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Politica contro Scienza
È indispensabile un’accelerazione della democratizzazione dell’informazione scientifica, per cui gli scienziati siano capaci di spiegare i contenuti e le prospettive delle loro ricerche, attraverso un’azione capillare diretta al largo pubblico. Sono necessarie campagne di controinformazione, che invadano le reti sociali e tutti i gli altri mezzi di comunicazione. Nelle scuole si sta armando la guerra contro il sapere per modificare e falsificare i contenuti dell’insegnamento. È in questo ambito che la difesa della verità scientifica, storica e civile deve essere più strenua. Le nuove generazioni si stanno confrontando ovunque con i problemi esistenziali ed etici legati alle politiche autoritarie e inique condotte dai governi in ogni parte del globo e particolarmente negli Stati Uniti. Troveremo la capacità e i mezzi per parlar loro?_ La Politica contro la Scienza? Non mi sarei mai immaginato di scrivere un articolo come questo, io che ho iniziato la maturazione politica nel 1968 denunciando l’uso della Scienza da parte del capitale. Allora si trattava di demistificare la «neutralità» della scienza, mostrando come la scienza fosse spesso usata e a volte diretta in funzione delle scelte politiche della classe dominante. Un esempio inoppugnabile dell’alleanza fra Capitale e Stato nell’uso della scienza fu il Progetto Manhattan realizzato dagli Stati Uniti fra il 1942 e il 1946 con l’appoggio della Gran Bretagna e il Canada. Il progetto riunì eminenti fisici e rappresentanti dell’industria bellica americana per produrre l’arma finale, la bomba atomica. Il potere politico ed economico hanno sempre influito sulle scelte strategiche della scienza, indirizzando la ricerca scientifica ai loro fini attraverso politiche di ricerca e finanziamenti mirati. Negli ultimi decenni, la scienza accademica, nei paesi detti occidentali, è riuscita a ottenere una certa autonomia, purché fosse all’interno delle scelte politiche strategiche degli Stati. Con lo sviluppo accelerato delle tecnologie, la scienza applicata ha preso il sopravvento nei piani nazionali di ricerca. C’è bisogno assoluto di una collaborazione stretta fra scienza fondamentale e scienza applicata, particolarmente nei campi della ricerca energetica e biologica. Tuttavia le scelte politiche dei paesi industrializzati, convinti che la tecnologia sia il motore di progresso economico e di profitti a breve termine per le aziende, hanno sbilanciato quest’equilibrio verso la ricerca applicata. Lo hanno fatto attraverso la definizione delle priorità strategiche, l’allocazione di fondi pubblici e la creazione di partenariati fra ricerca accademica e aziende private, a profitto di quest’ultime. Gli Stati Uniti, usciti indenni dal secondo conflitto mondiale, grazie alla loro ricchezza e al loro statuto di superpotenza, sono stati il paese che ha assicurato il più forte sviluppo della ricerca scientifica, seppure con attenzione privilegiata allo sviluppo tecnologico (Research and Developpement). Benché il fine di questi investimenti sia il profitto privato, i governi degli Stati Uniti avevano capito il valore strategico della ricerca accademica e avevano finora assicurato una larga autonomia alle sue istituzioni. È proprio da questo paese, gli Stati Uniti, che, sotto la presidenza Trump, la politica ha scatenato un’offensiva senza precedenti contro la scienza. Nel luglio di quest’anno, il Dipartimento dell’Energia ha pubblicato un rapporto che rimette in causa gli effetti nefasti del cambiamento climatico, in aperta contraddizione con il rapporto del Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (GIEC), il più autorevole organismo internazionale per la valutazione dei cambiamenti climatici. Lo scopo è di invertire la politica federale attuale, basata sul riconoscimento che il riscaldamento per effetto serra rappresenta una minaccia per il benessere pubblico e così permettere il rilancio dell’industria delle energie fossili. Trump aveva già firmato il ritiro degli Stati Uniti dall’Accordo di Parigi sul clima pochi giorni dopo il suo insediamento alla presidenza e si appresta a tagliare i fondi alla National Oceanic and Atmospheric Administration, l’Agenzia Federale che si occupa delle previsioni meteorologiche, del monitoraggio del cambiamento climatico e dello studio del mare. Il suo Segretario alla Salute, Robert Kennedy Jr., ha annunciato il licenziamento di 10.000 persone impiegate nelle principali istituzioni di ricerca degli Stati Uniti, il National Institutes of Health, la Food and Drug Administration, e il Center for Disease Control and Prevention. A giugno Kennedy aveva licenziato tutti gli esperti della Commissione di consulenza sulle pratiche di immunizzazione. Ha in seguito cancellato il finanziamento di ventidue progetti vaccinali basati sulla tecnologia dell’acido ribonucleico messaggero (mRNA), bloccando di fatto lo sviluppo di questa tecnologia, considerata uno dei maggiori progressi nella ricerca vaccinale. La tecnologia del mRNA infatti permette una produzione rapida e adattabile all’evoluzione del patogeno, cruciale in caso di nuove pandemie. È stato valutato che i vaccini mRNA hanno salvato milioni di vite durante la pandemia di Covid. Kennedy Jr., sostenuto da Trump, vuole invece dirigere la ricerca scientifica sui presunti legami fra vaccini e autismo, non confermati dagli studi scientifici. I tagli complessivi dei fondi per la ricerca fondamentale previsti dall’amministrazione Trump vanno dal 34% al 50%. La National Science Foundation, nota per sostenere una ricerca fondamentale relativamente indipendente, si vedrà tagliare il budget del 56%. I criteri per decidere la riduzione di finanziamenti, la soppressione di agenzie di ricerca e di programmi scientifici non hanno nulla a che vedere con la scienza. Sono basati sulla volontà presidenziale di farla finita con i programmi che da lontano o da vicino siano in rapporto con i cosidetti « DEI » (Diversità, Equità, Inclusione). Per ritrovare nella storia esempi comparabili di un tentativo di asservimento della scienza all’ideologia, bisogna risalire all’Unione Sovietica di Stalin degli anni ’30-50 del secolo scorso. Secondo una dichiarazione del Comitato Centrale del Partito comunista nel 1950 la purezza delle dottrine marxiste-leniniste doveva essere difesa in tutti i campi della cultura e della scienza. In quell’epoca tutte le ricerche in cosmologia erano state bloccate, in quanto la teoria dell’espansione dell’Universo era considerata idealista e reazionaria. Peggio, la crociata contro la genetica mendeliana e l’evoluzionismo darwiniano (che ricorda la crociata attuale di Kennedy contro i vaccini), costò il lavoro e la libertà a migliaia di genetisti sovietici e a molti di loro la vita. Le teorie e le applicazioni del genetista ufficiale del regime, Trofim Denisovič Lysenko, causarono conseguenze disastrose per l’agricoltura sovietica, contribuendo all’insorgenza di carestie fatali per milioni di persone. Tuttavia la guerra dichiarata dall’amministrazione Trump alla scienza ha caratteri diversi dai tentativi storici del suo utilizzo per fini politici. Non solo perché la distorsione della scienza durante il periodo stalinista obbediva a ragioni ideologiche, mentre la crociata di Kennedy contro i vaccini deriva solo dalle sue opinioni cospirazioniste. Non è solo l’asservimento della scienza che cercano Trump e il Trumpismo. È un attacco contro il sapere scientifico nel suo insieme. Il vicepresidente degli Stati Uniti, James David Vance l’ha detto chiaramente: «Le università sono il nemico» e l’amministrazione Trump ha tagliato i fondi destinati all’insegnamento e alla ricerca nelle università americane. Il nemico sono il sapere e il metodo scientifico, perché essi si basano non su illazioni ma su fatti. Il metodo scientifico è fondato sull’osservazione, sulla conduzione di esperimenti e sull’analisi dei dati ottenuti. Le ipotesi iniziali sono così sottomesse a verifica per formulare conclusioni affidabili. L’obiettivo delle campagne attuali contro il sapere è di seminare il dubbio. Mettere in discussione l’obiettività della scienza permette di proporre altre fonti di conoscenza e ciò è consono alla nuova era informatica che ha cambiato profondamente i processi d’informazione. Le nuove fonti di conoscenza, estranee non solo al mondo accademico, ma anche ai settori classici dell’informazione, giornali, riviste, libri e canali televisivi pubblici, sono costituite dalle reti sociali. Alla validazione dei risultati da parte della comunità scientifica, attraverso l’esame di esperti indipendenti (peer review), si sostituisce il parere soggettivo, la notizia, lo scoop. Esempi che sarebbero ridicoli, se non avessero causato drammatiche conseguenze, sono i suggerimenti di Trump, durante il suo primo mandato, di usare come rimedi contro il Covid iniezioni di varechina, o ancora farmaci di cui l’efficacia era dubbia o inesistente, come l’idrossiclorochina o l’antiparassitario ivermectina. Le più sfacciate controverità sono state affermate senza scrupoli, come l’asserzione del rapporto del Dipartimento dell’Energia che «il riscaldamento atmosferico porta un beneficio netto per l’agricoltura americana». Conclusioni contrarie a quelle del rapporto del GIEC, secondo cui il cambiamento climatico ha ridotto la produttività agricola negli Stati Uniti del 12,5 % rispetto al 1961. D’altra parte non è lo stesso presidente degli Stati Uniti, che, davanti all’assemblea delle Nazioni Unite, ha definito il riscaldamento climatico come «il più grande imbroglio giammai perpretato al mondo («the greatest con job ever perpetrated on the world»)? Le campagne lobbistiche sostenute dei grandi gruppi privati e il dubbio portato sull’oggettività della ricerca scientifica tendono a sostituire a una ricerca volta al servizio di tutti una pseudo-ricerca al servizio di pochi privati. I movimenti anti-Vax durante la pandemia di Covid-19 negli Stati Uniti e in Europa hanno costituito un test a grande scala della capacità di influenzare l’opinione pubblica attraverso le reti da parte di cospirazionisti e cialtroni che si spacciavano come esperti. L’interesse politico dei movimenti anti-Vax non è passato inosservato alle formazioni di estrema destra negli Stati Uniti e in paesi d’Europa, come l’Italia, la Germania, l’Austria, l’Ungheria e anche la Francia, che si sono impossessate dei contenuti anti-scienza di queste campagne. All’attivismo anti-Vax si sono gradualmente sovrapposti  gli attacchi contro altre tematiche sociali invise all’estrema destra: interruzione volontaria di gravidanza, suicidio assistito, educazione sessuale nelle scuole, per non parlare della violenta campagna anti LGBT+. Discreditare la scienza e speculare sulle differenze di opinioni fra scientifici (differenze normali, dato che la scienza è un processo verso la conoscenza e non una fede dogmatica) per sollevare dubbi sulla loro validità permette al potere, sia esso incarnato dallo Stato o proprio dei grandi gruppi privati, di introdurre e consolidare nuove «verità», consone ai loro interessi. La politica energetica dell’amministrazione Trump avrà gravi conseguenze per la popolazione mondiale, favorendo lo sviluppo delle energie fossili e aggravando i problemi, già critici, legati al cambiamento climatico. La campagna anti-vaccini danneggerà innanzitutto la popolazione degli Stati Uniti. La diminuzione della copertura vaccinale contro il morbillo sta già facendo sentire i suoi effetti, con un picco epidemico in Texas. Gli effetti deleteri non si limiteranno tuttavia agli Stati Uniti. Lo smantellamento del CDC e l’indebolimento della sorveglianza sull’epidemia di Influenza aviaria fra i bovini e altri mammiferi domestici ostacolerà la prevenzione di una possibile pandemia e metterà a rischio l’intera popolazione mondiale (vedi ahidaonline.com). La soppressione dell’USAID (Agenzia degli Stati Uniti per lo sviluppo internazionale), creata nel 1961 da John Kennedy, ha causato la chiusura di migliaia di programmi umanitari nel mondo. Tra le conseguenze più gravi, la prevenzione e la cura dell’AIDS e i programmi di aiuto contro la fame e la violenza nei paesi poveri sono stati brutalmente interrotti e migliaia di persone stanno già morendo. Secondo l’Agenzia delle Nazioni Unite, più di sei milioni di persone sono a rischio di morte nei prossimi quattro anni. Contro questa marea dilagante di disinformazione e di mistificazione non è sufficiente curvare la schiena e resistere. Sono necessarie campagne di controinformazione, che invadano le reti sociali e tutti i gli altri mezzi di comunicazione, è indispensabile un’accelerazione della democratizzazione dell’informazione scientifica, per cui gli scienziati siano capaci di spiegare i contenuti e le prospettive delle loro ricerche, attraverso un’azione capillare diretta al largo pubblico. Nelle scuole si sta armando la guerra contro il sapere per modificare e falsificare i contenuti dell’insegnamento. È in questo ambito che la difesa della verità scientifica, storica e civile deve essere più strenua. Le nuove generazioni si stanno confrontando ovunque con i problemi esistenziali ed etici legati alle politiche autoritarie e inique condotte dai governi in ogni parte del globo e particolarmente negli Stati Uniti. Troveremo la capacità e i mezzi per parlar loro? *RINGRAZIO GIUSEPPE BERTONI PER LA RILETTURA E I SUGGERIMENTI Redazione Italia
La manovra della stabilità: quando il rigore diventa la sola politica
Riprendiamo i tratti più salienti del contributo sulla Legge di Bilancio 2026-2028 che i due economisti hanno pubblicato sul sito del ‘Collettivo Effimera’, a cui si rinvia per la lettura integrale a pié di pagina della nostra sintesi_ Con l’approvazione della Legge di Bilancio 2026-2028, il governo italiano ha scelto di non scegliere, adeguandosi ai dettami e ai vincoli imposti dal nuovo Patto di Stabilità e Crescita europeo. Si conferma così la linea di questo governo impavido: una linea fondata su grandi proclami ideologici (tutto va bene!) e promesse di riforme strutturali a cui non segue una capacità decisionale degna di tal nome. D’altra parte, il non fare è il sistema migliore per non sbagliare e mantenere un riconoscimento elettorale, soprattutto in presenza di una stampa compiacente e di una opposizione inconcludente. Nel campo macroeconomico si rinuncia così di esercitare il potere discrezionale della politica economica. È una legge che non governa l’economia, ma la registra; non apre prospettive, ma le rinvia. Nel più classico stile neoliberista, che vede ogni intervento pubblico di indirizzo una bestemmia contro il mercato. Dopo il Documento di economia e finanza e la Nota di aggiornamento, il trittico della programmazione pubblica si chiude con un bilancio che, al netto del Piano nazionale di ripresa e resilienza, equivale a una manovra “a saldo zero”. Le risorse aggiuntive effettive sono limitate: solo 900 milioni nel 2026. Si tratta di numeri che, nella sostanza, descrivono un bilancio statico, coerente con il nuovo quadro europeo che impone la riduzione graduale del debito e un avanzo primario crescente, ma del tutto privo di un progetto di sviluppo autonomo. 1. Il ritorno del Patto e la politica dell’obbedienza Il nuovo Patto di Stabilità e Crescita, negoziato nel 2024, rappresenta il compromesso tra la richiesta dei Paesi “frugali” di tornare al rigore e il tentativo, soprattutto da parte della Francia e Germania, di introdurre margini di flessibilità per gli investimenti pubblici e la transizione verde e sottotraccia la difesa. Ma nella pratica, il suo impianto resta quello di sempre: l’equilibrio dei conti prevale su ogni altra priorità economica o sociale. L’Italia, nel redigere la manovra, avrebbe potuto interpretare in modo più elastico le regole, valorizzando lo spazio di manovra consentito dal saldo strutturale e dall’avanzo primario. Non lo ha fatto. Il governo ha scelto di applicare il Patto in modo pedissequo, trasformando un vincolo tecnico in un vincolo politico. 2. La manovra “neutra”: crescita zero, politica zero Il quadro macroeconomico allegato alla legge di bilancio conferma questa impressione. Le differenze tra gli scenari tendenziali e quelli programmatici sono minime: appena uno o due decimali di PIL in più nel 2027 e nel 2028. I consumi privati restano fermi, i consumi pubblici crescono solo nella misura consentita dal nuovo Patto, e se gli investimenti mostrano un modesto recupero, ciò è dovuto ai soldi del PNRR. Senza il PNRR, che contribuisce alla crescita per circa 1,7 punti percentuali nel 2026, il tasso di espansione del PIL sarebbe negativo di quasi due punti. 3. Le risorse: 18 miliardi di aggiustamenti, non di sviluppo Nel complesso, la Legge di Bilancio mobilita circa 18 miliardi di euro, distribuiti tra minori entrate fiscali, tagli di spesa e risorse ricavate dalla minor spesa per PNRR. Ma la struttura interna della manovra rivela molto più della cifra complessiva. I ministeri subiscono una riduzione di circa 8,5 miliardi nel triennio, mentre le minori entrate fiscali ammontano a 26,5 miliardi. La copertura arriva da una combinazione di contributi straordinari e maggiori entrate dal settore finanziario e assicurativo, oltre che dal rinvio di spese già previste nel PNRR. 4. Fisco categoriale e regressività sociale La parte fiscale della manovra rappresenta uno dei punti più problematici. L’impianto tributario italiano, già profondamente segmentato, si frammenta ulteriormente con il proliferare di regimi speciali e aliquote agevolate. Il taglio dell’IRPEF dal 35% al 33% per i redditi tra 28.000 e 50.000 euro è finanziato interamente con i tagli ai ministeri. È un’operazione neutra sul piano macro, ma regressiva sul piano distributivo: riduce il peso fiscale senza correggere la disuguaglianza. Per di più, nonostante i proclami, ha un effetto minimo sulle tasche dei 13,6 milioni contribuenti che ne potrebbero beneficiare, la maggior parte dei quali si colloca sotto i 40.000 euro annui. Il risparmio fiscale infatti varia da ben 40 euro! all’anno (per chi ha 30.000 euro) e a ben 240 euro all’anno (per chi arriva a 40.000 euro l’anno), sino ad un massimo di 440 euro per chi dichiara redditi da 40.000 a 200.000 euro l’anno. 5. Politiche sociali e welfare: risorse insufficienti Sul fronte sociale, la manovra appare debole e frammentata. Gli stanziamenti aggiuntivi per la sanità ammontano a poco più di 2,4 miliardi nel 2026 e 2,65 miliardi dal 2027: cifre che non bastano a colmare il divario accumulato negli ultimi anni. Il Servizio Sanitario Nazionale continua a operare sottorganico e con strutture obsolete, mentre la spesa sanitaria pubblica in rapporto al PIL resta tra le più basse d’Europa. Per di più la quota di spesa sanitaria pubblica che finanzia la spesa privata è in costante aumento ed è oggi arrivata a superare il 25% (esattamente 25,75%, secondo il rapporto 2025 Gimbe). L’aumento simbolico delle pensioni minime (12 euro!) e il temporaneo blocco dell’età pensionabile per i lavori usuranti non compensano il ridimensionamento delle politiche previdenziali. Il messaggio di fondo è chiaro: la spesa sociale è vista come un costo da contenere, non come un investimento per la coesione. 6. Imprese il miraggio della competitività Sul fronte delle imprese, la Legge di Bilancio punta ancora una volta su incentivi fiscali e superammortamenti, confermando che quel poco di politica espansiva in Italia viene declinata esclusivamente in termini di sostegno al lato dell’offerta (leggi sistema delle imprese) e non alla domanda (supply-side economics). Gli investimenti in beni strumentali potranno essere maggiorati fino al 220% se legati alla transizione green, ma la misura riproduce un meccanismo noto: sostenere il capitale più che l’innovazione. Anche nel settore bancario la logica è quella della stabilità: proroghe fiscali sulle perdite e agevolazioni per le imposte differite attive (DTA), senza un vero disegno di riequilibrio del credito verso il sistema produttivo. 7. Imposta sulle banche e assicurazioni e sugli affitti brevi Trattiamo per ultimo i due temi che più hanno attirato l’attenzione dei giornali: il contributo chiesto alle banche e assicurazioni con l’introduzione di un’imposta del 27,5% per il 2025 e del 33% per l’anno successivo (art. 20) su quella parte di utili netti che viene detenuta sotto forma di attività patrimoniale e l’aumento dell’aliquota sul reddito derivante dagli affitti brevi (ma solo quelli intermediati dalle piattaforme digitali come Air-BnB) dall’attuale 23% al 26%. Queste due misure hanno dato adito a posizioni assai divergenti tra i tre partiti della maggioranza, sino a parlare per quanto riguarda le banche di imposizione di tipo sovietico e per quanto riguarda gli affitti brevi di tassazione patrimoniali. È probabile pertanto che queste misure possano essere revisionate durante il dibattito parlamentare con l’effetto di ridurre il loro effetto sulle entrate fiscali. 8. Le voci di bilancio non contemplate: Difesa e PNRR Un capitolo a parte riguarda la difesa. Il governo ha confermato l’intenzione di aumentare gradualmente la spesa militare per raggiungere gli obiettivi NATO, ma rinvia la decisione a giugno 2026, per essere sicura di aver ottenuto l’obiettivo del tetto del 3% del rapporto deficit/Pil. In ogni caso, il governo italiano ha già fatto sapere che intenderà ricorre per una cifra pari a 14,5 miliari al fondo SAFE (Security Action for Europe), la cui liquidità per finalità di sicurezza e riarmo europeo (Progetto Re-Arm Europe) viene reperita sui mercati dei capitali internazionali e sarà erogata sotto forma di prestiti diretti agli Stati membri che ne faranno richiesta, comunque da restituire entro 10 anni. Per l’Italia si tratta del quinto contributo più sostanzioso, dopo quelli offerti a Polonia (43,7 miliardi), Romania (16,8 miliardi), Francia e Ungheria (16,2 miliardi per ciascuno). Per quanto riguarda il PNRR, il governo contabilizza nel 2026 le riduzioni delle spese previste per il PNRR (oltre 5 miliardi nel 2026)… La mancata spesa del 2026, come concordato con la Commissione Europea, sarà rinviata agli anni successivi attraverso la creazione di uno specifico meccanismo che eviterà la perdita delle prossime rate del PNRR. 9. Il bilancio come strumento politico (svuotato) Il punto politico centrale della manovra non è tanto ciò che contiene, ma ciò che omette. La Legge di Bilancio 2026-2028 segna la fine della concezione espansiva della politica fiscale inaugurata con il PNRR. In un contesto di crescita debole e inflazione rallentata, il governo sceglie di ritirare la spesa pubblica proprio quando sarebbe più necessaria per sostenere domanda e investimenti. Si tratta di una decisione coerente con la dottrina del rigore, ma incoerente con la realtà economica. Mentre Stati Uniti e Cina continuano a utilizzare la spesa pubblica come leva per orientare l’economia, l’Europa si riavvita su sé stessa, preoccupata più dei saldi che della sostanza. 10. Conclusione: il rigore come destino? La Legge di Bilancio 2026-2028 non è una manovra “sbagliata” in senso tecnico: i conti tornano, i parametri sono rispettati, le previsioni appaiono prudenti. Ma è una manovra povera di politica. Non affronta la questione salariale, non riforma il fisco in senso progressivo, non rilancia gli investimenti pubblici. È il segno di un governo che interpreta la disciplina di bilancio non come strumento, ma come fine. E di un Paese che rinuncia a definire la propria strategia di crescita: come si decideva all’inizio, decide di non fare. L’Italia si muove così dentro un paradosso: più la finanza pubblica è stabile, meno la società lo è. Meno il bilancio rischia, più l’economia si indebolisce. È la contraddizione di un’Europa che ha fatto della stabilità il suo dogma, dimenticando che la stabilità, senza sviluppo e senza giustizia sociale, non è un equilibrio: è solo immobilità. Ma le società di rating brindano e i mercati speculativi e i poteri forti gioiscono! Redazione Italia
Gli Ambulatori popolari gratuiti: una rete alternativa di cura e lotta per la salute
Pubblichiamo questo dossier con l’augurio che la sua preparazione sia una tappa decisiva per la costituzione di un coordinamento nazionale degli APG italiani già esistenti e in costruzione. Questo dossier è stato costruito grazie al contributo dei seguenti APG (lista in ordine casuale): Clinica Popolare Azadî, Padova; Laboratorio di Salute Popolare, Bologna; Ponticelli di cura, Napoli; Ambulatorio Medico Popolare, Milano; Ambulatorio Popolare Caracol Olol Jackson, Vicenza; Microclinica Fatih, Torino; Ambulatorio popolare Roma Est, Roma; Ambulatorio di Quartiere BorgoVecchio, Palermo e del International Network of Social Clinics (INoSC)_   > LA LOTTA PER IL DIRITTO ALLA SALUTE. PERCHÉ UN AMBULATORIO POPOLARE?  Ambulatorio Popolare Roma Est L’ambulatorio popolare Roma Est è uno spazio di cura nato durante il Covid che ha trovato poi casa a Quarticciolo, uno dei quartieri investiti brutalmente dal decreto Caivano e dalla militarizzazione statale. Qui ha saputo moltiplicarsi e diventare uno sportello medico, pediatrico, psicologico, nutrizionale e di ginnastica dolce. Integrato nel discorso collettivo di Quarticciolo Ribelle prova a mettere al servizio delle lotte di quartiere personale sanitario, convint* che non c’è lotta per un mondo migliore che non passi per il diritto alla salute. Non ci dilungheremo molto sulla situazione attuale del nostro Sistema Sanitario Nazionale: la criminale aziendalizzazione, feroci tagli, la strisciante privatizzazione stanno smantellando pezzo dopo pezzo un servizio invidiabile. Se la situazione è così disastrosa perché non si massifica una rivendicazione dal basso che imponga un diritto alla salute per tutti e tutte? Come viene percepito dalla popolazione questo smantellamento? Come dalle operatrici e dagli operatori sanitari? Quali sono gli elementi che impediscono l’accesso ad un sistema di qualità?Prima di costruire il nostro ambulatorio popolare avremmo risposto in una maniera ancor più parziale a queste domande. Perché non avevamo un punto di vista collettivo sui bisogni di salute di un pezzo di periferia romana. Avevamo solo punti di vista parcellizzati all’interno dei nostri posti di lavoro. Per noi l’ambulatorio popolare in primo luogo è uno spazio di inchiesta per rispondere a queste domande camminando e domandando insieme alla borgata che viviamo.   Difficoltà e accesso  Nel nostro Paese aumentano ogni anno le persone che rinunciano alle cure per motivi economici, ci sono differenze di tassi di mortalità del 25% tra un quartiere povero e uno ricco, per pazienti con diabete o ipertensione questo tasso arriva all’80%, le disuguaglianze in salute aumentano di anno in anno. Sicuramente una parte importante di questo dato risiede nelle difficoltà di accesso a prestazioni di cura. Queste ricalcano le profonde disuguaglianze sociali presenti, rappresentando enormi barriere per molte fasce di popolazione, tra cui le persone straniere senza tessera sanitaria, o le persone che vivono in occupazione, le quali, dopo la legge Renzi-Lupi non hanno più la possibilità di ottenere una residenza e di conseguenza avere un medico di base o un pediatra di libera scelta.  Ci sono poi motivi più subdoli come le liste d’attesa infinite: spesso si è incastrati in un girone kafkiano che va da un medico di base che si limita a ricettare una visita specialistica, difficile da ottenere in tempi congrui se non ci si può permettere di pagare in intramoenia o privato puro, e a cui normalmente seguono richieste di esami per cui si aspetta altrettanto tempo se non si paga per eseguirli. Da qui ricomincia poi la caccia alla visita specialistica di controllo, che non viene direttamente prenotata dal servizio in questione. Il problema, dunque, non si limita alle liste d’attesa, ma sta anche frequentemente nella mancata presa in carico del paziente. Entrambe le cose sono illegali a livello giuridico, per questo abbiamo utilizzato l’ottima pratica strategica di fare pressione tramite PEC reclamando il rimborso per una visita privata se non viene offerta la prestazione nei tempi prevista dall’impegnativa come è definito dal d.lgs. n.124/1998 o reclamando l’appuntamento quando ci viene indebitamente risposto che le agende sono chiuse (tramite legge 23 dicembre 2005, n 266, articolo 1, comma 282).Altra barriera è quella della distanza, che in contesti di provincia o di periferia diventa insormontabile, soprattutto per una popolazione che va invecchiando, in territori con scadenti servizi di trasporto pubblici. L’assenza di servizi pubblici di taxi sanitari fa sì che molte persone debbano rinunciare a prestazioni anche indispensabili. In alcuni campi della salute non si può parlare di difficoltà di accesso quanto più di una vera e propria assenza del servizio. Nella nostra regione accedere a psicoterapie pubbliche è praticamente impossibile, persino per chi ha ricevuto una diagnosi psichiatrica ed è in carico presso il CSM di zona. Ciò rende ancora più impensabile la possibilità d’accesso a persone con esigenze personali e senza una sintomatologia psichica manifesta. Sono quasi del tutto assenti percorsi di supporto socio-economico e abitativo, anche per i pazienti più gravi, e in contesti marginalizzati se ne risente ancora di più. Il servizio di nutrizione è solo appannaggio di grandi centri ospedalieri, per lo più per nutrizioni enterali o parenterali, mentre nel campo della prevenzione o della cura di sindromi metaboliche è praticamente inesistente. Le cure odontoiatriche pubbliche si limitano al trattamento dell’urgenza e di pochi altri problemi cronici. Si potrebbe parlare di molte altre terapie validate scientificamente ma non offerte dal sistema pubblico, ma dovremmo parlare solo di questo. Normalizzazione della privatizzazione Di fronte alle difficoltà di accesso, di cui sopra, dilaga il privato, la spesa out of pocket cresce di anno in anno, per la gioia di Angelucci – deputato e milionario imprenditore della sanità privata, gruppo San Raffaele, oltre che editore di vari giornali –, Chiesa Cattolica – proprietaria di centinaia di cliniche e ospedali in Italia – e compagnie assicurative varie.Molti contratti di dipendenti pubblici prevedono come integrazione salariale un’assicurazione sanitaria privata per il dipendente e i suoi figli.L’intervento privato in sanità viene rappresentato dai media conniventi come salvifico. Quando uno di questi soggetti apre un centro in un quartiere di periferia le persone lo salutano con gioia perché prevede prestazioni in offerta, in alcuni casi anche a prezzi accessibili e in poco tempo. Appare efficace a differenza del pubblico. Se si prova a volantinare contro l’apertura di un servizio del genere ci si vedrà osteggiati dal quartiere. D’altronde come potrebbe essere altrimenti se di fronte alla chiusura di centri pubblici, l’unica soluzione è sempre l’intervento del capitale privato (vd esempio del Forlanini a Roma regalato alla fondazione Gemelli).Spesso in ospedali pubblici vi sono cooperative private di personale medico, infermieristico, oss, barellieri, personale di pulizia, gestione della biancheria. Tutto è subappalto. Servizi dell’SSN come la riabilitazione post-acuzie, sono pressoché al 100% appaltati a privati.  A volte negli ospedali pubblici solo le mura sono pubbliche. Malfunzionamento cup La prima interfaccia con il sistema pubblico, oltre i Pronto Soccorso, con l’abbondante quota di disagio che comporta entrarvi, passa per i CUP. Dei servizi telefonici per lo più assegnati alla gestione di «cooperative» o aziende private. Per chiamarlo il paziente deve essere tale, potrebbe essere necessario stare al telefono anche più di un’ora per riuscire a parlare con un operatore. Ovviamente se la priorità è la massimizzazione dei profitti, il numero di operatori e operatrici è ridotto all’osso, con contratti precari, sottopagati, a volte pagati in ritardo: varie, infatti, sono le istanze sindacali mosse da queste lavoratrici nella città di Roma.Gli stessi operatori e operatrici in condizioni di precariato, inoltre, devono lavorare con agende incomplete, molte delle società private pagate dal SSN per erogare prestazioni pubbliche non comunicano le proprie agende al CUP. Quest’ultimo, si ritrova a lavorare con agende ridotte e dunque ad assegnare appuntamenti anche a più di un anno dalla chiamata. Rinuncia alle cure Oltre 2 milioni di cittadini tra i 18 e i 74 anni (pari al 5,3% della popolazione) nel 2024 hanno rinviato visite mediche o cure dentistiche perché non potevano permettersele. E la situazione è ancora più grave tra chi soffre di malattie croniche, dove la percentuale sale al 9,2%. È quanto emerge dall’ultimo report dell’INAPP (Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche), basato sui dati dell’Indagine PLUS. Il fenomeno cresce anno dopo anno, la soluzione sono le polizze integrative che aumentano di pari passo, che però non tutti possono permettersi. Possiamo affermare che l’universalità del SSN non esiste più. Perché quindi creare ambulatori popolari? Innanzitutto, come dicevamo poc’anzi, per comprendere le sfaccettature del mancato accesso alle cure non bastano i dati, bisogna fare inchiesta, «camminare domandando».Analizzare anche la sfiducia nei quartieri popolari verso il pubblico, così come quella degli operatori e operatrici sanitarie. Le centrali sindacali più rappresentative del personale sanitario richiedono, tutte, la possibilità di più privato, che sia in forma di intramoenia o in forma di privato puro. Su questa richiesta v’è sicuramente una motivazione economica, ma crediamo ci sia anche la volontà di avere la possibilità di un’assistenza più umana, associata a un ascolto e ad un tempo più consono al nostro lavoro. Concentriamoci su questa richiesta, evidenziando la barbarie di lottare per poterlo dare solo a chi se lo può permettere. Ci è capitato di organizzare assemblee con abitanti del quartiere per difendere un centro pubblico in chiusura, i primi commenti da parte loro erano: «Perché dovremmo difendere un posto dove veniamo trattati male?». Durante i nostri circoli di salute sul vissuto di malattie cardiovascolari abbiamo ascoltato come chi subisce un infarto è grato di poter aver avuto uno stent in tempi rapidi, ma rimane scosso dal non ascolto che ottiene nel processo, da un percorso diagnostico terapeutico che non prevede assolutamente una personalizzazione dell’assistenza, ma anzi è completamente spersonalizzato. Questa disumanizzazione allontana il paziente, ma disamora anche il personale. Forse sta qui il nocciolo del problema delle aggressioni al personale sanitario, altro che carenza di forze dell’ordine negli ospedali!Creare un ambulatorio popolare per noi è provare a immaginare un modo altro di creare salute, che passa dall’integrazione tra salute mentale e fisica, dal dare importanza al cibo e a tutti gli aspetti della vita, a partire dalle necessità abitative o lavorative. Per questo nei nostri sportelli si passa dalla dottoressa, alla psicologa, al nutrizionista o allo sportello casa durante la stessa visita. Impagabile per il paziente ma anche per l’operatore sanitario. Fare advocacy su ogni prestazione negata rivendicandola nel pubblico, costruire campagne di prevenzione con il fine di reclamarle dal SSN, evidenziare i bisogni di salute mentale del territorio che non vengono nemmeno presi in considerazione dal CSM, sottolineare come riusciamo a educare sull’alimentazione senza alcun finanziamento mentre dal pubblico questo bisogno è praticamente inascoltato. Studiare il territorio, aprire circoli di parola per capire i problemi, e poi proporre soluzioni da rivendicare al settore pubblico e da costruire dal basso. Organizzare circoli di autocoscienza del corpo, facendo ginnastica posturale, perché la salute è ascoltare il nostro corpo, non solo leggere le analisi. Queste sono alcune delle pratiche che mettiamo in campo.Alcuni dicono che questo possa, soddisfacendo un bisogno, far abortire una conflittualità, ancora latente, che invece potrebbe rivoluzionare l’istituzione pubblica. Per noi questa critica rimane sterile per due ordini di motivi.Per prima cosa se mancano prospettive di lotte tra operatori/operatrici sanitari e pazienti è perché manca un orizzonte di immaginario comune. Difficile convincerci di lottare insieme per questo sistema sanitario, assoggettato alle case farmaceutiche, sordo alle richieste della popolazione, un mero prestazionificio. È più facile, al contrario, convincerci di lottare per una cura diversa che iniziamo a sperimentare qui e ora, da rivendicare poi in forma sistemica. In aggiunta, se non ci sono istanze sindacali di massa non corporative, ci sembra l’unica strada quella di partire da un territorio in una lotta fatta da pazienti e operatori sanitari insieme. Fare advocacy su ogni prestazione negata, mentre costruiamo campagne di prevenzione multidisciplinari, richiedere l’apertura o la non chiusura di centri pubblici mentre si evidenzia come con pochi soldi si riesce ad avere un’assistenza integrata, dimostrando nei fatti che il problema è politico e non economico. Nei quartieri più che una conflittualità latente riscontriamo persone isolate, disorientate, senza alcun riferimento organizzativo. Un ambulatorio radicato in quartiere può evidenziare le necessità di salute, coagulare il malcontento, dirigerlo verso rivendicazioni e azioni vincenti.Senza alcuna convinzione di avere noi la risposta in tasca su come potremmo riprenderci il diritto alla salute, apertissime a metterci in discussione, per ora rimaniamo convint* che il processo debba partire unendo sperimentazione dal basso a mobilitazione e che l’ambulatorio popolare possa essere uno strumento per farlo.   Redazione Italia
Quando il potere normalizza la violenza: anatomia di una deriva autoritaria
Dal carcere di Ilaria Salis alla legge sicurezza, il dibattito a Sherwood Festival smaschera la deriva autoritaria che trasforma la giustizia in arma e cancella il conflitto dalla democrazia. Un confronto tra esperienze, lotte e visioni per costruire nuove forme di resistenza_ All’interno di Sherwood Festival, il dibattito “Violenza del potere e deriva autoritaria” ha visto protagoniste tre figure centrali del presente giuridico e istituzionale: Ilaria Salis, europarlamentare, Eugenio Losco, avvocato penalista, e Alessandra Algostino, professoressa di diritto costituzionale all’Università di Torino. In dialogo con l’avvocato Giuseppe Romano, i relatori hanno offerto un’analisi condivisa: lo Stato democratico, in Italia come in Europa, ha tradito le sue promesse di garanzia e diritti, trasformando la legge in strumento di controllo, la giustizia in arma, la repressione in prassi ordinaria. Ilaria Salis ha aperto il confronto raccontando la propria esperienza carceraria e giudiziaria, non come vicenda individuale, ma come esempio sistemico. Ha ricostruito i quindici mesi di detenzione preventiva in Ungheria come forma deliberata di violenza, volta a spezzare non solo la volontà dell’imputato, ma anche il legame con la propria comunità politica. Ha denunciato l’uso della custodia cautelare come deterrente, il tentativo di farne un simbolo negativo, e la funzione della repressione giudiziaria come strumento di dissuasione diffusa. Secondo Salis, «non si colpisce un individuo per ciò che fa, ma per ciò che rappresenta». Il caso giudiziario diventa costruzione simbolica: la detenuta antifascista trasformata nel “mostro” su cui proiettare una narrazione d’ordine. Ma questa narrazione, ha osservato, si è incrinata. «La mia immagine in catene non ha generato paura, ma indignazione». E tuttavia, ha ricordato, ciò è stato possibile solo perché il suo corpo – bianco, femminile, istruito – rientrava nei confini dell’empatia mediatica. «Altri corpi non fanno notizia: migranti, detenuti nei CPR, reclusi senza visibilità politica. Per loro, la repressione resta invisibile e sistemica». Ancora oggi, da europarlamentare, Salis denuncia come la repressione non finisca con la liberazione fisica: pende su di lei una richiesta di revoca dell’immunità parlamentare da parte delle autorità ungheresi, giunta subito dopo un suo intervento critico verso il governo Orbán. Per Salis, la repressione non si limita a tribunali e carceri: si estende a decreti, conferenze stampa, leggi. Durante il suo intervento, ha richiamato il caso di Maya T., militante antifascista tedesca detenuta in Ungheria per accuse analoghe. Maya rischia fino a 24 anni di carcere: una vicenda che testimonia l’accanimento repressivo e la sproporzione giudiziaria. Attualmente in sciopero della fame, la sua situazione è emblematica della criminalizzazione dell’antifascismo in Europa. A lei, Salis ha rivolto un abbraccio solidale: gesto politico e invito alla mobilitazione internazionale contro l’arbitrio giudiziario. Eugenio Losco, avvocato difensore di Salis, ha ricostruito il processo di Budapest come esempio lampante di giustizia politica. Emblematica l’assurdità dell’impianto accusatorio: tra i capi d’imputazione figura la presunta “violazione dei diritti di una minoranza”, riferita – paradossalmente – a soggetti appartenenti a gruppi neonazisti. A ciò si sommano gravi criticità procedurali: Salis ha affrontato il processo in un contesto linguistico incomprensibile, con limitati contatti con l’esterno e ostacoli costanti al pieno esercizio del diritto alla difesa. Losco ha denunciato la sproporzione tra i reati contestati e la detenzione inflitta, l’assenza di garanzie fondamentali e l’impostazione ideologica di una magistratura che premia l’estrema destra e punisce l’antifascismo. E soprattutto ha sottolineato come questo modello – apparentemente distante – stia rapidamente riproducendosi anche in Italia. A completare il quadro, l’intervento di Alessandra Algostino ha collocato la repressione del dissenso all’interno di una più ampia trasformazione autoritaria, che ha definito “tecnofeudalesimo”: un sistema in cui il potere si concentra in mani opache e verticali, svuotando gli spazi democratici. In questo contesto, ha rivendicato la legittimità delle mobilitazioni studentesche, che rompono la narrazione dominante e riaffermano il diritto al conflitto. Ha criticato duramente la retorica istituzionale che etichetta ogni contestazione – come quelle contro Roccella – come “violenza”, evidenziandone la funzione repressiva e silenziatrice. Nel secondo giro di interventi, Salis ha decostruito con forza il concetto di “sicurezza” nel discorso politico dominante, mettendone in luce l’uso strumentale e repressivo. La sicurezza – ha detto – non è più tutela dei diritti o delle condizioni di vita, ma controllo, ordine pubblico e punizione. Si criminalizzano poveri, occupanti, attivisti, mentre le politiche securitarie colpiscono chi rivendica giustizia sociale. La retorica del “furto di case” ha solo legittimato la repressione delle occupazioni e giustificato interventi penali sproporzionati. In questo scenario, lo Stato non appare più come garante, ma come apparato punitivo al servizio di proprietà e privilegio. Losco ha poi affrontato la recente “legge sicurezza” (ex ddl 1660-1236), definendola una mutazione profonda dell’ordinamento giuridico. Non reprime solo condotte pericolose: seleziona soggetti da colpire. «Il legislatore non punisce un reato. Costruisce un nemico. E poi scrive la norma per colpirlo». Chi lotta per la casa, chi partecipa a un picchetto, chi blocca una strada, diventa destinatario di norme penali scritte appositamente per intimidirlo. Il nuovo reato di blocco stradale, le aggravanti per resistenza in manifestazione, le sanzioni per chi sostiene occupazioni: strumenti pensati per disattivare la solidarietà. Parallelamente, lo Stato garantisce tutela giuridica e protezione economica a chi esercita la forza, ovvero le forze dell’ordine, sempre più armate e sempre meno responsabili. «Si configura un doppio binario: repressione per chi contesta, immunità per chi reprime». Particolare attenzione è stata posta all’incremento delle garanzie accordate alla polizia: non solo nuove prerogative operative – come il porto d’armi fuori servizio – ma anche coperture legali e finanziarie che allontanano ogni forma di accountability. Le forze dell’ordine non solo agiscono con maggiore libertà, ma vengono sollevate dal dovere di rispondere delle proprie azioni, grazie a fondi pubblici per la difesa legale e a un clima politico che scoraggia ogni indagine. «In questo assetto – ha detto – la polizia non è più un corpo al servizio della legge, ma una zona franca autorizzata a esercitare la forza con copertura preventiva». Algostino ha quindi messo in discussione la legittimità costituzionale dell’intero impianto normativo. Secondo lei, assistiamo a un vero e proprio rovesciamento del principio democratico. La Costituzione nasce per limitare il potere, tutelare i diritti e riconoscere il conflitto. La nuova legislazione, al contrario, lo rimuove, sanziona il dissenso, nega la solidarietà. «Il decreto sicurezza è incostituzionale nell’anima». «Il conflitto rende vitale la democrazia; il dissenso è un suo elemento essenziale» Algostino ha denunciato l’espulsione della Costituzione dal linguaggio politico e legislativo. «Oggi si legifera come se la Costituzione non esistesse più». Non è solo una questione di articoli violati, ma di perdita di senso complessivo. La democrazia italiana è nata riconoscendo il diritto alla disobbedienza, alla protesta, alla lotta sociale. La legge sicurezza nega questi spazi. La norma diventa strumento d’ordine, non di giustizia. In questa cornice, il diritto non limita più il potere, ma ne diventa giustificazione. Lo Stato si configura sempre più come apparato coercitivo, autoritario, selettivo. E la deriva non è episodica: è strutturale. Con uno sguardo che intreccia analisi costituzionale e pensiero critico, Algostino ha chiarito che non si tratta di una semplice deviazione autoritaria, ma di un cambiamento strutturale del paradigma politico. Ha denunciato l’introduzione, nella legge sicurezza, di aggravanti costruite per criminalizzare il dissenso organizzato, in particolare contro le grandi opere. È il caso del movimento No TAV, cui lo Stato ha risposto con sorveglianza, intimidazione e carcere. Una norma confezionata per disinnescare un conflitto legittimo. Richiamandosi a Walter Benjamin, ha sostenuto che il diritto, quando non è strumento di giustizia, diventa puro esercizio di forza. Non regola il potere, ma lo esprime nella sua forma più nuda: violenza legittimata. In questo schema, lo Stato non punisce reati, ma definisce i nemici: migranti, poveri, dissenzienti. È questa la logica del diritto penale del nemico. Ma Algostino è andata oltre, evidenziando come questa visione del potere sia non solo autoritaria, ma neoliberale. Un potere che si presenta come neutro, tecnico, inevitabile e che, in nome dell’efficienza e della sicurezza, espelle il conflitto dalla democrazia. Il dissenso non viene ascoltato né rappresentato: viene patologizzato, punito, escluso. Secondo lei, la democrazia non è solo sotto attacco: è già in parte svuotata. La legge sicurezza lo dimostra: non ammette pluralismo, non tollera opposizione, non contempla solidarietà. Solo ordine, decoro, disciplina. Nel passaggio finale, il dibattito si è spostato sull’istruzione con l’intervento di Gaia Righetto, docente precaria e attivista, recentemente oggetto di una campagna mediatica per il suo impegno politico. La sua vicenda mostra come anche la scuola diventi oggi terreno di repressione. Righetto ha raccontato come la precarietà sia usata come forma di controllo: chi insegna con contratti temporanei è spinto a non esporsi, a non deviare dalla “neutralità” imposta. Secondo lei, non si colpisce più solo chi occupa o protesta, ma anche chi educa alla critica. «Si vuole una scuola addomesticata, senza conflitto, senza pensiero. Una scuola che formi cittadini docili, non consapevoli». Gli attacchi che ha subito non sono casuali, ma parte di una strategia più ampia: delegittimare chi ha voce e mette in discussione l’autorità. Ilaria Salis ha quindi poi espresso piena solidarietà a Gaia Righetto, sottolineando come la repressione colpisca non solo chi protesta, ma anche chi educa alla critica e al pensiero libero. Ha ricordato poi l’assurdo caso del questore di Monza, Ferri, condannato per i fatti di Genova nel 2001, a dimostrazione di come le forze dell’ordine agiscano impunemente, nonostante gravi responsabilità. Eugenio Losco ha in chiusura evidenziato l’uso crescente di strumenti amministrativi come fogli di via, daspo e “zone rosse”, decisi da questori e prefetti senza sentenze né processi. Questi provvedimenti, privi di garanzie, vengono applicati arbitrariamente per allontanare e isolare persone legate a mobilitazioni sociali o politiche, trasformando l’amministrazione in uno strumento di repressione preventiva e controllo politico. Il dibattito ha restituito l’immagine di un potere sempre meno democratico e sempre più disciplinare. Ma anche la possibilità concreta di costruire forme di resistenza non più solo difensive, ma attive. La risposta non può essere l’attesa di un ritorno alla normalità: serve un nuovo fronte di conflitto democratico, che unisca chi lotta nei tribunali, nei parlamenti, nelle scuole, nei quartieri. È bene specificare poi che tutti i relatori, pur con percorsi diversi, hanno sottolineato la necessità di mettere in discussione il carcere come strumento sociale e politico, aprendo a una prospettiva abolizionista che non si limiti a riformare l’esistente, ma immagini modelli di giustizia radicalmente alternativi. Infine, a conclusione della serata, il dibattito si collega anche alla mobilitazione lanciata contro la presenza di Jeff Bezos a Venezia per il suo matrimonio “No space for Bezos, No space for war” (28 giugno). La sua presenza – d’altronde – non è solo un evento mondano, ma un simbolo di un modello tecno-autoritario basato sull’iper-sfruttamento del lavoro, la privatizzazione degli spazi e l’accumulazione algoritmica di potere. Contestare Bezos significa rifiutare questa governance e affermare un’altra idea di futuro, fondato su giustizia sociale, democrazia e difesa dei beni comuni. GUARDA RIPRESE VIDEO SU. GLOBALPROJECT.INFO Redazione Italia
Il nuovo Papa: perché chiamarsi Leone?
Son stati scritti fiumi di parole sull’esito inatteso del conclave e anche sulla ripresa di un nome desueto da oltre un secolo Leone, dicendo troppe banalità. Cerchiamo di decifrare il significato di questa scelta.   VEDIAMO I PAPI LEONE PIÙ ILLUSTRI CITATI DALLA STAMPA IN QUESTI GIORNI: DAI PRIMI SECOLI DELLA CHIESA FINO AL XVI SECOLO Leone I, detto Magno, fu eletto nel 441 e nei suoi 21 anni di regno fu un instancabile combattente per affermare e consolidare il primato del vescovo di Roma, la rigida ortodossia, sconfiggendo le numerose eresie del tempo in particolare sulla natura della figura di Cristo e sulla Trinità. Leone III, Papa dal 795 all’816, incoronò Carlo Magno imperatore del Sacro Romano Impero e stabilì il precedente storico dell’assoluta supremazia del papa sui poteri terreni. Leone IV, Papa dal 847 al 855, fortificò Roma costruendo le Mura Leonine e promuovendo diverse spedizioni armate per sconfiggere i saraceni ed impedirne le scorribande; il giorno di Pasqua dell’850 Leone incoronò imperatore Ludovico, figlio di Lotario, riaffermando il prestigio e il privilegio pontificio di compiere un tale atto. Leone X, Papa dal 1513 al 1521, nato Giovanni de’ Medici, figlio di Lorenzo il Magnifico, fu particolarmente impegnato sul fronte dell’ortodossia, in un momento di particolari tensioni nel mondo della cristianità, evitando il pericolo di uno scisma, ribadendo il dogma dell’immortalità dell’anima, contro le teorie filosofiche degli averroisti e la sottomissione della verità filosofica a quella teologica. Fu il protagonista intransigente della diatriba sulle indulgenze, da lui stesso concesse, sollevata da Martin Lutero, con conclusiva scomunica di quest’ultimo e inizio della Riforma protestante. In generale sono Papi coerenti con il significato allegorico del leone: personalità forti, impegnate nel potenziare l’autorità e l’unità della Chiesa, custodi dell’ortodossia contro le eresie, tendenzialmente teocratici nel ribadire la supremazia del potere spirituale su quello temporale, ovvero sull’allora Sacro romano impero d’Occidente. Il leone era anche il simbolo della Repubblica di Venezia, cattolica, dopo l’anno mille protagonista di un’espansione imperiale e di un’accresciuta potenza economica e politica di prim’ordine. Così il leone di San Marco simboleggiò i caratteri con cui Venezia amava pensare e descrivere sé stessa: maestà, potenza, sapienza, forza militare e pietà religiosa. PAPA LEONE XIII FU DAVVERO UN “PAPA SOCIALE”? Ma in tutti i commenti, anche di intellettuali laici e di “sinistra”, si è voluto enfatizzare il probabile richiamo da parte del nuovo Leone XIV all’ultimo Leone, quello comunemente definito con malcelata ammirazione il “papa sociale”, per confermare la continuità con Papa Francesco. Ma quello fu davvero un papa “sociale e progressista” come lo si vuole rappresentare? Di Leone XIII mi sono occupato a lungo in una delle mie più impegnative ricerche storiche: «Preghiamo anche per i perfidi giudei». L’antisemitismo cattolico e la Shoah, DeriveApprodi, Roma 2018 (pp. 8-44). La favola di Leone XIII “papa sociale” resiste, nonostante Giovanni Miccoli (G. Miccoli, Antisemitismo e cattolicesimo, Morcelliana, Brescia 2013), il più importante storico cattolico italiano, negli ultimi anni della sua vita, abbia approfondito proprio quel periodo cruciale dell’antisemitismo cattolico che si dispiega a cavallo tra Ottocento e Novecento, il periodo in cui l’antisemitismo divenne in Europa un tema costitutivo delle ideologie reazionarie, appunto su impulso proprio del lungo Pontificato di Leone XIII (1878-1903) e dell’iniziativa insistente, quasi ossessiva, della rivista da lui promossa a partire dal 1881, «La Civiltà cattolica», impegnata allo stremo nel combattere l’ebraismo e le ideologie anticristiane dallo stesso derivate, la massoneria, il liberalismo e il socialismo. Quello leonino fu un pontificato straordinariamente forte, come poteva lasciar presagire il nome che scelse il cardinal Pecci al suo insediamento e come riconoscono tutti gli studiosi di storia della Chiesa. Un pontificato molto politico, convintamente interventista nelle vicende terrene contemporanee. Fu questo il vero tratto innovatore rispetto al predecessore Pio IX, il quale di fronte alla modernità, da un canto ne ribadì l’assoluta e totale condanna con il Sillabo, dall’altro condusse la Chiesa a ritrarsi nelle proprie casematte, in una posizione difensiva che poteva risultare alla lunga sterile. Questo indebolimento della Chiesa venne percepito fin da subito da Leone XIII che quindi si impegnò per ricollocarla al centro della scena internazionale: dunque la guerra contro la modernità, perché fosse efficace e vincente per la Chiesa, doveva essere ingaggiata in campo aperto, sul terreno dei grandi cambiamenti economici e sociali in corso, in una contesa aspra, militante, con le società liberali. Leone XIII comprese che, dentro la modernità, la civiltà industriale e tecnologica, che si stava convulsamente sviluppando con la scoperta dei combustibili fossili, irrompeva come un fiume in piena che era impossibile sbarrare. La Chiesa rischiava l’irrilevanza se avesse mantenuto un atteggiamento di totale rifiuto del nuovo, espresso icasticamente da Gregorio XVI, quando bollò come un «satana su rotaia» il primo treno in Italia che il 13 ottobre 1839 ansimò sbuffando sui sette chilometri da Napoli a Portici. Leone XIII, invece, comprese che quei processi tecnologici, economici e sociali, a dispetto della «scomunica» pontificia, si stavano affermando, e che andavano coinvolgendo sempre più estese masse di popolazione, le quali rischiavano di essere scristianizzate dalle ideologie che quel processo assecondavano, liberalismo e socialismo innanzitutto, diffusi dall’ebraismo anticristiano. Ebbene, in quell’agone la Chiesa doveva scendere in campo, accettando la sfida della modernità proprio sul terreno economico e sociale, con l’obiettivo di cristianizzare la modernità stessa, sconfiggendo le ideologie razionaliste e laiciste che si erano affermate con l’Ottantanove. L’obiettivo, apparentemente paradossale, era quello di affermare una sorta di «teocrazia della modernità», ovvero ripristinare il primato assoluto della Chiesa, di impronta medievale, nel mondo nuovo delle innovazioni tecnologiche, della produzione industriale e delle conseguenti trasformazioni sociali: la Cristianità che tornava a governare anche il mondo moderno, reinserendolo in quella civiltà cristiana e in quella visione del mondo che il Medioevo aveva cristallizzato come ordine naturale delle cose modellato dal disegno soprannaturale divino. Cosicché, l’anno dopo della sua elezione, Leone XIII si preoccupò di stabilire, in una delle prime encicliche del suo lungo papato, Aeterni Patris, una salda base teologica, unica per tutta la Chiesa e, in qualche modo, indiscutibile e immodificabile, fondata sulla Somma teologica e l’opera di San Tommaso d’Aquino, un’imperiosa restaurazione di una rigidità teologica, che peraltro durerà a lungo, praticamente fino al Concilio Vaticano II. Si tratta di «una visione teocratica dei rapporti tra la Chiesa e la società civile» in Leone XIII che così lo stesso sintetizzò: «Siccome il fine al quale tende la Chiesa è nobilissimo sopra ogni altro, così la potestà di essa va sopra tutte le altre, e non deve essere, né riputata inferiore ai poteri dello Stato, né a lui in qualche modo sottoposta». Dunque, se da un canto Leone XIII gettò la Chiesa e i cattolici nell’agone politico e sociale, dall’altro si preoccupò con grande energia di restaurare una rigida ortodossia teologica, il tomismo, e di ribadire la più ferma condanna delle ideologie che avevano ispirato la modernità: «Non si trattava di una resa davanti alla modernità. Né si trattava di contrapporsi semplicemente alla modernità. Cominciava un confronto, non certo ancora un dialogo, per di più talvolta ancora molto aspro». Il suo programma che è quello di ricostruire e restaurare una nuova Civiltà dandole come tessuto principale e come anima i valori e la filosofia del Vangelo poiché la Società moderna «è caratterizzata da un universale sovvertimento dei principi dai quali, come da fondamento, è sorretto l’ordine sociale». Come si vede, papa Leone non aveva assolutamente in mente la riconciliazione con la modernità, ma la sua sconfitta tramite la confutazione dei falsi principi sui quali essa si fondava per potere restaurare la Cristianità avversata dalla modernità e dalle sette dirette dal giudaismo talmudico. A questo proposito, Leone XIII gestì direttamente i tre casi critici dell’antisemitismo cattolico dell’epoca: la vicenda del partito cristiano sociale austriaco, la posizione dei cattolici francesi rispetto all’affaire Dreyfuss e infine la credenza del rito del sangue nella Pasqua ebraica. La prima vicenda riguarda il primo esperimento, vincente, di discesa in campo in Europa di un partito cattolico, il Partito cristiano sociale austriaco, che partecipò e vinse le elezioni per il comune di Vienna. L’esperimento austriaco fu in sostanza il primo banco di prova dell’enciclica di Leone XIII Immortale Dei del 1º novembre 1885, sulla costituzione cristiana degli Stati, che per permetteva finalmente ai cattolici di intervenire nell’agone politico (non ancora a quelli italiani per il trauma della breccia di Porta Pia). Il leader, Karl Lueger, ispirandosi alla Rerum novarum, elaborò un programma che, riprendendo la critica pontificia al capitalismo ed al marxismo, rappresentava questi fenomeni della modernità come prodotti, in certo modo complementari, della mente ebraica, fondendo questi nuovi temi con il secolare odio per gli ebrei della tradizione cattolica. Karl Lueger, leader carismatico e autoritario di un partito che si presentò come antisemita, fu borgomastro ininterrottamente dal 1895 al 1910, benedetto da Leone XIII e considerato dal giovane Adolf Hitler il modello su cui costruire il suo progetto politico e la sua figura di Führer. La seconda è quella dell’altro tentativo del partito cristiano francese di sfruttare il caso Dreyfuss per conquistare un ruolo di governo nello schieramento reazionario e antisemita. In questo caso, come sappiamo, il progetto di Leone XIII incontrò una bruciante sconfitta. Prima però ebbe modo di lasciare una eredità gravida di calamità per gli ebrei europei, alla luce degli eventi futuri. Il 25 e 26 novembre 1896, nel periodo infuocato dell’affaire Dreyfus, si tenne a Lione il primo congresso nazionale di questo partito voluto da Leone XIII, la Democrazia cristiana, articolato in tre sessioni, la prima antimassonica, la seconda antisemita e la terza sociale. Ebbene questo congresso, benedetto in apertura con una missiva dal Papa, elaborò la prima proposta in Europa di una legislazione antisemita, debitamente articolata e dettagliata, che avrebbe rappresentato il modello per le leggi di Norimberga del nazismo del 1935. Il terzo caso è quello della credenza cattolica nell’omicidio rituale da parte degli ebrei: si riteneva che gli ebrei in occasione della loro Pasqua uccidessero un bambino cristiano per prelevargli del sangue con cui condire il pane azimo rituale. Ebbene, verso la fine del 1899, dopo un ventennio di accuse processi e tumulti in diversi Paesi d’Europa, un gruppo influente di cattolici inglesi, tra cui Lord Russell e lo stesso cardinale di Westminster, presentarono a Leone XIII un’istanza perché questa credenza, ritenuta del tutto infondata, venisse condannata dalla Santa Sede. Il Sant’Uffizio, investito della questione, il 25 luglio 1900 statuiva che la dichiarazione richiesta non poteva essere data, cui seguiva l’approvazione il 27 di Leone XIII: nella sostanza il Papa rigettava l’istanza dei cattolici inglesi con la sottintesa motivazione, «perché gli omicidi rituali che si vorrebbero negare sono invece realmente accaduti», peraltro esplicitata in un manoscritto che accompagnava la risoluzione. Il tema, anzi, divenne ricorrente nella campagna denigratoria nei confronti degli ebrei de «La Civiltà cattolica», tema ripreso come è noto dalla campagna dei nazisti e del fascismo di Salò per sostenere la necessità della Shoah. Dunque, paradossalmente, l’antisemitismo ridiventava un cardine della politica e del magistero della Chiesa, proprio quando la stessa in qualche modo «si apriva» alla modernità, superava il puro e semplice atteggiamento di rifiuto, scendeva sul terreno della nuova società per combattere una battaglia campale per la riaffermazione del primato della cristianità sulla modernità stessa, contro le ideologie scristianizzanti, dal razionalismo al liberalismo, al socialismo. Ed era su questo terreno che la Chiesa riscopriva negli ebrei uno degli ostacoli maggiori al compimento della sua missione. Del resto l’antisemitismo era un pilastro fondamentale del pensiero reazionario di fine Ottocento: il rifiuto del liberalismo, della laicità dello Stato, dei principi dell’Ottantanove, del socialismo si associava all’individuazione degli ebrei come principali ispiratori di questi movimenti ed ideologie, ebrei per di più emancipati dal ghetto proprio grazie alla Rivoluzione francese, in grado così di dispiegare finalmente tutta la loro «nefasta» volontà di rivalsa nei confronti della civiltà cristiana. Fino a qui la coerenza del pensiero e dell’azione di Leone XIII può apparire persino scontata. Ciò che può sorprendere è il lato sociale, presente nella Rerum Novarum. Ma anche questo è un dato in verità ricorrente nel pensiero politico reazionario tra Ottocento e Novecento. Lo si è visto per i cristiano sociali austriaci; lo si vedrà con il fascismo italiano, nel programma del 1919 ripreso poi con la Carta di Verona della Repubblica sociale; lo si vedrà nel movimento politico costruito da Hitler, non incidentalmente chiamato Partito nazionalsocialista dei lavoratori, con la bandiera su fondo rosso, colore intenzionalmente mutuato dai vessilli del movimento operaio e socialista. Almeno nei programmi, il pensiero reazionario e antimoderno spesso adottò accenti anticapitalisti, essendo anche il capitalismo in certo modo filiazione del liberalismo, e si cimentò sul piano sociale proprio con l’obiettivo di sottrarre le masse operaie all’influenza del socialismo, divenuto ormai più pericoloso e temibile dello stesso liberalismo. Dunque antisemitismo e Rerum Novarum non solo non confliggevano, ma facevano parte di una visione coerente che Leone XIII aveva sistematizzato in una strategia di lungo periodo di scardinamento delle ideologie della modernità. Del resto, occorre ricordarlo, i pontefici che seguirono nel corso della prima metà del secolo scorso, Pio X, Benedetto XV, Pio XI e Pio XII, si mossero sostanzialmente all’interno del solco teologico, ideologico e politico tracciato in profondità dal papato leonino. Si dovranno attendere papa Giovanni XXIII ed il concilio Vaticano II, agli inizi degli anni Sessanta, perché la Chiesa cattolica uscisse da quel solco profondo ed angusto, riconoscesse «i segni dei tempi» e aprisse un dialogo vero con le culture laiche della modernità, con le confessioni non cattoliche e con le religioni non cristiane, quindi anche con l’ebraismo. Infine, Se poi qualcuno vuole conoscere più a fondo la figura di Leone XIII consiglio la piacevolissima lettura del folgorante romanzo-inchiesta di Émile Zola, Roma, Paris 1896, ed. it. Bordeaux, Roma 2014. CONCLUSIONI In conclusione, Robert Francis Prevost tutto quanto detto sopra a proposito di Leone XIII e degli altri Papi Leone lo conosce bene, essendo un plurilaureato e un profondo studioso della Chiesa. E la scelta di Leone ha ragioni profonde che non hanno nulla a che vedere con la presunta “sensibilità sociale” e quindi con la continuità con Papa Francesco. E la novità va ben oltre il pur simbolico ripristino dei paramenti e della Croce che rappresentano il potere papale. Programmaticamente vorrebbe essere un papato forte, autorevole nella Chiesa, fermo nell’affermare e conservare l’ortodossia, ma anche influente sulle sorti del mondo ricostruendo il primato della Chiesa cattolica, come furono i Leone che lo hanno preceduto. Chissà, forse per la Chiesa si tratta di una scelta lungimirante come fu quella di Giovanni Paolo II, per l’esito della crisi del bipolarismo (Paolo Mieli è a questo papa che lo paragona, non a Francesco). In questo caso potrebbe essere un tentativo della Chiesa di salvare l’Occidente in crisi, in particolare il paese guida, gli Usa, dilaniato da contrasti interni autodistruttivi. È l’ipotesi di Cosimo Risi, già diplomatico e Ambasciatore d’Italia in Svizzera, ora insegnante di Diritto Internazionale all’Università di Salerno. E il richiamo nei primi discorsi alla potente tecnologia digitale dei nostri tempi, in particolare all’intelligenza artificiale, che nella versione transumanista dovrebbe generare una sorta di nuova specie umana liberata dai limiti della propria condizione, potrebbe far intendere il senso della scelta del nome, ovvero la volontà di riaffermare i valori eterni del messaggio di Cristo anche su questo terreno particolarmente insidioso, in cui gli umani potrebbero immaginarsi onnipotenti e non più bisognosi del conforto della religione: insomma, si tratterebbe di cristianizzare oggi l’intelligenza artificiale, come ai tempi di Leone XIII la macchina a vapore. Staremo a vedere. Una cosa è certa: assisteremo a un cambiamento importante rispetto a Papa Francesco.   > Il nuovo Papa: perché chiamarsi Leone? Redazione Italia