
“Tax the rich”, il momento magico di New York
Pressenza - Monday, November 17, 2025I tre bicchieri sono già vicini, pronti a toccarsi; ci fermiamo un istante, ci guardiamo negli occhi e insieme decidiamo di procedere nel brindisi, in barba a scaramantiche precauzioni e collaudati timori. Laura ricorda che se desideriamo il cambiamento dobbiamo crederci, concedere fiducia e fare la nostra parte; se in un futuro non ancora definito rimarremo delusi allora protesteremo. Dzafer aggiunge: “Che alternativa reale abbiamo? Nessuna”. Concordo: cedere al cinismo, cercare il pelo nell’uovo e lamentarsi in anticipo non è un’alternativa politica. Soddisfatti e sorridenti facciamo battere i calici.
Si è da poco concluso un rally (comizio) dall’iconico nome Tax the Rich promosso dalla base newyorkese del movimento socialista americano; si tratta dello stesso network da cui proviene Zohran Mamdani, quello che lo ha sostenuto durante i mesi di campagna elettorale con l’impressionante numero di oltre centomila volontari e che oggi non intende farsi da parte. Sa bene che un uomo lasciato solo può poco di fronte allo strapotere dei ricchi e potenti, pertanto vuole essere la sua forza. L’iniziativa, benedetta da una splendida giornata di sole, si è svolta in Union Square, a Manhattan, dove un folto numero di attivisti, sindacalisti, membri del movimento socialista e simpatizzanti a vario titolo si sono ritrovati attorno a un improvvisato palchetto – i gradoni della piazza hanno fatto da pulpito.
Come di consuetudine la maggioranza dei partecipanti era giovane, piena di entusiasmo e creatività; non mancavano però figure più attempate, come il signore accanto, seduto su una una sedia pieghevole portata da casa, e come Dzafer, tanto pacato quanto ancora sognatore proprio in virtù dei suoi primi sessant’anni trascorsi tra battaglie sociali di quartiere e lotte per un diritto civile universale, sempre in prima linea, sempre alla ricerca di verità e giustizia. In molti indossavano ancora le spillette e i cappellini gialli e blu con la scritta Zohran for mayor, così come erano parecchie le kefieh arrotolate al collo, ma più di tutto la piazza era punteggiata da cartelli arancioni con il motto della giornata: “Tax the Rich Fund Child Care”. Una giovane aveva persino avuto la simpatica idea di scriverlo in rosso e a caratteri cubitali sul vestito. Al centro dello spiazzo un ragazzo teneva alta una bandiera socialista, in cui una mano bianca e una nera si stringevano, a simboleggiare un modello di società umana dove l’amicizia regna tra i popoli e dove l’accesso alla risorse economico-culturali non è un privilegio riservato a una casta, ma è condiviso da tutti.



Sembra che uno dei principali ostacoli alla realizzazione di tale luminosa società sia costituito dalla ricchezza non distribuita. Il problema è annoso. Chissà se qualche storico si è mai preso la briga di contare le rivolte avvenute nei secoli, con protagonisti i lavoratori, talvolta come contadini sottopagati e talaltra come operai sfruttati: quel popolo cosiddetto minuto che non per questo può fare a meno di nutrirsi e di sognare una vita migliore per sé e per i propri figli.
Tassare i miliardari (da un milione di dollari di reddito l’anno in su) permetterebbe di iniziare a invertire il processo. La cosa fondamentale è procedere con un piano che opera nel presente guardando al futuro, così argomentava un giovane relatore dal “palco”. Abbiamo un’agenda per riportare il costo della vita nella nostra città entro limiti di spesa affrontabili dalle famiglie della classe lavoratrice; il nostro progetto non è campato in aria perché abbiamo messo al centro l’essere umano e nello specifico il bambino. È lui il nostro futuro, il futuro dell’intera comunità. Un altro relatore racconta di sua moglie, che fa l’insegnante e da quest’anno ha alunni che non mangiano più in mensa con gli altri bambini perché non possono più permetterselo, perché il governo Trump ha tagliato loro i benefici sociali con cui pagavano il pasto. Un altro racconta che durante un porta a porta per Zohran una famiglia gli ha aperto la porta sommersa dagli scatoloni. Quasi in lacrime se stavano andando. Non è un caso isolato. Il fenomeno delle famiglie costrette a lasciare la città è in aumento e con loro se ne vanno anche i bambini, la gioia di ogni Paese. Lo spopolamento va fermato subito, altrimenti New York City morirà, non ci sarà alcun bene per nessuno, nemmeno per i miliardari, anche se loro ancora non lo comprendono.
Laura, Dzafer e io parliamo di questo e molto altro: “Ma pensano che siamo stupidi? Che non desidereremmo anche noi comprarci una casa invece che pagare un affitto, che suona sempre un po’ come buttare soldi dalla finestra? Noi in questo momento non possiamo nemmeno permetterci di parlarne a tavola.” “Dovevo scegliere se far studiare mio figlio o comprare casa; siamo rimasti in affitto.” “Perché alcuni esseri umani sono così avidi? Preferiscono spendere milioni di dollari per contrastare l’ascesa di qualche politico con visioni diverse dalle loro piuttosto che pagare le tasse.” “Non è questa una forma di stupidità?” “È la malattia del potere, che va a braccetto con l’avidità.” “Con Zohran però gli è andata male, hanno buttato via milioni di dollari.” “Hai sentito che abbiamo vinto anche a Seattle?” “Sì, certo, con Katie Wilson. Non è incredibile che proprio ora stiano emergendo nuove figure politiche che affermano di volere un cambiamento radicale nella società? Zohran ha aperto la strada, ma in tanti devono seguirlo. Solo così ce la faremo, se saremo tanti, determinati e uniti.”
Così trascorriamo un’ora lieta, come vecchi amici al bar che condividono storie passate e speranze future; solo che noi ci siamo incontrati meno di due ore fa. O meglio Laura e Dzafer vivono nello stesso quartiere nel Bronx e si sono conosciuti a un porta a porta. Laura è siciliana naturalizzata americana; è un’artista, una cantante jazz e una frizzante guida turistica. A New York si è innamorata, si è sposata e ha deciso di investirvi il proprio futuro. Dzafer è musulmano e il newyorkese più newyorkese che abbia mai conosciuto. È arrivato nel Bronx a tre anni dal Montenegro, lì è cresciuto, in una strada piena di italiani, lì vive e lì desidera, quando arriverà il suo momento, morire; ridendo ci dice che a Brooklyn ha messo piede per la prima volta solo pochi anni fa perché gli hanno spostato l’ufficio.
Ci salutiamo abbracciandoci. Mentre mi allontano rifletto che condividere l’ideale di un mondo migliore e più giusto avvicina le persone e permette loro una comunicazione nuova, più profonda e, direi, finalmente umana; naturalmente crea uno spazio in cui le differenze personali si annullano, o almeno vengono sospese, in nome di qualcosa di più grande e che sia di tutti.
In questo tempo pazzo e magico a New York, dove sembra che si stiano rimescolando le carte del mazzo (l’ho sentito chiamare il momentum, lo slancio), a volte mi sento così leggera che basterebbe un alito di vento per farmi volare.