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Germania: “Obiettiamo perché la pace richiede coraggio”
Nella notte tra giovedì 4 e venerdì 5 dicembre gli attivisti della campagna Wir verweigern! (Obiettiamo!) hanno modificato alcuni manifesti dell’esercito tedesco per richiamare l’attenzione sul diritto all’obiezione di coscienza e contrastare la propaganda a favore della guerra e della violenza. “Per me, che sono giovane, è inquietante vedere ovunque questa pubblicità a favore della guerra, una guerra in cui lo Stato vuole mandarmi con il servizio militare obbligatorio. La mia vita non è una vostra risorsa!”, spiega uno degli attivisti. Wir verweigern! è una campagna di un gruppo giovanile che invita alla disobbedienza civile di massa e oppone resistenza al riarmo e al servizio militare obbligatorio. All’inizio di settembre gli attivisti hanno scritto con lo spray sulla parete esterna dell’asilo nido del Bundestag: «Obbligate anche i vostri figli a uccidere?». Scritte in bianco: Fai quello che conta davvero. 70 motivi per l’esercito tedesco. Perché non possiamo cedere ad altri la responsabilità. Trova i tuoi motivi. 70 anni dell’esercito tedesco. Scritta in rosso su “responsabilità”: uccidere. Scritte in bianco: Perché i diritti fondamentali non si difendono da soli. Trova i tuoi motivi. 70 anni dell’esercito tedesco. Scritta in rosso su “diritti fondamentali”: Capitalisti. La protesta contro il servizio militare obbligatorio sta crescendo. Organizzazioni giovanili e studentesche di tutta la Germania invitano oggi, venerdì, a uno sciopero nazionale contro la visita medica obbligatoria. Uno degli attivisti ha commentato: «Non vogliamo morire per uno Stato che non si prende cura di noi. Le nostre scuole e le nostre università stanno cadendo a pezzi, le nostre pensioni stanno svanendo e stiamo vivendo il pieno impatto della catastrofe climatica. Come se non bastasse, ora dovremmo anche uccidere ed essere uccisi in prima linea per gli interessi di potere di altri. Ma siamo chiari: rifiuteremo il servizio militare». Comunicato stampa widerstands-kollektiv.org del 5 dicembre 2025 Pressenza Berlin
La morbida durezza del tatami. Come affrontare la differenza della disabilità
Quando il tatami diventa un luogo di cura, crescita e inclusione per bambini e adolescenti Oggi utilizziamo la giornata internazionale delle persone con disabilità per parlare di un’iniziativa che riflette molto bene l’attività quotidiana del lavoro sul territorio campano, un fare costante e continuo che avvicina la fragilità e le neurodivergenze. In particolare, ci riferiamo al progetto Katautism appena partito all’interno dell’Istituto Comprensivo “De Amicis” a Succivo. Il paese campano accoglie la proposta della Federazione Nazionale Fijlkam (Federazione Italiana Judo Lotta Karate Arti Marziali) e osa un percorso innovativo e sperimentale avvalendosi di interventi psicologici specialistici: la disciplina judoka offre, quindi, alla comunità l’arte di alimentare, all’interno dell’individuo, una mentalità solidale e attenta al senso dell’essere giusti e del diritto alla libera scelta, tenta lo sviluppo della capacità di simbolizzare psichicamente la pratica dello stare in relazione con l’altro, creando, gradualmente e attraverso la guida dei maestri, un cambiamento nell’individuo e nel suo mondo interno, una trasformazione nel suo sé che, ad un certo livello, può definirsi profonda e strutturale. Il judo, in questo senso, ha molti punti in comune con la cura psicologica. La lotta sul tatami, tappeto da combattimento utile come superficie sicura per l’allenamento e le competizioni, è la conquista di un’esperienza di fiducia e di incontro con l’altro e insegna che imparare a cadere può diventare un vissuto di valore. La caduta, cioè, viene colta nel suo significato intrinseco dell’imparare-a-cadere-per-rialzarsi e, in tal senso, l’arte marziale del judo esprime la capacità di sollevarsi dalla caduta attraverso lo sguardo dell’altro avversario che tiene vivo l’atleta messo al tappeto condividendo con lui il vissuto di impotenza, in questo modo lo aiuta in un momento di sconcerto e fragilità. Potremmo pensare che il tatami, come base sufficientemente morbida su cui cadere, esprime la forza, il coraggio e il senso del giusto, insomma, con il judo c’è la possibilità di vivere un’esperienza di morbida durezza, ossimoro che ci porta ad immaginare il rapporto stretto che questa disciplina ha con l’essere umano e la sua comunità. Soprattutto, il progetto mette in evidenza molto bene la forte relazione tra l’Arte Marziale, la Psicologia e la Politica come rete necessaria affinché si possa creare un ambiente stabile, solido e affidabile, fonte di sviluppo e vera crescita nei bambini e negli adolescenti. L’obiettivo è di poter pensare, dentro un microcosmo qual è la scuola, ad esempio il dojo, luogo della “pratica marziale” come crescita e miglioramento personale, una modalità nuova di stare in relazione con l’altro e fare in modo che l’individuo possa esprimere le regole valoriali, apprese nella tecnica judoka, all’interno della società e dell’ambiente in cui vive. Lo scopo più lungimirante è provare a sviluppare, in ciascuno, il senso della cura per l’altro e, contemporaneamente, per sé. Manifestare, insomma, la necessità di proteggere i diritti dei più deboli e sentirne l’impegno e il dovere, e costruire una comunità in cui la vera forza è sentirsi meno spaventati ed esprimere, perciò, la libertà delle differenze nella loro molteplicità. Il progetto ricorda, e sottolinea, che il divertimento e il piacere sono ingredienti fondanti per poter imparare a vivere e a lottare per la conquista del diritto dello stare insieme in pace che non è assenza di conflitti, ma, al contrario, è renderli vivi e animati. Antonella Musella
Un agronomo romano trapiantato in Trentino e un pastore valdese al ritorno dalla Palestina
I due si incontreranno la sera di giovedì 4 dicembre al webinar, aperto alla partecipazione di tutti gli interessati, sul tema “Cisgiordania tra uccisioni, devastazioni e nuovi insediamenti. Quale pace?”. L’iniziativa è promossa dal gruppo DALLA PARTE DI ABELE. A riferire della situazione nei Territori Occupati e in particolare sui cristiani in Palestina sarà Michel Charbonnier, pastore della comunità valdese di Torre Pellice dal 2019, precedentemente a Trieste e Bologna, inoltre membro del Comitato centrale del Consiglio Ecumenico delle Chiese (WCC), che nei giorni scorsi ha partecipato al Convegno di Kairos Palestina dove è stato approvato il documento KAIROS II – Momento di verità: la fede al tempo del genocidio, un appello rivolto ai cristiani palestinesi e di tutto il mondo per sollecitare il loro rifiuto dell’ingiustizia e dell’apartheid e a impegnarsi con coraggio per contrastare il genocidio, la colonizzazione e la pulizia etnica e per gettare le basi e consolidare le prospettive di una pace giusta e duratura. Insieme a lui interviene Pier Francesco Pandolfi De Rinaldis, agronomo, anche formatore e progettista nell’agricoltura sociale, che come volontario dell’Associazione Pace per Gerusalemme ha appena trascorso un periodo in Cisgiordania per cooperare alla raccolta delle olive e con l’Unione dei lavoratori agricoli palestinesi. L’incontro con loro è stato organizzato in sinergia con alcune realtà, non solo evangeliche: la Commissione Globalizzazione e Ambiente (GLAM) della FCEI, il Centro interconfessionale per la Pace (CIPAX) e la rete di Ambasciatori e Ambasciatrici di Pace dell’UCEBI.   CISGIORDANIA TRA UCCISIONI, DEVASTAZIONI E NUOVI INSEDIAMENTI. QUALE PACE? giovedì 4 dicembre, in serata – dalle 20:30 alle 22:30 * ZOOM https://us06web.zoom.us/j/89437655980 * ID riunione 894 3765 5980 Maddalena Brunasti
Lo sfregio alla sinagoga di Monteverde è una provocazione contro la pace
Il Comitato Monteverde per la Pace esprime massima solidarietà alla comunità ebraica romana, offesa dall’atto vandalico compiuto nel cuore della notte tra domenica e lunedì 1° dicembre da ignoti incappucciati che hanno sfregiato la targa in ricordo del piccolo Stefano Gaj Tachè, vittima dell’attentato dell’82 al Tempio maggiore di Roma, posta all’ingresso della sinagoga del quartiere Monteverde a Roma. Viviamo in un momento storico in cui tutti i piani sembrano confondersi: legittima e auspicabile opposizione alle politiche genocidarie dello Stato d’Israele, l’appartenenza alla religione ebraica che nulla ha a che fare con il fanatismo messianico che anima l’oppressione e la violenza contro il popolo palestinese sia a Gaza che in Cisgiordania, l’accusa di antisemitismo, mai sopito in Europa, strumentalmente evocato dalle forze reazionarie per contrastare il legittimo sdegno suscitato nel mondo dal genocidio in atto del popolo palestinese. Come Comitato per la pace abbiamo partecipato alla manifestazione antifascista indetta dall’Assemblea autonoma di Monteverde che si è svolta pacificamente domenica 30 novembre scorso, con la partecipazione di molti giovani, per protestare contro le ripetute aggressioni di stampo squadrista e sionista nel nostro quartiere e auspichiamo che i responsabili dell’atto vandalico siano al più presto individuati a seguito delle indagini in corso. Roma – Monteverde, 2 dicembre 2025 Redazione Italia
Discutere e agire con l’intelligenza del cuore
Ho letto il libro “Gandhi ad Auschwitz” di Antonio Minaldi pochi giorni dopo aver letto “La banalità del male” di Hannah Arendt, riflettendo attraverso l’uno e l’altro sul genocidio nazista degli ebrei e sul genocidio del popolo palestinese ad opera del governo israeliano, sulla violenza che inonda un intero popolo, con il sonno della ragione e il rifugio nella follia di un solo uomo che prende il posto della coscienza delle persone: non solo di quelle semplici e ingenue, ma anche di intellettuali e studiosi con posti di responsabilità. Allora come ora, la violenza penetra e infiamma fino a lanciarsi nella guerra, immaginando nuove prospettive del mondo. Minaldi parla in prima persona da quella prospettiva dove non c’è desiderio di dominio sugli altri, ma voglia di rivoluzione, del cambiamento “ora e subito”. E per la rivoluzione dovremmo anche essere disposti a pagare un prezzo di sangue, purché essa sia realizzata al più presto -e comunque nell’arco della nostra vita- liberando il mondo da ogni ingiustizia. Questo prezzo è stato pagato per la rivoluzione francese, per i moti rivoluzionari dell’Ottocento, per la Comune di Parigi, e poi ancora per la Rivoluzione di Ottobre e quella Cinese, fine a quella Cubana e così sarà ancora. Io, se avessi potuto decidere, avrei voluto vivere in uno di quei tempi, anziché penare ora nel tempo del declino del capitalismo con scenari di guerra e senza una via di uscita come quella che pensammo di avere nel ’68. Minaldi, tuttavia, si chiede se è bene domandare a ognuno di essere pronto a rinunciare alla propria vita pur di fare la rivoluzione. E vengono avanti i suoi dubbi. Anche io cominciai a domandarmi, appena quattordicenne nel 1968, perché, se ci fosse stata una rivoluzione vincente, alcuni combattenti non avrebbero potuto vedere il trionfo dei loro ideali e non avrebbero passato il resto della loro in quella società giusta e ugualitaria che avevano contribuito a creare. Mi sono tornati alla mente alcuni esempi, e il più vivo di tutti riguarda “el Vaquerito” un adolescente pastore di mucche che aveva seguito sin dall’inizio il Che fino a Santa Clara. E lì, quando ormai l’esercito di Fulgentio Batista si era arreso, cercò di scovare alcuni cecchini che continuavano a sparare dall’alto di un campanile. Stando dietro un muro, “el Vaquerito” individuò il luogo da cui provenivano gli spari e sollevò un attimo la testa per vedere in faccia chi sparava. Questo gli fu fatale perché in quell’attimo il cecchino lo colpì in fronte. El Vaquerito morì all’istante. E nella sua giovane vita non vide i cambiamenti di Cuba rivoluzionaria. La sua vita se ne andò per la canna di un fucile e l’universo cadde nel nulla con tutte le stelle, il sole e la luna. Molti tra i filosofi da me studiati al liceo dicevano che la vita, l’universo, Dio stesso, esistono se qualcuno li avverte, li vede, li percepisce. Ma se nessuno sente, vede, percepisce, tutto il creato è come se non fosse mai esistito perché l’universo è in noi. E gli esempi potrebbero continuare: con la foto del miliziano che cade per difendere la repubblica spagnola, e perfino con il computer umanizzato di “2001 odissea nello spazio”. Perciò oggi sono d’accordo Minaldi: una rivoluzione è più giusta se fa meno vittime. E non solo fra i rivoluzionari, ma anche fra gli avversari: perché questi potenzialmente passerebbero dalla parte dei rivoluzionari se appena riconoscessero i benefici della rivoluzione. E se negli anni ’60 e ’70, con un certo romanticismo, approvavamo l’idea che per la rivoluzione un prezzo di sangue avremmo potuto versarlo, dopo il riflusso degli anni ’80 sempre meno sono quelli che vorrebbero stare nelle file degli immolati. E dunque abbiamo cominciato a credere in una rivoluzione che cambi il mondo per tutti, senza sacrificare alcuno. Ci siamo ricordati allora della “Rivoluzione dei figli dei fiori”, della “Rivoluzione dei Garofani” nel Portogallo del 1974, e “dei venti rivoluzionari” in America Latina con i governi eletti dal popolo, e del movimento zapatista. Antonio Minaldi arriva a immaginare Gandhi disteso sui binari che portavano ad Auschwitz come l’inizio di una rivoluzione pacifista. La realtà è più fosca, però. E la lunga cronaca del processo ad Eichmann nel libro di Arendt si conclude con tristi considerazioni. Da dove sorge l’immensa violenza della dittatura nazista, e poi: il popolo tedesco è più colpevole degli altri popoli? Oggi dobbiamo dar ragione a quelli che con disincanto rispondevano che la follia nazista poteva ripetersi ancora: perché oggi abbiamo sotto gli occhi il genocidio del popolo palestinese voluto dal governo, dall’esercito e dai coloni israeliani. In un paese che è considerato una democrazia occidentale, la maggioranza degli elettori ha votato Netanyahu, ora ricercato dalla Corte Penale Internazionale come criminale di guerra. Non è solo colpa del funzionamento delle democrazie occidentali dove i cittadini hanno parola una volta ogni 5 anni e non possono mandare a casa anzitempo chi tradisce la loro fiducia. Alzando lo sguardo, scopriamo che la violenza della guerra genocida alligna nel desiderio forte di eliminare quelli che non sono della nostra razza, della nostra religione, delle nostre tradizioni. Lo sterminio degli ebrei maturò nel progetto imperialista e colonialista dei nazisti, che arrivò a contagiare le stesse vittime del popolo ebraico che fornivano ad Eichmann gli elenchi delle persone da trasferire nei campi di concentramento, anche quando fu chiaro che non di trasferimento si trattava, ma di massacro. Eichmann era davvero un uomo banale come ce ne sono tanti anche oggi. Eseguiva gli ordini impartiti mandando a morire anche gli ebrei di cui era stato fino a poco prima amico e conoscente. Al suo processo disse di non essere mai stato attraversato da dubbi nella sua coscienza, perché poneva ogni fede in Hitler, al quale aveva giurato, come tutti gli ufficiali tedeschi, fedeltà: non alla nazione, dunque, non allo stato con le sue leggi, non al popolo, ma fedeltà ad un uomo soltanto: Adolf Hitler. Il processo ad Adolf Eichmann giunse 15 anni dopo quello di Norimberga. Entrambi i processi sembravano voler dare al mondo la speranza che mai più una guerra avrebbe portato al genocidio di un popolo. Questa speranza fu messa nelle mani dell’O.N.U. e produsse trattati internazionali che impegnavano la maggior parte dei paesi del mondo. Questa speranza io l’ho pure sentita mia, almeno fino a quando, scomparsa dalla scena mondiale l’U.R.S.S., il dominio della politica internazionale è passato nelle mani degli USA che oggi parlano al mondo con la voce di Trump.   Ed infatti forzatamente l’ONU è stata messa all’angolo per far posto a Trump e ai suoi sodali, primo fra tutti Netanyahu. Ho visto in TV i servizi sulla fame a Gaza trasmessi da “PresaDiretta”. Ho sentito lo stesso sgomento viscerale, che sale fino alla mente e che sentivo già leggendo il processo ad Eichmannn. Le interviste trasmesse mostrano come gli uomini della Gaza Humanitarian Foundation, siano stati deliberatamente mandati ad uccidere i palestinesi in cerca di cibo. L’organizzazione G.H.F. è composta da contractors e criminali, e viene finanziata dal governo americano, e da gruppi economici che restano nell’ombra. Essa è al servizio di ogni e qualsiasi governo pronto a pagare. Di facciata è una organizzazione no- profit ma i suoi “lavoratori” guadagnano 30.000 euro al mese. Con il consenso degli USA, la G.H.F. è stata assunta a contratto dal governo israeliano con lo scopo principale di lasciare l’ONU fuori dalla distribuzione del cibo. La Gaza Humanitarian Foundation considera il governo israeliano suo datore di lavoro e cliente e, come si sa, il cliente ha sempre ragione: intendendo, qui, dire che quando l’esercito israeliano lo chiede, gli operatori della GHF devono aprire il fuoco sui palestinesi che cercano il cibo. Con Trump, Netanyahu (e anche con Putin) siamo giunti a un punto di non-ritorno per il diritto internazionale e per l’O.N.U. perché l’uno e l’altro non sono più garanzia per nessuno. E i governi occidentali stanno sempre più preparandosi alla guerra prossima ventura, E.U. in testa. E noi che cerchiamo di far sentire la voce della ragione, che ostinatamente discutiamo sempre più di pace, che continuiamo a sperare -malgrado ogni altra speranza- in un mondo diverso possibile -come si diceva a Porto Alegre- che possiamo fare? Col cuore e con l’intelligenza, dobbiamo credere e puntare alla costruzione di un ordinamento internazionale condiviso e partecipato dai popoli e dai cittadini. L’assemblea O.N.U. può essere ancora una buona occasione. Ma deve avere il potere di fermare i conflitti, gli assalti, le occupazioni militari, riaffermando il diritto fra i popoli, fondato sulla cooperazione, sulla fratellanza dei popoli, sull’internazionalismo. E certamente GLOBAL SUMUD FLOTTILLA è un raggio di sole che fa sperare nel possibile incontro di intenti pacifisti ed internazionalistici. Al contempo, dobbiamo impedire l’affermarsi di un ordine internazionale fondato sul protagonismo dei capi di stato e di governo, personaggi corrotti e votati all’ arricchimento proprio e delle proprie cricche. Dobbiamo riprendere la DISCUSSIONE là dove l’avevamo interrotta quando andavamo ai forum mondiali (il libro di Minaldi è una buona opportunità). Dobbiamo in tanti scrivere e non solo: fare anche teatro, musica, pittura per diffondere le idee contro la guerra. Penso che, per la pace, è anzitutto fondamentale l’educazione e la crescita nelle scuole e in ogni altro luogo in cui i giovani si muovono. E per ciò non è un compito affidato solo agli insegnanti, anche se la scuola resta il luogo privilegiato per l’educazione alla pace. Nel frattempo dobbiamo prevenire con la forza della ragione che giungano a scuola voci inneggianti alla guerra, al nazionalismo, al patriottismo, al razzismo, anche quando si camuffano con la difesa necessaria.     Redazione Palermo
Cecina conclude la rassegna degli Eirenefest locali 2025
Si è conclusa questo finesettimana a Cecina la lunga serie di Festival del Libro per la Pace e la Nonviolenza che ha percorso quest’anno tutta la penisola, rafforzando l’idea che la pace si costruisce dal basso e che la nonviolenza è il metodo e l’atteggiamento personale da cui partire. Nella due giorni al Palazzo dei Congressi si sono alternati presentazioni, laboratori, giochi, mostre di artisti, proiezioni di documentari in una grande varietà di temi e con una partecipazione molto qualificata di esperti sia locali che di persone provenienti da varie parti d’Italia. La giornata di domenica, dedicata anche alla Festa della Toscana ha visto anche la partecipazione di Bintou Mia Diop, neo vicepresidente della Regione con delega alla pace la quale ha ricordato che la Festa è ispirata alla significativa abolizione della pena di morte da parte del Granducato di Toscana, primo stato al mondo a compiere quest’atto. Ecco alcune foto scattate dai partecipanti e dalla redazione toscana: Redazione Toscana
Standing Together, costruire un’alternativa in Israele-Palestina
L’assemblea del 10° anniversario del movimento Standing Together ha coinvolto circa 1.500 palestinesi ed ebrei che hanno preso parte alla costruzione di un’alternativa. “In questi due giorni abbiamo visto migliaia di persone che credono nel modo in cui ci stiamo impostando un potere politico che offre un’alternativa, davanti all’estrema destra la cui strategia è separazione e paura, gestire il conflitto anziché una soluzione. Abbiamo stabilito un’alternativa politica basata sul partenariato ebraico-arabo e sulla pace israelo-palestinese. La voglia viva e calciante di cambiamento si è sentita in questi due giorni in ogni parte dello spazio, in ogni paio d’occhi che si sono incontrati.” Con queste parole, il movimento ha condiviso su Instagram l’essenza dell’Assemblea. Alon-Lee Green, il co-direttore di Standing Together, ha condiviso sui social un messaggio alla polizia israeliana, che ha fatto irruzione nella convention per minacciare e silenziare. “Hanno chiesto di rimuovere il cartello con la scritta ‘Lasciare Gaza’. Abbiamo un messaggio chiaro: non ci intimidirete. Sappiamo che quello che facciamo è per la salvezza di entrambi i popoli che vivono su questa terra. Venite qui e state venendo meno al vostro dovere nelle comunità arabe, dove organizzazioni criminali violente stanno aumentando senza paura perché sanno che voi non li arresterete… Noi siamo qui insieme, ebrei e palestinesi, per la libertà e l’uguaglianza.” Standing Together è un movimento che negli ultimi anni è cresciuto moltissimo. E’ un movimento trasversale e questa è la loro visione e missione: «Immaginiamo una società che serva tutti e tutte noi e tratti ogni persona con dignità. Una società che scelga la pace, la giustizia e l’indipendenza per israeliani/e e palestinesi, ebrei/e e arabi/e. Una società in cui tutti e tutte possiamo godere di una vera sicurezza, di un alloggio adeguato, di un’istruzione di qualità, di una buona assistenza sanitaria, di un clima vivibile, di uno stipendio dignitoso e della possibilità di invecchiare con dignità. Una società del genere è possibile — la stiamo già costruendo.» Purtroppo, Standing Together è stato accusato di “normalizzazione” dall’Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI), membro del movimento BDS e per questo è nella lista di organizzazioni da boicottare. Di fronte alle accuse di “normalizzazione” mosse dal movimento BDS, Standing Together sostiene che per costruire un reale cambiamento servono una vasta coalizione di persone e la capacità di generare potere, non una politica della purezza che impone di usare determinate parole per essere accettati. Fino al 1° ottobre 2023 la loro presenza online era minima, ma dopo il 7 ottobre è cresciuta enormemente, dando vita a un nuovo discorso pubblico. Nel gennaio 2024 PACBI ha chiesto di boicottare Standing Together, accusandola di “normalizzare”, ossia di presentare come normale ciò che avviene in un contesto di oppressione, e criticando il fatto che israeliani/e e palestinesi collaborino. Contemporaneamente, Standing Together si mobilitava contro l’annientamento a Gaza, e alcuni/e attiviste/i venivano arrestate/I dal governo israeliano. Alon-Lee afferma di comprendere le critiche sul linguaggio, ma di essere rimasto scioccato dall’accusa secondo cui il movimento servirebbe gli interessi del governo israeliano. Personalmente, riconosce l’apartheid e il diritto al ritorno, ed è parte della lotta internazionale per i diritti dei palestinesi. Allo stesso tempo,  riconosce la necessità di una strategia capace di costruire potere reale, anche parlando con chi la pensa diversamente, inclusi i soldati, senza limitarsi a dire solo ciò che si ritiene giusto, ma anche ciò che può trasformare la realtà. Rula Daood, co-direttrice di Standing Together, come palestinese cittadina di Israele descrive invece quanto sia doloroso che altri palestinesi invitino a boicottare la propria gente, pretendendo di stabilire come lei debba parlare sotto un regime oppressivo; le critiche non sono nemmeno tradotte in arabo e si presentano come un attacco che la ferisce profondamente, facendola percepire come “meno palestinese” agli occhi di altri. (The long answer, Podcast di Standing Together, Episodio del 14 novembre 2025) In questi ultimi anni di genocidio a Gaza e pulizia etnica nella Cisgiordania, Standing Together e altri movimenti congiunti di israelianə e palestinesi (come ad esempio Combatants for Peace) hanno fatto azioni di presenza protettiva, hanno organizzato e partecipato alle manifestazioni, mobilitato la società, svolto programmi di educazione, invitato all’immaginazione politica, incarnato un futuro possibile in cui i popoli che vivono tra il fiume Giordano e il Mar Mediterraneo possano co-esistere in dignità, libertà, e sicurezza. «Perché, se vogliamo cambiare la nostra realtà, dobbiamo prima immaginarla… L’immaginazione politica è uno strumento politico. È ciò che ci permette di sollevare la testa dall’acqua per un momento e chiederci: Dove vogliamo andare? Come dovrebbero essere davvero le nostre vite su questa terra?”» (Sally Abed, nel suo discorso durante l’Assemblea) Fonti: https://www.standing-together.org/en https://ukfost.co.uk/standing-together-holds-its-10th-annual-national-convention https://www.instagram.com/reel/DRsBa2bitkg/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=NTc4MTIwNjQ2YQ== https://www.instagram.com/reel/DRmg3xEDAvo/?utm_source=ig_web_copy_link&igsh=NTc4MTIwNjQ2YQ== Ilaria Olimpico
Incontro “Felicità e disubbidienza. La proposta di Danilo Dolci
Martedì 9 dicembre 2025 alle 18:30 Arci Bellezza, via Bellezza 16, Milano Nel corso della serata verranno presentati la nuova edizione del primo libro scritto da Danilo Dolci “L’ascesa alla felicità” e il documentario ‘Inchiesta su Danilo Dolci” scritto e diretto da Alberto Castiglione. Produzione Danilo Dolci – Gesellschaft (CH). Intervengono: * Giuseppe Barone e Daniela Dolci, Borgo Danilo Dolci * Nicola Macaione, SCE Spazio Cultura Edizioni * Giorgio Schultze, architetto * Rappresentanti delle associazioni promotrici * Coordina Duccio Facchini, direttore Altreconomia Promotori: Borgo Danilo Dolci, Spazio Cultura Edizioni di Palermo, FuoriMercato, Centro di Nonviolenza Attiva, Arci Milano, Altreconomia, Libera.  L’ascesa alla felicità – di Danilo Dolci, 1948 Presentazione della nuova edizione di “L’ascesa alla felicità”   A cura di Giorgio Schultze Ci sono momenti della nostra vita in cui irrompono domande molto semplici, come ad esempio: “Che cos’è per me la felicità?”, a cui non sempre si riesce a dare risposte intimamente e profondamente soddisfacenti. Domande che ci scuotono e ci spingono nella ricerca di “senso” e contemporaneamente ci costringono a rallentare, se non addirittura a fermarci, per riflettere. In questo accidentato e, molto spesso buio, cammino, può accadere che una lettura, un evento, un incontro ci inviino quel segnale, quell’indicazione, quella parola, quella luce, carica di significati che tanto aspettavamo. Come è stato il fortunato incontro con L’ascesa alla felicità, il primo libro di Danilo Dolci, scritto nel 1948, di cui vale la pena ricordare il concatenarsi di eventi che l’hanno determinato. Andiamo in ordine cronologico. A maggio del 2024, in vista delle Celebrazione del Centenario della nascita di Danilo Dolci (28 giugno 1924), la mia cara amica Anna Polo mi ha invitato a fare un viaggio a Palermo, per visitare, insieme a Daniela Dolci, il Borgo “Danilo Dolci” di Trappeto e la Scuola Primaria “Mirto”, di Partinico. Questa scuola primaria, voluta da Danilo Dolci nei primi anni ‘70,  “destinata a tutte le bambine e i bambini, a cominciare dai più poveri”, era stata progettata e realizzata proprio dai genitori di Anna, gli architetti di Milano Giovanna Pericoli e Giancarlo Polo, quando Anna era poco più che adolescente. Ora, a distanza di 50 anni, “Mirto” è uno splendido esempio di avanguardia educativa, modello per centinaia d’insegnanti e scuole in tutto il mondo, in cui si applica “la maieutica reciproca”. Mentre visitavamo la scuola e il Borgo, parlando con Daniela Dolci, ho sentito l’urgenza di raccontare questi tratti di storia di Danilo e del suo contributo a una visione nonviolenta dell’umanità. Tornato a Milano ne ho parlato con Augusto Vetrallini,  regista e storyteller de Il Cantastorie, di Roma, il quale mi disse: “Per scrivere la storia di quest’uomo dobbiamo risalire a quando, ancora giovane, maturò questa sua straordinaria vocazione di “prendersi cura del prossimo”. Allora abbiamo iniziato a rileggere la sua biografia, fin dai suoi primi momenti fino ad  arrivare ad un passaggio cruciale. Al Danilo giovane insegnante di 24 anni, che nel 1948 per necessità (doveva pagarsi la facoltà di Architettura), insegnava nelle scuole serali di Sesto S. Giovanni, la città-operaia, nella Milano dell’immediato dopoguerra. Tra le varie note biografiche e bibliografiche troviamo riportata una sua citazione “Come puoi essere felice se intorno a te i tuoi fratelli vengono consumati e travolti dalla fame e dalla miseria?”, e una nota a piè pagina: L’ascesa alla felicità, a cura di Danilo Dolci, Stamperia Cesare Tamburini·Milano, 1948. Un testo scritto con uno scopo preciso: “… mettere a disposizione dei giovani operai, affamati di sapere, quanto non era giusto tenessi solo per me” [1]”. Ecco trovato ciò che cercavamo! Ma quel testo dal titolo e dai contenuti così significativi era semplicemente introvabile. Nessuno ne ha traccia.  Soltanto Giuseppe Barone, la memoria storico-letteraria delle opere di Danilo, seppe darci qualche indicazione. “Nel 1948 furono stampate 200 copie destinate agli operai-studenti di Sesto e da allora il libro non è mai più stato ristampato, né ripubblicato, né fotocopiato… Esiste un’unica copia originale, consultabile presso la Biblioteca Nazionale di Firenze”. Ed è stato proprio così. Esisteva soltanto un’unica copia dell’originale, gelosamente custodita in quella preziosa Biblioteca che nel 1966 difese e salvò, insieme agli “angeli del fango”, centinaia di migliaia di libri “unici”, dall’alluvione dell’Arno. Chiedemmo una copia fotostatica dell’originale, che ci venne consegnata a seguito di accurate verifiche sul “perché la volevamo”. La sua lettura fu come aprire uno scrigno carico di monete e pietre preziose. Accanto alle riflessioni di Danilo, ritrovammo decine di pensatori e filosofi, da Marco Aurelio a Epitteto, da Pietro Verri a Bertrand Russell, citazioni tratte dalla Bibbia e dai Testi Sacri, di altre culture e filosofie orientali, da Ramakrishna al Bhagavad Gita, che parlavano della felicità a cui si giunge dopo “un’attenta e accurata ricerca”. Un’opera che già a partire della stessa strutturazione dell’indice ci offre un percorso, una mappa, le istruzioni che ci spingono a iniziare l’ascesa e contemporaneamente ci costringono a fermarci a riflettere a ogni frase, a ogni citazione. “Fermarci” e “riflettere”. Due atti di ribellione nonviolenta, due atti non tollerabili da un sistema di vita ad alta entropia consumistica, che ci vorrebbe sempre in corsa, sempre in accelerazione e soprattutto privi di un pensiero critico proprio. Un tesoro che, parafrasando Danilo “abbiamo ritenuto doveroso mettere a disposizione di tutti coloro che lottano e sperano in una nuova umanità e che non potevamo tenerci per noi”. Quindi a partire da quell’unica copia, gelosamente custodita per oltre 75 anni, in accordo con Daniela e Amico Dolci e con la collaborazione di un “agitatore culturale”, come Nicola Macaione e la sua Spazio Cultura Edizioni di Palermo, abbiamo deciso di trascrivere il testo, stampare una nuova edizione e ridargli nuova vita, con tre obiettivi: * Costringerci a fermarci e riflettere sulla felicità, come un atto di profonda ribellione nonviolenta. * Mettere a disposizione dei “costruttori di speranza”, nuovi mattoni di conoscenza ed esperienza * Iniziare a prenderci cura, come atto di responsabilità e fraternità, della felicità di noi stessi, del prossimo, dell’umanità, della nostra “Casa Comune”. [1]Lettera di Danilo Dolci, 31 maggio 1986. Giorgio Schultze
Leva volontaria: Giovanni XXIII, vogliamo esercito di operatori di pace non armati
Leva volontaria: Comunità Giovanni XXIII, vogliamo esercito di operatori di pace non armati «Non siamo favorevoli alla reintroduzione della leva» «Vogliamo esercito di operatori di pace non armati e nonviolenti. La proposta di reintrodurre la leva militare è l’opposto di ciò di cui c’è bisogno per garantire pace e sicurezza. Ogni volta che uno Stato aumenta la propria potenza militare viene percepito da altri stati come una minaccia, per cui il rischio di guerra aumenta anziché diminuire». È quanto dichiara Matteo Fadda, presidente della Comunità Papa Giovanni XXIII, in merito alla proposta sulla leva volontaria in Italia proposta dal Ministro della Difesa, Guido Crosetto, in risposta al nuovo contesto di insicurezza internazionale. «L’Italia è stata protagonista fin dall’inizio della costruzione della pace tramite lo sviluppo dell’Unione Europea – continua Fadda –. Proponiamo che lo sia anche adesso in questo momento difficile a livello internazionale. Per questo non solo non siamo favorevoli alla reintroduzione della leva militare, ma invitiamo: a potenziare e valorizzare il Servizio civile universale come strumento di Difesa civile non armata e nonviolenta della Patria; a potenziare l’investimento già in essere per costituire e stabilizzare un Corpo di pace formato da civili che possa intervenire in contesti di conflitto sia a sostegno della popolazione civile, sia per favorire il dialogo tra le parti; ad istituire un Ministero della Pace che promuova un diverso paradigma di sicurezza con un dipartimento dedicato alla difesa nonviolenta, perché nelle democrazie mature la sicurezza nazionale non può più essere pensata come un sistema monolitico fondato esclusivamente sulle forze armate. Molti cittadini, anche oltre i limiti di età del Servizio civile e dei Corpi civili di pace, desiderano e sarebbero pronti a formarsi ed addestrarsi nella difesa non armata e nonviolenta». «Facciamo queste proposte – conclude Fadda – forti del cammino con più di 3 mila obiettori e volontari che hanno scelto il servizio civile con la nostra associazione dal 1975 ad oggi. E forti dell’esperienza di 33 anni di intervento nei conflitti con Operazione Colomba, il nostro corpo di pace formato da civili che vivono al fianco di coloro che le guerre non le hanno scelte e da cui non possono scappare, come anziani e disabili. Noi siamo disponibili a mettere a disposizione del ministro Crosetto la nostra esperienza che può essere replicata su larga scala. Infine, parleremo della possibilità della reintroduzione della leva militare obbligatoria a Rimini, il 12 e 13 dicembre, al convegno Inneschi – Scintille che generano la pace». Redazione Italia
Riflessione sul patto di fiducia tra Stato e cittadini, a partire da una triste sentenza
Pubblichiamo di seguito la riflessione che la giurista Rosanna Pierleoni ha scritto per Pressenza Italia come commento alla vicenda della famiglia anglo-australiana che vive nel bosco in Abruzzo. Un riflessione intrisa di umanesimo che fornisce un parere critico ed esplicativo da parte di una persona competente in materia. Di pochi giorni fa l’ordinanza del Tribunale per i minorenni dell’Aquila che sta portando sul fronte popolare tanto malcontento e che sta avviando, forse per la prima volta, una dolorosa ma inevitabile riflessione sull’articolato sistema che regola la sottrazione di minori nel nostro Paese. Credo sia importante lasciare che questo tema abbia dignità di tema pubblico, perché si tratta di prassi che toccano il rapporto di potere tra Stato e cittadini, e delineano i confini della potestà sui minori: magistratura e assistenti sociali da un lato, le famiglie dall’altro. È altresì importante, a mio avviso, che il tema venga trattato nel rispetto delle parti, delle visioni, e della immane sofferenza dei bambini e delle famiglie coinvolte, che sono all’incirca 35.000 ogni anno, cifre in aumento ogni anno. Il discorso nasce con quella che viene definita a livello mediatico “la famiglia nel bosco”, una famiglia che ha scelto di vivere nella casa di proprietà, nel verde, a 10 km dal centro abitato a Palmoli, in Abruzzo, e di garantirsi sostentamento in modo autonomo. La miccia che ha innescato un discorso controverso e appassionato nel nostro Paese, forse perché ogni rimosso cerca prima o poi l’espediente per uscire fuori. E questa è una ferita del nostro apparato giuridico e democratico troppo grave perché noi si possa continuare a tenerla nascosta o quale unico appannaggio di qualche associazione e qualche – poco partecipata – manifestazione dei parenti dei bambini. È giunto il momento che società civile e istituzioni si facciano carico di questo peso e diano qualche risposta concreta. Alle tante critiche mosse a coloro che prendono le parti della famiglia ricordo che il buon cittadino è colui che si impegna, si interessa alle cose della 𝑝𝑜𝑙𝑖𝑠, chiede conto, perché tirerà fuori la parte migliore di chi lo governa, che è un uomo come noi e – in quanto tale – è soggetto ai richiami più limpidi e a quelli più oscuri della mente. Un atteggiamento servile, pigro, fanatico, stimolerà sempre il volto peggiore del potere. Dunque, a mio avviso, non bisogna temere di esprimere il proprio giudizio. Inoltre, è verissimo che gli organi di magistratura devono essere liberi nel loro operato, ma allo stesso tempo il nostro sistema tollera molto bene la critica pubblica, no? Facciamone buon uso, senza mai trascendere in comportamenti violenti e persecutori verso i singoli. I fatti: la famiglia ha uno stile di vita che si discosta dalla media per una scelta personale, coerente e ragionata, nonché condivisa dai due genitori. Ha elettricità tramite fotovoltaico, usa la rete per videochiamare i parenti e per lavoro o per guardare qualche documentario, ha il riscaldamento tramite camino e stufa termica (essendo soli 40 mq c’è una temperatura media molto alta in inverno, sui 21/22 gradi), ha un bagno a secco esterno, ha una casa che a detta dei giornalisti con cui ho parlato personalmente e dei vicini è dignitosa e ben tenuta. I bambini conoscono due lingue e hanno molte competenze pratiche, dal cucito, alla cura dell’orto, dal riuso di materiali, alla costruzione di piccoli oggetti; consumano cibo dell’orto autoprodotto e altro cibo reperito una volta a settimana in città. I bambini sono abituati a partecipare attivamente al benessere e alle incombenze familiari. Fanno equitazione con il cavallo di famiglia, sotto la guida della madre che è istruttrice di equitazione. Hanno rapporti quotidiani con altri animali. Sono curati da medici di fiducia; sono sani. Sono seguiti con istruzione domiciliare. Intrattengono relazioni costanti con persone del vicinato, adulti e bambini. Vanno in biblioteca spesso. Viene loro letta una fiaba ogni sera nel letto. Nel provvedimento si parla – solo in riferimento alla bimba di 8 anni, dacché i gemelli ne hanno ancora sei – di un ritardo nel far pervenire alla scuola statale l’attestazione dell’istruzione impartita: una falla burocratica dunque, rientrata presto. Tutto qua. Secondo il Ministero dell’Istruzione e del Merito, risulta regolarmente espletato l’obbligo scolastico (ANSA, 24 novembre 2025). Interroga come una faccenda risolvibile con poco approfondimento sia stata inserita quale motivazione nell’ordinanza di allontanamento. Si parla poi di condizioni abitative non idonee in quanto l’abitazione non avrebbe i requisiti di agibilità e non rispetterebbe la normativa antisismica. Anche se la documentazione del geometra e dell’ingegnere che attestano l’assenza di lesioni strutturali non fosse considerata valida, questa mi sembra una motivazione non sufficiente se prendiamo in esame le condizioni edilizie e antisismiche di oltre metà degli istituti scolastici italiani (con bambini rimasti seppelliti sotto le macerie mentre erano tra i banchi di scuola), ma anche di alloggi per gli studenti universitari, case popolari, case private abusive, soluzioni abitative precarie assegnate dopo calamità varie. Basti poi pensare agli scandali legati agli abusi o a mancate regolarità di tipo edilizio da cui sono scaturiti danno e morte, come ad esempio nel famoso caso di Rigopiano o della Casa dello Studente a L’Aquila, solo per restare in Abruzzo. Affinché i cittadini non vivano questa motivazione come faziosa e la sentenza in modo persecutorio è importante limare il divario tra quanto si esige dai cittadini e quanto le istituzioni fanno a loro volta. Nella sentenza si propone poi una dottrina pedagogica secondo cui i bambini versavano in condizioni di isolamento e su come questo li avrebbe esposti tra qualche anno a rischi relazionali seri, facendo loro maturare condotte aggressive, tra cui il bullismo. Si fa coincidere il bisogno di socialità unicamente con la frequenza scolastica, nonostante il nostro ordinamento preveda l’istruzione parentale, considerandola dunque adeguata. Inoltre si prendono in esame non dei danni certi e attuali, ma dei danni prevedibili e futuri. Si ipotizza, rendendo questa ipotesi una certezza, che questi bambini matureranno condotte aggressive. Nella mia esperienza come mediatrice familiare nelle scuole ho potuto vedere come i casi di bullismo siano in continua crescita. Dobbiamo dunque considerare che il modello educativo dominante, condiviso dalla maggior parte degli italiani, non sia molto migliore in tal senso. Sottrarremo allora i bambini anche a tutti quei nuclei familiari che hanno ragazzi con problemi di bullismo, e a tutti coloro i cui figli trascorrono molte ore chiusi in casa davanti a internet? Ricordiamo che la sindrome da ritiro sociale “hikikomori” è in continuo aumento nella nostra società. Se questo non accade dobbiamo ritenere che la dottrina pedagogica a fondamento dell’ordinanza sia ideologicamente orientata: essa ritiene un sistema educativo idoneo, anche se causa ritiro sociale e violenza, e l’altro non idoneo, nonostante non ci siano prove attuali che dimostrino la sua idoneità a creare simili condotte. Ma anche se questo rischio di socialità ridotta fosse reale, non si può in alcun modo immaginare di intervenire allontanando forzatamente il minore dal proprio nucleo familiare, impedendo il rapporto con il padre e una relazione normale e libera con la madre, che ricordiamo si trova nella medesima struttura impossibilitata a vederli liberamente: quella con i genitori è la relazione primaria per sperimentare l’alterità. In alcun modo la frequentazione dei propri pari può essere considerata in alternativa al rapporto con i genitori, da cui i figli, soprattutto nei primi anni di vita, traggono sicurezza, protezione, senso di appartenenza, riconoscimento. Nella sentenza si parla poi di come questi bambini abbiano un ritardo rispetto ai bambini della loro età. Viene introdotto un concetto di “metro”: qual è insomma il metro di questo paragone se noi abbiamo bambini, e persino adulti, che non conoscono affatto la propria lingua, che sono abituati a ripetere slogan anziché chiedersi il perché delle cose, che hanno perso ogni forma di sapere, mestiere, conoscenza, sia di tipo letterario artistico che di tipo manuale? L’ordinanza spiega anche che la decisione sia maturata perché la famiglia avrebbe danneggiato i bambini esponendoli a livello mediatico nel programma “Le Iene”. Si fa qui riferimento a delle normative internazionali che prevedono la tutela della privacy. Stupisce un uso così improprio delle fonti indicate: queste norme tutelano da violazioni della privacy compiute da terzi che siano in conflitto di interessi con gli interessati. Vi si potrebbe ricorrere, quindi, per proteggere e risarcire la famiglia dalla vergognosa esposizione mediatica del loro caso, ma su questo mi sembra che ben poco sia stato fatto. La famiglia aveva un atteggiamento piuttosto riservato, non essendo nemmeno presente sui social: dobbiamo presumere abbiamo partecipato alla trasmissione per avere quell’ascolto che dalle istituzioni non riuscivano ad avere, per dimostrare agli italiani di essere in grado di curare i loro figli, perché avevano il terrore di perderli. Ma in alcun modo possiamo immaginare che volessero danneggiare i propri figli, come emerge dall’ordinanza. Che dire allora di tutti quei genitori che fanno uso intensivo dei social, condividendo foto e spezzoni della vita dei propri figli, e ancor di più di coloro che traggono da questa attività seguiti professionali, vendite, introiti di diverso genere? Si tratta di famiglie di “influencer” sotto gli occhi di tutti, a cui non risulta siano mai stati sottratti i figli. A questi si aggiungono tutti quei minori che aprono illegalmente account e ne fanno un uso quanto meno improprio, evidentemente senza adeguato controllo dei genitori. Vi chiedo: che ruolo dà la nostra società alla diversità, non a parole, nei fatti? Simili condotte mediatiche e giudiziarie sono pericolosamente prossime alla vera e propria persecuzione delle minoranze. Questi provvedimenti sembrano fare continuo riferimento a un concetto di “norma”, che come sappiamo nelle varie epoche ha sempre generato violenza e oscenità. Quali sono il ruolo del diritto e della psicologia nel farci comprendere un simile concetto, in che modo possono aiutarci a non farcene schiacciare? Urge una riforma urgente e radicale dell’intero sistema di sottrazione di minore in Italia. I casi di allontanamento devono essere di extrema ratio perché nessuna casa famiglia né famiglia affidataria potrà mai garantire quel senso di appartenenza che il bambino sperimenta con le proprie radici. Il legame con i genitori va preservato ad ogni costo, fatti salvi casi estremi di violenza non risolvibili e non gestibili altrimenti ove non vi sia neppure l’aiuto di altri familiari. In tutti gli altri casi, nonostante il rilievo di alcune criticità, lo Stato deve aiutare in ogni modo il nucleo familiare a farcela in autonomia. Inoltre, le decisioni di allontanamento devono essere riviste ciclicamente e in tempi brevi e mai si dovrebbe venire a sapere di genitori che per anni non riescono più ad avere un contatto che sia uno con i loro figli o che non sappiano neppure dove siano stati destinati. Sono certa che qualora le istituzioni iniziassero un cammino di risanamento di questo strappo, istituendo commissioni esterne e professionisti indipendenti; qualora facessero marcia indietro su alcune valutazioni parziali o superficiali, e attribuissero le responsabilità laddove rinvenute, il patto di fiducia tra Stato e cittadini tornerà a saldarsi e il malcontento popolare scemerà automaticamente e i cittadini acquisiranno nuova fiducia per digerire quei casi comunque dolorosi, ma residuali, di allontanamento. Qualora questo non accadesse il patto di fiducia già gravemente compromesso non potrà che spezzarsi una volta per tutte. Nonostante tutto, ho fiducia.   ROSANNA PIERLEONI Rosanna Pierleoni nasce nel 1984 ad Avezzano. Dopo il liceo classico, consegue la laurea magistrale in giurisprudenza all’Università Tor Vergata di Roma. Completa poi tre master interdisciplinari che le forniscono competenze psico-educative e giuridiche nell’ambito dei minori e della famiglia, con abilitazione alla mediazione familiare e alla consulenza specialistica. È autrice di un saggio sull’adozione internazionale e di diversi romanzi.   Redazione Italia