Quando il potere normalizza la violenza: anatomia di una deriva autoritaria
Dal carcere di Ilaria Salis alla legge sicurezza, il dibattito a Sherwood
Festival smaschera la deriva autoritaria che trasforma la giustizia in arma e
cancella il conflitto dalla democrazia. Un confronto tra esperienze, lotte e
visioni per costruire nuove forme di resistenza_
All’interno di Sherwood Festival, il dibattito “Violenza del potere e deriva
autoritaria” ha visto protagoniste tre figure centrali del presente giuridico e
istituzionale: Ilaria Salis, europarlamentare, Eugenio Losco, avvocato
penalista, e Alessandra Algostino, professoressa di diritto costituzionale
all’Università di Torino. In dialogo con l’avvocato Giuseppe Romano, i relatori
hanno offerto un’analisi condivisa: lo Stato democratico, in Italia come in
Europa, ha tradito le sue promesse di garanzia e diritti, trasformando la legge
in strumento di controllo, la giustizia in arma, la repressione in prassi
ordinaria.
Ilaria Salis ha aperto il confronto raccontando la propria esperienza carceraria
e giudiziaria, non come vicenda individuale, ma come esempio sistemico. Ha
ricostruito i quindici mesi di detenzione preventiva in Ungheria come forma
deliberata di violenza, volta a spezzare non solo la volontà dell’imputato, ma
anche il legame con la propria comunità politica. Ha denunciato l’uso della
custodia cautelare come deterrente, il tentativo di farne un simbolo negativo, e
la funzione della repressione giudiziaria come strumento di dissuasione diffusa.
Secondo Salis, «non si colpisce un individuo per ciò che fa, ma per ciò che
rappresenta». Il caso giudiziario diventa costruzione simbolica: la detenuta
antifascista trasformata nel “mostro” su cui proiettare una narrazione d’ordine.
Ma questa narrazione, ha osservato, si è incrinata. «La mia immagine in catene
non ha generato paura, ma indignazione». E tuttavia, ha ricordato, ciò è stato
possibile solo perché il suo corpo – bianco, femminile, istruito – rientrava nei
confini dell’empatia mediatica. «Altri corpi non fanno notizia: migranti,
detenuti nei CPR, reclusi senza visibilità politica. Per loro, la repressione
resta invisibile e sistemica».
Ancora oggi, da europarlamentare, Salis denuncia come la repressione non finisca
con la liberazione fisica: pende su di lei una richiesta di revoca dell’immunità
parlamentare da parte delle autorità ungheresi, giunta subito dopo un suo
intervento critico verso il governo Orbán. Per Salis, la repressione non si
limita a tribunali e carceri: si estende a decreti, conferenze stampa, leggi.
Durante il suo intervento, ha richiamato il caso di Maya T., militante
antifascista tedesca detenuta in Ungheria per accuse analoghe. Maya rischia fino
a 24 anni di carcere: una vicenda che testimonia l’accanimento repressivo e la
sproporzione giudiziaria. Attualmente in sciopero della fame, la sua situazione
è emblematica della criminalizzazione dell’antifascismo in Europa. A lei, Salis
ha rivolto un abbraccio solidale: gesto politico e invito alla mobilitazione
internazionale contro l’arbitrio giudiziario.
Eugenio Losco, avvocato difensore di Salis, ha ricostruito il processo di
Budapest come esempio lampante di giustizia politica. Emblematica l’assurdità
dell’impianto accusatorio: tra i capi d’imputazione figura la presunta
“violazione dei diritti di una minoranza”, riferita – paradossalmente – a
soggetti appartenenti a gruppi neonazisti. A ciò si sommano gravi criticità
procedurali: Salis ha affrontato il processo in un contesto linguistico
incomprensibile, con limitati contatti con l’esterno e ostacoli costanti al
pieno esercizio del diritto alla difesa.
Losco ha denunciato la sproporzione tra i reati contestati e la detenzione
inflitta, l’assenza di garanzie fondamentali e l’impostazione ideologica di una
magistratura che premia l’estrema destra e punisce l’antifascismo. E soprattutto
ha sottolineato come questo modello – apparentemente distante – stia rapidamente
riproducendosi anche in Italia.
A completare il quadro, l’intervento di Alessandra Algostino ha collocato la
repressione del dissenso all’interno di una più ampia trasformazione
autoritaria, che ha definito “tecnofeudalesimo”: un sistema in cui il potere si
concentra in mani opache e verticali, svuotando gli spazi democratici. In questo
contesto, ha rivendicato la legittimità delle mobilitazioni studentesche, che
rompono la narrazione dominante e riaffermano il diritto al conflitto. Ha
criticato duramente la retorica istituzionale che etichetta ogni contestazione –
come quelle contro Roccella – come “violenza”, evidenziandone la funzione
repressiva e silenziatrice.
Nel secondo giro di interventi, Salis ha decostruito con forza il concetto di
“sicurezza” nel discorso politico dominante, mettendone in luce l’uso
strumentale e repressivo. La sicurezza – ha detto – non è più tutela dei diritti
o delle condizioni di vita, ma controllo, ordine pubblico e punizione. Si
criminalizzano poveri, occupanti, attivisti, mentre le politiche securitarie
colpiscono chi rivendica giustizia sociale. La retorica del “furto di case” ha
solo legittimato la repressione delle occupazioni e giustificato interventi
penali sproporzionati. In questo scenario, lo Stato non appare più come garante,
ma come apparato punitivo al servizio di proprietà e privilegio.
Losco ha poi affrontato la recente “legge sicurezza” (ex ddl 1660-1236),
definendola una mutazione profonda dell’ordinamento giuridico. Non reprime solo
condotte pericolose: seleziona soggetti da colpire. «Il legislatore non punisce
un reato. Costruisce un nemico. E poi scrive la norma per colpirlo». Chi lotta
per la casa, chi partecipa a un picchetto, chi blocca una strada, diventa
destinatario di norme penali scritte appositamente per intimidirlo.
Il nuovo reato di blocco stradale, le aggravanti per resistenza in
manifestazione, le sanzioni per chi sostiene occupazioni: strumenti pensati per
disattivare la solidarietà. Parallelamente, lo Stato garantisce tutela giuridica
e protezione economica a chi esercita la forza, ovvero le forze dell’ordine,
sempre più armate e sempre meno responsabili. «Si configura un doppio binario:
repressione per chi contesta, immunità per chi reprime».
Particolare attenzione è stata posta all’incremento delle garanzie accordate
alla polizia: non solo nuove prerogative operative – come il porto d’armi fuori
servizio – ma anche coperture legali e finanziarie che allontanano ogni forma di
accountability. Le forze dell’ordine non solo agiscono con maggiore libertà, ma
vengono sollevate dal dovere di rispondere delle proprie azioni, grazie a fondi
pubblici per la difesa legale e a un clima politico che scoraggia ogni indagine.
«In questo assetto – ha detto – la polizia non è più un corpo al servizio della
legge, ma una zona franca autorizzata a esercitare la forza con copertura
preventiva».
Algostino ha quindi messo in discussione la legittimità costituzionale
dell’intero impianto normativo. Secondo lei, assistiamo a un vero e proprio
rovesciamento del principio democratico. La Costituzione nasce per limitare il
potere, tutelare i diritti e riconoscere il conflitto. La nuova legislazione, al
contrario, lo rimuove, sanziona il dissenso, nega la solidarietà. «Il decreto
sicurezza è incostituzionale nell’anima». «Il conflitto rende vitale la
democrazia; il dissenso è un suo elemento essenziale»
Algostino ha denunciato l’espulsione della Costituzione dal linguaggio politico
e legislativo. «Oggi si legifera come se la Costituzione non esistesse più». Non
è solo una questione di articoli violati, ma di perdita di senso complessivo. La
democrazia italiana è nata riconoscendo il diritto alla disobbedienza, alla
protesta, alla lotta sociale. La legge sicurezza nega questi spazi. La norma
diventa strumento d’ordine, non di giustizia.
In questa cornice, il diritto non limita più il potere, ma ne diventa
giustificazione. Lo Stato si configura sempre più come apparato coercitivo,
autoritario, selettivo. E la deriva non è episodica: è strutturale.
Con uno sguardo che intreccia analisi costituzionale e pensiero critico,
Algostino ha chiarito che non si tratta di una semplice deviazione autoritaria,
ma di un cambiamento strutturale del paradigma politico. Ha denunciato
l’introduzione, nella legge sicurezza, di aggravanti costruite per
criminalizzare il dissenso organizzato, in particolare contro le grandi opere. È
il caso del movimento No TAV, cui lo Stato ha risposto con sorveglianza,
intimidazione e carcere. Una norma confezionata per disinnescare un conflitto
legittimo.
Richiamandosi a Walter Benjamin, ha sostenuto che il diritto, quando non è
strumento di giustizia, diventa puro esercizio di forza. Non regola il potere,
ma lo esprime nella sua forma più nuda: violenza legittimata. In questo schema,
lo Stato non punisce reati, ma definisce i nemici: migranti, poveri,
dissenzienti. È questa la logica del diritto penale del nemico.
Ma Algostino è andata oltre, evidenziando come questa visione del potere sia non
solo autoritaria, ma neoliberale. Un potere che si presenta come neutro,
tecnico, inevitabile e che, in nome dell’efficienza e della sicurezza, espelle
il conflitto dalla democrazia. Il dissenso non viene ascoltato né rappresentato:
viene patologizzato, punito, escluso.
Secondo lei, la democrazia non è solo sotto attacco: è già in parte svuotata. La
legge sicurezza lo dimostra: non ammette pluralismo, non tollera opposizione,
non contempla solidarietà. Solo ordine, decoro, disciplina.
Nel passaggio finale, il dibattito si è spostato sull’istruzione con
l’intervento di Gaia Righetto, docente precaria e attivista, recentemente
oggetto di una campagna mediatica per il suo impegno politico. La sua vicenda
mostra come anche la scuola diventi oggi terreno di repressione. Righetto ha
raccontato come la precarietà sia usata come forma di controllo: chi insegna con
contratti temporanei è spinto a non esporsi, a non deviare dalla “neutralità”
imposta.
Secondo lei, non si colpisce più solo chi occupa o protesta, ma anche chi educa
alla critica. «Si vuole una scuola addomesticata, senza conflitto, senza
pensiero. Una scuola che formi cittadini docili, non consapevoli». Gli attacchi
che ha subito non sono casuali, ma parte di una strategia più ampia:
delegittimare chi ha voce e mette in discussione l’autorità.
Ilaria Salis ha quindi poi espresso piena solidarietà a Gaia Righetto,
sottolineando come la repressione colpisca non solo chi protesta, ma anche chi
educa alla critica e al pensiero libero. Ha ricordato poi l’assurdo caso del
questore di Monza, Ferri, condannato per i fatti di Genova nel 2001, a
dimostrazione di come le forze dell’ordine agiscano impunemente, nonostante
gravi responsabilità.
Eugenio Losco ha in chiusura evidenziato l’uso crescente di strumenti
amministrativi come fogli di via, daspo e “zone rosse”, decisi da questori e
prefetti senza sentenze né processi. Questi provvedimenti, privi di garanzie,
vengono applicati arbitrariamente per allontanare e isolare persone legate a
mobilitazioni sociali o politiche, trasformando l’amministrazione in uno
strumento di repressione preventiva e controllo politico.
Il dibattito ha restituito l’immagine di un potere sempre meno democratico e
sempre più disciplinare. Ma anche la possibilità concreta di costruire forme di
resistenza non più solo difensive, ma attive. La risposta non può essere
l’attesa di un ritorno alla normalità: serve un nuovo fronte di conflitto
democratico, che unisca chi lotta nei tribunali, nei parlamenti, nelle scuole,
nei quartieri.
È bene specificare poi che tutti i relatori, pur con percorsi diversi, hanno
sottolineato la necessità di mettere in discussione il carcere come strumento
sociale e politico, aprendo a una prospettiva abolizionista che non si limiti a
riformare l’esistente, ma immagini modelli di giustizia radicalmente
alternativi.
Infine, a conclusione della serata, il dibattito si collega anche alla
mobilitazione lanciata contro la presenza di Jeff Bezos a Venezia per il suo
matrimonio “No space for Bezos, No space for war” (28 giugno). La sua presenza –
d’altronde – non è solo un evento mondano, ma un simbolo di un modello
tecno-autoritario basato sull’iper-sfruttamento del lavoro, la privatizzazione
degli spazi e l’accumulazione algoritmica di potere. Contestare Bezos significa
rifiutare questa governance e affermare un’altra idea di futuro, fondato su
giustizia sociale, democrazia e difesa dei beni comuni.
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Redazione Italia