
Tornando dalla Global March to Gaza
Pressenza - Wednesday, June 18, 2025Francesca Incardona racconta in modo semiserio le sue esperienze durante la Global March to Gaza.
Come posso andarmene? Con la mia camicia di lino, il telefono con il piano tariffario migliore di tutti, l’unico sempre connesso. Io che non mi trovo completamente in nessun gruppo, né ebrea né no, sempre un po’ esclusa, qui c’ero tutta. Parole e immagini dell’ultima settimana mi si confondono nella mente nei corridoi dell’aeroporto. E’ sabato, sto tornando a Roma dopo tre, quattro, non so quanti giorni al Cairo, non ho dormito quasi mai, io c’ero sempre.
Già da prima, alla riunione organizzativa pre-partenza: ”Mi dispiace, io sono così”, tutti i miei dubbi espressi liberamente con cattiveria senza filtri: non mi fido dell’organizzazione, sono degli incapaci, oppure non ci dicono la verità, come è possibile che due giorni prima di partire quella che doveva essere una prenotazione di albergo fake, perché ce n’era un altro segreto prenotato per tutti, diventa invece la nostra destinazione vera? Non c’è nessuna logistica al Cairo, e poi l’Egitto non darà mai l’autorizzazione alla marcia, siete tutti pazzi se non avete paura, nel Sinai ci sono bande e milizie, il controllo statale egiziano è durissimo e parziale, e poi c’è Israele che spara anche sui parlamentari europei, e sicuramente siamo infiltrati dai servizi italiani e da quelli egiziani e dal Mossad. Mi guardo intorno, chi sarà l’infiltratǝ?
Vabbè, ma allora che ci vieni a fare qui, non è che così come se niente fosse puoi venire qui a rompere tutto. È il potere conoscitivo della paranoia, bello. È meglio essere preparati. E poi io sono così. Per la prima volta non me ne vergogno, io sono così e farò parte del gruppo.
Giovedì 12 giugno. All’atterraggio il telefonino si riempie di messaggi terrorizzanti, attenta, hanno fermato, arrestato, rimpatriato centinaia di persone, di alcuni si sono perse le tracce, ti svuotano lo zaino, metti tutte le cose importanti in tasca. Mi viene il fiato corto: soldi, cellulare, passaporto, caricabatterie. Sul bus mi avvicino a due con lo zaino, guardando altrove gli bisbiglio le istruzioni; ci ho preso, sono della Marcia. Se li ho individuati io figuriamoci i servizi.
Le indicazioni sono di andare a gruppetti di 2 o 3 per non dare nell’occhio e che siamo qui per turismo. Penso che sia una pessima idea, sicuramente ci conoscono uno per uno, la nostra forza è nell’essere tanti e sotto i riflettori, siamo migliaia e il mondo parla di noi, solo così possiamo salvarci, come Greta con la Freedom Flotilla che ha costretto Israele a mettersi in posa per la foto col tramezzino. Come i Sumoud, che attraversano in auto la Libia cantando e sventolando le bandiere della Palestina.
Però queste sono le indicazioni, ci prepariamo. Claudia ha 27 anni, l’età di mia figlia e gli occhi troppo limpidi, a costo di farmi notare la seguo al controllo passaporti. Alla formazione ci hanno detto in caso di fermo di mandare rapidamente un messaggio al referente, ma se non fai in tempo? Lo spettro di Regeni aleggia sulle nostre teste. Ma in aeroporto no, non può succedere, al massimo un fermo, il rimpatrio. È il suo turno, l’impiegata le prende il documento e si allontana, mi accorgo che mi sto mangiando le unghie e ho un’aria innaturale, se qualcuno lo nota non le faccio un favore. L’impiegata torna, è tutto a posto.
Del mio volo e dei successivi passiamo tutti. I rimpatri sono stati solo il giorno prima e la mattina, qualche centinaio. Abbastanza per scoraggiare il 10-15%. Ma non importa, siamo comunque tanti. Il Cairo pullula di persone con lo zaino, le scarpe da trekking e il cappello da sole, ci riconosciamo da lontano. Camilla è arrivata ieri sera, ha 21 anni, l’età di mio figlio, è bellissima, l’hanno fermata, interrogata, troppo bella, troppo giovane, il poliziotto sta per farla passare, solo un’ultima domanda: Dov’è Rafah? Lei sgrana gli occhi: Rafà? Cos’è? Va bene, vada.
Molti sono stati presi in albergo, i nostri alberghi fake da 8 euro a notte, arriva la polizia, camionetta di fuori e porta via tutti. Questo è molto peggio che all’aeroporto. Si riaffaccia Regeni. Si sa qualcosa di quelli sul pullman? Qualcuno dice mandati in Turchia. In Turchia, com’è possibile? I telefoni non funzionano o non si possono sprecare dati, i referenti dicono solo restate in albergo. Usciamo per cena, le strade del Cairo rutilanti di gente, meravigliosi palazzi coloniali in rovina, l’aria è gialla di sabbia e di smog. Un maggiolino parcheggiato a lato di una piazza fa l’auto-caffè e un bambino porta i bicchieri alle persone sedute sulle panchine. Non dobbiamo farci notare, ma a cena ci raggiungono altri alla spicciolata. I camerieri contenti aggiungono sedie. Katz ha detto che se l’Egitto ci fa avvicinare a Rafah loro ci spareranno in Egitto, non ci sarà più linea rossa. È incredibile quanta impudenza, e come sempre l’Europa tace, nessuno dei nostri Paesi dice nulla. Certo, altrimenti non saremmo qui. Però abbiamo messo paura a Katz! Ridiamo. Non abbiamo nessuna speranza di ottenere il permesso per la Marcia. Se i nostri coordinatori ancora ci credono sono scemi. O pazzi. O ci stanno mentendo.
Venerdì 13 giugno, giorno di preghiera. Nella notte Israele ha attaccato l’Iran.
Cazzo. Questo cambia tutto.
Un messaggio in inglese arriva su tutte le chat della Marcia: andiamo a Ismailia da turisti coi taxi in un ostello. Niente di illegale. Ma che gli diciamo al tassinaro? A Ismailia non c’è un cazzo da vedere. Contromessaggio, la voce affannata della nostra coordinatrice: Non andate, è pericoloso, non è una decisione corale della Marcia. Che facciamo? L’organizzazione è tutto, obbediamo. L’appuntamento è al bar Illy, davanti alla sinagoga, incastonati tra camionette della polizia. Pian piano arrivano messaggi e immagini, al checkpoint per Ismailia i manifestanti vengono fermati, picchiati, spinti sui bus. Almeno 2-300 persone.
Ecco. Dovevamo andare anche noi, li abbiamo lasciati soli. Era quello il senso della Marcia, arrivare fin dove possibile pacificamente, in attesa di autorizzazione. Finirà su tutti i media del mondo, è la nostra Marcia, i nostri corpi inermi per attirare l’attenzione sul genocidio. Allora sei un facinoroso, dillo. Sbagli, è questo il pacifismo.
Claudia è venuta col PC, 2 chili in più nello zaino per finire la sua tesi del master. Faccio la mamma e glielo ricordo, lasciatela in pace.
Alle quattro andiamo a vedere il Nilo. Sosta in un parco per un succo di mango, c’è un mezzo busto di Gandhi, tocchiamo il bronzo commossi. Anche lui le ha prese.
A sera arriva Lavinia fuori di sé, ha parlato con dei canadesi e dei francesi: ieri a Ismailia c’erano più di mille persone. I 2-300 dei messaggi di prima erano solo quelli del primo checkpoint, li hanno divisi. Al secondo checkpoint erano oltre 1.000, li hanno fermati e loro si sono seduti pacificamente per terra, hanno fatto riunioni e cantato e gridato Free Palestine, poi la polizia li ha circondati e gli ha detto di andarsene, c’erano dei pullman apposta. Una metà è andata, l’altra è rimasta seduta. Allora sono arrivati degli arabi col volto coperto e hanno fatto il lavoro sporco per la polizia, li hanno minacciati e picchiati, ma poco, non come se fossero stati egiziani; noi siamo europei, ci picchiano piano. Ci sono i filmati, impressionanti, girano su tutto il web. Ci abbracciamo. E’ chiaro, Israele ha attaccato l’Iran per non far parlare troppo della Marcia. Che sei scema? Dai, scherzavo.
Sabato 14 giugno. Di nuovo al bar Illy. Fotografo la sinagoga e poi alzo le mani coi poliziotti che mi sgridano.
Dentro c’è la solita penombra, i tavolini rossi, ormai siamo habitué.
Ci hanno autorizzati. Cosa??
Un pullman scortato dall’esercito, forse più di un pullman, chiunque voglia venire, dobbiamo mandare i passaporti entro l’una. Evviva! Abbiamo vinto! I passaporti si accumulano sul tavolo. Ma così non è lo stesso, la Marcia, le migliaia di persone. Però è qualcosa, anzi è di più, è più di quello che avessi mai sperato. Io no, cos’è, vai fai un selfie e te ne torni. Ma ti rendi conto che stiamo lottando contro il Mossad, i servizi segreti nostri, quelli egiziani, Bruxelles? Nessuno la voleva questa marcia, dopo la minaccia di Katz è anche calato il silenzio stampa. Questa è la realtà, il nemico è più potente di noi e però abbiamo fatto Ismailia e ora arrivare a Rafah in qualunque modo è una vittoria enorme. Non lo so, questo è protagonismo, io non vado. Senti, fammi un favore, smettila.
Io devo partire. Mi dispiace, ho paura, forse non ero davvero preparata ad attraversare il Sinai, e con una guerra mondiale sulla testa. Provo timidamente a dire a Claudia e Camilla di venir via anche loro, ma hanno deciso, hanno già mandato i passaporti. Abbraccio Ale, Stefi, Giulio, Giorgi, Marco. Cerco un taxi, penso al mondo salvato dai ragazzini, ai pazzi di Sumoud, alla carovana di farfalle spaventate che ha inondato di colori i checkpoint di Ismailia, agli FP, i felici pochi, i folli pazzi che cambieranno il mondo, all’Europa che guarda e non si muove. Il genocidio siamo noi, danno collaterale, la voracità distruttiva del potere.
Il tassista tenta di insegnarmi i numeri in arabo: teleta, arbah.
La prossima marcia la facciamo a Bruxelles.