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Perché l’ideologia woke è di destra
L’ideologia woke già da due anni ha perso smalto e innocenza, per diventare nelle mani delle destre l’insulto ideale con cui screditare ogni lotta contro razzismo, ingiustizia, oppressione. Il wokismo è diventato il dispositivo retorico reazionario della destra per criticare chiunque parli di lotta al colonialismo e all’imperialismo, anche se spesso e volentieri discorsi apparentemente anticoloniali stanno sullo sfondo dei discorsi woke. Non è un caso infatti che erroneamente molti autori progressisti vengono definiti woke, pur non essendolo di fatto. Ciò alimenta ancor di più la confusione sotto il cielo. L’obiettivo della destra è delegittimare chi parla di colonialismo occidentale e dei suoi crimini nella storia degli ultimi secoli, continuando a portare in palmo di mano i presunti “valori occidentali”. Dall’altra parte le esplosioni di puritanesimo rieducativo scatenato dagli eccessi della cancel culture hanno alienato chi, pur di opinioni progressiste, non accettava questo clima di inespressione. C’è chi la demonizza, descrivendola come una sorta di perversione-ossessione, e c’è chi invece la considera una forma addirittura di “progresso morale e spirituale dell’umanità”. Ma che cosa significa Woke? E in che cosa consiste questa nuova ideologia che sembra diventata egemone in molti ambienti della cosiddetta “sinistra neoliberal” occidentale? Sebbene sia fondamentalmente presa di mira dalla destra più reazionaria, davvero è di sinistra? Esistono, oltre alle solite critiche della destra bigotta e conservatrice, anche altre più sensate che mettono a nudo le ipocrisie e fanno luce sui suoi legami con l’attuale sistema-mondo e la sua ideologia di fondo, il neoliberismo? Il termine Woke,– letteralmente “sveglio” – entra ufficialmente nei dizionari dell’anglosfera a partire dal 2017 dopo essere stato adottato dal movimento anti-razzista Black Lives Matter. Non si tratta di una visione politica complessiva e organica, ma di un insieme – spesso anche un po’ caotico – di teorie e di rivendicazioni diverse ma che, secondo autori importanti come Chomsky o Zizek, hanno comunque un senso storico preciso e coerente: un vero e proprio cambio di paradigma nelle teorie e nelle pratiche politiche della sinistra occidentale. La sinistra non di sempre, ma la sinistra liberal: quella che non critica il capitalismo, ma parla di “capitalismo inclusivo”; quella che non parla di liberazione dai sistemi di oppressione, ma di emancipazione nei sistemi stessi; quella che non parla di mettere in discussione gli attuali rapporti di potere, ma vuole integrare tutti negli attuali ruoli di potere; infine quella che non parla di socialismo, ma di “mercato libero” in nome del “neoliberismo progressista”. L’ideologia Woke spazia dai classici temi connessi ai diritti civili ad alcune nuove battaglie culturali che vanno dalla distruzione di monumenti del passato alla politicizzazione degli orientamenti sessuali visti come atti di autoaffermazione, alla legalizzazione della gravidanza surrogata, alla censura del linguaggio ritenuto scorretto: da qui i grandi temi delle “guerre culturali”, la polarizzazione radicale dell’opinione pubblica e la lotta per il politically correct).   Questo nuovo orientamento politico ha origine in quella corrente culturale nota come postmodernismo emersa negli anni Settanta nelle università francesi e poi diffusasi in alcuni ambienti della sinistra liberal americana da cui poi è stata pienamente fecondata. Un nuovo approccio che prenderà anche il nome di New Left e che si caratterizza per una cesura piuttosto netta con la tradizione socialista e marxiana e si fonda su nuove teorie dello sfruttamento e dell’emancipazione più compatibili con le strutture capitaliste. A partire dagli anni Ottanta, con la crisi dell’Urss e l’affermarsi delle strutture economiche neoliberiste, che questa ideologia comincia a diffondersi e ad affermarsi. Per quanto quasi nessuno si definirebbe Woke, oggi nel nostro Paese gran parte di queste idee sono entrate a far parte dell’immaginario politico delle nuove generazioni, e questo anche grazie all’adesione ad alcune delle sue teorie da parte attori, influencer e di buona parte dell’industria dello spettacolo e dell’intrattenimento. Dall’altro lato della barricata, ad avere risonanza sono purtroppo quasi solo le critiche mosse dalla destra bigotta e reazionaria che, in nome di una tradizione da loro arbitrariamente inventata, si erge ad eroica guardiana dei sacri valori del patriarcato, della distinzione dei ruoli di genere e, in generale, di come si facevano le cose una volta. Ma al di là del generale Vannacci e dell’estrema destra italiana, in questi anni anche tanti intellettuali di sinistra hanno preso posizione contro alcune delle tesi antropologiche e politiche dell’ideologia Woke più superficiali e contro l’atteggiamento aristocratico e antidemocratico di alcuni suoi esponenti. Nel suo libro Categorie della politica, Vincenzo Costa sottolinea, ad esempio, anche l’atteggiamento spesso elitario e classista di questa nuova sottocultura. Maturata all’interno delle università, l’ideologia Woke ha infatti fatto presa soprattutto negli ambienti di lavoro intellettuale e negli strati più agiati della popolazione. Nonostante il bombardamento mediatico, le classi popolari ne sono rimaste sostanzialmente estranee e, anzi, spesso guardano ad essa con ostilità e sospetto. Come scrive la giornalista Florinda Ambrogio: “La correlazione tra redditi alti dei genitori e comportamenti Woke dei figli salta agli occhi. […] In Francia, solo il 40 per cento degli operai ha sentito parlare della scrittura inclusiva e solo il 18 per cento sa di che cosa si tratta, contro il 73 per cento nelle categorie superiori.” Ma questa diffidenza e ostilità non è casuale e ha ragioni politiche profonde. Nella New Left postmoderna vengono infatti ridefinite le nozioni di dominio e di emancipazione: il soggetto da emancipare smette di essere identificato nei ceti subalterni e nelle classi lavoratrici – ossia le persone vittime della miseria e della precarietà – per diventare le minoranze etniche e sessuali e di coloro che, indipendentemente dal reddito, sono considerati o si sentono “diversi”. Diventando questi ultimi i soggetti sociali da emancipare, gli operai, contadini, impiegati e, in generale, le classi popolari, a causa della loro cultura – che viene considerata dallo wokismo retrograda, ignorante e prevaricatrice – diventano magicamente espressione del nuovo potere da abbattere. Dalla lotta politica allo sfruttamento e per l’emancipazione del 99% quindi, con l’ideologia Woke si passa alla lotta culturale contro il costume e le tradizioni popolari, ritenute come un bacino uniforme di sessismo, razzismo, omofobia. Per questo, scrive Costa, “anche l’atto rivoluzionario non consiste più nello spezzare i legami di potere e dipendenza tra le classi e gli uomini, ma nel distruggere la cultura popolare come emblema di oppressione delle minoranze”. Diventa quindi chiaro perché la sinistra liberal appaia sempre più spesso un’elitè che, demonizzando lo stile di vita e i legami comunitari, vorrebbe imporre loro una rieducazione dall’alto in base alle proprie convinzioni di nicchia. “Categorie della politica” di Vincenzo Costa Come nota Zizek, questo progetto è probabilmente destinato a fallire. “Sceneggiatori, registi, attrici e attori” – scrive il filosofo marxista sloveno in un articolo chiamato Wokeness is here to stay – “cadono sempre di più nella tentazione di impartire lezioncine moraleggianti. Una forzatura che non ha riscosso successo tra il pubblico, nonostante il settore dell’immaginario è dove si conquista il mondo reale e si rovescia il pensiero delle persone”. Differentemente dalle grandi figure della tradizione socialista, insomma, queste nuove forme di “intellettualismo degenerato” (parafrasando Adriana Zarri, quando si scagliava sia contro il pensiero unico democristiano sia contro i falsi intellettuali pronti ad esaltare la società dei consumi), non sembrano interessati ad ascoltare e a dare voce agli interessi della maggioranza delle persone, ma solo a biasimarne gli stili di vita accusandoli di ignoranza e discriminazione: “Quella che in origine era una sacrosanta volontà di uguaglianza di diritti” – continua Costa in Le categorie della politica – “rischia di diventare una vera e propria guerra culturale dei primi contro gli ultimi”. Un esempio emblematico, in questo senso, è il caso del cosiddetto linguaggio inclusivo: in maniera del tutto arbitraria e in barba ai secolari processi storici di formazione linguistica, alcune nicchie di intellettuali americani e europei hanno deciso di voler modificare alcune desinenze e pronomi, accusando di discriminazione e prevaricazione tutti coloro che non si adeguano. Il linguaggio è un discorso molto più complesso e non avviene mai per scelte arbitrarie prese da un momento all’altro. Mentre si bersagliano i plurali linguistici, a non essere mai toccate dalle critiche Woke sembrano essere proprio le principali cause della riproduzione della diseguaglianza e della discriminazione, ossia i meccanismi di mercato e di distribuzione della ricchezza. Per dirla con una battuta “Ci si emancipa con successo dall’oppressione di grammatica e sintassi, mente ci si prosterna accoglienti verso i consigli per gli acquisti degli influencer” scrive Andrea Zhok. Alla luce di questa trasformazione nei concetti di “discriminazione” ed “emancipazione” appare ora molto più chiaro il nesso tra cultura Woke e neoliberismo e la ragione per la quale i grandi poteri di questo mondo si siano spesso fatti portavoce di questa nuova ideologia. Nel wokismo, le questioni socioeconomiche, i rapporti tra lavoro e capitale, lo strapotere della finanza internazionale e la perdita di sovranità democratica vengono surclassate. Centrale è invece il tema dell’identità e delle narrazioni identitarie poichè a destare scandalo è la notizia di cronaca, sulle quali si fa leva per generare consenso. In secondo luogo, il wokismo promuove una politica dell’individualismo e della frammentazione in cui ogni fronte comune che si fondi sull’interesse nazionale, sull’interesse di classe, sull’interesse di una comunità locale viene infiacchito da conflitti privati di autoaffermazione. Si parla spesso, per questa tendenza, di Identity politics – politiche dell’identità -, ma sarebbe più giusto parlare di politica di rigetto dell’identità, visto che ogni identità collettiva viene percepita con disagio da individui abituati a pensare che la libertà sia totale assenza di vincoli e legami e che il processo di liberazione sia sempre un processo non con, ma contro ogni comunità di appartenenza: per citare Sartre, per i rappresentati della cultura Woke, “l’altro è l’inferno.” A partire da questo tema, un’altra grande critica all’ideologia woke è stata mossa dalla filosofa Susan Neiman – statunitense trapiantata in Germania – nel suo libro “La sinistra non è woke. Un antimanifesto”. Dappertutto sta risorgendo un nazionalismo feroce e cinico, contrapposto alla globalizzazione e l’elezione di Donald Trump è arrivata a coronare una rimonta delle destre reazionarie in tutto il mondo, con punte di neofascismo o addirittura neonazismo. Com’è potuto succedere? Neiman ha una sua risposta. Non è economica, geopolitica o tecnologica, ma è una risposta culturale: la destra ha vinto perché la sinistra non esiste quasi più. Come ha dichiarato Neiman in una intervista a La Repubblica: «È dal 1991 che la sinistra è allo sbando. Non solo il socialismo di Stato; ogni forma di socialismo è stata vista come fallimentare. In più, con la fine del socialismo di Stato è come se si fosse estinto ogni altro ideale e proprio qui il neoliberalismo, sostenuto dalla psicologia evoluzionistica, ha sostenuto e propagandato che l’unica forza universalista valida fosse il desiderio generale per beni di consumo e potere. E quelli a sinistra che non accettavano di aderire a questa prospettiva, si sono sentiti senza alternative se non combattere l’oppressione in termini molto particolari: la lotta al razzismo, al sessismo e all’omofobia. Lotte fondamentali, ma che non si possono portare avanti senza quei princìpi che proprio il progressivismo woke ha abbandonato». Dalla seconda metà del Novecento, secondo Neiman, i valori della sinistra sono stati messi in discussione proprio da certe frange neoliberali e movimentiste. Ed è così che molti fra coloro che oggi si considerano “di sinistra” non sono davvero “di sinistra”, ma sono “woke”. Che è una cosa diversa, anzi, in un certo senso è proprio il contrario: un movimento che vive la modernità in tutti i suoi aspetti futili, ma diffida delle sue fondamenta spesso senza cognizione di causa; che vive del mito del progresso economico, ma diffida dei suoi presupposti; che nega ogni fronte comune possibile, frammentando il corpo sociale in tribù identitarie in lotta; che rinuncia ai diritti sociali e si aggrappa esizialmente ai diritti civili. Già alla prima riga, Susan Neiman dichiara che questo libro non è «una tirata contro la cancel culture», ma è molto di più: un anti-manifesto, una lucida requisitoria sugli sbagli che la sinistra ha fatto, in questi decenni confusi. Perché è solo tornando a costruire, dalle fondamenta dei propri valori, che la sinistra può risorgere. «Woke fa appello alle tradizionali emozioni liberali e di sinistra: il desiderio di aiutare oppressi ed emarginati. Per questo motivo si tende a sottovalutare i vari modi in cui il movimento woke è profondamente minato al suo interno da idee molto reazionarie: il rifiuto dell’universalismo, la negazione che esista una distinzione di principio tra potere e giustizia, credere che ogni tentativo di progresso sia una forma mascherata di sottomissione. Tutte le idee che il woke tenta di boicottare sono valori fondamentali di sinistra» – ha affermato Neiman nell’intervista a La Repubblica – «(…) confonde la mente a progressisti e liberali che non riescono ad agire con chiarezza e, come si vede dalle recenti iniziative di Donald Trump, consente alla destra di qualificare e attaccare come woke qualsiasi tentativo di promuovere la giustizia sociale». Secondo la Neiman, è stata l’ideologia woke, con la sua retorica spesso irragionevole, a spalancare la strada alla destra più reazionaria. Il principale merito del pamphlet di Susan Neiman (che sta sbancando negli Stati Uniti) è di spiegare bene che il wokismo, un’ideologia fondamentalmente di destra, si è impossessata di ampie frange della sinistra. Neiman documenta brillantemente lo svilimento delle lotte “umanistiche” in rivendicazioni identitarie, l’infiltrarsi delle categorie schmittiane “amico-nemico” nel discorso politico di sinistra, la rinuncia alla concezione progressiva della storia ereditata dall’illuminismo. Rigettando universalismo, giustizia e progresso, i woke si sono sostanzialmente uniformati al particolarismo, all’ideologia del dominio e all’abolizione della speranza. Neiman non ha timore di dichiararsi socialista e persino illuminista. Se si va a vedere, la sua pars construens non è lontana da quella offerta da Axel Honneth in L’idea di socialismo. “La sinistra non è woke. Un antimanifesto” di Susan Neiman Ma la soluzione a queste contraddizioni non sarebbe il tanto ripetuto argomento per il quale bisogna portare avanti sia i diritti civili che quelli sociali? Sicuramente, ma dovremmo anche fingere di non vedere che, da mezzo secolo, il dibattito pubblico verte solo sui primi, mentre sono solo i secondi ad andare a picco; a questo proposito, una menzione merita l’ultimo libro di Carl Rhodes – Capitalismo Woke – dedicato ad un fenomeno in espansione, quello del Wokewashing, e cioè l’attitudine delle aziende a sostenere cause progressiste quali l’ambiente (greenwashing e veganwashing), le cause LGBT (pinkwashing o rainbow-washing), l’antirazzismo (blackwashing), i diritti delle donne (purplewashing), le azioni umanitarie (bluewashing), i diritti animali (animal-washing), o addirittura i temi sociali e i diritti del lavoro (redwashing): dal ricco CEO di BlackRock che tuona contro le discriminazioni allo spot di Nike contro il razzismo; da Gillette che fustiga la mascolinità tossica al sostegno di varie compagnie al referendum australiano del 2017 sul matrimonio omosessuale. Questi non sono esempi isolati: “Fra le imprese, soprattutto quelle globali, vi è una tendenza significativa ed osservabile a diventare woke” scrive Rhodes, tanto che “Secondo il New York Times il capitalismo woke è stato il leitmotiv di Davos 2020”. L’autore – che non è certo un conservatore di destra – ha, nei confronti di questo fenomeno, una posizione piuttosto negativa e ne sottolinea l’aspetto ipocrita e strumentale volto a sviare l’attenzione dalle pratiche oligarchiche e antisociali dei grandi gruppi economici: «È tempo di abbandonare l’idea che le imprese, in quanto attori principalmente economici, possano in qualche modo aprire la strada politica per un mondo più giusto, equo e sostenibile. Il capitalismo woke è una strategia per mantenere lo status quo economico e politico e per sedare ogni critica. Questo libro è un invito a opporgli resistenza e a non farsi ingannare». E’ infatti facile vedere come fra i temi di tale impegno ci sia una forzosa selezione determinata dai propri interessi: non si è ancora visto, ad esempio, le grandi aziende scendere in campo contro l’elusione fiscale, dato che sono i primi a praticarla. In qualche modo, Capitalismo woke di Carl Rhodes si sposa perfettamente con la critica, che fece la giornalista e saggista Naomi Klein in No Logo, ai processi di rebranding e di rebrandizzazione delle menti da parte delle multinazionali con il fine di rifarsi una verginità a fini di immagini pubblicitarie e propagandistiche. L’ideologia Woke, secondo Rhodes, sta diventando il corrispettivo di ciò che era il cristianesimo per la borghesia dell’800 e 900: un modo per vendersi come difensori della morale e del bene, sviando l’attenzione dalle forme sistemiche di sfruttamento che portano avanti. Dopo aver lottato contro il moralismo religioso di stampo cristiano di qualunque declinazione, ci troviamo oggi imbrigliati in una forma rigenerata di moralismo laico che nulla ha di diverso strutturalmente rispetto al primo se non nei contenuti. “Capitalismo woke. Come la moralità aziendale minaccia la democrazia” di Carl Rhodes Il wokismo è un esempio di americanizzazione culturale in nome dell’individualismo liberale della società dei consumi dove tutto (corpo, idee, pensiero, identità, linguaggio) finisce per essere frammentato oltre ad essere poi ridotto a merce o a feticcio. Pier Paolo Pasolini, uno dei primi critici ante-litteram dell’ideologia woke, pochi mesi prima di essere ammazzato, aveva capito che sotto la copertura delle giuste rivendicazioni politiche delle minoranze si stava sviluppando una nichilistica distruzione di tutte le forme di vita difformi alla norma del consumismo individualistico. Così, a tal riguardo, scriveva sul Corriere della Sera nel 1975: “Tale rivoluzione capitalistica dal punto di vista antropologico pretende degli uomini privi di legami con il passato, cosa che permette loro di privilegiare, come solo atto esistenziale possibile, il consumo e la soddisfazione delle sue esigenze edonistiche. […] tale nuova realtà ha tratti facilmente individuabili; borghesizzazione totale e totalizzante; correzione dell’accettazione del consumo attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica ansia democratica, correzione del più degradato e delirante conformismo che si ricordi, attraverso l’alibi di un’ostentata ed enfatica esigenza di tolleranza”. Nulla di più vero. Questa società ha un immenso bisogno di diritti civili, che possono progredire di senso solo laddove sono accompagnati dallo sviluppo dei diritti sociali, altrimenti rimarranno diritti per pochi. Come direbbe la filosofa femminista e marxista Nancy Fraser, serve più che mai una ribellione del 99% della popolazione per pensare ad un mondo di verso in nome della cura, delle relazioni, della difesa dell’ambiente dalle follie delle nostre società capitaliste industriali opulente odierne. Servono alleanze dal basso per capire l’interconnessione di eventi e fenomeni perché non ci si salva da soli, ma serve capire quali siano i nostri interlocutori senza farci abbindolare da distrazioni di massa volte solo a canalizzare la rabbia collettiva per disperderla nel nulla, illudendoci di essere incisivi mentre i fatti di questo mondo ci ricordano che siamo sempre più impotenti.   (1) Vi è una sola pecca nel libro: un sostanziale fraintendimento di Foucault, di cui va di moda dire che è un postmodernista scettico, relativista e celebratore di una “concezione neutra del potere”. Il grande accusato è “Sorvegliare e punire”. Ma Foucault va letto fino agli ultimi corsi al Collège de France, per capire anche le prime opere e la sua critica radicale ad ogni potere. E Neiman finisce invece per alimentare questo superficiale cliché.   Ulteriori info: https://www.ondarossa.info/iniziative/2025/02/capitalismo-woke  https://www.futuroprossimo.it/2024/06/dal-blackwashing-al-rainbow-washing-per-le-aziende-impegno-o-facciata/ https://site.unibo.it/canadausa/it/articoli/fenomenologia-della-cancel-culture-tra-woke-capitalism-e-diritti-delle-minoranze https://www.limesonline.com/rivista/censura-e-wokismo-uccidono-l-universita-tedesca–16365764/ > Capitalismo woke https://www.globalproject.info/it/in_movimento/cannibalizzazione-e-resistenza-lecopolitica-anticapitalista-di-nancy-fraser/25269 https://www.leftbrainmedia.co.uk/post/the-comfortable-embrace-how-the-woke-left-serves-capital Lorenzo Poli
Rapporto di Amnesty International sulle violazioni dei diritti umani nei centri di detenzione USA Alligator Alcatraz e Krome
Il 4 dicembre 2025 Amnesty International ha diffuso un rapporto sui trattamenti crudeli, inumani e degradanti all’interno di due centri di detenzione per persone migranti della Florida, Usa: l’Everglades Detention Facility (noto come “Alligator Alcatraz”) e il Krome North Service Processing Center. Il rapporto, basato su una missione di ricerca svolta nel settembre 2025, denuncia violazioni dei diritti umani di tale gravità da costituire in alcuni casi tortura, in un contesto di crescente ostilità nei confronti delle persone migranti che vede l’amministrazione del governatore Ron DeSantis ricorrere sempre più alla criminalizzazione e agli arresti di massa di persone in cerca di salvezza. “Le nostre conclusioni confermano l’esistenza di un intenzionale sistema di punizione, disumanizzazione e occultamento della sofferenza delle persone detenute. Le politiche sull’immigrazione non possono operare al di fuori della legge o sentirsi esonerate dal rispetto dei diritti umani. Quello a cui stiamo assistendo in Florida dovrebbe allarmare l’intera regione americana”, ha dichiarato Ana Piquer, direttrice di Amnesty International per le Americhe.  “Alligator Alcatraz”: un disastro per i diritti umani prodotto dallo Stato della Florida Dalla ricerca di Amnesty International è emerso che le persone detenute arbitrariamente ad “Alligator Alcatraz” vivono in condizioni inumane e insalubri: gabinetti traboccanti con feci che invadono i dormitori, accesso limitato alle docce, esposizione a insetti senza prodotti o sistemi di protezione, luci accese 24 ore al giorno, scarsa qualità del cibo e dell’acqua e mancanza di riservatezza con telecamere collocate persino sopra i gabinetti. Le persone intervistate hanno concordemente dichiarato che l’accesso alle cure mediche è incostante, inadeguato o del tutto negato con conseguenti gravi rischi per la salute fisica e mentale. Anche all’aperto sono sempre coi ceppi. C’è poi la cosiddetta “scatola”, una gabbia di due metri per due usata come luogo di punizione, dove si resta a volte per ore, esposti agli elementi atmosferici, praticamente senza acqua e con mani e piedi bloccati ai ceppi fissati sul pavimento. “Alligator Alcatraz” non è supervisionata a livello federale e mancano i sistemi di tracciamento usati nelle strutture gestite dall’Ice (Immigration and Customs Enforcement), l’agenzia federale per l’immigrazione). L’assenza di meccanismi di registrazione o tracciamento favorisce la detenzione senza contatti col mondo esterno e costituisce una forma di sparizione forzata nella misura in cui i familiari delle persone detenute non hanno informazioni o queste ultime non possono contattare i loro avvocati. “Le spregevoli e nauseanti condizioni di ‘Alligator Alcatraz’ fanno parte di un sistema di intenzionale diniego dei diritti, congegnato per disumanizzare e punire le persone detenute. È una situazione irreale: dov’è la supervisione su tutto ciò?”, ha affermato Amy Fischer, direttrice del programma Diritti delle persone migranti e rifugiate di Amnesty International Usa. Krome: un luogo sovraffollato, caotico e pericoloso Krome è un centro di detenzione che fa capo all’Ice, diretto da un’agenzia privata for-profit. Nonostante sia dotato di servizi medici, le persone detenute hanno denunciato gravi negligenze, come la mancata fornitura di medicinali e l’assenza di valutazioni diagnostiche. La ricerca di Amnesty International ha confermato precedenti denunce di violazioni dei diritti umani: sovraffollamento, isolamento arbitrario e per lunghi periodi di tempo, mancanza di assistenza medica, gabinetti traboccanti, assenza di docce, illuminazione costante e sistema d’aria condizionata non funzionante. Le persone detenute hanno riferito episodi di violenza e maltrattamenti da parte degli agenti penitenziari. Il personale di Amnesty International ha visto uno di loro colpire con la parte metallica di una porta di una cella d’isolamento la mano ferita di un detenuto. Sono stati denunciati anche casi di persone detenute picchiate e prese a pugni. È stata segnalata poi la difficoltà nell’accedere ai servizi di assistenza legale: le persone non sapevano per quanto tempo sarebbero rimaste all’interno della struttura, né cosa sarebbe loro accaduto in seguito. “L’estremo sovraffollamento, il diniego di assistenza medica e le denunce di trattamenti umilianti e degradanti costituiscono un quadro di orrende violazioni dei diritti umani a Krome”, ha commentato Fischer. “Ogni persona che si trovi in un centro di detenzione sta soffrendo”: la gestione dell’immigrazione e la detenzione in Florida Nel febbraio 2025 lo Stato della Florida ha emanato leggi durissime e discriminatorie che mettono in grave pericolo le comunità migranti. La modifica degli accordi 287 (g), che affidano alle agenzie locali per il mantenimento dell’ordine pubblico l’applicazione delle leggi federali in materia d’immigrazione, ha fatto sì che persone venissero arrestate per sbaglio, ha introdotto la profilazione razziale e ha diffuso una paura di massa tale da far sì che le persone migranti non frequentassero più le scuole, gli ospedali e luoghi dove poter ricevere servizi essenziali. La Florida è diventata un luogo dove si sperimentano politiche in materia d’immigrazione che violano i diritti umani, strettamente allineate con l’agenda razzista e anti-immigrazione dell’amministrazione Trump. Sotto il mandato del governatore Ron DeSantis, lo Stato della Florida ha intensificato la criminalizzazione delle persone migranti e ha fatto uso di poteri d’emergenza per aumentare rapidamente il numero degli arresti. Dal gennaio 2025 il numero delle persone detenute nei centri per persone migranti è aumentato di oltre il 50%. Solo tra luglio e agosto 2025, lo Stato ha concluso 34 contratti senza gara per “Alligator Alcatraz”, per un valore di oltre 360 milioni di dollari. Il costo annuo di questa struttura è calcolato in 450 milioni di dollari. Contemporaneamente, vengono tagliati milioni di dollari destinati a cure mediche essenziali, sicurezza alimentare, servizi di emergenza e programmi abitativi. “La scelta di dare priorità alla punizione, alla disumanizzazione e alla crudeltà rispetto ai servizi pubblici è miope e agghiacciante”, ha sottolineato Fischer. I centri di detenzione statunitensi per le persone migranti vantano una triste storia di violazioni dei diritti umani. Il presidente Trump ne ha aumentato l’uso di quasi il 70% dall’inizio del suo mandato e le condizioni al loro interno sono rapidamente peggiorate. Delle almeno 24 morti di persone migranti verificatesi dall’ottobre 2024 all’interno dei centri diretti dall’Ice, sei sono avvenute in quelli della Florida, quattro delle quali a Krome. Raccomandazioni Amnesty International chiede al governo dello Stato della Florida e all’amministrazione Usa di porre rimedio alle violazioni sistemiche dei diritti umani all’interno dei centri di detenzione per persone migranti. L’organizzazione chiede alle autorità della Florida di chiudere “Alligator Alcatraz” e di vietare l’uso di qualsiasi centro di detenzione gestito a livello statale. Dev’essere posta fine ai poteri di emergenza e alle assegnazioni di contratti senza gara. I fondi devono essere destinati alle cure mediche essenziali, ai programmi abitativi e a quelli di soccorso a seguito di disastri. Altre raccomandazioni comprendono: vietare l’uso dei ceppi, l’isolamento solitario e il confinamento durante l’ora d’aria; garantire accesso in condizioni di riservatezza all’assistenza legale e ai servizi d’interpretariato; condurre indagini trasparenti e indipendenti sulle denunce di tortura e di diniego di cure mediche e istituire un sistema di supervisione efficace e indipendente su tutti i centri di detenzione. Al governo federale, Amnesty International chiede di porre fine al suo crudele sistema di detenzione di massa delle persone migranti, alla criminalizzazione dell’immigrazione e all’uso di centri di detenzione statali per applicare le norme federali in materia d’immigrazione; di condurre indagini approfondite su tutte le morti nonché sulle denunce di tortura e di altre violazioni dei diritti umani e rispettare le norme internazionali sui diritti umani; di intraprendere una revisione complessiva sui contratti dell’Ice con agenzie statali e private, al fine di garantire il rispetto dei diritti umani; di ripristinare la protezione per “luoghi sensibili” come scuole, ospedali e chiese e di aumentare i fondi federali per rafforzare l’assistenza legale e i servizi d’interpretariato durante i procedimenti riguardanti l’immigrazione. “Le condizioni che abbiamo documentato ad ‘Alligator Alcatraz’ e a Krone non sono isolate, ma rappresentano un deliberato sistema di crudeltà inteso a punire le persone che cercano di rifarsi una vita negli Usa. Occorre cessare di arrestare le persone appartenenti alle nostre comunità migranti e in cerca di salvezza e agire, invece, per realizzare politiche in materia d’immigrazione umane e rispettose dei diritti”, ha concluso Fischer.   Amnesty International
Non in nostro nome! Incontro a Milano con il Rabbino Dovid Feldman
Mercoledì 3 dicembre presso l’Università Statale si è svolto un interessante incontro con il Rabbino Dovid Feldman di New York, di passaggio a Milano dopo aver partecipato venerdì scorso 28 novembre alla manifestazione a Genova e sabato 29 a quella di Roma a favore della Palestina, sempre sfoggiando una kefiah al collo. Purtroppo i tempi per ottenere l’autorizzazione all’evento da parte dell’Università erano troppo stretti e gli organizzatori, il Prof. Antonio Violante e Alessandro Corti, hanno optato per tenere comunque l’incontro davanti all’Università. Erano presenti diverse decine di persone e molti passanti incuriositi si sono fermati per ascoltare. Il Rabbino Dovid Feldman appartiene al movimento Neturei Karta International, un gruppo religioso ebraico ortodosso che non riconosce l’autorità e la stessa esistenza dello Stato di Israele, in base all’interpretazione del giudaismo e della Tōrāh. I seguaci, concentrati principalmente a Gerusalemme, sono circa 5.000, ma sono presenti anche a New York, a Londra e in Canada. Nonostante le ridotte dimensioni la Neturei Karta  ha esercitato una notevole influenza nei dibattiti sulla relazione tra ebraismo e sionismo. I suoi membri non commerciano con banconote israeliane, non si uniscono alla riserva dell’esercito dello Stato ebraico, obbligatoria per i cittadini israeliani adulti, non cantano l’inno nazionale, non celebrano il Giorno dell’Indipendenza di Israele e non pregano nel luogo più sacro al giudaismo: il Muro del Pianto. Intrattengono rapporti con le autorità palestinesi e il mondo arabo e contestano ai sionisti la strumentalizzazione dell’Olocausto. Il movimento fu fondato nel 1938 a Gerusalemme da ebrei appartenenti all’antica comunità ortodossa stanziata da molte generazioni in Palestina. Gli antisionisti più radicali si raccolsero attorno ai Neturei Karta. Secondo questi la terra oggi occupata dallo Stato di Israele apparteneva a coloro che la abitavano da secoli: arabi, a qualunque confessione appartenessero ed ebrei che vivevano nelle terre palestinesi prima dell’affermarsi della colonizzazione. Il Rabbino Feldman ha tenuto il suo pacato e  lucido discorso in inglese. Non è sembrato vero poter udire una voce ebraica così autorevole e chiara nel definire lo stato attuale delle cose e le responsabilità dello Stato di Israele, nel genocidio del popolo palestinese, definendo criminali gli atti compiuti. Il rabbino ha insistito nel distinguere i concetti di ebraismo e sionismo, arrivando a dire: “ Il sionismo è proibito dalla religione ebraica. Il creatore del mondo ci ha mandato in esilio e ci ha proibito di lasciare tale esilio con il nostro potere umano. Lasciare l’esilio da soli sarebbe una ribellione contro Dio e quindi gli ebrei che credono in Dio non possono sostenere il sionismo. Ciò è ancora più vero alla luce del fatto che il progetto sionista è stato intrapreso a spese di molte persone innocenti e ha comportato la sottrazione della loro terra e delle loro proprietà, l’uccisione di molti di loro e l’espulsione degli altri senza che avessero alcuna colpa.” Il rabbino ha inoltre enumerato i vari pericoli dell’equiparare l’antisionismo all’antisemitismo, definendolo un crimine contro la verità, perché crea la falsa impressione che ebrei e sionismo siano una cosa sola. Si tratta di una profanazione del nome di Dio, poiché implica che gli ebrei si siano ribellati a Dio. Inoltre questa stessa nozione porta le persone a indirizzare erroneamente la loro opposizione politica ai crimini dello Stato di Israele verso tutti gli ebrei del mondo. La definizione di antisemita in realtà rischia di scatenare l’antisemitismo là dove tenta di mettere a tacere la rivendicazione palestinese, causando un effetto boomerang e portando molte persone a etichettare tutti gli ebrei come sionisti. In conclusione, afferma il rabbino, l’attribuzione del termine antisemita a chi si oppone al sionismo e allo stato di Israele è sbagliata e criminale. Voci come questa dovrebbero poter risuonare ovunque per fare chiarezza e giustizia di tanta confusione e iniquità che pervade i dibattiti e le nostre relazioni. Era presente anche il giovane Assessore del Municipio 1 Lorenzo Pacini, che ha salutato ed espresso solidarietà e posizioni davvero coraggiose rispetto al dramma palestinese e la questione sionista, in evidente contrasto con le opinioni e le dichiarazioni dei suoi colleghi. Un incontro emozionante per la chiarezza, la pulizia, la moralità e l’umanità che questo religioso ha saputo portare e trasmettere. Loretta Cremasco
Canada, campagna di Yves Engler a leader del New Democratic Party: luci e ombre
Il 10 novembre 2025 abbiamo tenuto la nostra consueta riunione generale del lunedì sera su Zoom per la campagna di Yves Engler. Si svolge subito dopo l’ora dedicata alla politica estera canadese, che è stata ridotta a mezz’ora a causa della campagna. All’inizio alcune persone si perdevano passando da una sala Zoom all’altra, ma ora il sistema funziona bene e riusciamo a entrare rapidamente nella sala Zoom giusta. Innanzitutto la buona notizia: il tour di Yves nel Canada orientale è andato bene. Ha apprezzato la preparazione e il sostegno a Toronto; e ha elogiato in particolare la pulizia dopo l’evento. Sì, il sostegno al tour non è solo fatto di pompon e macchine fotografiche! Ad Halifax ha trovato molto sostegno per “Case, non bombe”. Parallelamente al tour, sui social media sono comparsi vari. Ad esempio, la posizione di Yves sulla “pace fondata sulla giustizia” e sulla “riconciliazione con le nazioni indigene attraverso la restituzione delle terre” è stata riconosciuta da Jafrikayiti (Jean Saint-Vil). Si può anche leggere che “Yves Engler promette l’istruzione gratuita e la cancellazione dei prestiti studenteschi” e che in Canada “quasi due milioni di persone stanno ancora pagando i prestiti studenteschi” (la popolazione canadese è di circa 42 milioni di persone). Abbiamo ora raggiunto i 100.000 dollari canadesi necessari per la candidatura di Yves a leader del partito. Tuttavia, vi sono alcuni dubbi sul fatto che le donazioni possano essere accettate prima che un candidato entri formalmente in gara. Inoltre, tutti i contributi devono essere elaborati attraverso il partito. Yves ha presentato domanda di verifica il 10 novembre 2025 e i contributi sono stati accettati molto prima. Tuttavia, la campagna ha seguito le regole di Elections Canada. È interessante notare che la somma richiesta è passata da 30.000 dollari canadesi nel 2017 a 100.000 dollari canadesi oggi. Vale anche la pena notare che alcuni candidati stanno facendo fatica a raccogliere la somma richiesta e che per alcuni è difficile ottenere il numero di firme necessario: 500, più 50 in ciascuna delle 5 regioni del Paese. Purtroppo, poiché non è ancora stato sottoposto a verifica, Yves non ha potuto partecipare al dibattito sulla leadership che si è tenuto il 27 novembre in francese a Montreal. Peccato, visto che Yves è l’unico candidato in grado di discutere in francese. Il comitato di verifica della leadership è composto da tre membri. Yves afferma che la procedura di verifica del partito dovrebbe essere effettuata invece dai membri dell’NDP. In un articolo sulla verifica, Yves sottolinea che Zohran Mamdani non è mai stato sottoposto a verifica e osserva che Zohran sarebbe stato probabilmente bloccato dal comitato di verifica dell’NDP. Infatti, il questionario dell’NDP chiede ai candidati di elencare loro dichiarazioni “che sono state/potrebbero essere considerate politicamente ‘controverse’”. Sono certa che molte di queste dichiarazioni si possano trovare nei libri o negli articoli di Yves. Ad esempio, Yves dichiara che “la NATO non è solo un pericolo per la pace, ma anche una minaccia per le istituzioni democratiche”; mentre il primo ministro canadese, Mark Carney, afferma che “la NATO rimane una pietra miliare della sicurezza transatlantica”. Un’altra domanda posta nel documento di verifica è se il candidato sia mai stato arrestato. Mamdani è stato arrestato almeno tre volte. Yves è stato arrestato durante alcune proteste ed è stato incarcerato tre volte. Yves ha così proposto un esilarante modulo di verifica alternativo in cui le domande sono, ad esempio: 1. Sei mai stato accusato di preoccuparti troppo della giustizia sociale? – Sì – No 2. Sei stato incarcerato per esserti opposto alla complicità canadese nel genocidio? – Sì – No – Non partecipo nemmeno alle manifestazioni A volte, tutti questi problemi sono scoraggianti, ma quando penso alla Palestina, ai senzatetto e a tante altre questioni, quando vedo il livello di impegno ed entusiasmo dei volontari, quando vedo la nostra amata piattaforma , desidero davvero che Yves abbia successo e diventi leader del partito. Traduzione dall’inglese di Anna Polo   Evelyn Tischer
Anche a New York corteo per la Palestina
Quest’anno la giornata di solidarietà internazionale con il popolo palestinese, il 29 novembre, si è tenuta in prossimità del Giorno del Ringraziamento (Thanksgiving) la festa più celebrata negli States, che cade ogni quarto giovedì di novembre. Insieme al Thanksgiving ogni anno arriva anche il Black Friday, ossia il giorno seguente, in cui i compratori si riversano nelle strade alla ricerca dell’affare. Questa pratica nata negli Stati Uniti si è diffusa in tutto l’Occidente e negli ultimi anni si è estesa temporalmente, arrivando a includere l’intero fine settimana e pure il lunedì, cui è stato dato il nome di “Cyber Monday” (i saldi dovrebbero essere riservati all’elettronica). Stando così le cose, l’effervescente e colorato corteo Pro Palestina di sabato 29 novembre, con slogan e striscioni per la liberazione dei prigionieri politici palestinesi e la richiesta di investire per i bisogni della gente e non per la guerra, si è “scontrato” con una massa di consumatori intenti a passare da un grande magazzino all’altro, trascinandosi borse e pacchetti insieme ai bambini. L’irruzione dei pro-Palestina nelle vie dello shopping di Manhattan si è sentita non solo vocalmente, per via dei canti accompagnati da tamburi e persino da una tuba, ma si è percepita soprattutto forte e chiara nell’aria. Siamo partiti da Columbus Circle, all’angolo con Central Park, per raggiungere poco dopo la Quinta Strada e da lì siamo scesi fino alla biblioteca pubblica di Bryant Park. Camminando sul famoso corso e ispirandomi a uno slogan che recita “From the belly of the beast hands off the Middle East!” (Dalla pancia della bestia, giù le mani dal Medio Oriente!), devo dire che ci siamo proprio immessi nella pancia della bestia, sconvolgendola. Una donna a cui mi sono avvicinata sorridendo e offrendole un volantino me lo ha strappato di mano con rabbia urlandomi “Shame on you!” (Vergognati!). Doveva essere una sionista inalberata, a cui ho continuato a sorridere, attirandomi la simpatia di altri presenti. Un’altra, contraendo la faccia in una smorfia che pareva di grande dolore, mi ha intimato di non avvicinarmi e ho udito una coppia di italiani stizziti imprecare contro di noi. Probabilmente turisti che s’illudono che qui nessuno li capisca, dal momento che spesso loro non intendono gli altri e che mal sopportano un disturbo alla loro pratica favorita. E qui vorrei fermarmi per riflettere e fare il punto dell’esperienza. Premetto che non sono contro lo shopping, anzi, è un’attività che periodicamente pratico con piacere, anche se preferisco le giornate tranquille e rifiuto le forme compulsive. I miei genitori hanno gestito un negozio di abbigliamento nella nostra città per oltre quarant’anni, dunque anche solo per rispetto a loro e alla passione che misero nel loro lavoro sino alla fine non potrei mai desiderare un mondo senza shopping. Tuttavia penso che l’acquisto vada fatto con “criterio” (Questa cosa mi serve davvero?) e “con consapevolezza” (Mi piace davvero? La desidero veramente?). Soprattutto al giorno d’oggi non possiamo più esimerci dal chiederci “Da dove arriva questa merce? Chi la produce?” Non possiamo non interrogare la coscienza morale quando ci avviciniamo a un negozio. Se tenere fede ai primi due punti è un sano esercizio per noi stessi, che consiglio a tutti perché aiuta a rimanere sobri e in armonia, il terzo punto ha a che vedere con la società in cui viviamo e le sue menzogne. Ci siamo abituati a nascondere il fatto he il nostro benessere è costruito sullo sfruttamento e sulla sofferenza di una parte di mondo che abbiamo escluso dalla tavola per nostro comodo:  interi popoli a cui gli Stati Uniti e i loro alleati hanno imposto sanzioni economiche come cappi al collo. I casi più eclatanti sono Venezuela, Cuba e Iran (ma non sono gli unici: sono circa una ventina i Paesi sotto varie forme di embargo). Poi ci sono quelli che, in cambio di briciole e non bombe, sono sfruttati e derubati delle loro risorse – il Guatemala e un po‘ tutto il Centro America vivono questa condizione. Così come arrancano i lavoratori di catene disumanizzanti, il cui unico interesse è il profitto da dividere a fine anno – Amazon, per citarne una, dove è in corso un’importante protesta di base.  La Palestina, con la sua resistenza, il suo dire “No! Non mi lascerò offuscare, dimenticare e derubare stando in silenzio” ha riportato il problema del neo-colonialismo al centro del dibattito e sotto i pungoli della coscienza individuale. Durante il corteo molte persone cercavano di assumere espressioni indifferenti, ma non ci riuscivano, tutt’al più apparivano stralunate. Tutti sappiamo che cosa sta succedendo a Gaza e in Cisgiordania e tutti sappiamo che di fronte alla vigliaccheria e connivenza dei nostri governi, che si ostinano a non imporre sanzioni a Israele, è stato lanciato un appello al boicottaggio globale – impossibile evitare gli appelli della rete BDS, attiva su tutti i social. Non esiste uno strumento per guardare che cosa accade sotto la pelle dell’altro, ma vi assicuro che l’attraversamento della Quinta Strada, dove scintillano le vetrine di Prada, Tiffany and Co, H&M, Zara, ecc. da parte di un entusiastico corteo, durante il glorioso giorno dello shopping, ha turbato non poche coscienze Marina Serina
New York, i nuovi attivisti tra pragmatismo ed espansione della coscienza
Da oltre due anni la sala del People’s Forum è il centro d’incontro per l’attivismo newyorkese che si batte per una Palestina libera. Dal fatidico 7 ottobre il flusso di persone che ogni lunedì si presentano in assemblea non si è mai interrotto, anzi alla domanda di rito: “Chi oggi è qui per la prima volta?” si alzano sempre nuove mani. La maggior parte sono giovani e giovanissimi alla loro prima occasione di impegno politico-sociale. Ma benché giovani e privi di esperienza, sono riusciti a mettere in piedi un sistema di contrattacco al potere e alla retorica dei media ufficiali che lascia esterrefatti. In non pochi anni di vita, trascorsa dentro e fuori movimenti di base italiani ed europei, mai ero entrata in contatto con una realtà così ben strutturata, a livello sia di efficienza pratica sia di elaborazione collettiva del pensiero. Il movimento non si è smarrito nemmeno di fronte alla violenta repressione che la scorsa primavera ha investito le università, dove ormai, mi dicono, l’attività di protesta è ridotta al lumicino o passata in clandestinità. Ci si è riorganizzati in altri luoghi e nuove forme. Mi verrebbe da dire: più fluidi del capitalismo stesso. Proverò dunque a darvene un’immagine, sebbene sappia a priori che, rispetto alla passione vibrante dell’originale, non potrà che essere sbiadita. La digitalizzazione della città New York City è divisa in cinque boroughs, parola che si traduce con quartiere, circoscrizione, zona. Si tratta di spazi talmente estesi che sono essi stessi città – per esempio Brooklyn, dove abito, è circa quattro volte Milano. Organizzare in una megalopoli un movimento umanamente coeso, al cui interno si sviluppino forme di amicizia e condivisione, non è facile; per arrivarci i ragazzi hanno letteralmente digitalizzato la Grande Mela annettendole pure il New Jersey. Il movimento è concepito in maniera federata e divisibile in gruppi seguendo la logica dei boroughs; dopo di che, attraverso l’uso di piattaforme digitali (Signal – Google drive – Instagram), la mappa così ripartita viene riportata in rete. Ad esempio, io appartengo a Central Brooklyn (ci sono anche South e North), dunque se voglio partecipare ad azioni di strada, gruppi di studio, banchetti informativi ecc mi relaziono con i gruppi della mia zona attivi durante la settimana. Ogni lunedì i quartieri convergono al People’s Forum, dove, tra le varie attività, si decide la pianificazione dei prossimi sette giorni e le piattaforme vengono aggiornate in conseguenza. L’impatto sulla città è capillare. Un banchetto informativo degli attivisti per la Palestina Crescita personale e collettiva All’interno del movimento è data grande attenzione alla conoscenza. Sapere le cose è considerato un elemento fondamentale del cittadino-attivista, pertanto vengono organizzati veri e propri corsi di formazione. Io ho partecipato a quello introduttivo “Che cosa sono un PAC, un super PAC e l’AIPAC (il super PAC legato a Israele)”; a breve partirà un corso dedicato alla storia contemporanea delle guerre in Medio Oriente “America’s Forever Wars in the Middle East”. Oltre a corsi di spessore storico-culturale, che di norma si tengono in sede, sulla Trentasettesima Strada a Manhattan, e che, mantenendo il nostro linguaggio, sono progettati in modo federato, ve ne sono altri organizzati direttamente dai gruppi-boroughs. Per esempio tempo fa mi sono unita a uno per “prepararsi a parlare in pubblico in varie situazioni” – tenere un discorso in una piazza o su un treno della metropolitana, richiamare l’attenzione verso un banchetto informativo e simili. L’appuntamento era in una casa privata, dove alcuni di noi si sono seduti per terra e altri su divani o poltrone; prima, un po’ per conoscerci e rompere il ghiaccio, ci siamo posti domande sui grandi sistemi, poi abbiamo guardato dei video. Ho capito subito che nessuno era esperto di oratoria – difficile esserlo a vent’anni. Una volta messi a fuoco i punti che ci parevano importanti per la costruzione di un buon discorso, come dare importanza a chi ci ascolta, e intuita qualche regola di enunciazione, come ricordarsi che è sempre un’illusione credere che stiamo parlando piano, ognuno ha provato in dieci minuti a comporre il suo discorso e a esporlo in piedi davanti a tutti gli altri. Inutile dire che i ragazzi hanno messo il massimo dell’impegno sia nell’esposizione sia nell’aiutare gli altri a migliorarsi; lo hanno fatto in una maniera così onesta e spontanea che nessuno si è sentito offeso o intimidito, anzi tutti siamo tornati a casa arricchiti. E alcuni hanno deciso che il sabato (era giovedì) avrebbero parlato in pubblico durante un evento. La ricerca Non ci può essere conoscenza senza ricerca, soprattutto se l’obiettivo è alto: portare a galla la verità della politica. Direi un compito titanico, che non ha però intimidito gli attivisti di New York; al contrario li ha spinti a cercare dati, fatti e nomi da presentare agli altri newyorkesi, che s’incontrano per strada e sui social, che sono spesso vittime di informazioni a spizzichi e bocconi e di propaganda ad hoc, come “il diritto di Israele a difendersi”. E allora guardiamole da vicino queste “armi da difesa”! Ogni gruppo decide dove focalizzare la propria ricerca. Alcuni stanno facendo indagini sulle fabbriche di armi presenti a Brooklyn e nel New Jersey, da cui Israele si rifornisce; noi di Central Brooklyn abbiamo scelto di concentrarci sui flussi di denaro che dalle lobby sioniste arrivano copiosi nelle tasche dei politici. Uno dei miei tutor mi ha detto: “Seguiamo i soldi.” Non sapeva di essere un discepolo spirituale del nostro caro Giovanni Falcone. Il lavoro di ricerca viene svolto la domenica presso un simpatico caffè, dove su un grosso tavolo quadrato insieme a tazze di tè e gustosi dolcetti sistemiamo i pc e ci immergiamo in una labirintica rete di siti istituzionali e testate online. Anche in questo caso si lavora su una piattaforma condivisa che rispecchia il sistema dei gruppi nella città digitalizzata. Il mio primo compito è stato facile, ma non scontato e una volta di più mi ha mostrato il livello di competenza raggiunto dal movimento. Da una cartella dove erano state raccolte informazioni su alcuni politici della città ho estratto per ogni nome segnato i rispettivi punti chiave (denaro ricevuto da x e y, voto dato o negato, frasi pronunciate e altro) e li ho inseriti in un documento. Alla fine avevo confezionato una nota per ogni politico che sarebbe tornata utile come canovaccio per la preparazione di discorsi pubblici e che eventualmente il relatore poteva tenere sotto mano in caso di bisogno. Questa specifica ricerca fa capo alla campagna AIPACout! che ha l’obiettivo di imporre, attraverso una sorta di plebiscito popolare, l’esclusione della lobby israeliana dalla politica americana. Ne ho già parlato in questo articolo. La consapevolezza Una delle cose che maggiormente mi ha colpito è come il naturale pragmatismo della società americana si sia integrato con il desiderio di crescita umana e spirituale. Ogni volta che ci incontriamo buona parte del tempo è speso non a programmare azioni, vagliare dettagli e problemi tecnici, ma a riflettere sulla realtà che ci circonda e a confrontarci. Di solito leggiamo articoli, un paragrafo a testa, e poi li discutiamo. L’ultimo che abbiamo affrontato veniva dalla rivista socialista “Jacobin” e trattava della solidarietà storica dei portuali. (Per inciso dalla lettura ho scoperto che i portuali statunitensi nel 1935 si rifiutarono di caricare armi destinate all’Italia per l’invasione dell’Eritrea.) Un’altra volta, ricordo, abbiamo lavorato sul concetto di barriera. L’appiglio era stato dato da un articolo che ventilava la possibilità di un altro muro, questa volta tra Israele e Libano. C’è stato poi il caso di un esperimento mentale, il cui risultato mi ha sorpreso e mi ha dato fiducia in un’umanità migliore. Abbiamo immaginato che la questione palestinese fosse stata risolta per il meglio e ci siamo chiesti: “A quel punto il nostro lavoro sarà finito?”. Tutti hanno risposto di no: rimaneva tantissimo da fare, per tutti i popoli oppressi e tutti gli svantaggiati del pianeta. Saremmo rimasti impegnati finché la partita aperta dall’imperialismo contro l’essere umano e la natura, nella forma del neo-colonialismo, non fosse stata risolta in casa come fuori. Conclusioni A questo movimento nato, o forse risorto, quando meno ce lo aspettavamo non interessa il nemico in sé. Nelle persone che frequento e incontro non ho riscontrato né rabbia né desiderio di vendetta; nelle assemblee non ho mai assistito a scontri verbali; al contrario nei dialoghi regna sovrano il rispetto dell’altro e l’educazione. Nelle case e nei piccoli gruppi non ho mai rilevato segni di uso di droga o di abusi vari (che s’inventerà la CIA stavolta?); mi sono sempre e solo ritrovata di fronte ad accoglienza, disponibilità e interesse. Osservandoli, così puliti e devoti alla causa di una società migliore, ho inteso che forse loro sono la prima generazione ad aver capito che innanzitutto bisogna alzare il livello di consapevolezza collettiva: solo allora le cose belle verranno e dureranno.   Marina Serina
L’esercito statunitense è il più grande nemico della Terra
> Nella scena di apertura del nuovo documentario di Abby Martin e Mike Prysner, > Earth’s Greatest Enemy (Il più grande nemico della Terra), un veterano > senzatetto suona il pianoforte in una tendopoli a Brentwood, in California. > Vive  nell’accampamento popolarmente noto come “Veterans Row”, dove le tende > sono drappeggiate in bandiere statunitensi e le persone che vi passano accanto > ricordano quanto spesso l’esercito americano rovina le persone e poi le > rifiuta. L’uomo inizia a recitare le battute di una vecchia pubblicità di > reclutamento dell’esercito; poi il film fa vedere la pubblicità stessa, con lo > stesso veterano. Lui ne ricorda tutte le battute. Earth’s Greatest Enemy è un documentario sulla crisi climatica e l’imperialismo: su come l’esercito americano sia la più grande istituzione che ci spinge verso il collasso ecologico. A prima vista, la scena di apertura di un veterano che vive per strada potrebbe sembrare non correlata. Nel corso del film, Martin, con attenta precisione, illustra che i danni al clima da parte dei militari statunitensi non vengono inflitti solo all’ambiente che ci circonda, ma a tutti noi, come viene mostrato nelle scene che evidenziano l’acqua contaminata a Camp Lejeune. Il più grande nemico della Terra cattura l’ampiezza insondabile della sofferenza ecologica e umana causata dal militarismo. Evidenzia il costo della guerra per gli oceani, la vita animale e vegetale, l’acqua dolce e altro ancora. Se qualcuno vive nel ventre di questa bestia militare, dovrebbe assolutamente guardare questo documentario. Un segmento del film si concentra sull’impatto delle forze armate statunitensi sugli oceani della Terra, in particolare durante i giochi di guerra guidati dagli Stati Uniti, RIMPAC, la più grande esercitazione militare marittima del mondo. Fanno volare jet  Growler sull’oceano e praticano esercizi di affondamento, facendo esplodere navi dismesse in mare aperto. Sparano proiettili vivi e inquinano l’oceano per cinque o sei settimane consecutive. Martin documenta i militari statunitensi che fanno esplodere le montagne di Okinawa e prendono la terra per riempire le barriere coralline in modo che i militari possano usare il terreno così creato per ampliare la base militare. Una delle rivelazioni più sorprendenti del film è che l’esercito americano determina quanti mammiferi marini possono uccidere. Tutto ciò, ovviamente, influisce sulla pesca e sulla biodiversità che sostiene gli oceani e la vita umana e animale in tutto il mondo, più direttamente le persone del Pacifico, che si tratti delle Hawaii, di Okinawa o di altre isole in cui gli Stati Uniti hanno istituito avamposti militari permanenti. Earth’s Greatest Enemy esplora anche l’inquinamento delle acque causato dall’esercito americano. A metà del film, sentiamo Kim Ann Callan, che ha trascorso gli ultimi 15 anni a scoprire l’impatto dei rifiuti tossici dei militari a Camp Lejeune negli Stati Uniti. Per anni, i militari hanno avvelenato le acque sotterranee che, a loro volta, hanno avvelenato le famiglie dei militari. Di conseguenza, intere famiglie si ammalarono di cancro; l’esercito americano cercò di coprire questa situazione. Il film mostra Callan che cammina attraverso un cimitero con file di lapidi di bambini con la scritta “nato e morto” nella stessa data. Molte famiglie hanno perso più di un bambino per le malattie causate dall’inquinamento dei militari. > Callan riflette: “All’inizio avevo una visione completamente diversa > dell’esercito. E avevo molto rispetto per l’esercito… Ora non ho più rispetto > né per il governo né per l’esercito”. L’avvelenamento delle famiglie militari nella base non è accaduto solo a Camp Lejeune: il film espone quanto siano tossiche le basi militari statunitensi in tutto il mondo, con storie altrettanto devastanti in ciascuna delle oltre 800 basi militari a livello globale in oltre 80 paesi e in centinaia in tutti gli Stati Uniti Martin, ovviamente, discute dell’impatto che la guerra convenzionale ha sul pianeta, come quando gli Stati Uniti o uno dei suoi delegati, come Israele, bombardano incessantemente la terra per un lungo periodo di tempo. Il risultato è spesso un ecocidio totale, in cui i sopravvissuti non hanno quasi più nulla di cui crescere e vivere. Il film rivela l’impatto cumulativo dei proiettili sparati in Iraq. Stime prudenti suggeriscono che, per ogni persona uccisa nelle guerre statunitensi in Iraq e Afghanistan, sono stati usati più di 250.000 proiettili. Ogni proiettile inietta piombo, mercurio e uranio impoverito in aria, acqua e terra. Inoltre, studi hanno trovato titanio nei polmoni dei soldati statunitensi nelle basi e nei capelli di bambini in Iraq e Afghanistan. Gli Stati Uniti dichiarano guerra non solo all’aria, all’acqua e alla terra, ma anche ai corpi e alle generazioni di esseri umani. L’esercito americano sta distruggendo tutte le forme di vita. E per cosa, poi? Anche coloro che combattono le guerre alla fine vengono lasciati per strada quando tornano a casa. Alla fine del film, è abbondantemente chiaro: l’esercito americano è davvero il più grande nemico della Terra. Controlla e minaccia tutta la vita sulla Terra. Come organizzatori all’interno del movimento contro la guerra, ci è molto chiaro quanto la lotta contro di essa possa essere isolata dal resto del movimento ambientalista. Per lottare a favore del futuro del pianeta, noi del movimento contro la guerra dobbiamo unire le forze con il movimento per il clima. I nostri nemici sono gli stessi: gli speculatori di guerra e i politici che ci spingono verso il collasso climatico. Gli organizzatori in prima linea nella lotta contro questa crisi planetaria del militarismo — dalle Hawaii a Okinawa ad Atlanta — lo capiscono. La lotta per la terra è indissolubilmente legata alla lotta contro il militarismo. Non abbiamo altra scelta che tagliare le linee rosse politiche, filantropiche e organizzative che ci separano. Perché, come spiegano Martin e Prysner, attraverso una narrazione umana compassionevole e un giornalismo radicalmente onesto, la macchina da guerra alla fine colpirà tutti noi. Dobbiamo intervenire ora. -------------------------------------------------------------------------------- Aaron Kirshenbaum è attivista della campagna War is Not Green (La guerra non è verde) di CODEPINK e organizzatore regionale della costa orientale. Originario di Brooklyn, New York, dove risiede, Aaron ha conseguito un master in Sviluppo e pianificazione comunitaria presso la Clark University. Ha inoltre conseguito una laurea in Geografia umana-ambientale e urbana-economica presso la stessa università. Durante gli studi, Aaron ha lavorato all’organizzazione di programmi internazionali per la giustizia climatica e allo sviluppo di programmi educativi, oltre che all’organizzazione di iniziative a favore della Palestina, degli inquilini e dell’abolizionismo. Danaka Katovich è co-direttrice nazionale di CODEPINK. Si è laureata in Scienze Politiche alla DePaul University nel 2020. È una voce di spicco contro l’intervento militare degli Stati Uniti, sostenendo il disinvestimento dai produttori di armi e contestando il crescente budget del Pentagono. I suoi scritti sono pubblicati su Jacobin, Salon, Truthout, CommonDreams e altri. -------------------------------------------------------------------------------- TRADUZIONE DALL’INGLESE DI FILOMENA SANTORO. REVISIONE DI THOMAS SCHMID. Codepink
Invasione-suicidio: ecco perché Trump fallirà col Venezuela
di Pino Arlacchi* Tra le false narrative dei fatti del mondo che imperversano in Occidente, quella sul Venezuela è la più oltraggiosa. Non credete a una parola di ciò che i padroni dei mezzi globali d’informazione dicono sul paese, Maduro e l’aggressione iniziata dagli Usa 27 anni fa, con l’elezione a presidente di Hugo Chávez, e tuttora in corso. Gli eventi quotidiani smentiscono le menzogne che tentano di coprire una guerra di rapina e sopraffazione coloniale condotta da una potenza giunta all’ultima tappa del suo declino. Il Venezuela è un un paese forte, stabile, e deciso a non piegarsi. Un paese che vincerà, pur pagando duramente il prezzo della sua sovranità. La sconfitta Usa sarà la 65ª dall’inizio della Guerra fredda (la 66ª è in dirittura di arrivo, in Ucraina). E ciò avverrà sulla scia di quanto accaduto a quasi tutte le loro guerre, invasioni e tentativi di cambio di regime. Controllate le cifre sfogliando lo studio appena pubblicato su Foreign Affairs, bibbia dell’establishment Usa. La domanda giusta da porsi, allora, non è quella su quanto durerà Maduro, ma quella su quanto durerà Trump. L’aggressione è un’ulteriore tacca anti-Trump che il deep state ha segnato sulla cintura. Pentagono e intelligence s’oppongono a questa pantomima dello sbarco in Normandia voluta da Rubio e sottoscritta dal presidente. Il deep state, vero padrone dell’America, subisce, abbozza, di fronte a una mossa di politica estera sconsiderata, contraria all’interesse nazionale e decisa da un presidente eletto, per giunta, con il mandato di porre fine alle guerre (e alle sconfitte) infinite. Non c’è un solo dirigente dell’apparato militare, poliziesco e dei servizi di sicurezza che si sia pronunciato a favore dell’attacco. Ci sono invece le dimissioni dell’ammiraglio Hollsey, comandante delle operazioni militari in America Latina e Caraibi. C’è il dissenso fatto filtrare da decine di militari d’ogni grado, tra cui gli avvocati del Pentagono. E c’è la clamorosa notizia, minimizzata dai media, della dissociazione delle forze armate del Regno Unito da una operazione definita illegale perché portatrice di responsabilità personali per i suoi esecutori. Tradotto in linguaggio comune: l’esecuzione senza processo di sospetti trafficanti di narcotici è un assassinio, come lo è quello di una autorità politica straniera accusata senza la minima prova di compiere o di favorire le stesse attività. Per non parlare dell’aggressione armata a un intero paese senza solide evidenze di minacce alla propria sicurezza nazionale. Quasi tutte fattispecie punibili da tribunali ordinari, in parallelo agli organi della giustizia internazionale. L’unico successo finora ottenuto dall’aggressione al Venezuela è la sua sostanziale approvazione da parte del circo mediatico-politico dominante in Europa. Quello che da decenni ci somministra dosi da cavallo di disinformazione su Maduro e il Venezuela. E che non si scomoda a inviare osservatori indipendenti sul terreno né a dare spazio a voci fuori dal coro. Proprio come nel caso di Ucraina, Russia e Cina, demonizzate senza ritegno e senza rispetto della decenza. Dal 1999 i tentativi di destabilizzazione sono stati eclatanti insuccessi, culminati con quello d’abbattere il chavismo tramite soggetti ultra-eversivi e controproducenti come Guaidó e Machado. Personaggi che sembrano studiati per far vincere Maduro e le cui azioni hanno finito col mettere fuori gioco l’opposizione costituzionale e rafforzare il governo: dal 2015 in poi i chavisti hanno vinto tutte le elezioni, incluse comunali e regionali di quest’anno, alle quali nessuno in Occidente ha prestato attenzione perché la disinformazione è rimasta concentrata sulle Presidenziali dell’anno scorso, vinte da Maduro nonostante l’establishment atlantico avesse deciso di far vincere Machado. Dal 1999 in poi i chavisti hanno prevalso in 25 tornate elettorali su 29. E continuano a vincere per la semplice ragione che i poveri del Venezuela votano per chi li rappresenta meglio, cioè per chi distribuisce all’interno i proventi del petrolio invece di trasformarli in depositi privati presso le banche di Miami. I chavisti restano al potere grazie alle loro politiche sociali, anzi socialiste. Misure che hanno consentito al paese di sopravvivere alle più barbare sanzioni mai viste e tornare addirittura a crescere negli ultimi 4 anni. Contro un’opposizione appesa al solo slogan di mandare via Maduro e privatizzare il petrolio, affidandolo a mani Usa e riportare così il Venezuela ai tempi della miseria e dell’umiliazione. Il chavismo ha certo compiuto molti errori. La corruzione è molto diffusa e la “maledizione del petrolio” continua a incombere. Ma la domanda è che cosa abbia reso possibile una continuità di governo così lunga, senza precedenti in America Latina, mantenutasi dopo un crollo del Pil dell’80% che avrebbe abbattuto qualsiasi governo. La spiegazione più sensata è che la stragrande maggioranza dei venezuelani ha riconosciuto la causa del crollo nelle sanzioni americane e nella débâcle dei prezzi del petrolio, invece d’imputarla al malgoverno d’una feroce dittatura, come suggerito dalla narrativa corrente. Maduro è sopravvissuto ed è più forte di prima perché ha saputo superare la catastrofe del 2015 con politiche d’emergenza radicali, cui è oggi destinato l’80% del bilancio dello Stato, accrescendo e non limitando, inoltre, la partecipazione popolare ai processi decisionali. Il Venezuela di oggi è una democrazia popolare che ha saputo guidare una rinascita economica del paese vergognosamente oscurata dai mezzi di informazione occidentali. La rinascita è documentata da tutti gli enti internazionali, dal Fondo Monetario all’Onu. È iniziata nel 2021, è in pieno svolgimento e quantificata da un balzo del Pil di quasi il 30% in quattro anni. Il consenso a Maduro è aumentato anche presso gli strati benestanti prima sostenitori ferventi dell’opposizione. Ciò spiega perché i deliri della Machado vengano trattati come tali anche dall’opposizione. Sono stato di recente in Venezuela invitato a un Forum internazionale di 56 paesi: ho constatato la totale irrilevanza di questa signora, i cui progetti eversivi l’avrebbero condotta in galera in qualsiasi paese europeo. Ho visto solo manifestazioni patriottiche imponenti, composte da chavisti mescolati per la prima volta a gente che qualche anno fa animava le proteste di Guaidó-Lopez-Machado, comunque autori d’un capolavoro: lavorando al servizio di Rubio e Trump, sono riusciti a stimolare una reazione di rigetto anti-imperiale tale da trasformare una milizia cittadina d’autodifesa, formata da “soli” 5 milioni di chavisti, in una forza d’urto di 8 milioni di patrioti ben armati e che s’addestrano ogni settimana. Affiancando un esercito leale al governo e privo di malcontento e rischi di defezione. Il 95% dei venezuelani è contrarissimo a un’invasione americana. Che non avverrà. Perché inizierebbe come in Iraq e finirebbe come in Vietnam. E con tempi molto ristretti. *Articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano del 19 novembre 2025 L'Antidiplomatico
Il signore dei fascistelli e l’immaginario trumpiano
Seguendo le orme della destra “postfascista” italiana, anche la MAGA e i “broligarchi Usa” stanno cercando di appropriarsi del capolavoro di Tolkien. Musk invece sostiene che la “guerra civile” inglese è inevitabile e butta olio sul fuoco. di Leonardo Bianchi (*) Benvenute e benvenuti alla puntata #134 di COMPLOTTI!, la newsletter che ti porta dentro la tana del Bianconiglio. Prima di partire, ricordo che il mio ultimo saggio Le prime gocce della tempesta è acquistabile nelle librerie (quelle indipendenti sono sempre da preferire) e nei negozi online. Sul mio profilo Instagram trovate una rassegna stampa aggiornata e le date delle presentazioni. COMPLOTTI! è un progetto giornalistico nato nel 2020. La newsletter è completamente gratuita e no, non ci sono Poteri Forti o ricchi finanzieri a foraggiarmi di nascosto. Se vuoi sostenere il mio lavoro e contribuire alla realizzazione delle puntate puoi fare una donazione qui sotto.   -------------------------------------------------------------------------------- GLI UOMINI DURI DI GONDOR Nel poco tempo libero che gli rimane tra la gestione delle sue aziende e lo shitposting su X, Elon Musk riesce comunque a portare avanti le sue due più grandi passioni: millantare di essere fortissimo ai videogiochi; e ficcare il naso nella politica europea, con una particolare predilezione per quella del Regno Unito. Il proprietario di Tesla è fermamente convinto che il paese sia prossimo alla guerra civile e sta facendo di tutto per alimentare le tensioni. Nell’estate del 2024 aveva gettato benzina sul fuoco delle rivolte razziste che hanno scosso il paese, trasformando X nel principale snodo globale di teorie del complotto e bufale sul tema. Qualche mese dopo aveva pubblicato centinaia di post sulle cosiddette “grooming gangs” – un caso di abusi sessuali sistematici avvenuto oltre dieci anni fa, rispolverato dall’estrema destra britannica in chiave xenofoba e anti-laburista. Musk aveva pure falsamente accusato il primo ministro Keir Starmer, che all’epoca era il procuratore generale del Crown Prosecution Service (CPS), di aver insabbiato gli stupri e dunque coperto la rete criminale. Secondo il Financial Times, l’uomo più ricco del mondo non si limita ad alimentare il caos disinformativo: vuole proprio buttare giù il governo e metterci qualcuno di suo gradimento. Anzitutto, lo vuole fare per motivazioni affaristiche. Nel 2023 è stato approvato l’Online Safety Act, una legge che obbliga le piattaforme a un maggior controllo sui contenuti problematici o che possono promuovere autolesionismo e disturbi alimentari, specialmente presso i minori. Chi non si adegua rischia una multa pari al 10 per cento del fatturato globale. E per Musk è chiaramente meglio avere un esecutivo amico, che ignora la totale assenza di moderazione su X. Poi ci sono le motivazioni ideologiche: il magnate vorrebbe rimpiazzare Starmer con qualche figura di estrema destra a lui fedele. Fino a qualche tempo sembrava essersi orientato su Nigel Farage, il leader di Reform UK; ma a un certo punto ha cambiato idea, bollando come un politico “inadeguato”. Da quel momento l’imprenditore ha scelto l’agitatore e influencer estremista Tommy Robinson, pseudonimo di Stephen Yaxley-Lennon, che è stato a capo del gruppo islamofobo e neofascista English Defense League. Musk ha ripristinato il suo account su X, ha ripubblicato più volte i suoi post, gli ha garantito una spinta algoritmica e – stando allo stesso Robinson – gli sta persino pagando le spese legali in un procedimento in cui è indagato per violazione delle leggi antiterrorismo. Nel settembre del 2025 Musk ha partecipato in videocollegamento alla manifestazione “Unite the Kingdom”, organizzata da Robinson e altre figure dell’estrema destra britannica. In quell’occasione ha pronunciato parole davvero incendiarie, chiedendo lo “scioglimento del parlamento” e incitando la folla di centomila persone a “combattere o morire”. Qualche giorno fa è tornato a battere sul tasto della “guerra civile” con un post apposito su X, in cui compare un bizzarro paragone con Il Signore degli Anelli. Per Musk, se gli inglesi vogliono salvare l’Inghilterra (cioè la Contea abitata dagli Hobbit) allora devono assolutamente allearsi con “gli uomini duri di Gondor [il regno degli Uomini della Terra di mezzo]”, ossia gli estremisti di destra come Tommy Robinson. -------------------------------------------------------------------------------- CAMPI HOBBIT Tralasciando le forzature e le imprecisioni – nella trilogia Gondor è un regno caduto in disgrazia, mentre i suoi “uomini duri” sono descritti come dei codardi e dei traditori – è significativo che Musk abbia tirato in ballo l’opera di J. R. R. Tolkien. La destra MAGA e i broligarchi stanno infatti cercando di appropriarsene in modo sfacciato, piegandolo alla propria ideologia. È un’operazione che in Italia conosciamo molto bene, visto che la destra postfascista ha cominciato a farlo già negli anni Settanta. Come hanno ricostruito Lucio Del Corso e Paolo Pecere nel saggio L’anello che non tiene, tutto nasce nel 1970 con la lunga prefazione alla prima edizione italiana scritta dall’intellettuale Elémire Zolla: secondo lui, il romanzo andava intenso come un inno alla tradizione, alla cristianità e alla purezza. In quegli stessi anni la destra giovanile attraversava una profonda crisi d’identità. I militanti del Fronte della Gioventù si sentivano sempre più distanti dal Movimento Sociale Italiano, sia politicamente che a livello culturale. Mentre a sinistra c’erano stati il Sessantotto, l’esplosione dei movimenti, la controcultura, le radio libere e un grande fermento in tutti i campi, a destra vigeva ancora un’atmosfera funerea legata alla tradizionale iconografia del fascismo storico. Per svecchiare quell’immaginario, la gioventù postfascista si mise alla ricerca di spunti al di fuori dell’area missina. Un’illustrazione a tema di Lorenzo Matteucci, per VICE Italia. Da un lato presero così spunto dalla Nouvelle Droite francese del filosofo Alain de Benoist, adottando la sua postura antimodernista, nazionalista e differenzialista. Dall’altro, per l’appunto, videro nel mondo immaginato da Tolkien l’esaltazione della tradizione e l’apologia di una sorta di fascismo primigenio. Nel 1977 venne dunque organizzato il primo “Campo Hobbit”, che era la risposta di destra al festival del proletariato giovanile che si era tenuto a Parco Lambro a Milano nel 1976. Da lì in poi nacquero band musicali – su tutte La Compagnia dell’Anello – mentre Tolkien venne glorificato in riviste come La voce della fogna ed entrò in pianta stabile nel pantheon simbolico dell’estrema destra italiana. Intere generazioni di militanti postfascisti crebbero col mito del Signore degli Anelli come testo fascisteggiante – tra cui, ovviamente, Giorgia Meloni. L’attuale Presidente del Consiglio è sempre stata un’appassionata di fantasy: alla fine degli anni Novanta usava come nickname su Internet “Draghetta Khy-Ry”, e anche quando è maturata politicamente non ha mai abbandonato i riferimenti a Tolkien. In un’intervista del 2002, ad esempio, aveva dichiarato che “la nostra bibbia è Il Signore degli Anelli.” Nel 2008, quando era ministra della gioventù, si era fatta fotografare di fianco alla statua di Gandalf. E la notte del 25 settembre 2022, a vittoria ormai certa, la sorella Arianna le aveva dedicato un post infarcito di citazioni tolkeniane. -------------------------------------------------------------------------------- MAKE TOLKIEN GREAT AGAIN Il grande paradosso è che Tolkien non sarebbe stato contento di queste attenzioni politiche da parte della destra, poiché non era certo tacciabile di simpatie per i regimi totalitari e i loro eredi. Pur essendo un cristiano conservatore, si era schierato a più riprese contro l’apartheid e il nazifascismo. In più ripudiava il militarismo, avendo visto in prima persona gli orrori della Prima Guerra Mondiale. Tra l’altro, lo scrittore britannico non ha mai voluto imprimere un esplicito significato politico al Signore degli Anelli; e anzi, ha sempre rifiutato la lettura del romanzo come allegoria della Seconda guerra mondiale o di altri eventi storici. Nonostante ciò, hanno sottolineato Pecere e Dal Corso, in Italia si è cercato di “conciliare la destra – o meglio il neofascismo – con l’opera di uno scrittore che le bombe nazifasciste le aveva viste cadere sulla propria testa”. Ora, per l’appunto, il tentativo sta avvenendo su scala ben più ampia. Saruman mentre usa un Palantir. Musk non è infatti l’unico broligarca in fissa con Il Signore degli Anelli, né tanto meno quello più accanito. Peter Thiel, il magnate della corrente reazionaria della Silicon Valley, ha detto di aver letto “almeno dieci volte” la trilogia e ha ribattezzato le sue aziende con i nomi di alcuni oggetti magici – come Palantir, una pietra veggente elfica, o Anduril, la spada usata da Aragorn durante la Guerra dell’Anello. Entrambe le aziende fanno parte del complesso tecnologico-militare, visto che hanno contratti miliardari con il governo federale. Inutile dire che, anche in questo caso, Tolkien rimarrebbe a dir poco interdetto da questo accostamento. In un pezzo di qualche mese apparso sul New York Times, la critica Michiko Kakutani ha ricordato che lo scrittore britannico > provava tutt’altro che entusiasmo per il culto della tecnologia. Diffidava dei > “fedeli delle macchine”, come li chiamava, e ne era quasi disgustato. [La > Prima guerra mondiale] gli aveva lasciato un orrore profondo per la guerra > industriale, impersonale, meccanizzata. Tornato in Inghilterra, si trovò di > fronte a un paesaggio che non riconosceva più: fabbriche, ciminiere, strade > asfaltate che divoravano i campi. Così, nella sua saga, Mordor diventa > l’incubo industriale per eccellenza – un deserto annerito e avvelenato dalla > guerra – in netto contrasto con la Contea, verde, semplice, quasi edenica. Passando all’amministrazione Trump, il Signore degli Anelli può vantare un altro grande estimatore: JD Vance. In un podcast del 2021, l’attuale vicepresidente disse che Tolkien era il suo autore preferito e che buona parte della sua visione conservatrice del mondo affonda le radici nella lettura della trilogia. Anche lui, come il suo finanziatore Thiel, ha chiamato la sua società di investimenti Narya Capital – come l’Anello di Fuoco indossato da Gandalf. Secondo il giornalista Adam Wren è probabile che l’opera di Tolkien abbia spinto Vance ad adottare quella che lui definisce una “mentalità apocalittica”, ossia la convinzione che la politica sia una battaglia tra il bene e il male. Questo approccio manicheo, del resto, contraddistingue l’intera destra MAGA. E non a caso, negli ultimi tempi il Signore degli Anelli ha fatto capolino nella propaganda memetica del Dipartimento della sicurezza interna, che ormai assomiglia sempre di più a una sezione distaccata di 4chan. In un post su X del 29 ottobre campeggiano due citazioni: una nella didascalia, tratta da Il ritorno del Re (“La scacchiera è pronta, le pedine si muovono. Infine ci siamo, la grande battaglia del nostro tempo”); e un’altra da Le due Torri (“non ci sarà più una Contea, Pipino”) su un fermo immagine del personaggio Merry, interpretato dall’attore Dominic Monaghan nei film di Peter Jackson. Sotto di queste c’è poi l’invito ad arruolarsi nell’ICE, l’agenzia per il controllo delle frontiere e dell’immigrazione. Ecco: mi sa che Tolkien non sarebbe entusiasta di veder usata la sua opera come strumento di reclutamento per un corpo di polizia noto per rapire le persone per strada e per essere la Gestapo personale di Donald Trump.   (*) ripreso dalla puntata #134 di «COMPLOTTI!», l’eccellente sito – iscrivetevi alla newsletter – di Leonardo Bianchi «che ti porta dentro la tana del Bianconiglio». Come immagine abbiamo scelto la copertina del suo libro uscito da Minimum Fax; presto ne riparleremo. La Bottega del Barbieri
Autismo e vaccini, CDC crolla sotto il peso delle proprie certezze. E ora dobbiamo chiederci: quanto altro non ci è stato detto?
Ci sono momenti in cui un’istituzione si tradisce da sola. Il CDC lo ha fatto il 19 novembre 2025, quando ha ammesso ciò che qualunque osservatore onesto sapeva da anni: la frase “i vaccini non causano l’autismo” non poggiava su prove solide. Non si tratta di una sfumatura linguistica, né di un aggiornamento tecnico. È un ribaltamento clamoroso di vent’anni di retorica ufficiale, una rivelazione che mette in discussione l’intero impianto comunicativo della sanità pubblica statunitense. Il CDC non dice che i vaccini causano l’autismo — lo ribadiamo. Ma ammette qualcosa di assai più grave: non è stato dimostrato che non lo causino, almeno per i vaccini somministrati nei primi mesi di vita. La domanda che ora si impone, con tutta la sua forza, è la più semplice e la più scomoda: come è stato possibile che un’agenzia federale abbia trasformato una mancanza di prove in una certezza assoluta? Il CDC, per la prima volta, dice esplicitamente ciò che per anni è stato nascosto dietro formule rassicuranti: * gli studi su MMR non stabiliscono cause, * e quelli sul calendario vaccinale dei neonati — DTaP, epatite B, Hib, IPV, pneumococco — sono insufficienti per dire sì o no. Le principali analisi indipendenti lo dicevano già dal 1991 al 2021: le prove non permettono né di escludere né di confermare un legame. E allora perché per vent’anni il messaggio è stato l’esatto opposto? Perché la comunicazione istituzionale ha presentato un “non c’è rapporto” come un dogma scolpito nella pietra? È stata una scelta. Una scelta politica, prima ancora che scientifica, una scelta che oggi implode Per due decenni il dibattito su autismo e vaccini è stato sterilizzato sistematicamente evocando un solo nome: Wakefield. Un episodio, per quanto controverso, è diventato il passe-partout per deridere i genitori, svalutare le testimonianze, ignorare ricerche emergenti, evitare qualunque analisi approfondita col risultato di una generazione intera di scienza mancata. Il CDC oggi ammette non solo che le prove erano insufficienti, ma anche che alcuni studi potenzialmente critici sono stati ignorati. È difficile immaginare una confessione più devastante per un’agenzia di sanità pubblica.  C’è un dettaglio contenuto nella nuova pagina del CDC che meriterebbe di aprire il telegiornale di qualunque Paese democratico: la vecchia frase “i vaccini non causano l’autismo” rimane online solo per un accordo politico con il presidente della Commissione Salute del Senato. Non per ragioni mediche. Non per ragioni scientifiche. Per ragioni politiche. Una frase che per anni è stata usata per zittire genitori, medici, giornalisti e ricercatori oggi viene smascherata nella sua natura: propaganda sanitaria. Quante altre affermazioni “scientifiche” sono state modellate allo stesso modo? Chi ha beneficiato di questa narrativa? E soprattutto: chi ne ha pagato il prezzo? Questo dietrofront arriva mentre l’amministrazione federale: * riapre le revisioni del NIH sulla sicurezza vaccinale, * ripristina la Task Force sui Vaccini dell’Infanzia più Sicuri, * riforma l’ACIP, * e mette in discussione dogmi che sembravano intoccabili. Quando un’istituzione cambia linguaggio, cambia anche la cornice del dibattito. E il CDC ha appena riscritto la cornice del dibattito globale sui vaccini. Non è retorica: la questione non è più chiusa. È ufficialmente aperta. LA DOMANDA PROIBITA ORA DIVENTA UNA PRIORITÀ: STUDIARE DAVVERO, FINALMENTE, I POSSIBILI MECCANISMI BIOLOGICI DELL’AUTISMO Per anni, ipotesi come: * neuroinfiammazione, * vulnerabilità mitocondriali, * adiuvanti, * disregolazione immunitaria precoce sono state liquidate come “teorie marginali”. Oggi, quelle stesse ipotesi entrano — per la prima volta — in uno spazio legittimo di ricerca. Non per concessione politica, ma perché il CDC ha ammesso ciò che da sempre avrebbe dovuto dire: non sappiamo ancora con sicurezza cosa accade nei neonati dopo una serie ravvicinata di stimoli immunitari. Ed è questo il punto: non lo sappiamo perché non lo abbiamo studiato a fondo. Non lo sappiamo perché per vent’anni abbiamo scambiato slogan per scienza. Il momento della verità è arrivato. E la scienza deve ripartire da qui. Siamo davanti a un’occasione irripetibile. Una porta si è aperta — tardi, troppo tardi, ma si è aperta. Ora servono: * studi seri, indipendenti, biologicamente fondati; * analisi su sottogruppi vulnerabili; * ricerche longitudinali; * trasparenza totale nei dati; * un nuovo modo di comunicare, che non scambi il pubblico per un bambino da rassicurare, ma per un cittadino da informare. Dopo vent’anni di frasi rassicuranti costruite sul vuoto, questo è il momento di affrontare la questione con rigore e coraggio. Davvero: se non ora, quando? Fonte: blog Maryanne DeMasi   Ulteriori informazioni: https://www.comilva.org/it/informazione/dal-mondo-ricerca-scientifica-editoriale-comilva/mmr-e-autismo-il-caso-wakefield-come https://www.comilva.org/it/informazione/danno-da-vaccino-redazionale-comilva/i-vaccini-non-causano-lautismo https://comilva.org/it/informazione/dal-mondo-redazionale-comilva/andrew-wakefield-e-i-retroscena-della-controversia https://www.comilva.org/it/informazione/dallitalia-danno-da-vaccino-editoriale-comilva/la-sentenza-riparatrice https://www.comilva.org/it/informazione/redazionale-comilva/bufale-e-controbufale https://comilva.org/it/informazione/giurisprudenza-danno-da-vaccino/autismo-e-vaccinazioni-una-nuova-sentenza-favorevole https://www.comilva.org/it/informazione/redazionale-comilva/non-accettate-notizie-dagli-sconosciuti   AsSIS