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Un ponte per Gaza. Catena umana per la Palestina a Venezia
Il 2 agosto a Venezia sul ponte della Costituzione (vulgo Calatrava) è esplosa ancora una volta la rabbia e l’indignazione dei cittadini veneziani per il genocidio in atto in Palestina. Da quasi due anni assistiamo sgomenti alla furia omicida dello Stato di Israele contro la popolazione assediata della Striscia di Gaza. Come se non bastassero i bombardamenti su case ospedali, scuole, impianti idrici e agricoli, in aggiunta agli sfollamenti, ai cecchini, alle demolizioni, agli arresti e alle torture, ora Israele usa la fame come arma di guerra. Più di cento bambini sono già morti di fame e molti altri seguiranno, dal momento che Israele insiste a limitare l’ingresso dei rifornimenti non solo alimentari, ma anche sanitari e energetici. È ora che il governo italiano prenda posizione contro il genocidio, che l’Europa imponga sanzioni ad Israele, che il diritto internazionale sia rispettato. Basta negazionismo o vuoti appelli alla pace: ne va delle nostre democrazie, delle nostre libertà e del futuro dell’intera umanità. Da una sponda all’altra del frequentatissimo ponte sul Canal Grande, una lunga catena di persone si è schierata sui due lati alzando come bandiere le foto che documentano i crimini in Gaza e obbligando i passanti a sfilare davanti all’orrore. Pentole e padelle hanno risuonato per rompere il silenzio e l’indifferenza di chi preferisce non schierarsi. Gli slogan scritti o gridati sia in italiano che in inglese hanno invitato al boicottaggio delle merci israeliane, al blocco del commercio di armi, denunciando la complicità di Leonardo che continua a cooperare con Israele. Palestina libera e Israele criminale gli slogan più scanditi. Un presidio determinato e partecipato. La lotta per la Palestina libera non si placa. Presidio promosso dal Comitato contro il razzismo e la guerra di Marghera. Hanno aderito: Comitato 23 settembre, Rete Sanitari per Gaza – Veneto, Cinema senza Diritti, Tendenza Internazionalista Rivoluzionaria, Giovani palestinesi Italia, Assopace Palestina, SGB Venezia, Bella Ciao – cittadini non indifferenti di Quarto d’Altino, XR Venezia, Comunità palestinese Veneto. Redazione Italia
Da Leopoli a Kiev in treno
Sono arrivato ieri sera a Kyiv (Kiev) partendo da L’viv (Leopoli) in treno. Il treno è partito con un ritardo di oltre un’ora, ma ha recuperato ed è arrivato sostanzialmente puntuale. Ho viaggiato in uno scompartimento da sei persone come tempo fa c’erano anche in Italia, ma che da decenni non vedo più. Oltre a me ci sono tre donne sulla trentina, che con un Inglese n po’ stentato mi chiedono chi sono, da dove vengo, cosa sono venuto a fare e, come sempre mi capita, ogni risposta (Italiano, di Roma, maestro elementare e reporter volontario di una Agenzia di Stampa Internazionale indipendente e no profit) suscita sorpresa, rispetto e ammirazione. Le signore sono molto gentili, due non conoscevano la terza arrivata, ma hanno fatto presto amicizia grazie al cagnolino simpaticissimo ed affettuosissimo che “fa banco” per tutto il viaggio. Penso che la nuova disposizione delle poltrone, per la quale tutti si danno le spalle, ostacoli volutamente la socializzazione tra le persone. Ricordo i viaggi in treno da ragazzino, per andare a trovare a Bologna la nonna, gli zii e cugini paterni. Verso mezzogiorno nello scompartimento, famiglie di immigrati dal Sud, che tornavano per le ferie al loro paese, tiravano fuori da mangiare ogni ben di dio e insistevano per offrirci da mangiare. Era l’Italia dei primi anni Settanta e noi, “suprematisti lombardi”, gentilmente, ma con fermezza, declinavamo gli inviti di questi lavoratori che parlavano una lingua semi-incomprensibile. Ho imparato una quindicina di anni dopo quali genuine delizie mi sono perso. La capotreno, mi spiegano, vende il tè e alcune cose da mangiare. Vado a prendere il tè, che prepara lei, poi mi viene fame e prendo un paio di bustine: arachidi e bastoncini di “pane abbrustolito e aromatizzato alle erbe” e soprattutto una scatoletta con patate liofilizzate ed aromi a cui la capotreno aggiunge acqua bollente creando un ottimo purè di patate. Dal finestrino vedo soprattutto alberi, alberi ed alberi, una specie di brughiera. Si vede a occhio che la densità di popolazione, tra una grande città e un’altra è molto bassa. Finalmente arriviamo nella grande stazione di Kiev centrale, affollatissima di gente che va e che viene dalle ferie. Negozi di ogni tipo, uno vende solo cover per i cellulari. L’unico segno particolare è il metaldetector a cui i viaggiatori devono sottoporre se stessi ed i propri bagagli. La guerra non si vede né nella stazione né all’esterno di essa, dove imponenti palazzi e veri e propri grattacieli sorgono intatti. Stesso spettacolo per gli oltre tre km che percorro a piedi, fino al monohotel: si chiama così perché le camere sono sostanzialmente “loculi di 2mq” ipertecnologici, di plastica, uno sopra ad un altro per un totale di una ventina di posti, bagni e docce in comune. Zona delle più sicure perché il centro storico, oltre ai palazzi del potere ucraino, è formato da Basiliche splendide e da ambasciate e, finora, i Russi non lo hanno sfiorato. “Come fai a dormire lì dentro?” mi chiede un’amica. “Ma quando in campeggio dormivamo in una tendina canadese era forse meglio?” Ci sono notti a Kiev in cui non si dorme a causa del terrore, dentro casa o se possibile nei rifugi, per le esplosioni dovute all’attacco dei droni. L’altro ieri l’escalation ha fatto una vera strage di civili innocenti perché un missile russo ha colpito un palazzo. Kiev è immensa e non sarà facile trovarlo. Poi la gente… e soprattutto i tantissimi adolescenti e giovani che si incontrano per le strade e nelle piazze, con tanta voglia di vivere e di dimenticare… Se solo scendessero in piazza contro la guerra, per imporre un immediato cessate il fuoco, che garantisca il diritto alla vita e ad avere un loro futuro! Del resto lo hanno fatto in questi giorni di mobilitazione per la vera democrazia e hanno vinto contro le forze governative imponendo al presidente una precipitosa marcia indietro suggellata da un voto unanime del parlamento costretto a cancellare la legge “salva corrotti”… stazione di Leopoli il treno stazione di Kiev Kiev interno kiev interno kiev interno "monohotel" Mauro Carlo Zanella
Festival Alta Felicità IX edizione: molto più di un festival
Con un lungo, fragoroso, emozionante intermezzo di rumore alle 22 in punto di ieri sera per lo Sciopero dal Silenzio per Gaza indetto da Paola Caridi, Tomaso Montanari & Co, è trascorsa anche la terza serata del Festival dell’Alta Felicità che quest’anno ancor più della scorsa edizione ha registrato un’affluenza superiore a ogni aspettativa. Tantissimi gli spunti di riflessione emersi dalla quantità di incontri e dibattiti che non mancheremo di riprendere i prossimi giorni. Intanto vi proponiamo queste OSSERVAZIONI IN MARGINE DI LUCIA MALENGO Quest’anno al Festival Alta Felicità, organizzato dai NO TAV e giunto alla sua nona edizione, sono arrivati, in numero mai visto prima, giovani e meno giovani da tante parti d’Italia e da alcuni paesi europei. Questo fatto, oltre ad essere una buona notizia per chi da anni si oppone al TAV, rappresenta un interesse del tutto naturale per l’opera, che infatti è  stata definita dai proponenti “strategica” per l’Italia e per l’Europa tutta. Non per nulla i costi in continuo aumento del tunnel che dovrebbe unire Saint Jean de Maurienne con la piana di Susa sono sostenuti, oltre che da Francia e Italia, anche dalla Comunità Europea. Dunque non si tratta affatto solo di un problema della Valle di Susa ed è giusto che tutti i cittadini europei che ritengono ingiustificato questo dispendio abnorme di denaro pubblico, possano venire sul posto a rendersi conto della situazione e a manifestare il proprio dissenso. Del resto i tecnici TELT, a cui è affidata la realizzazione del tunnel di base, nella conferenza tenutasi a Susa il primo luglio scorso, hanno chiarito bene il ruolo strumentale della valle: essendo  attraversata da due strade statali, una ferrovia internazionale e un’autostrada, presenta aree già compromesse, come appunto la piana di Susa, a cui si può aggiungere qualche ettaro ulteriore per calare questa ennesima opera di interesse nazionale ed europeo, eliminando o spostando le “interferenze”, termine forse tecnico, che però suona vagamente sprezzante poiché riguarda case, strade, ferrovia locale, canali ecc. Foto di Marioluca Bariona E dunque il Festival Alta Felicità nasce come luogo di discussione  innanzitutto sull’opportunità di ampliare la compromissione del territorio,  ma estende  l’attenzione alla sostenibilità del modello di sviluppo sotteso, tenendo conto dell’attuale situazione economica, politica e ambientale nazionale e globale. Questo spiega un programma ogni anno ricco certo di musica e di spettacoli, ma soprattutto di conferenze, dibattiti, presentazione di libri e interviste su temi non immediatamente riconducibili al progetto TAV. Tutto ciò presuppone un’organizzazione piuttosto attenta e precisa, curata da intere squadre di volontari di ogni età. E in questo contesto, fin dal lancio del programma, si è annunciata,  con orari e destinazioni molto precise, una serie di “passeggiate” nei luoghi dei cantieri e in particolare è stata programmata una marcia con partenza dal campeggio del Festival per raggiungere l’area dell’attuale autoporto nella frazione Traduerivi di Susa: qui è  attivo un cantiere per lo smantellamento degli impianti di “Guida sicura” e la trasformazione della zona in luogo di stoccaggio e lavorazione dello smarino. Ebbene,  sabato 26 luglio la marcia è avvenuta come da programma e un’intera ondata di  manifestanti è entrata bellamente nel cantiere super recintato, sorvegliato e normalmente difeso dalle forze dell’ordine. Dopodiché qualcuno ha dato fuoco ad un’attrezzatura incustodita provocando una colonna di fumo nero durata un’ora circa; mentre servendosi tranquillamente del treno di linea, un altro gruppo di manifestanti ha raggiunto il cantiere più a valle, a San Didero, dove è in costruzione il nuovo autoporto e dove, pare, si erano concentrate le forze dell’ordine in tenuta antisommossa, che hanno respinto un tentativo di assalto. Durante la notte, poi, quando i manifestanti avevano ormai fatto ritorno al campeggio, qualcun altro, mettendo a rischio il boschetto circostante, ha dato fuoco alla struttura che (prima dei sigilli) ospitava il presidio No TAV di San Didero, posto esattamente davanti al cantiere attentamente sorvegliato  dalle citate truppe… L’impressione è ovviamente che si sia trattato  di una ripicca;  se fosse dimostrata,  sarebbe la prova di una situazione ampiamente sfuggita di mano. Intanto sui social fioccano post, per la verità piuttosto sgangherati, che alimentano confusione e sospetti: come mai il cantiere di Traduerivi, meta dichiarata della manifestazione, non era presidiato? Chi erano realmente i personaggi mascherati che hanno appiccato l’incendio? Chi ha incendiato (e non per la prima volta!) la casetta del presidio NO TAV di San Didero? Ci si può ancora definire No TAV considerando che nel movimento si annidano dei violenti? Come mai la statale percorsa dal corteo annunciato non era presidiata da polizia urbana o da altre forze dell’ordine? Ma, soprattutto, chi trarrà maggior vantaggio da questa confusione? Foto di Marioluca Bariona Foto di Marioluca Bariona Foto di Marioluca Bariona Foto di Marioluca Bariona Foto di Marioluca Bariona Foto di Marioluca Bariona Centro Sereno Regis
“Disertiamo il silenzio” a Firenze: le foto
Diverse centinaia di cittadini in Piazza Sant’Ambrogio  questa sera nel cuore del centro storico di firenze, hanno risposto alla convocazione nazionale di un  “cacelorazo”, momento di una protesta rumorosa con tegami pentole coperchi, per rompere il vergognoso silenzio su quanto sta avvenendo a Gaza. Promosso da Tomaso Montanari  e molti altri esponenti della società civile raccolti nella  la rete di L’ultimo giorno di Gaza  l’evento ha visto l’adesione di tutte le associazioni  pro Palestina  fiorentine Sono i tamburi della GKN immancabili propal che in questa occasione hanno guidato  con ritmo sempre più incalzante gli slogan “Palestina libera” e  “Palestina libera  dal Fiume fino al Mare” che tutta la piazza di giovani e meno giovani ha  gridato compatta e risoluta. disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana disertiamo il silenzio fi ph Cesare Dagliana Redazione Toscana
Quattro voci a proposito del Mar Mediterraneo
Giovedì 17 luglio presso gli spazi del Kontiki (Via Cigliano 7) di Torino ha avuto luogo la presentazione di due libri: “Sospesa: Una vita nella trappola dell’Europa” (add editore, 2025) di Mariangela Paone, giornalista di El País, e “Mare Aperto – Storia umana del Mediterraneo centrale” (Einaudi, 2025) di Luca Misculin, giornalista de Il Post. L’evento, organizzato in collaborazione con Medici Senza Frontiere e Mediterranea, ha visto anche gli interventi di Riccardo Gatti e Celeste Mosca, rispettivi collaboratori delle ONG coinvolte. Quattro voci impegnate nel raccontare alcuni dei volti del Mar Mediterraneo; luogo di migrazione, pirati, tragedie umane, commercio e storicamente al centro di un infinito dibattito politico. Nonostante la “piccola” dimensione del Mar Mediterraneo, racconta Luca Misculin, questa distesa d’acqua è lo sfondo di continui ed importanti eventi: la guerra russo-ucraina (il Mar Nero è la propaggine orientale del Mediterraneo), il conflitto tra Israele e Striscia di Gaza o il capovolgimento di Bashar al-Assad in Siria sono tutti esempi utili per osservare la centralità geografica, sociale e culturale del Mediterraneo. Misculin si tuffa in una parentesi storica. Intorno alla fine del ‘400, momento nel quale vengono scoperte le Americhe e di conseguenza si espande l’esplorazione dell’Oceano Atlantico, il Mediterraneo sembra perdere il proprio status di centro del mondo. Gli uomini del tempo, come avviene dopo ogni grande scoperta, sono convinti che il futuro mercantile (ma anche politico) si sposterà velocemente in quella zona che separa l’estremo Ovest europeo dall’Est americano, ma la realtà odierna del Mediterraneo si dimostra essere un capo d’abbigliamento intramontabile, un pino verde anche nel più gelido degli inverni. Continuando a nuotare nella Storia, Misculin abbraccia un racconto difficile da districare dall’afflato leggendario: l’autore, particolarmente concentrato nello studio del Canale di Sicilia, cita Lampedusa ed il suo antico e profondo legame con i pirati sviluppato tra i tre e i quattrocento anni fa. L’isola siciliana, parte dell’arcipelago delle Isole Pelagie, è il nodo centrale di un ipotetico Triangolo delle Bermude mediterraneo composto insieme all’Isola di Pantelleria e Malta; grazie alla sua pozione geografica propizia e all’assenza di abitanti, i pirati la trasformano presto in un’importante zona di attracco. I nuovi occupanti si rendono conto essere presente sull’Isola un santuario-grotta, eretto probabilmente al tempo dell’invasione musulmana della Sicilia, e lo trasformano in un luogo di culto tanto per i pirati cristiani, quanto per i musulmani. Lampedusa si trasforma in zona franca, di rifornimento e di conseguenza in un luogo in cui vige tra pirati la regola di non combattersi all’interno del territorio: tale legge di non belligeranza si estende velocemente anche a tutti quegli schiavi che, in un modo o in un altro (ad esempio, grazie ai naufragi delle imbarcazioni schiaviste su cui navigano), riescono a raggiungerne la riva; giunto sull’Isola, ogni uomo può considerarsi libero. Misculin, a questo punto, lascia spazio al presente storico: ancora oggi Lampedusa rappresenta per molte persone l’opportunità per una vita migliore e libera da povertà, guerre, fame o dittature. Il Mar Mediterraneo è un luogo profondamente eterogeneo in cui sono avvenute e avvengono le più disparate attività: dal commercio legale, al contrabbando; da eventi criminali, ad attraversate all’insegna di una vita migliore; da conflitti armati, alla pirateria. È in virtù di questa eterogeneità e vitalità che si dovrebbe prestare sempre attenzione al Mar Mediterraneo curandolo, con spirito di collaborazione nazionale ed internazionale, evitando di girargli le spalle e fingendo sia un problema di qualcun altro. Mariangela Paone raccoglie il microfono e racconta la storia di Rezwana Sekandari. Rezwana parte da Kabul (Afghanistan) insieme ai genitori (Naseer e Fatima), due sorelle (Negin e Mehrumah) ed un fratello (Hadith). Ma questo non è un viaggio di piacere come tanti. Naseer è un giornalista di un’emittente televisiva privata afghana e Rezwana fin da piccola ha la possibilità, grazie ai contatti del padre, di doppiare personaggi delle serie tv americane all’interno della medesima emittente. Tra la fine del 2014 e l’inizio del 2015 Naseer decide di fuggire da Kabul a causa delle minacce ricevute in risposta alle inchieste svolte sulle autorità locali. Inizialmente la famiglia cerca un modo per viaggiare in modo sicuro chiedendo all’ambasciata statunitense dei visti per tutti, ma l’organo USA dà la possibilità solo alla madre ed ai figli di lasciare il Paese. Fatima, dunque, rifiuta perché non se la sente di intraprendere da sola un viaggio con quattro bambini. A questo punto la famiglia imbocca l’itinerario alternativo: volano a Teheran (Iran), si spostano dalla capitale a Tabriz (Iran) per poi prendere un autobus diretto verso il confine turco; qui, a bordo di un’automobile, vengono condotti su un furgone che, dopo svariati tentativi, riesce a portarli in territorio turco e poi ad Istanbul (Turchia); la successiva fermata è una spiaggia di Smirne (Turchia) in cui si imbarcano su un’affollata nave di profughi (sono 300 le persone a bordo) in rotta per l’Isola di Lesbo (Grecia). Il 28 ottobre 2015, momento nel quale Rezwana ha 13 anni, la nave di legno su cui la famiglia viaggia affonda a tre chilometri dalla costa; Naseer, Fatima, Negin, Mehrumah e Hadith muoiono annegati. Rezwana viene invece tratta in salvo da un peschereccio turco. La bambina riceve asilo in Grecia e poi riesce a raggiungere la Svezia (il Paese che Naseer sognava di raggiungere fin dal principio) grazie ad una prozia che vi abita. Purtroppo però la storia non è ancora conclusa: al compimento dei 18 anni, Rezwana è costretta a tornare in Grecia a causa del Regolamento di Dublino; viene deportata ad Atene nel febbraio 2020 (luogo in cui tutt’ora abita). È qui che Mariangela Paone (già a conoscenza fin dal 2015 del caso di Rezwana) interviene decidendo di scrivere un libro impegnato nel raccontare la storia della giovane donna. La giornalista riferisce di averla incontrata la prima volta nel 2021 nella capitale greca, occasione in cui immediatamente Rezwana chiede se sia possibile rintracciare i corpi della sua famiglia. Grazie agli sforzi di quella che Paone chiama la “rete dei fili invisibili” (persone che tengono a galla persone nonostante le falle del sistema di accoglienza), vengono ritrovati nel cimitero di Kato Tritos le tombe della madre (Fatima) e di una delle sorelle (Negin). Paone passa il microfono a Riccardo Gatti, SAR team leader, SAR advisor e Skipper attualmente legato a Medici Senza Frontiere. L’attivista denuncia la scelleratezza e la violenza strutturale del sistema di accoglienza, in particolare concentrandosi sul recente Decreto Piantedosi in materia di immigrazione. Quest’ultimo, infatti, mette mano sui metodi di assegnazione dei porti sicuri che comportano la selezione di attracchi lontani dai luoghi di salvataggio (in altre parole, lontani della Sicilia). La conseguenza di tale provvedimento è un drastico aumento dei costi di gestione per le navi ONG (ad esempio, se si salvano dei naufraghi a Sud della Sicilia è spaventosamente più costoso farli sbarcare a Genova che non sull’Isola stessa) e dei tempi di navigazione (ciò che prima si faceva in tre giorni di viaggio, ora ne richiede fino a dieci). Il Decreto Piantedosi è uno strumento di dissuasione che sembra aver funzionato (almeno in parte e momentaneamente): la Geo Barents, nave di Medici Senza Frontiere che ha salvato oltre 16mila persone in mare, ha interrotto nel 2024 le sue attività di salvataggio anche a causa degli eccessivi costi di navigazione per raggiungere i porti sicuri. Gatti cede la parola a Celeste Mosca, attivista e Rhib driver di Mediterranea. Mosca racconta l’intricata vicenda in cui Mediterranea è coinvolta, un’indagine operata dal GUP del Tribunale di Ragusa. Per ulteriori informazioni in merito, ne ho scritto in precedenza in questo articolo: Il mare affondato: Mediterranea Saving Humans tra CPR, indagini e rifugi. L’incontro si conclude con una preoccupazione. Misculin e Paone hanno timore dello stigma che vive chiunque si occupi di immigrazione: dai giornalisti, ai divulgatori; dai pochi politici interessati alla protezione dei migranti, agli attivisti; dai volontari, alle associazioni. I due giornalisti guardano con apprensione alla crescita dello stigma perché tale reprobazione può portare le persone a smettere di occuparsi di migrazione e, di conseguenza, alla fuoriuscita del tema migratorio dall’agenda comunicativa. È necessario ricordarlo: nonostante si parli di migranti in termini numerici, ognuno di loro è un figlio di qualcuno, una persona che ha sogni, progetti, aspirazioni e desideri; come tale va rispettata ed aiutata. È facile far ricadere le responsabilità sugli altri, ma se si vuole indicare la via della democrazia, è necessario sobbarcarsi l’onere di essere un esempio virtuoso. Michael Giargia
A Camp Darby no alla militarizzazione : le foto
Questa mattina gremito presidio  dei militanti conto il riarmo, il genocidio in Palestina  e il previsto ampliamento della base militare Usa di Camp Darby a Pisa.  Da tutta la costa  e anche da Firenze per dire  no ai progetti di ampliamento della base che è il punto logistico più importante  americano nel mediterraneo, ma soprattutto alla militarizzazione folle del territorio toscano che fra Pisa e Livorno prevede all’interno del Parco di San Rossore e Migliarino, parco  Presidenziale con zone naturali protette ,devastanti insediamenti di nuovi complessi militari. Una militarizzazione che  vede  il Comando Nato Sud Europa da pochissimi giorni  già operativo con tanto di alzabandiera Nato  a due passi dal centro storico di Firenze. ph Cesare Dagliana Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Camp Derby Pisa Cesare Dagliana
Un Tribunale simbolico per i crimini degli Stati contro i migranti
Continuano le azioni di Carovana Migranti a Calais dove ieri abbiamo fatto un sit-in spontaneo davanti all’Hotel de Ville con lenzuola della memoria, striscioni e slogan per ricordare che nessun essere umano è clandestino e che ognuno ha diritto a muoversi per il proprio pianeta terra. La polizia ci ha allontanato dopo aver identificato una partecipante alla carovana; dopo qualche minuto di tensione la situazione è migliorata e abbiamo potuto fare anche un altro sit-in davanti al CPR di Calais. Verso sera abbiamo fatto un momento di commemorazione nel parco centrale della città per la morte del giovane migrante sudanese di cui non posso dire il nome perché ancora la famiglia non è a conoscenza della sua morte. Durante la commemorazione hanno parlato molti migranti in particolare Ibrahim un sans papier ricercatore all’università Ante Diop del Senegal che ha ricordato le colpe di noi bianchi le colpe di noi europei rispetto allo sfruttamento e annichilimento dell’ Africa e con molta dignità e rabbia ha ricordato a tutti noi l’ intrinseco razzismo del sistema d’ apartheid con cui l’Unione Europea ha impedito a quasi tutto il mondo di potersi muoversi liberamente. Inoltre, ha ricordato anche il sacrificio degli africani subsahariani per aiutare la Francia a liberarsi dal nazifascismo e ha concluso il suo intervento dicendo che la Francia appartiene anche agli africani non solo ai francesi. In questa commemorazione hanno anche preso parte le nostre testimoni afghane in particolare Fatima ha ricordato le responsabilità della Marina Militare italiana e della Guardia di Finanza rispetto al naufragio di Cutro e ha chiesto che lo stato italiano paghi per la sua colpa di avere abbandonato la Summer Love e il suo equipaggio a se stessa ed alla forza del mare. Nella giornata di oggi è prevista la costituzione di un tribunale simbolico con giudici ed avvocati veri che dovrà appunto valutare le responsabilità dello Stato Italiano nel naufragio di Cutro e sarà l’occasione per le testimoni dei familiari di dettagliare bene le dinamiche della scomparsa, i nomi e le storie delle persone scomparse e dimostrare che i naufragi sono una conseguenza di un sistema che non vuole stranieri in Europa e cerca di bloccarli in tutti i modi anche quelli più mortiferi. Manfredo Pavoni Gay
Bloccare la guerra dai nostri territori è possibile – seconda parte
Nel pomeriggio di sabato 5 luglio, a partire dalle 15, il collettivo Stop Riarmo ha organizzato un pomeriggio di eventi presso il parco del Valentino. L’evento principale è il convegno “Bloccare la guerra dai nostri territori è possibile”, cominciato alle ore 16. Come indicato nell’intervento introduttivo l’obiettivo del convegno è un’analisi del clima bellico in cui ci troviamo a vivere con un particolare sguardo su Torino che in questo panorama ha un ruolo fondamentale: da una parte abbiamo le aziende belliche come Leonardo, Collins e  Thales che stanno aumentando il proprio fatturato e dall’altra parte abbiamo attori fondamentali come il Politecnico di Torino ed Intesa San Paolo che si legano sempre di più alla filiera bellica attraverso investimenti e collaborazioni contribuendo alla riconversione di Torino da città dell’Automotive a città dell’Aerospace. La guerra è sempre più vicina, lo si nota nei tagli alla ricerca universitaria ed alla sanità pubblica, nella militarizzazione dei territori e delle scuole, nella riconversione delle aziende che è sempre di più asservita alle logiche della guerra. Il convegno è organizzato in due panel: il primo consente una panoramica della situazione attuale e delle tendenze ed è stato descritto in questo articolo. Il secondo è dedicato alle testimonianze di attività dal basso e sarà oggetto di questo articolo. Si sono susseguiti il racconto delle esperienze dell’Intifada studentesca, del convoglio Soumoud, del Gruppo autonomo dei portuali di Livorno e del Movimento no base. Mariangela dell’Intifada studentesca spiega che l’attività del collettivo al Politecnico ha l’obiettivo di contrastare gli interessi israeliani attraverso il boicottaggio accademico ed il sapere dal basso. Vittoria ha parlato della sua esperienza alla Global March to Gaza che è stata bloccata dalle forze dell’ordine egiziane, ma soprattutto del convoglio Soumoud, partito dalla Tunisia e bloccato in Libia. Nel convoglio c’erano cinquemila persone che hanno costituito un fronte multi-politico, multireligioso e multigenerazionale. Il Gruppo autonomo dei portuali di Livorno considera fondamentale che ogni forma di lotta sia collegata. Quello che consente al meccanismo della guerra di funzionare non sono solo le armi, ma anche tutta la logistica necessaria al funzionamento dei vari fronti di guerra: generatori, rifornimenti, mezzi di trasporto, ricambi ecc. Dal porto di Livorno passa tanta merce per Camp Darby[1] eludendo la legge 185/90; in alcuni casi si è potuto intervenire attraverso lo sciopero sfruttando i pericoli per la sicurezza di lavoratori e cittadinanza, con i lavoratori in sciopero che sostituisco dal basso gli organismo di controllo che non si occupano del loro compito istituzionale di far rispettare la legge e proteggere i cittadini. In altri casi è sufficiente mettere in evidenza il traffico d’armi; chi si occupa di questo traffico non vuole che sia reso pubblico. I portuali di Marsiglia hanno utilizzato una strategia diversa, quella di bloccare con lo sciopero la nave cargo che trasportava munizioni intimando all’armatore di scaricarle; l’armatore, che trasportava altra merce ed aveva stringenti vincoli di consegna, ha scaricato rapidamente il carico incriminato per poter proseguire il viaggio. Noi portuali possiamo fare questo tipo di azioni perché siamo dentro i porti, ma abbiamo bisogno di aiuto per raccogliere le informazioni e seguire i carichi che viaggiano per i porti d’Europa; a questo scopo è fondamentale il lavoro di organizzazioni come WeaponWatch. Presto sarà disponibile un vademecum per consentire a chiunque di aiutarci in questo lavoro informativo e creare una rete per rallentare la logistica della guerra. Il Movimento No Base contrasta il progetto di una nuova base militare a Coltano (Pisa) all’interno del Parco di San Rossore al posto dell’ex base militare CISAM che contiene al suo interno anche un reattore nucleare dismesso. Il territorio è già ampliamente militarizzato perché ospita Camp Darby, le basi della Folgore, l’aeroporto militare, uffici e fabbriche di Leonardo e la ferrovia del Tombolo usata per trasportare le munizioni per Camp Darby. La basa dovrebbe ospitare due reparti speciali dei carabinieri, il GIS (Gruppi di intervento speciale) ed il Reggimento Tuscania che operano sull’area del Mediterraneo allargato. L’obiettivo del movimento è quello di bloccare il progetto e definire delle alternative dal basso alla militarizzazione del territorio. [1] Camp Darby è una base militare dell’Esercito Italiano, dove sono stanziate e operano unità militari statunitensi, situata nella Tenuta di Tombolo del comune di Pisa. La base, chiamata in precedenza USAG Livorno, è stata riorganizzata come sito satellite dello United States Army Garrison (USAG) Italy, che ha la sua sede centrale a Vicenza, e rinominata dal 3 ottobre 2015 Darby Military Community (DMC), la quale include lo stesso Camp Darby, il deposito di Livorno e il deposito munizioni di Pisa dello United States Army. (fonte Wikipedia) Giorgio Mancuso
Bloccare la guerra dai nostri territori è possibile – prima parte
Nel pomeriggio di sabato 5 luglio, a partire dalle 15, il collettivo Stop Riarmo ha organizzato un pomeriggio di eventi presso il parco del Valentino. L’evento principale è il convegno “Bloccare la guerra dai nostri territori è possibile”, cominciato alle ore 16. Come indicato nell’intervento introduttivo l’obiettivo del convegno è un’analisi del clima bellico in cui ci troviamo a vivere con un particolare sguardo su Torino che in questo panorama ha un ruolo fondamentale: da una parte abbiamo le aziende belliche come Leonardo, Collins e  Thales che stanno aumentando il proprio fatturato e dall’altra parte abbiamo attori fondamentali come il Politecnico di Torino ed Intesa San Paolo che si legano sempre di più alla filiera bellica attraverso investimenti e collaborazioni contribuendo alla riconversione di Torino da città dell’Automotive a città dell’Aerospace. La guerra è sempre più vicina, lo si nota nei tagli alla ricerca universitaria ed alla sanità pubblica, nella militarizzazione dei territori e delle scuole, nella riconversione delle aziende che è sempre di più asservita alle logiche della guerra. Il convegno è organizzato in due panel: il primo consente una panoramica della situazione attuale e delle tendenze. Il secondo è dedicato alle testimonianze di attività dal basso e sarà oggetto di un altro articolo. Nel suo intervento, Michele Lancione, professore del Politecnico di Torino, suggerisce di guardare alle università israeliane e statunitensi per avere un’idea delle conseguenze e dei pericoli della collaborazione tra le università ed il complesso militare industriale; l’università perde in questi casi la fondamentale funzione di luogo del dibattito pubblico diventando un tutt’uno con il complesso militare industriale. Ad esempio, nessuna università israeliana ha preso una posizione pubblica sul genocidio a Gaza ed esistono liste di prescrizione ovvero elenchi di accademici che non possono essere invitati a tenere lezioni; anche le università statunitensi hanno, di recente, incontrato problemi a prendere posizione su questi temi. Le università italiane non sono ancora a questo stadio di compromissione con l’industria militare, ma è abbastanza chiaro che è in atto un processo in questa direzione come si può vedere nel caso del Politecnico di Torino. La causa principale dell’avvicinamento dell’industria militare all’università è la carenza dei fondi per la ricerca che spinge gli atenei a cercare fondi presso altri enti con grosse disponibilità finanziarie: fondazioni bancarie, industrie estrattive e, appunto, industria militare. Nello specifico, più l’industria militare entra nelle università più cambia l’assetto di quest’ultime e si cancella il pensiero critico; considerando dei casi specifici, FRONTEX non ha bisogno di collaborare con il Politecnico di Torino per ottenere le mappe di cui ha bisogno, ma gli è utile per questioni di immagine che quelle mappe escano con il logo del Politecnico di Torino. Il Politecnico di Torino cerca validazione collaborando con Leonardo S.p.A perché, nel suo progettare e costruire sistemi d’arma, rappresenta la punta tecnologica più avanzata; Leonardo S.p.A cerca la collaborazione del Politenico per fare washing culturale (tecno washing). Questo “abbraccio mortale” è inaccettabile perché l’università ha una valenza sociale, deve mantenere ed alimentare il pensiero critico, la possibilità di mettere in discussione quello che gli enti finanziatori fanno in giro per il mondo. Il tutto si inserisce in una crisi profonda di identità della nostra università: in una recente intervista a Repubblica, Il Rettore ha dichiarato che il Politecnico di Torino è pronto per ricevere i fondi di RearmEU. Questa dichiarazione è una novità assoluta: benché il Politecnico abbia sempre ricevuto finanziamenti dall’industria militare, mai questi finanziamenti sono stati dichiarati in maniera così esplicita. Ci sono poi le recenti modifiche al regolamento per l’etica e l’integrità della ricerca del Politecnico in cui al dettato costituzionale del ripudio della guerra è stata aggiunta un’eccezione riguardante la ricerca relativa alla difesa della patria, aprendo enormi possibilità a qualsiasi ricerca militare. Gianni Alioti dell’osservatorio Weapon Watch, analizza la questione dal punto di vista della logistica relativa alla movimentazione dei sistemi d’arma e dei sistemi che ne consentono il funzionamento. Gran parte delle armi utilizzate nei vari conflitti attivi viaggiano via mare e vengono caricate e scaricate anche nei porti italiani; in quest’ultimo caso spesso non si rispetta la legislazione italiana in merito.  Gli scioperi indetti dai lavoratori portuali per impedire di processare i carichi militari rappresentano un tentativo della base sociale di far rispettare la legge dal momento che gli organismi preposti a questo compito (Questura, forze dell’ordine, guarda costiera, finanza) più che far rispettare la legge 185/90 si preoccupano che le merci vengano processate. Weapon Watch nasce per dare supporto alla lotta dei portuali, che necessita di organizzazione e di informazioni per essere efficace, perché dal basso si può controllare la logistica della guerra mettendo sabbia negli ingranaggi di un’organizzazione complessa. Susanna di ReCommon concentra il suo intervento sull’aspetto finanziario dell’industria militare, in particolare sul ruolo di Intesa San Paolo che ha a Torino la sua sede principale. Intesa San Paolo è la più grande banca italiana, la più grande banca europea per capitalizzazione e tra le prime cinquanta banche mondiali; si tratta di una banca molto coinvolta con il finanziamento dell’industria militare, grande finanziatrice di Leonardo, ed il suo coinvolgimento con il settore è aumentato del 52% nel 2022 subito dopo l’inizio della guerra in Ucraina. Dalla Relazione Annuale del Senato sulle operazioni svolte per il controllo delle importazioni ed esportazione d’armi risulta che nel 2024 Intesa San Paolo ha gestito transazioni per 1,6 Miliardi di euro (dei 12 Miliardi in totale) con un impegno che si è mantenuto ai livelli degli anni precedenti. Per quanto riguarda il finanziamento ai settori militari ed aerospaziali nel periodo 2016-2024, l’esposizione finanziaria di Intesa san Paolo è stata di quasi 2,5 miliardi di dollari. L’anello finanziario è fondamentale per l’industria bellica ed il mantenimento dei conflitti, tanto da essere citato nell’ultima relazione di Francesca Albanese, relatrice speciale delle Nazioni Unite sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati; malgrado i regolamenti etici molte istituzioni finanziarie (banche, fondi di investimento, fondi pensione ecc.) stanno finanziando l’industria bellica, quando non direttamente gli stati coinvolti in guerre. Terry Silvestrini è intervenuta a nome dell’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e delle università. La guerra ha bisogno del consenso della popolazione e del suo ingaggio, ha bisogno della propaganda, che è già guerra; da qui l’interesse degli ambienti militari verso la scuola. I ministeri della Difesa e dell’Istruzione e del Merito hanno in atto diversi protocolli di collaborazione, innanzitutto per facilitare il reclutamento, inserendosi nei percorsi di orientamento al lavoro degli ultimi anni della scuola superiore. In questi percorsi di orientamento la carriera militare vien presentata come una scelta “smart” in grado di consentire la piena realizzazione delle proprie aspirazioni e soprattutto in grado di garantire un lavoro. L’Osservatorio lavora proprio nell’ottica di evidenziare e decostruire questa narrazione, per una scuola che educhi alla pace ed alla convivenza e non contribuisca a normalizzare il clima di guerra. Eleonora Artesio del Comitato per il Diritto alla Tutela della Salute e alle Cure sposta al punto di vista sul Servizio Sanitario Nazionale[1], uno dei servizi colpiti dall’aumento delle risorse militari al 5% del PIL. Il SSN italiano è concepito come uno dei più moderni e completi a livello mondiale, non a caso è nato su spinta di un grande movimento popolare. Questa modernità è espressa dalla sua forma universale: è un diritto della persona, non del cittadino o del contribuente. La narrazione dominante racconta che non possiamo permetterci un sistema sanitario di queto tipo, ma la realtà è la progressiva riduzione delle risorse previste in termini di percentuali del PIL che lo sta distruggendo alla radice. La difesa del SSN diventa quindi un’altra battaglia culturale e sociale fondamentale anche per scegliere come usare le risorse e bloccare il riarmo.     [1] Si parla di Servizio Sanitario Nazionale usando il termine usato nella legge 833/78 che lo istituì perché il servizio è prioritario sul sistema che lo deve garantire Giorgio Mancuso
“Guerra o Clima?”: Extinction Rebellion sulle colonne e le statue del comune di Torino chiede l’interruzione dei rapporti con Israele
Extinction Rebellion ha vestito le statue all’ingresso del Comune di Torino con dei gilet con i colori della Palestina, arrampicandosi sulle colonne e appendendo uno striscione con scritto: “Torino 2030: Clima o Guerra?”. Il movimento chiede al Comune di approvare la mozione, in discussione mercoledì 9 luglio, per la rescissione dei rapporti con Israele, come fatto da altri comuni, impegnandosi contro guerra e riarmo e verso la neutralità climatica al 2030. “Emissioni zero significa guerra zero”. Nuova azione di protesta di Extinction Rebellion a Torino: sono arrivati pedalando di fronte al Comune di Torino e, lasciate le biciclette a terra davanti all’androne, si sono arrampicati sulle due statue ai lati dell’ingresso, vestendole simbolicamente con dei gilet della Palestina, ed appendendo un grande striscione tra le due colonne con scritto: “Torino 2030: Clima o guerra?”. Un altro striscione, sorretto a terra da alcune persone recita “Basta accordi con stati genocidi”. “Il Comune di Torino si è impegnato ad azzerare le emissioni entro il 2030” afferma Maria di Extinction Rebellion. “Questo impegno, se rispecchia una reale preoccupazione per il peggioramento del clima e gli impatti sulla vita sulla Terra, non può prescindere da una presa di posizione sulle guerre in corso e sul riarmo. Un primo passo è interrompere qualsiasi rapporto istituzionale con Israele, come hanno già fatto Bologna e Bari insieme ad alcune regioni, approvando la mozione in discussione il prossimo mercoledì“. La nuova protesta di Extinction Rebellion arriva a qualche mese da quella alla sede di Leonardo SpA, quando sulla ciminiera di corso Marche scrissero “Life not war”, calandosi da 50 metri di altezza, e dall’occupazione dei centri di produzione della stessa azienda a Roma e Brescia. La manifestazione di oggi vuole sottolineare nuovamente il grande impatto che la corsa al riarmo e le guerre in atto hanno e avranno sulla crisi del clima e degli ecosistemi, e sollecitare l’amministrazione comunale a prendere ufficialmente posizione sul genocidio in corso a Gaza, approvando la mozione in discussione in Consiglio comunale il prossimo mercoledì. Il Comune di Bologna, il Comune di Bari e le Regioni Puglia ed Emilia Romagna e la Toscana, al momento, hanno già interrotto le relazioni istituzionali con Israele, proprio per condannare i bombardamenti dell’esercito israeliano che hanno ucciso e continuano ad uccidere decine di migliaia di civili nella Striscia di Gaza. “Il nostro è un invito ad essere coraggiosi e prendere atto del legame tra guerra e investimenti nel settore delle armi e agire attraverso atti politici concreti e non simbolici, distaccandosi dalle politiche militari del governo nazionale ed europeo. Emissioni zero significa guerra zero” sottolinea Alessandro, una delle persone appesa sulle colonne. Le cronache raccontano, infatti, come nella stessa settimana in cui al vertice NATO dell’Aja Giorgia Meloni ha impegnato l’Italia a investire il 5% del PIL sulla difesa, la penisola intera stia soffrendo sotto una ondata di calore precoce. La spesa militare globale è a livelli record, con aumenti che non si vedevano dalla Guerra Fredda, e nell’ultimo decennio in Italia è aumentata di circa il 30%, sebbene il settore militare sia responsabile del 5% delle emissioni climalteranti, come evidenziato in un rapporto pubblicato in aprile. Contemporaneamente, gli impegni e gli investimenti degli scorsi anni sulla decarbonizzazione vengono abbandonati: l’Unione Europea ha appena approvato il nuovo target di riduzione della CO2 introducendo meccanismi di contabilità delle emissioni che, secondo gli scienziati, renderebbero tale impegno inefficace e un compromesso politico al ribasso. Una contraddizione che preoccupa in questo caldissimo inizio d’estate: lo scorso fine settimana, per la prima volta da quando i dati vengono registrati, lo zero termico ha superato già in giugno i 5mila metri, ben oltre la cima del Monte Bianco, con la fusione di ghiacciai e nevai su tutto l’arco alpino. Il termometro ha segnato temperature prossime ai 40°C in moltissime città, con preoccupanti ripercussioni per la salute delle persone più fragili, primi fra tutti anziani e bambini piccoli. E in Piemonte il rio Frejus, a Bardonecchia, ha di nuovo inondato il paese con una valanga di acqua e fango, uccidendo una persona e costringendo i vigili del fuoco a numerosi interventi. “Mentre le condizioni climatiche del pianeta peggiorano davanti ai nostri occhi e facciamo i conti ogni settimana con un nuovo evento climatico estremo, siamo di fronte a una scelta” conclude Alessandro “investire in armi e distruzione o opporci attivamente a questa follia e proteggere il pianeta e la vita che lo abita”. Extinction Rebellion