oggi una politica dei > luoghi? > Insomma, cosa può una città? > ___________ > Il programma completo della due giorni per i 5 anni di booq: > https://www.booqpa.org/amore-citta-e-altre-catastrofi-5-anni-di-booq-nella-galassia-kalsa/ Redazione Palermo
La musica contro il silenzio. Manifestazione nazionale a Roma
Sabato 28 settembre 2025 alle 16 Piazza Santi Apostoli, Roma Nel mese di giugno abbiamo attraversato l’Italia da Nord a Sud, e siamo scesi in 26 piazze per esprimere il nostro dissenso contro il genocidio in atto a Gaza e in tutta la Palestina: un massacro contro l’umanità provocato dalla politica criminale di Netanyahu e di Israele, che parte da lontano e che continua inesorabile sotto gli occhi del mondo. Con musica e arte, abbiamo cercato di rompere il silenzio e l’inerzia complici delle istituzioni italiane ed europee, sostenendo la lotta dei Palestinesi per la propria sopravvivenza. A luglio, abbiamo lanciato un appello europeo, accolto da diversi Paesi: ne è nato un movimento culturale che affianca le tante realtà che da sempre lottano per i diritti del popolo palestinese, un movimento apartitico che attraversa l’Europa toccando Svizzera, Germania, Austria, Grecia, Svezia, Scozia… Anche in Italia siamo pronti per unirci ancora una volta, tutti insieme in un’unica piazza: il 28 settembre alle ore 16, ci troveremo in Piazza Santi Apostoli a Roma, per un momento di solidarietà e protesta condivisa. Invitiamo tutti a partecipare, musicisti e non: insieme possiamo portare avanti una mobilitazione culturale, di solidarietà, giustizia, sensibilità, umanità, partecipazione e impegno, in difesa del popolo palestinese e dei suoi diritti fondamentali. Per informazioni seguite il profilo Instagram o Facebook “La Musica contro il Silenzio” lamusicacontroilsilenzio@gmail.com – @lamusicacontroilsilenzio Redazione Italia
‘Voci per la libertà’ per Gaza al Mei di Faenza per chiedere lo stop al genocidio
Anche quest’anno ‘Voci per la Libertà – Una canzone per Amnesty’ porterà il meglio della sua ultima edizione al MEI di Faenza, punto di riferimento per la musica indipendente italiana. Il 4 ottobre sul palco principale di Piazza del Popolo si esibirà infatti Giovanni Segreti Bruno, vincitore del Premio Amnesty International Italia Emergenti 2025 con il brano “Notre Drame”, una composizione intensa e toccante che si distingue per la sua capacità di tradurre il dolore e la rabbia in un appello universale alla coscienza. Di grande importanza sarà anche l’iniziativa “Una voce per Gaza”, che vede l’unione di forze fra Voci per la Libertà, Amnesty International, EdicolAcustica e il MEI. Di fronte alla tragedia che sta devastando la Striscia di Gaza si darà voce al mondo della musica indipendente in un appello corale. Sabato 4 e domenica 5 ottobre infatti sarà allestito in Piazza Nenni uno stand dove si svolgerà una vera e propria maratona di solidarietà artistica. Gli artisti che lo desiderano potranno esibirsi in una breve performance con brani, poesie, riflessioni, letture e testimonianze che abbiano l’obiettivo di mantenere viva l’attenzione sulla crisi e sostenere le richieste di Amnesty International. Chi fosse interessato potrà dare adesione alla mail vociperlaliberta@gmail.com, fornendo una breve descrizione della performance che intende proporre. Verrà successivamente ricontattato per definire tutti i dettagli. L’evento sarà il megafono di un grido d’allarme che non può più essere più ignorato. Sottolineano gli organizzatori: “Due anni di assedio, bombe, fame, sfollamenti. Due anni di genocidio portato avanti da Israele nei confronti della popolazione palestinese. Due anni di silenzio complice. La Striscia di Gaza è stata devastata sotto gli occhi del mondo: scuole distrutte, ospedali bombardati, quartieri cancellati, infrastrutture civili colpite, famiglie intere sterminate. Due anni di migliaia di morti, un’intera popolazione sfiancata e intere città rase al suolo. L’Unione europea e i suoi stati membri sono tenuti a proibire qualsiasi attività commerciale o forma di investimento che possa alimentare tali gravi violazioni. Ogni giorno di inattività da parte dell’Unione europea accresce il pericolo di una complicità con le azioni di Israele”. Le richieste sono: * la cessazione immediata del genocidio nella Striscia di Gaza e l’avvio di indagini internazionali indipendenti sotto l’egida delle Nazioni Unite e della Corte penale internazionale; * la fine dell’occupazione militare e del blocco illegale sulla Striscia di Gaza; * la fine del sistema di apartheid israeliano; * lo stop immediato alla vendita di armi, munizioni e sistemi a duplice uso da parte dell’Italia e dell’Unione europea verso Israele, come previsto dal Trattato sul commercio di armi, dalla legge 185/90 e dai principi di diritto internazionale.   Ufficio stampa Voci per la Libertà – Una canzone per Amnesty Redazione Italia
Put Your Soul on Your Hand and Walk: al cinema la voce di Gaza
Riceviamo e pubblichiamo il comunicato di WANTED CINEMA Carissimə, prima di tutto un enorme grazie. Il viaggio di No other land è stato straordinario: dopo nove mesi è ancora nelle sale, un risultato reso possibile non solo dal pubblico, ma soprattutto dal vostro impegno e dal prezioso lavoro di tutte le associazioni che hanno creduto in questo film. Abbiamo dimostrato insieme che il cinema può essere una potente arma di difesa, di cultura e di comunicazione, capace di illuminare situazioni cruciali e troppo spesso dimenticate. Film come questo dovrebbero essere all’ordine del giorno, e il vostro supporto ha contribuito a renderlo possibile. Oggi siamo felici di condividere con voi un nuovo, urgente capitolo di questo impegno: PUT YOUR SOUL ON YOUR HAND AND WALK diretto da Sepideh Farsi con Fatma Hassona In memoria di Fatma Hassona, Walaa Hassona, Alaa Hassona, Mohammed Hassona, Muhanned Hassona, Yazan Hassona e Raed Hassona. “SE IO MUOIO, VOGLIO UNA MORTE RUMOROSA, CHE SIA SENTITA DA TUTTO IL MONDO” Fatma Hassona, fotogiornalista (1999-2025) Dopo l’anteprima mondiale al Festival di Cannes nella sezione ACID, siamo orgogliosi di annunciare che Put your soul on your hand and walk sarà presentato in anteprima italiana alla Festa del Cinema di Roma 2025. Put your soul on your hand and walk racconta l’incontro, a distanza, tra una regista iraniana in esilio a Parigi e Fatma, che da Gaza documentava con coraggio l’assedio della sua terra. Il loro progetto comune prendeva forma proprio mentre la notizia della selezione al Festival di Cannes riempiva Fatma di gioia; ma il giorno seguente, il 16 aprile 2025, un attacco missilistico ha ucciso lei e gran parte della sua famiglia. Le loro videochiamate, registrate giorno dopo giorno, sono diventate l’unico materiale possibile per un film che oggi si fa memoria viva, resistenza, atto d’amore. “Fatma è diventata i miei occhi a Gaza. Io, dal mio esilio, sono stata la sua finestra aperta sul mondo. Questo film è un’urgenza di memoria, un modo per non lasciare che la sua voce venga cancellata.” — Sepideh Farsi La luce e il sorriso di Fatma meritano di essere custoditi e portati ovunque. La sua morte, come quella di tanti troppi giornalisti uccisi a Gaza, non deve passare sotto silenzio. Mobilitiamoci perché la sua voce si faccia sentire ancora più forte attraverso questo film, perché la sua testimonianza non sia dimenticata e continui a parlare al mondo intero. Accanto al film, anche le fotografie di Fatma restano una testimonianza straordinaria. Scatti che oggi, come già proposto in diversi luoghi a Cannes, vogliamo portare in giro per l’Italia con mostre fotografiche dedicate, per permettere a tutti di entrare in contatto diretto con lo sguardo di Fatma e con le immagini che ha avuto il coraggio di consegnarci. Sono 232 i reporter uccisi dall’inizio della guerra. Dal 7 ottobre 2023, a Gaza, sono morti più giornalisti che in entrambe le guerre mondiali (fonte: Il Manifesto). Fatma è un’altra voce che è stata messa a tacere. Come No other land, anche Put your soul on your hand and walk non è solo cinema, ma una presa di posizione politica e umana, un’opera che scuote le coscienze e ci obbliga a non distogliere lo sguardo. È un film che deve essere visto, discusso, condiviso, un documento urgente che ha bisogno della stessa rete di sostegno che ci ha accompagnati fin qui. Vi invitiamo quindi a organizzare proiezioni e dibattiti, a diffondere la voce nelle vostre reti, a continuare a usare il cinema, e ora anche la fotografia, come strumenti di resistenza e di verità. Solo insieme possiamo fare in modo che questa testimonianza trovi lo spazio e l’eco che merita. Contiamo ancora una volta sul vostro sostegno. Per qualsiasi informazione potete contattarci scrivendo a eventi@wantedcinema.eu Redazione Italia
La coscienza collettiva dei movimenti dal basso oltre la memoria selettiva dall’alto
Avendo partecipato l’altro ieri – presso l’Istituto Gramsci di Palermo – alla presentazione del libro di Donatella della Porta “Guerra all’antisemitismo? Il panico morale come strumento di repressione politica”, di cui ci ha parlato Daniela Musumeci nel suo articolo, ritengo opportuno tornare su alcune questioni poste sia dal volume che dalla discussione scaturita dall’incontro con l’autrice. La ricerca condotta dalla sociologa della Normale di Pisa dimostra che in Germania, come anche in altri Paesi occidentali, i cosiddetti imprenditori del panico morale, categoria introdotta in sociologia agli inizi degli anni ‘70, hanno messo in atto già da anni, con l’ausilio degli apparati burocratici e dei media, azioni repressive nei confronti di tutti coloro che criticano la politica colonialista di Israele, usando lo stigma dell’antisemitismo. A farne le spese sono stati e sono in primo luogo intellettuali e artisti, tra questi anche ebrei dissenzienti, a cui viene negata la possibilità di esprimere le proprie idee in convegni o manifestazioni con strumenti indiretti, come la minaccia di sospendere i finanziamenti agli enti organizzatori, o diretti come negare il visto di ingresso nel Paese dove si svolge l’evento.  Queste forme di repressione si fondano su una prospettiva rovesciata che ha ridefinito il concetto di antisemitismo, mirando a farvi rientrare qualunque critica nei confronti dello Stato di Israele, ed è il frutto del senso di colpa vissuto dalla Germania per le responsabilità connaturate con la tragedia dell’Olocausto; non va dimenticato, peraltro, che anche altri Paesi europei condividono le pesanti responsabilità che hanno condotto alla Shoah, motivo per cui questa sorta di ridefinizione semantica dell’antisemitismo ha un’ampia diffusione in Europa e non solo.  Da un dato momento storico in poi, che possiamo individuare negli eventi che dopo la caduta del muro di Berlino hanno portato all’unificazione della Germania, la colpa originaria è stata fatta ricadere sui nuovi capri espiatori del terzo millennio, i migranti, che, essendo prevalentemente arabi e musulmani, vengono tacciati dal mainstream imposto dall’alto di essere i portatori del nuovo antisemitismo. Ecco, quindi, il dato caratteristico di questa prospettiva rovesciata: i colpevoli diventano innocenti e gli innocenti colpevoli, secondo un leitmotiv cavalcato dall’internazionale di destra che oggi governa o avanza in gran parte dei Paesi occidentali e che trova purtroppo anche sponda in formazioni della sinistra storica, come Spd e Verdi in Germania, e che si rafforza ulteriormente con il fermo ed ininterrotto sostegno degli USA alle politiche aggressive di Israele, condiviso sia dai presidenti repubblicani che da quelli democratici (Biden prima ancora di Trump, tanto per citarne uno). La memoria selettiva imposta dall’alto, così come ci ricorda della Porta, rende impossibile la realizzazione di una memoria che faccia risaltare gli elementi universalistici che andrebbero attribuiti a un evento tragico come l’Olocausto (“Se questo è un uomo” di Levi ci riconduce proprio a quel carattere); esso viene, invece, inquadrato come un evento unico e distinto dalle altre forme di razzismo che hanno caratterizzato le politiche coloniali dei Paesi occidentali e, soprattutto, non può mai essere associato alle azioni compiute da Israele. È di tutta evidenza l’incapacità civile di riconoscere il razzismo che c’è dietro questa impostazione, e anche la sinistra in Germania è parte di questa assimilazione: le azioni di boicottaggio portate avanti dal movimento Bds, anche se non sono illegali, vengono stigmatizzate come antisemite.  In Italia, le azioni di panico morale sono meno strutturate e istituzionalizzate, tanto è vero che prendono campo tante forme di mobilitazione, a partire dalle università e dai movimenti di base, finalizzate ad azioni di boicottaggio e ad esprimere piena solidarietà al popolo palestinese. C’è voluto, tuttavia, un po’ di tempo prima che partiti e organizzazioni della sinistra storica si esprimessero esplicitamente contro il genocidio e avviassero azioni di mobilitazione più incisive: Donatella della Porta ci ha ricordato l’importanza della crescente azione dal basso, portata avanti soprattutto dal sindacalismo di base e dai movimenti più radicali (si pensi alla mobilitazione dei portuali di Genova a sostegno della missione di Global Sumud Flotilla), auspicando al contempo che si ricrei una concezione di sinistra della solidarietà simile a quella attuata negli anni ‘70 con i profughi cileni scampati al golpe sanguinario di Pinochet. Da tutto ciò nasce la necessità di una riflessione attenta sul che fare, per superare la difficoltà evocata da Baris, docente dell’Università di Palermo, ad immaginare interventi concreti di contrasto a questa immane tragedia, e che vadano oltre le azioni di boicottaggio la cui importanza è stata in ogni caso sottolineata sia da della Porta che da  Amal Khayal, attivista del CISS che ha partecipato al dibattito in collegamento con un appassionato intervento.  Condivido quanto sostenuto da Giuseppe Lipari, Phd presso la Normale e attivista nei movimenti giovanili, in merito ai cambiamenti determinati dalle iniziative assunte dai movimenti dal basso che sono riuscite ad affermare una nuova coscienza collettiva ed a modificare le modalità di azione degli altri attori sociali della sinistra. Il sostegno diffuso a Sumud Flotilla è il segno tangibile di come in questo caso non si sia creata una situazione di panico morale così come era successo per altre iniziative umanitarie ferocemente stigmatizzate dal mainstream della destra. Il libro della professoressa della Porta è stato scritto un anno fa e da allora ad oggi pare che qualcosa sia cambiato, e anche se la docente della Normale rimane scettica sulla situazione in Germania: la solidarietà concreta nei confronti del popolo palestinese è cresciuta ed assume proporzioni sempre più vaste non solo nel mondo intellettuale ma anche in ampi strati sociali; di fronte all’escalation portata alle estreme conseguenze da Israele con quella che ormai appare a tutti gli effetti come la soluzione finale, le posizioni dei governi iniziano a segnare una certa distanza, almeno nelle dichiarazioni, dopo aver a lungo offerto un sostegno incondizionato. A margine, mi preme sottolineare che queste forme di criminalizzazione del dissenso attuate dagli imprenditori del panico morale ormai hanno come obiettivo tutti i grandi temi che sono al centro del dibattito politico e sociale, dai processi migratori ai cambiamenti climatici, dalle lotte per l’uguaglianza sociale e politica ai movimenti contro le discriminazioni sessuali. L’omicidio di Kirk negli USA e la conseguente reazione scomposta del mondo MAGA che attribuisce alla sinistra la matrice della violenza, trova sponda in Italia grazie a Meloni e a tutto il centrodestra, evocando a sproposito la stagione del terrorismo. Ci vuole una sinistra organizzata e strutturata che sappia mettere in atto azioni di contrasto legale all’offensiva della destra internazionale, responsabile di condurci sul baratro di un nuovo conflitto mondiale e delle forme repressive nei confronti di ogni dissenso anche grazie all’utilizzo martellante dei mass media omologati al sistema di potere. Il solidarismo internazionalistico degli anni ‘70, che ci ha ricordato della Porta, insieme alla capacità di ritrovare i caratteri universalistici delle lotte per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia sociale devono tornare ad essere la cifra della sinistra. L’atroce esperienza della vicenda palestinese, pur nel suo drammatico e attuale epilogo, ci dimostra che il potere dei media di regime, delle istituzioni e delle burocrazie non sempre riesce a condizionare le coscienze; anzi, tanto maggiore è il livello aggressivo delle elités istituzionali nell’affermare le proprie visioni del mondo, tanto più forte potrà essere la presa di coscienza collettiva capace di dare vita a movimenti di lotta in tutto il mondo. Redazione Palermo
Francia 18 settembre sciopero generale oltre un milione di manifestanti
L’intersindicale (CFDT, CGT, FO, CFE-CGC, CFTC, Unsa, FSU e Solidaires) si felicita per il successo della mobilitazione. Un avvertimento molto chiaro al governo che ancora non c’è e innanzitutto a Macron. E’ dagli scioperi generale del 2023 contro la riforma delle pensioni che non si aveva una tale mobilitazione in tutte le città francesi. 588 azioni di blocchi sono stati recensiti dalla polizia insieme a 140 fermi e 75 arresti a metà giornata. Scioperi in tutti i settori e nelle scuole. > Qui immagini della mobilitazione: youtube.com Enorme dispositivo poliziesco che provoca e carica a Parigi, Lyon e Nantes nel corteo parigino sarebbero stati visti 200 black blocks. Pioggia di lacrimogeni dappertutto. Stanchi? Mai. Pessimisti? Assolutamente no! A Montpellier, come altrove, di prima mattina, gli assistenti sociali, che da mesi lottano contro i tagli al bilancio, hanno organizzato un picchetto. Avevano partecipato alla giornata del 10 scorso. Questa intensa stagione di ritorno a scuola prosegue la sua corsa a lunga distanza, iniziata all’inizio del 2025 dopo le minacce di licenziamenti nelle organizzazioni non profit. Offre anche l’occasione perfetta per chiedere una convergenza delle lotte con altri settori. Il picchetto, organizzato di fronte alla Direzione Dipartimentale dell’Occupazione, del Lavoro e della Solidarietà (DDETS), voleva essere “interprofessionale”, invitando i ferrovieri, i lavoratori dei settori sanitario ed energetico e gli studenti a unirsi alle truppe del nuovo “coordinamento sociale”.  Fondato nel 2025, questo coordinamento continua a crescere e riunisce assistenti sociali e medico-sociali che si impegnano per coinvolgere altri, nelle varie strutture del dipartimento. “Il coordinamento dà energia”, descrive Max, assistente sociale del quartiere Mosson, un quartiere prioritario a nord di Montpellier. “Abbiamo organizzato assemblee generali, abbiamo visitato le organizzazioni che hanno iniziato a organizzare lo sciopero. È concreto, la gente sente che stiamo davvero facendo qualcosa”, continua. Max crede fermamente nella convergenza delle lotte. “Lo abbiamo fatto sostenendo i ferrovieri. E oggi sono loro ad unirsi a noi. La prossima settimana dovremmo fare lo stesso con il sistema scolastico nazionale”. E tutto questo dovrebbe essere fatto su scala nazionale! Ci sono molte cose da immaginare, ma per questo dobbiamo strutturare e coordinare il movimento.” Antoine, anche lui assistente sociale, concorda: “Ci si può sentire senza speranza quando si rimane isolati nella mentalità del ‘ognuno per sé’.” “Grazie al coordinamento, negli ultimi sei mesi, abbiamo dimostrato di poterci unire, parlare tra di noi e darci forza a vicenda”, aggiunge questo dipendente dell’associazione Area, che sostiene le persone che vivono nelle baraccopoli di Montpellier.  Appelli a continuare a cascata  Antoine lavora nel settore sociale da vent’anni e non ha mai visto così tanti avvisi di sciopero piovere sul settore. “Prima, c’era un avviso ogni dieci anni. “Ora, ogni due o tre mesi!”, racconta all’assemblea, riunita davanti al DDETS (Dipartimento dei Servizi Sociali). Osserva anche un profondo cambiamento nelle rivendicazioni: “In passato, ci si concentrava sulle condizioni di sostegno alle persone”. “Oggi, interi dipartimenti decidono di discutere le proprie condizioni di lavoro. È una novità assoluta. È un momento estremamente critico e la rabbia sta montando.” Antoine, membro del sindacato Sud Santé, nota anche un’accoglienza molto diversa dei suoi discorsi da parte dei dipendenti. “Prima, quando arrivavo per parlare dello sciopero, mi dicevano: ‘Calmati, Karl Marx, e fatti da parte’. Oggi mi dicono: ‘Vieni a parlare con me, sono interessato’. È qualcosa di molto forte.”  È ancora più forte quando la lotta dà i suoi frutti. L’Associazione Specializzata di Prevenzione dell’Hérault (APS 34), che avrebbe dovuto affrontare licenziamenti a partire da settembre, è riuscita a costringere il dipartimento a fare marcia indietro dopo una lunga lotta. “Organizzavamo raduni ogni settimana, volantinaggio, scioperi e serate di supporto”, racconta Max, dipendente dell’APS e membro del sindacato CGT Azione Sociale. Secondo lui, è stato un raduno davanti al consiglio dipartimentale l’11 luglio a cambiare tutto: “Eravamo diverse centinaia di persone, abbiamo quasi invaso i locali, hanno mandato la polizia antisommossa. Sono andati nel panico, è stata una svolta”. Max ne è convinto: anche i primi appelli a “bloccare tutto” del 10 settembre, emersi subito dopo gli annunci di austerità di François Bayrou a metà luglio, hanno influenzato la decisione del consiglio dipartimentale. “C’era quella data per l’inizio dell’anno scolastico e sempre più organizzazioni in sciopero. Devono essersi resi conto di non potersi permettere un ritorno al lavoro così acceso”. Tuttavia, nulla è certo. “Le chiusure dei servizi annunciate per inizio settembre non sono avvenute, ma sappiamo che le minacce torneranno con il bilancio 2026”, sospira l’assistente sociale. “È insopportabile… Ogni sei mesi, dobbiamo lottare e lottare ancora.” Queste parole riecheggiano il contesto nazionale. Le massicce manifestazioni contro la riforma delle pensioni, poi lo scioglimento e la mobilitazione elettorale contro l’estrema destra danno ad alcuni l’impressione di lottare, invano, contro un potere completamente sordo. “È chiaro che siamo stati manipolati per molto tempo!” commenta Antoine di Sud Santé. “Ma per me, questa opposizione alle nostre lotte mi convince che siamo qui”, conclude, invocando “l’auto-organizzazione e l’autodeterminazione a livello di base”. Anche Max rimane ottimista, anche se percepisce “molta rassegnazione tra la gente”. Prosegue: “Non mi sorprende perché non c’è un piano di battaglia. Siamo qui, ci siamo presi un mese per prepararci al 10 settembre, poi è arrivato il 18… e poi? A livello locale, abbiamo un piano di battaglia, questo è il segreto; ci siamo organizzati quest’anno”. Ma a livello nazionale, è l’intersindacale che può premere il pulsante. È il sindacato che manda in piazza un milione di persone.”  Una scena al picchetto davanti alla direzione del lavoro di Montpellier riassumeva la difficoltà del dialogo tra “la base” e le istituzioni. Sceso a parlare con gli scioperanti, il direttore del DDETS (Dipartimento dell’Occupazione, dell’Occupazione e dei Servizi Sociali) ha ripetutamente ammesso, di fronte alle loro domande concrete e pressanti, la sua impotenza di fronte a decisioni di bilancio che non spettavano a lui. “Siamo d’accordo! Allora potete venire a manifestare con noi!”, ha replicato il pubblico in tono beffardo. “Sono felice di partecipare oggi per denunciare Macron, le sue politiche, il fatto che non ascolti mai la gente”, ha confidato Philippe, un dipendente dell’amministrazione locale, questo pomeriggio a Parigi, marciando sotto lo striscione della CFDT (Confederazione Francese dei Sindacati). In tutta la Francia, la mobilitazione – lanciata per la prima volta dal 2023 su appello dell’intero sindacato – rifletteva la rabbia nel vedere i servizi pubblici smantellati uno a uno, in nome del risparmio sui costi. Sono state registrate quasi 600 azioni e manifestazioni.  “Stop all’austerità, uniti per la giustizia sociale, fiscale e ambientale”, proclamava lo striscione in testa alla manifestazione parigina, partita da Place de la Bastille intorno alle 14:00.  “Oggi inviamo un avvertimento molto chiaro al governo e al Primo Ministro Sébastien Lecornu, che ci ha detto di essere aperto al dialogo”, ha dichiarato la Segretaria Generale della CFDT, Marylise Léon. “È ora che il governo ci dica: ‘OK, abbiamo ricevuto il messaggio, prenderemo decisioni di conseguenza’”, ha insistito.  Sophie Binet, Segretaria Generale della CGT, ha lanciato un elenco eloquente: “Vogliamo sapere se il raddoppio delle franchigie mediche verrà accantonato. Vogliamo sapere se la riforma dell’assicurazione contro la disoccupazione verrà accantonata. Se i tagli alle pensioni e alle prestazioni di previdenza sociale verranno accantonati. Vogliamo sapere se i tagli ai posti di lavoro nella pubblica amministrazione verranno accantonati.”  “Non ho mai visto un tale livello di repressione”, ha affermato Julien, membro del collettivo L’Offensive, subito dopo essere stato espulso dal deposito degli autobus Ilevia a Villeneuve-d’Ascq (Nord), che stava bloccando con un pugno di compagni. “Durante le proteste contro la riforma delle pensioni, abbiamo bloccato l’area per un’ora e mezza presso il consiglio regionale. Le forze dell’ordine hanno seguito un modello tradizionale. Ora arrivano e la bonificano con avvertimenti e gas lacrimogeni.”  Il Ministro dell’Interno uscente Bruno Retailleau a mezzogiorno minimizza “Le azioni sono state meno intense del previsto”. Ma ci sono stati anche alcuni episodi spettacolari, come l’ingresso di un centinaio di membri del sindacato Sud Rail nel cortile del Ministero dell’Economia nel XII arrondissement di Parigi, giunti come vicini della Gare de Lyon, armati di fumogeni.  Un altro elemento comune è l’onnipresenza nella mente delle persone della tassa Zucman, il nuovo totem della sinistra, che mira a tassare i super-ricchi al 2% del loro patrimonio. “Sono morbosamente contrario”, ha detto a Mediapart un caro amico di Emmanuel Macron. “Tassare i ricchi non li danneggerà”, ha ribattuto Sylvain, un imbianchino di 52 anni, durante la parata parigina. “Siamo affamati, finiamo il mese quasi senza niente. Anche se l’idea di togliere due giorni festivi è stata abbandonata, non si fa nulla per aiutarci.” Salvatore Turi Palidda
Robert Redford, vita di un artista d’impegno civile
È morto Robert Redford, icona del cinema mondiale ma anche uomo attendo ai diritti umani e alla difesa dell’ambiente, in questo momento di grandi atrocità abbiamo un motivo in più per rammaricarci. La giovinezza Di origini scozzesi e irlandesi nato in California a Santa Monica il 18 agosto del 1936, Robert Redford crebbe in un quartiere spagnolo con familiari semplici: suo padre era lattaio e ragioniere, sua madre una casalinga. Robert non ebbe una brillante carriera scolastica, era un abile sportivo e appassionato di arte. Un’escursione al parco nazionale di Yosemite gli fece scaturire un amore intenso per la natura. Quando ebbe diciannove anni perse sua madre a causa di un cancro. Poco dopo si iscrisse, grazie a una borsa di studio ottenuta per meriti sportivi, all’Università del Colorado ma non vi rimase e nel 1956 cominciò a lavorare in un campo petrolifero, decidendo di partire, ottenuti i primi guadagni, per l’Europa dove si mosse facendo l’autostop. Nel frattempo scoprì l’intenzione di fare il pittore e lo scenografo e cercò di vivere a Firenze, che dovette abbandonare deluso perché non riusciva a sbarcare il lunario. Tornato a Los Angeles, svaniti i sogni per un futuro di grande pittore, si diede all’alcol ma fortunatamente incontrò Lola Van Wagenen, universitaria diciassettenne sua vicina di casa che lo aiutò a smettere di bere. Dopo averla sposata nel 1958, si iscrisse a scuole di arte, scenografia e recitazione, scoprendo le sue potenzialità di attore. Il suo primo ruolo sul palcoscenico fu quello di Creonte in una rappresentazione dell’Antigone. La carriera Nel 1958 cominciò a lavorare in televisione, ma la popolarità gli arrivò nel 1969 grazie al cinema, con Butch Cassidy di George Hill. Nel 1972 fu protagonista de “Il candidato”, nel ruolo di un giovane e affascinante avvocato, che concorre per il Partito Democratico contro un senatore repubblicano, ma la campagna pubblicitaria lo lascia frustato perché si scopre un prodotto da vendere. Nel 1974 interpretò Il grande Gatsby, tratto dal romanzo omonimo di Francis Scott Fittzgerald, nel 1975 il thriller I tre giorni del Condor e nel 1976 Tutti gli uomini del Presidente di Alan J. Pakula, sul famoso scandalo del Watergate, nella parte, insieme a Dustin Hoffman, di uno dei due coraggiosi giornalisti investigatori. Il film ottenne vari riconoscimenti e premi cinematografici, tra cui anche otto candidature agli Oscar del 1977, tra cui miglior film e miglior regia a Pakula. Come regista, Redford seguì un percorso artistico che gli valse il riconoscimento di critica e pubblico. Nel 1980 iniziò “Gente comune” che ottenne critiche molto buone e successo di incassi, e che lo avrebbe portato a vincere il Premio Oscar al miglior regista. Una carriera da regista che continuò con 9 titoli la maggior parte di grande successo. Nel 2017 alla Mostra cinematografica di Venezia ricevette il Leone d’oro alla carriera. Fu anche doppiatore e produttore. L’impegno ambientale Ma erano anche altre le cose che Redford giudicava importanti per la sua carriera di uomo: la democrazia, l’ambiente e in particolare le montagne dello Utah, cercò di opporsi e dar vita ad alternative all’’industria cinematografica commerciale che disprezzava. Nel 1977 Redford scrisse un libro di denuncia sull’espansione statunitense verso ovest, il resoconto del viaggio fatto dall’attore lungo il percorso dei fuorilegge, tra cui il famoso Butch Cassidy. Il testo contiene colloqui con anziani ranchers, che sono stati testimoni di quell’epoca, e numerose fotografie. Combatté con successo contro la costruzione di una centrale elettrica nello Utah e nel 2013 prese parte come interprete ad alcuni spot televisivi per l’organizzazione di protezione ambientale Natural Resources Defense Council, nei quali si chiedeva all’allora presidente Barak Obama di adottare misure per ridurre le emissioni di gas serra. Sostenne anche l’azione contro il riscaldamento globale sul suo blog dell’Haffington Post. Robert Redford fece parte del comitato consultivo dell’organizzazione per la conservazione marina Sea Sheoherd e produsse la serie di documentari Ocean Warriors, che mostravano come Sea Shepherd e altre organizzazioni di protezione ambientale si erano battute per porre fine alla pesca illegale. L’impegno educativo attraverso il cinema: il Sundance Institute e il Sundance Film Festival Redford creò nel 1981, nelle sue proprietà nello Utah con l’amico regista Sydney Pollack, un importante istituto cinematografico, il Sundance Institute. Il nome è dovuto a quello del suo personaggio nel film Butch Cassidy, ovvero “Sundance Kid”. Portò avanti quest’impresa nonostante l’assenza di appoggi. Il suo istituto sovvenzionò nuove promesse del cinema con spese pagate per 4 settimane, li fece seguire da professori, fornendo loro materiale tecnico e consulenza di grandi professionisti. All’istituto fu collegato il celebre Sundance Film Festival, il più importante del cinema indipendente, dove furono scoperti e lanciati numerosi registi indipendenti come Quentin Tarantino, Jim Iarmush, Darren Aronofsky, Christofer Nolan, James Van, Robert Rodriguez, Kevin Smith. Redford e la democrazia Robert Redford non ha pensato di scendere in politica, ma è stato un uomo che non ha mai nascosto i suoi umori verso gli uomini di potere. In particolare nel 2019, in un editoriale pubblicato da Nbcnews durante il primo mandato di Donald Trump, scriveva riferendosi allo stato di diritto, alla libertà di stampa e di espressione, al rispetto della verità dei fatti: “Ci troviamo a fare i conti con una crisi che non ho mai pensato di dover affrontare durante la mia vita: attacchi in stile dittatore da parte del presidente Donald Trump contro tutto quello che l’America difende”. È sempre del 2019 sul Washington Post, Redford attaccava Trump: “È dolorosamente chiaro che abbiamo un presidente che degrada ogni cosa che tocca, una persona che non capisce, o a cui non importa che il suo dovere è difendere la democrazia”. Trump, dal canto suo, in questi giorni appresa la sua morte ha dichiarato alla stampa: “Robert Redford ha avuto una serie di anni in cui non c’era nessuno migliore di lui, in quel periodo in cui era il più hot, lo consideravo un grande”. Ed è facile immaginare che, da “marpione” quale è, lo abbia detto soprattutto per non scontentare i suoi molti elettori del popolo ai quali Robert Redfort era sempre piaciuto. Bruna Alasia
Donald Trump e l’egemonia culturale a Gerusalemme
La figura di Donald Trump è il simbolo dell’espansionismo israeliano a Gerusalemme, attraverso azioni culturali che rafforzano l’egemonia statunitense nella vita quotidiana della città. E’ il 26 febbraio 2025 quando sugli account del neoeletto presidente Donald Trump appare un video generato dall’intelligenza artificiale ritraente una versione distopica della Striscia di Gaza, con resort fronte mare in pieno stile statunitense, bambini divertiti dai palloncini a forma di Trump e statue dorate del presidente americano. Soprassedendo sul clamore che il video ha suscitato nel dibattito pubblico internazionale -al contrario delle migliaia di video di Gaza (reali!) che da mesi circolano sui social- vale la pena soffermarsi sul ruolo giocato dal capo della Casa Bianca nelle mire espansionistiche di Israele oltre i propri confini. A ben vedere, agli occhi della classe politica e della società civile dello Stato ebraico – anche quella meno irredentista  – Donald Trump gode di una sorta di status di “garante delle occupazioni” fin dal suo primo mandato, durante il quale gli sono state perfino intitolate delle colonie nelle alture del Golan. Oltre che nella Striscia di Gaza e nel sud-ovest della Siria, la figura di Trump è entrata di diritto anche nello storico contenzioso fra l’Autorità Nazionale Palestinese e Israele per il possesso di Gerusalemme, grazie ad azioni inedite come lo spostamento dell’ambasciata americana nella città santa e la designazione di Gerusalemme come capitale di Israele nel celebre “Peace for prosperity plan” del 2020. Nonostante ciò, l’importanza del leader repubblicano nel contesto di Gerusalemme non può essere ridotta alle sole azioni politiche e diplomatiche, che sono simultaneamente causa ed effetto dell’egemonia culturale che il tycoon statunitense impartisce sulla città. Stuart Hall definisce tale egemonia come lo sfruttamento delle pratiche culturali – film, sport, celebrazioni nazionali e musei – per costruire un consenso spontaneo nell’elettorato. Alcuni casi di egemonia culturale nella rappresentazione di Trump a Gerusalemme sono Piazza Donald Trump, la Stazione Donald Trump, il Beitar Jerusalem e il Mikdash Educational Center, attraverso i quali l’immagine del magnate newyorkese esce dai palazzi del potere e popola le strade e la quotidianità di Gerusalemme. Il primo caso è Piazza Donald Trump, creata il 3 luglio 2019nel quadrante sud-est di Gerusalemme, vicino alla “nuova” ambasciata americana. In quell’occasione, l’allora sindaco Nir Barkat rilasciò la seguente dichiarazione: “Il presidente Trump ha deciso di riconoscere Gerusalemme come capitale del popolo ebraico, di schierarsi dalla parte della verità e di fare la cosa giusta”. Nonostante non sia mai stato ufficialmente adottato, il nome della piazza viene informalmente utilizzato, richiamando l’analoga piazza di Tel Aviv. Il secondo caso è la Stazione Donald Trump, un progetto della città di Gerusalemme annunciato nel 2019 dal Ministro dei Trasporti Yisrael Katz come ringraziamento per “aver riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele”. La mitizzazione di Donald Trump però, non trova la propria raison d’etre solamente in progetti istituzionali, ma anche la stessa società civile israeliana dimostra da sempre una certa affezione per il presidente statunitense. Il caso più eclatante è la squadra di calcio del Beitar Gerusalemme, da sempre oggetto di controversie in tema di islamofobia (è l’unica squadra israeliana a non aver mai ingaggiato calciatori arabi). Eli Tabib, all’epoca proprietario del club, decise nel 2018 di cambiare il nome della squadra da Beitar Gerusalemme a “Beitar Trump Gerusalemme” per “onorare il presidente americano per il suo affetto e sostegno”, come dichiarato in un comunicato diffuso sulle pagine social ufficiali della squadra. Ancora oggi è facile imbattersi in articoli di merchandising online che accostano il nome di Donald Trump e quello de “la familia”, storico gruppo di supporter gerosolimitani vicini al sionismo revisionista e all’estrema destra israeliana. L’ultimo caso è il Mikdash Educational Center, un’organizzazione educativa e religiosa no-profit che nel 2018 ha coniato una moneta da collezione raffigurante il volto di Donald Trump e quello del re Ciro II di Persia (detto il Grande). Il paragone fra i due, già promosso da altre figure chiave dell’espansionismo israeliano come Benjamin Netanyahu, richiama la costruzione del Secondo Tempio di Gerusalemme, legittimando il controllo dello Stato ebraico sulla città attraverso la connessione biblica con la sedicente terra d’Israele. Da questi elementi appare dunque chiaro come le speculazioni geopolitiche non possano esaurire il discorso sulle occupazioni israeliane. L’espansionismo di Tel Aviv – iniziato all’indomani della Guerra dei sei giorni e mai affievolitosi, nemmeno durante la stagione di Oslo –  non è solo frutto delle scelte politiche della Knesset, ma rappresenta anche un sentimento radicato nel tessuto sociale israeliano ed espresso attraverso l’istruzione, lo sport e altre manifestazioni culturali. La presenza capillare della figura di Donald Trump nella quotidianità di Gerusalemme rappresenta un esempio interessante, elevando la portata coloniale delle politiche estere israeliane e statunitensi. Se l’intitolazione di piazze, stazioni, squadre sportive e monete da collezione può sembrare parte del progetto di Hasbara (diplomazia pubblica), promosso da Israele per presentarsi al mondo come partner statunitense, appare chiaro come la società israeliana stessa subisca il fascino di Washington in una sorta di “mimesi” bhabhiana, ovvero il fenomeno per cui i colonizzati tendono a replicare le pratiche dei colonizzatori. Per dare un senso al non plus ultra della violenza raggiunto negli ultimi mesi a Gaza e nei territori occupati della Cisgiordania (e Gerusalemme Est), bisogna confrontarsi anche con la forza egemonica che Donald Trump esercita sulla società israeliana: se è vero che nel video pubblicato dal presidente repubblicano a “Trump Gaza” sono presenti gadget, statue e palloncini a forma di Trump, vale la pena ricordare che a pochi chilometri da quel luogo martoriato esiste già una “Trump Jerusalem” le cui piazze e squadre sportive portano il nome del presidente degli Stati Uniti, quasi a riaffermare il fatto che l’americanizzazione della Striscia di Gaza deve prima passare per l’americanizzazione di Israele. Redazione Italia