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Quando il potere normalizza la violenza: anatomia di una deriva autoritaria
Dal carcere di Ilaria Salis alla legge sicurezza, il dibattito a Sherwood Festival smaschera la deriva autoritaria che trasforma la giustizia in arma e cancella il conflitto dalla democrazia. Un confronto tra esperienze, lotte e visioni per costruire nuove forme di resistenza_ All’interno di Sherwood Festival, il dibattito “Violenza del potere e deriva autoritaria” ha visto protagoniste tre figure centrali del presente giuridico e istituzionale: Ilaria Salis, europarlamentare, Eugenio Losco, avvocato penalista, e Alessandra Algostino, professoressa di diritto costituzionale all’Università di Torino. In dialogo con l’avvocato Giuseppe Romano, i relatori hanno offerto un’analisi condivisa: lo Stato democratico, in Italia come in Europa, ha tradito le sue promesse di garanzia e diritti, trasformando la legge in strumento di controllo, la giustizia in arma, la repressione in prassi ordinaria. Ilaria Salis ha aperto il confronto raccontando la propria esperienza carceraria e giudiziaria, non come vicenda individuale, ma come esempio sistemico. Ha ricostruito i quindici mesi di detenzione preventiva in Ungheria come forma deliberata di violenza, volta a spezzare non solo la volontà dell’imputato, ma anche il legame con la propria comunità politica. Ha denunciato l’uso della custodia cautelare come deterrente, il tentativo di farne un simbolo negativo, e la funzione della repressione giudiziaria come strumento di dissuasione diffusa. Secondo Salis, «non si colpisce un individuo per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta». Il caso giudiziario diventa costruzione simbolica: la detenuta antifascista trasformata nel “mostro” su cui proiettare una narrazione d’ordine. Ma questa narrazione, ha osservato, si è incrinata. «La mia immagine in catene non ha generato paura, ma indignazione». E tuttavia, ha ricordato, ciò è stato possibile solo perché il suo corpo – bianco, femminile, istruito – rientrava nei confini dell’empatia mediatica. «Altri corpi non fanno notizia: migranti, detenuti nei CPR, reclusi senza visibilità politica. Per loro, la repressione resta invisibile e sistemica». Ancora oggi, da europarlamentare, Salis denuncia come la repressione non finisca con la liberazione fisica: pende su di lei una richiesta di revoca dell’immunità parlamentare da parte delle autorità ungheresi, giunta subito dopo un suo intervento critico verso il governo Orbán. Per Salis, la repressione non si limita a tribunali e carceri: si estende a decreti, conferenze stampa, leggi. Durante il suo intervento, ha richiamato il caso di Maya T., militante antifascista tedesca detenuta in Ungheria per accuse analoghe. Maya rischia fino a 24 anni di carcere: una vicenda che testimonia l’accanimento repressivo e la sproporzione giudiziaria. Attualmente in sciopero della fame, la sua situazione è emblematica della criminalizzazione dell’antifascismo in Europa. A lei, Salis ha rivolto un abbraccio solidale: gesto politico e invito alla mobilitazione internazionale contro l’arbitrio giudiziario. Eugenio Losco, avvocato difensore di Salis, ha ricostruito il processo di Budapest come esempio lampante di giustizia politica. Emblematica l’assurdità dell’impianto accusatorio: tra i capi d’imputazione figura la presunta “violazione dei diritti di una minoranza”, riferita – paradossalmente – a soggetti appartenenti a gruppi neonazisti. A ciò si sommano gravi criticità procedurali: Salis ha affrontato il processo in un contesto linguistico incomprensibile, con limitati contatti con l’esterno e ostacoli costanti al pieno esercizio del diritto alla difesa. Losco ha denunciato la sproporzione tra i reati contestati e la detenzione inflitta, l’assenza di garanzie fondamentali e l’impostazione ideologica di una magistratura che premia l’estrema destra e punisce l’antifascismo. E soprattutto ha sottolineato come questo modello – apparentemente distante – stia rapidamente riproducendosi anche in Italia. A completare il quadro, l’intervento di Alessandra Algostino ha collocato la repressione del dissenso all’interno di una più ampia trasformazione autoritaria, che ha definito “tecnofeudalesimo”: un sistema in cui il potere si concentra in mani opache e verticali, svuotando gli spazi democratici. In questo contesto, ha rivendicato la legittimità delle mobilitazioni studentesche, che rompono la narrazione dominante e riaffermano il diritto al conflitto. Ha criticato duramente la retorica istituzionale che etichetta ogni contestazione – come quelle contro Roccella – come “violenza”, evidenziandone la funzione repressiva e silenziatrice. Nel secondo giro di interventi, Salis ha decostruito con forza il concetto di “sicurezza” nel discorso politico dominante, mettendone in luce l’uso strumentale e repressivo. La sicurezza – ha detto – non è più tutela dei diritti o delle condizioni di vita, ma controllo, ordine pubblico e punizione. Si criminalizzano poveri, occupanti, attivisti, mentre le politiche securitarie colpiscono chi rivendica giustizia sociale. La retorica del “furto di case” ha solo legittimato la repressione delle occupazioni e giustificato interventi penali sproporzionati. In questo scenario, lo Stato non appare più come garante, ma come apparato punitivo al servizio di proprietà e privilegio. Losco ha poi affrontato la recente “legge sicurezza” (ex ddl 1660-1236), definendola una mutazione profonda dell’ordinamento giuridico. Non reprime solo condotte pericolose: seleziona soggetti da colpire. «Il legislatore non punisce un reato. Costruisce un nemico. E poi scrive la norma per colpirlo». Chi lotta per la casa, chi partecipa a un picchetto, chi blocca una strada, diventa destinatario di norme penali scritte appositamente per intimidirlo. Il nuovo reato di blocco stradale, le aggravanti per resistenza in manifestazione, le sanzioni per chi sostiene occupazioni: strumenti pensati per disattivare la solidarietà. Parallelamente, lo Stato garantisce tutela giuridica e protezione economica a chi esercita la forza, ovvero le forze dell’ordine, sempre più armate e sempre meno responsabili. «Si configura un doppio binario: repressione per chi contesta, immunità per chi reprime». Particolare attenzione è stata posta all’incremento delle garanzie accordate alla polizia: non solo nuove prerogative operative – come il porto d’armi fuori servizio – ma anche coperture legali e finanziarie che allontanano ogni forma di accountability. Le forze dell’ordine non solo agiscono con maggiore libertà, ma vengono sollevate dal dovere di rispondere delle proprie azioni, grazie a fondi pubblici per la difesa legale e a un clima politico che scoraggia ogni indagine. «In questo assetto – ha detto – la polizia non è più un corpo al servizio della legge, ma una zona franca autorizzata a esercitare la forza con copertura preventiva». Algostino ha quindi messo in discussione la legittimità costituzionale dell’intero impianto normativo. Secondo lei, assistiamo a un vero e proprio rovesciamento del principio democratico. La Costituzione nasce per limitare il potere, tutelare i diritti e riconoscere il conflitto. La nuova legislazione, al contrario, lo rimuove, sanziona il dissenso, nega la solidarietà. «Il decreto sicurezza è incostituzionale nell’anima». «Il conflitto rende vitale la democrazia; il dissenso è un suo elemento essenziale» Algostino ha denunciato l’espulsione della Costituzione dal linguaggio politico e legislativo. «Oggi si legifera come se la Costituzione non esistesse più». Non è solo una questione di articoli violati, ma di perdita di senso complessivo. La democrazia italiana è nata riconoscendo il diritto alla disobbedienza, alla protesta, alla lotta sociale. La legge sicurezza nega questi spazi. La norma diventa strumento d’ordine, non di giustizia. In questa cornice, il diritto non limita più il potere, ma ne diventa giustificazione. Lo Stato si configura sempre più come apparato coercitivo, autoritario, selettivo. E la deriva non è episodica: è strutturale. Con uno sguardo che intreccia analisi costituzionale e pensiero critico, Algostino ha chiarito che non si tratta di una semplice deviazione autoritaria, ma di un cambiamento strutturale del paradigma politico. Ha denunciato l’introduzione, nella legge sicurezza, di aggravanti costruite per criminalizzare il dissenso organizzato, in particolare contro le grandi opere. È il caso del movimento No TAV, cui lo Stato ha risposto con sorveglianza, intimidazione e carcere. Una norma confezionata per disinnescare un conflitto legittimo. Richiamandosi a Walter Benjamin, ha sostenuto che il diritto, quando non è strumento di giustizia, diventa puro esercizio di forza. Non regola il potere, ma lo esprime nella sua forma più nuda: violenza legittimata. In questo schema, lo Stato non punisce reati, ma definisce i nemici: migranti, poveri, dissenzienti. È questa la logica del diritto penale del nemico. Ma Algostino è andata oltre, evidenziando come questa visione del potere sia non solo autoritaria, ma neoliberale. Un potere che si presenta come neutro, tecnico, inevitabile e che, in nome dell’efficienza e della sicurezza, espelle il conflitto dalla democrazia. Il dissenso non viene ascoltato né rappresentato: viene patologizzato, punito, escluso. Secondo lei, la democrazia non è solo sotto attacco: è già in parte svuotata. La legge sicurezza lo dimostra: non ammette pluralismo, non tollera opposizione, non contempla solidarietà. Solo ordine, decoro, disciplina. Nel passaggio finale, il dibattito si è spostato sull’istruzione con l’intervento di Gaia Righetto, docente precaria e attivista, recentemente oggetto di una campagna mediatica per il suo impegno politico. La sua vicenda mostra come anche la scuola diventi oggi terreno di repressione. Righetto ha raccontato come la precarietà sia usata come forma di controllo: chi insegna con contratti temporanei è spinto a non esporsi, a non deviare dalla “neutralità” imposta. Secondo lei, non si colpisce più solo chi occupa o protesta, ma anche chi educa alla critica. «Si vuole una scuola addomesticata, senza conflitto, senza pensiero. Una scuola che formi cittadini docili, non consapevoli». Gli attacchi che ha subito non sono casuali, ma parte di una strategia più ampia: delegittimare chi ha voce e mette in discussione l’autorità. Ilaria Salis ha quindi poi espresso piena solidarietà a Gaia Righetto, sottolineando come la repressione colpisca non solo chi protesta, ma anche chi educa alla critica e al pensiero libero. Ha ricordato poi l’assurdo caso del questore di Monza, Ferri, condannato per i fatti di Genova nel 2001, a dimostrazione di come le forze dell’ordine agiscano impunemente, nonostante gravi responsabilità. Eugenio Losco ha in chiusura evidenziato l’uso crescente di strumenti amministrativi come fogli di via, daspo e “zone rosse”, decisi da questori e prefetti senza sentenze né processi. Questi provvedimenti, privi di garanzie, vengono applicati arbitrariamente per allontanare e isolare persone legate a mobilitazioni sociali o politiche, trasformando l’amministrazione in uno strumento di repressione preventiva e controllo politico. Il dibattito ha restituito l’immagine di un potere sempre meno democratico e sempre più disciplinare. Ma anche la possibilità concreta di costruire forme di resistenza non più solo difensive, ma attive. La risposta non può essere l’attesa di un ritorno alla normalità: serve un nuovo fronte di conflitto democratico, che unisca chi lotta nei tribunali, nei parlamenti, nelle scuole, nei quartieri. È bene specificare poi che tutti i relatori, pur con percorsi diversi, hanno sottolineato la necessità di mettere in discussione il carcere come strumento sociale e politico, aprendo a una prospettiva abolizionista che non si limiti a riformare l’esistente, ma immagini modelli di giustizia radicalmente alternativi. Infine, a conclusione della serata, il dibattito si collega anche alla mobilitazione lanciata contro la presenza di Jeff Bezos a Venezia per il suo matrimonio “No space for Bezos, No space for war” (28 giugno). La sua presenza – d’altronde – non è solo un evento mondano, ma un simbolo di un modello tecno-autoritario basato sull’iper-sfruttamento del lavoro, la privatizzazione degli spazi e l’accumulazione algoritmica di potere. Contestare Bezos significa rifiutare questa governance e affermare un’altra idea di futuro, fondato su giustizia sociale, democrazia e difesa dei beni comuni. GUARDA RIPRESE VIDEO SU. GLOBALPROJECT.INFO Redazione Italia
Il nuovo Papa: perché chiamarsi Leone?
Son stati scritti fiumi di parole sull’esito inatteso del conclave e anche sulla ripresa di un nome desueto da oltre un secolo Leone, dicendo troppe banalità. Cerchiamo di decifrare il significato di questa scelta.   VEDIAMO I PAPI LEONE PIÙ ILLUSTRI CITATI DALLA STAMPA IN QUESTI GIORNI: DAI PRIMI SECOLI DELLA CHIESA FINO AL XVI SECOLO Leone I, detto Magno, fu eletto nel 441 e nei suoi 21 anni di regno fu un instancabile combattente per affermare e consolidare il primato del vescovo di Roma, la rigida ortodossia, sconfiggendo le numerose eresie del tempo in particolare sulla natura della figura di Cristo e sulla Trinità. Leone III, Papa dal 795 all’816, incoronò Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero e stabilì il precedente storico dell’assoluta supremazia del papa sui poteri terreni. Leone IV, Papa dal 847 al 855, fortificò Roma costruendo le Mura Leonine e promuovendo diverse spedizioni armate per sconfiggere i saraceni ed impedirne le scorribande; il giorno di Pasqua dell’850 Leone incoronò imperatore Ludovico, figlio di Lotario, riaffermando il prestigio e il privilegio pontificio di compiere un tale atto. Leone X, Papa dal 1513 al 1521, nato Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, fu particolarmente impegnato sul fronte dell’ortodossia, in un momento di particolari tensioni nel mondo della cristianità, evitando il pericolo di uno scisma, ribadendo il dogma dell’immortalità dell’anima, contro le teorie filosofiche degli averroisti e la sottomissione della verità filosofica a quella teologica. Fu il protagonista intransigente della diatriba sulle indulgenze, da lui stesso concesse, sollevata da Martin Lutero, con conclusiva scomunica di quest’ultimo e inizio della Riforma protestante. In generale sono Papi coerenti con il significato allegorico del leone: personalità forti, impegnate nel potenziare l’autorità e l’unità della Chiesa, custodi dell’ortodossia contro le eresie, tendenzialmente teocratici nel ribadire la supremazia del potere spirituale su quello temporale, ovvero sull’allora Sacro romano impero d’Occidente. Il leone era anche il simbolo della Repubblica di Venezia, cattolica, dopo l’anno mille protagonista di un’espansione imperiale e di un’accresciuta potenza economica e politica di prim’ordine. Così il leone di San Marco simboleggiò i caratteri con cui Venezia amava pensare e descrivere sé stessa: maestà, potenza, sapienza, forza militare e pietà religiosa. PAPA LEONE XIII FU DAVVERO UN “PAPA SOCIALE”? Ma in tutti i commenti, anche di intellettuali laici e di “sinistra”, si è voluto enfatizzare il probabile richiamo da parte del nuovo Leone XIV all’ultimo Leone, quello comunemente definito con malcelata ammirazione il “papa sociale”, per confermare la continuità con Papa Francesco. Ma quello fu davvero un papa “sociale e progressista” come lo si vuole rappresentare? Di Leone XIII mi sono occupato a lungo in una delle mie più impegnative ricerche storiche: «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma 2018 (pp. 8-44). La favola di Leone XIII “papa sociale” resiste, nonostante Giovanni Miccoli (G. Miccoli, Antisemitismo e cattolicesimo, Morcelliana, Brescia 2013), il più importante storico cattolico italiano, negli ultimi anni della sua vita, abbia approfondito proprio quel periodo cruciale dell’antisemitismo cattolico che si dispiega a cavallo tra Ottocento e Novecento, il periodo in cui l’antisemitismo divenne in Europa un tema costitutivo delle ideologie reazionarie, appunto su impulso proprio del lungo Pontificato di Leone XIII (1878-1903) e dell’iniziativa insistente, quasi ossessiva, della rivista da lui promossa a partire dal 1881, «La Civiltà cattolica», impegnata allo stremo nel combattere l’ebraismo e le ideologie anticristiane dallo stesso derivate, la massoneria, il liberalismo e il socialismo. Quello leonino fu un pontificato straordinariamente forte, come poteva lasciar presagire il nome che scelse il cardinal Pecci al suo insediamento e come riconoscono tutti gli studiosi di storia della Chiesa. Un pontificato molto politico, convintamente interventista nelle vicende terrene contemporanee. Fu questo il vero tratto innovatore rispetto al predecessore Pio IX, il quale di fronte alla modernità, da un canto ne ribadì l’assoluta e totale condanna con il Sillabo, dall’altro condusse la Chiesa a ritrarsi nelle proprie casematte, in una posizione difensiva che poteva risultare alla lunga sterile. Questo indebolimento della Chiesa venne percepito fin da subito da Leone XIII che quindi si impegnò per ricollocarla al centro della scena internazionale: dunque la guerra contro la modernità, perché fosse efficace e vincente per la Chiesa, doveva essere ingaggiata in campo aperto, sul terreno dei grandi cambiamenti economici e sociali in corso, in una contesa aspra, militante, con le società liberali. Leone XIII comprese che, dentro la modernità, la civiltà industriale e tecnologica, che si stava convulsamente sviluppando con la scoperta dei combustibili fossili, irrompeva come un fiume in piena che era impossibile sbarrare. La Chiesa rischiava l’irrilevanza se avesse mantenuto un atteggiamento di totale rifiuto del nuovo, espresso icasticamente da Gregorio XVI, quando bollò come un «satana su rotaia» il primo treno in Italia che il 13 ottobre 1839 ansimò sbuffando sui sette chilometri da Napoli a Portici. Leone XIII, invece, comprese che quei processi tecnologici, economici e sociali, a dispetto della «scomunica» pontificia, si stavano affermando, e che andavano coinvolgendo sempre più estese masse di popolazione, le quali rischiavano di essere scristianizzate dalle ideologie che quel processo assecondavano, liberalismo e socialismo innanzitutto, diffusi dall’ebraismo anticristiano. Ebbene, in quell’agone la Chiesa doveva scendere in campo, accettando la sfida della modernità proprio sul terreno economico e sociale, con l’obiettivo di cristianizzare la modernità stessa, sconfiggendo le ideologie razionaliste e laiciste che si erano affermate con l’Ottantanove. L’obiettivo, apparentemente paradossale, era quello di affermare una sorta di «teocrazia della modernità», ovvero ripristinare il primato assoluto della Chiesa, di impronta medievale, nel mondo nuovo delle innovazioni tecnologiche, della produzione industriale e delle conseguenti trasformazioni sociali: la Cristianità che tornava a governare anche il mondo moderno, reinserendolo in quella civiltà cristiana e in quella visione del mondo che il Medioevo aveva cristallizzato come ordine naturale delle cose modellato dal disegno soprannaturale divino. Cosicché, l’anno dopo della sua elezione, Leone XIII si preoccupò di stabilire, in una delle prime encicliche del suo lungo papato, Aeterni Patris, una salda base teologica, unica per tutta la Chiesa e, in qualche modo, indiscutibile e immodificabile, fondata sulla Somma teologica e l’opera di San Tommaso d’Aquino, un’imperiosa restaurazione di una rigidità teologica, che peraltro durerà a lungo, praticamente fino al Concilio Vaticano II. Si tratta di «una visione teocratica dei rapporti tra la Chiesa e la società civile» in Leone XIII che così lo stesso sintetizzò: «Siccome il fine al quale tende la Chiesa è nobilissimo sopra ogni altro, così la potestà di essa va sopra tutte le altre, e non deve essere, né riputata inferiore ai poteri dello Stato, né a lui in qualche modo sottoposta». Dunque, se da un canto Leone XIII gettò la Chiesa e i cattolici nell’agone politico e sociale, dall’altro si preoccupò con grande energia di restaurare una rigida ortodossia teologica, il tomismo, e di ribadire la più ferma condanna delle ideologie che avevano ispirato la modernità: «Non si trattava di una resa davanti alla modernità. Né si trattava di contrapporsi semplicemente alla modernità. Cominciava un confronto, non certo ancora un dialogo, per di più talvolta ancora molto aspro». Il suo programma che è quello di ricostruire e restaurare una nuova Civiltà dandole come tessuto principale e come anima i valori e la filosofia del Vangelo poiché la Società moderna «è caratterizzata da un universale sovvertimento dei principi dai quali, come da fondamento, è sorretto l’ordine sociale». Come si vede, papa Leone non aveva assolutamente in mente la riconciliazione con la modernità, ma la sua sconfitta tramite la confutazione dei falsi principi sui quali essa si fondava per potere restaurare la Cristianità avversata dalla modernità e dalle sette dirette dal giudaismo talmudico. A questo proposito, Leone XIII gestì direttamente i tre casi critici dell’antisemitismo cattolico dell’epoca: la vicenda del partito cristiano sociale austriaco, la posizione dei cattolici francesi rispetto all’affaire Dreyfuss e infine la credenza del rito del sangue nella Pasqua ebraica. La prima vicenda riguarda il primo esperimento, vincente, di discesa in campo in Europa di un partito cattolico, il Partito cristiano sociale austriaco, che partecipò e vinse le elezioni per il comune di Vienna. L’esperimento austriaco fu in sostanza il primo banco di prova dell’enciclica di Leone XIII Immortale Dei del 1º novembre 1885, sulla costituzione cristiana degli Stati, che per permetteva finalmente ai cattolici di intervenire nell’agone politico (non ancora a quelli italiani per il trauma della breccia di Porta Pia). Il leader, Karl Lueger, ispirandosi alla Rerum novarum, elaborò un programma che, riprendendo la critica pontificia al capitalismo ed al marxismo, rappresentava questi fenomeni della modernità come prodotti, in certo modo complementari, della mente ebraica, fondendo questi nuovi temi con il secolare odio per gli ebrei della tradizione cattolica. Karl Lueger, leader carismatico e autoritario di un partito che si presentò come antisemita, fu borgomastro ininterrottamente dal 1895 al 1910, benedetto da Leone XIII e considerato dal giovane Adolf Hitler il modello su cui costruire il suo progetto politico e la sua figura di Führer. La seconda è quella dell’altro tentativo del partito cristiano francese di sfruttare il caso Dreyfuss per conquistare un ruolo di governo nello schieramento reazionario e antisemita. In questo caso, come sappiamo, il progetto di Leone XIII incontrò una bruciante sconfitta. Prima però ebbe modo di lasciare una eredità gravida di calamità per gli ebrei europei, alla luce degli eventi futuri. Il 25 e 26 novembre 1896, nel periodo infuocato dell’affaire Dreyfus, si tenne a Lione il primo congresso nazionale di questo partito voluto da Leone XIII, la Democrazia cristiana, articolato in tre sessioni, la prima antimassonica, la seconda antisemita e la terza sociale. Ebbene questo congresso, benedetto in apertura con una missiva dal Papa, elaborò la prima proposta in Europa di una legislazione antisemita, debitamente articolata e dettagliata, che avrebbe rappresentato il modello per le leggi di Norimberga del nazismo del 1935. Il terzo caso è quello della credenza cattolica nell’omicidio rituale da parte degli ebrei: si riteneva che gli ebrei in occasione della loro Pasqua uccidessero un bambino cristiano per prelevargli del sangue con cui condire il pane azimo rituale. Ebbene, verso la fine del 1899, dopo un ventennio di accuse processi e tumulti in diversi Paesi d’Europa, un gruppo influente di cattolici inglesi, tra cui Lord Russell e lo stesso cardinale di Westminster, presentarono a Leone XIII un’istanza perché questa credenza, ritenuta del tutto infondata, venisse condannata dalla Santa Sede. Il Sant’Uffizio, investito della questione, il 25 luglio 1900 statuiva che la dichiarazione richiesta non poteva essere data, cui seguiva l’approvazione il 27 di Leone XIII: nella sostanza il Papa rigettava l’istanza dei cattolici inglesi con la sottintesa motivazione, «perché gli omicidi rituali che si vorrebbero negare sono invece realmente accaduti», peraltro esplicitata in un manoscritto che accompagnava la risoluzione. Il tema, anzi, divenne ricorrente nella campagna denigratoria nei confronti degli ebrei de «La Civiltà cattolica», tema ripreso come è noto dalla campagna dei nazisti e del fascismo di Salò per sostenere la necessità della Shoah. Dunque, paradossalmente, l’antisemitismo ridiventava un cardine della politica e del magistero della Chiesa, proprio quando la stessa in qualche modo «si apriva» alla modernità, superava il puro e semplice atteggiamento di rifiuto, scendeva sul terreno della nuova società per combattere una battaglia campale per la riaffermazione del primato della cristianità sulla modernità stessa, contro le ideologie scristianizzanti, dal razionalismo al liberalismo, al socialismo. Ed era su questo terreno che la Chiesa riscopriva negli ebrei uno degli ostacoli maggiori al compimento della sua missione. Del resto l’antisemitismo era un pilastro fondamentale del pensiero reazionario di fine Ottocento: il rifiuto del liberalismo, della laicità dello Stato, dei principi dell’Ottantanove, del socialismo si associava all’individuazione degli ebrei come principali ispiratori di questi movimenti ed ideologie, ebrei per di più emancipati dal ghetto proprio grazie alla Rivoluzione francese, in grado così di dispiegare finalmente tutta la loro «nefasta» volontà di rivalsa nei confronti della civiltà cristiana. Fino a qui la coerenza del pensiero e dell’azione di Leone XIII può apparire persino scontata. Ciò che può sorprendere è il lato sociale, presente nella Rerum Novarum. Ma anche questo è un dato in verità ricorrente nel pensiero politico reazionario tra Ottocento e Novecento. Lo si è visto per i cristiano sociali austriaci; lo si vedrà con il fascismo italiano, nel programma del 1919 ripreso poi con la Carta di Verona della Repubblica sociale; lo si vedrà nel movimento politico costruito da Hitler, non incidentalmente chiamato Partito nazionalsocialista dei lavoratori, con la bandiera su fondo rosso, colore intenzionalmente mutuato dai vessilli del movimento operaio e socialista. Almeno nei programmi, il pensiero reazionario e antimoderno spesso adottò accenti anticapitalisti, essendo anche il capitalismo in certo modo filiazione del liberalismo, e si cimentò sul piano sociale proprio con l’obiettivo di sottrarre le masse operaie all’influenza del socialismo, divenuto ormai più pericoloso e temibile dello stesso liberalismo. Dunque antisemitismo e Rerum Novarum non solo non confliggevano, ma facevano parte di una visione coerente che Leone XIII aveva sistematizzato in una strategia di lungo periodo di scardinamento delle ideologie della modernità. Del resto, occorre ricordarlo, i pontefici che seguirono nel corso della prima metà del secolo scorso, Pio X, Benedetto XV, Pio XI e Pio XII, si mossero sostanzialmente all’interno del solco teologico, ideologico e politico tracciato in profondità dal papato leonino. Si dovranno attendere papa Giovanni XXIII ed il concilio Vaticano II, agli inizi degli anni Sessanta, perché la Chiesa cattolica uscisse da quel solco profondo ed angusto, riconoscesse «i segni dei tempi» e aprisse un dialogo vero con le culture laiche della modernità, con le confessioni non cattoliche e con le religioni non cristiane, quindi anche con l’ebraismo. Infine, Se poi qualcuno vuole conoscere più a fondo la figura di Leone XIII consiglio la piacevolissima lettura del folgorante romanzo-inchiesta di Émile Zola, Roma, Paris 1896, ed. it. Bordeaux, Roma 2014. CONCLUSIONI In conclusione, Robert Francis Prevost tutto quanto detto sopra a proposito di Leone XIII e degli altri Papi Leone lo conosce bene, essendo un plurilaureato e un profondo studioso della Chiesa. E la scelta di Leone ha ragioni profonde che non hanno nulla a che vedere con la presunta “sensibilità sociale” e quindi con la continuità con Papa Francesco. E la novità va ben oltre il pur simbolico ripristino dei paramenti e della Croce che rappresentano il potere papale. Programmaticamente vorrebbe essere un papato forte, autorevole nella Chiesa, fermo nell’affermare e conservare l’ortodossia, ma anche influente sulle sorti del mondo ricostruendo il primato della Chiesa cattolica, come furono i Leone che lo hanno preceduto. Chissà, forse per la Chiesa si tratta di una scelta lungimirante come fu quella di Giovanni Paolo II, per l’esito della crisi del bipolarismo (Paolo Mieli è a questo papa che lo paragona, non a Francesco). In questo caso potrebbe essere un tentativo della Chiesa di salvare l’Occidente in crisi, in particolare il paese guida, gli Usa, dilaniato da contrasti interni autodistruttivi. È l’ipotesi di Cosimo Risi, già diplomatico e Ambasciatore d’Italia in Svizzera, ora insegnante di Diritto Internazionale all’Università di Salerno. E il richiamo nei primi discorsi alla potente tecnologia digitale dei nostri tempi, in particolare all’intelligenza artificiale, che nella versione transumanista dovrebbe generare una sorta di nuova specie umana liberata dai limiti della propria condizione, potrebbe far intendere il senso della scelta del nome, ovvero la volontà di riaffermare i valori eterni del messaggio di Cristo anche su questo terreno particolarmente insidioso, in cui gli umani potrebbero immaginarsi onnipotenti e non più bisognosi del conforto della religione: insomma, si tratterebbe di cristianizzare oggi l’intelligenza artificiale, come ai tempi di Leone XIII la macchina a vapore. Staremo a vedere. Una cosa è certa: assisteremo a un cambiamento importante rispetto a Papa Francesco.   > Il nuovo Papa: perché chiamarsi Leone? Redazione Italia