
Mama Africa: quando la cura sfida la violenza
Progetto Melting Pot Europa - Tuesday, October 21, 2025Quello che segue è un estratto di una lunga conversazione con Marino Dubois, Mama Africa: ricordi, appunti, riflessioni, informazioni tra traiettorie, persone, violenze e i meccanismi che le governano.
È una parte dello scambio – intervista tra lei e quattro membri dell’equipaggio di Tanimar: Marie Milliard, Roberta Derosas, Georges Kouagang e Luca Queirolo Palmas 1.
Il testo documenta la trasformazione delle frontiere mediterranee: respingimenti in mare, deportazioni nel deserto, rapimenti, estorsioni e la violenza crescente negli accampamenti a nord di Sfax, in Tunisia.
L’intervista descrive inoltre le reti complesse di attori informali che operano lungo le rotte – arnaqueurs, cokseurs, aventuriers, taxi-mafia – ed evidenzia il ruolo politico dell’azione di Dubois: bénévole au sujet de la migration, così come si definisce lei di fronte ai suoi oltre 100mila followers.
In una casa di campagna da qualche parte in Europa vive Marino Dubois, detta Mama Africa. Intorno a lei, quaderni fitti di note e di numeri di telefono, appunti, date. Sul suo profilo Facebook, che è stato chiuso e riaperto più volte, scorrono avvisi, fotografie, richieste di aiuto.
Ad ogni momento, che sia giorno o notte, le arrivano chiamate da uomini e donne, esseri umani in cerca di speranza, bloccati da qualche parte in Tunisia o Libia, persone in viaggio lungo le rotte del Mediterraneo.
Riceve richieste da famiglie che cercano i propri cari, da chi non sa più a chi rivolgersi, perché compresso dalle logiche degli Stati europei che gestiscono la vita e la morte delle persone, riducendo a cifre la sorte di chi attraversa il Mediterraneo.
Marino Dubois ha cominciato circa otto anni fa: l’elemento scatenate per lei è stato l’omicidio di un giovane della Guinea che viveva in Francia. Si trattava di Mamoudou Barry, ricercatore all’Università de Rouen-Normandie, ucciso per il colore della sua pelle, a pugni e colpi di bottiglia.
Rouen (19 luglio 2020), manifestazione in memoria di Mamoudou BarryQuesto omicidio di stampo razzista, ennesimo frutto della violenza a cui molti sono sottomessi, l’ha spinta ad agire. Da allora il suo lavoro si è trasformato in un’attività costante: informare, raccogliere testimonianze, denunciare sparizioni, restituire tracce e nomi a chi rischia di svanire senza lasciare segno.
Abbiamo passato con lei due lunghe giornate: la conversazione tra noi è stata un filo stretto tessuto per ore. Dal suo racconto emergono le trasformazioni delle frontiere mediterranee: i respingimenti in mare, le deportazioni nel deserto, la tratta di stato che continua fra Tunisia e Libia nonostante il fenomeno sia ormai divenuto pubblico e documentato 2, i rapimenti e le estorsioni a scopo di riscatto, la violenza crescente negli accampamenti improvvisati negli uliveti intorno a Sfax.
Una violenza che si ripete come la corrente del Mediterraneo: silenziosa, continua, inevitabile.
L’intervista restituisce anche la complessità delle reti che si muovono attorno a queste rotte animate da arnaqueurs, cokseurs, taxi-mafia: figure che gestiscono spostamenti, soldi e persone lungo i percorsi migratori.
Dubois spiega questi termini e ne restituisce la funzione all’interno di un sistema di violenza e solidarietà che conosce dall’interno. Li ritroviamo, insieme a molti altri, nel Contro-dizionario del confine, testo che raccoglie e restituisce l’esperienza del viaggio a partire dai diretti protagonisti 3.
Nel corso della conversazione emergono le relazioni che Dubois ha tessuto: con le persone in viaggio, con le famiglie che cercano i dispersi, con chi la chiama per chiedere aiuto, coi bambini che portano il suo nome, tra progetti scolastici nati negli insediamenti, i matrimoni e i battesimi a cui è stata invitata, nelle reti di solidarietà che operano tra precarietà e violenza.
È un lavoro di cura il suo, in cui da pensionata continua una esperienza lavorativa da assistente sociosanitaria, ma in un contesto in cui la vita e la morte sono in gioco ogni giorno sul filo di una chiamata o di una notizia condivisa.
Quello che fa, ha un valore politico: raccontare la realtà delle frontiere, denunciare violenze e sparizioni, costruire reti di sostegno significa sfidare le logiche statali e l’indifferenza europea, restituendo voce e visibilità a chi è marginalizzato e invisibile.
Come hai cominciato a sostenere le persone che cercano di attraversare la frontiera europea?
L’elemento scatenante è stata la storia di un ragazzo della Guinea, 7 o 8 anni fa. Un giovane che abitava in Francia e che, intervenendo in soccorso di un’altra persona, aggredita, è stato ucciso. Mi aveva scioccato il fatto che un ragazzo potesse essere freddato in quel modo, a mani nude, in Francia. Era una brava persona. Aveva una vita davanti. Ho iniziato così, da quell’ingiustizia che mi è sembrata insopportabile.
Chi sa quello che fai?
Scherzi? Nessuno qui sa che sono Marino Dubois e nessuno deve saperlo. Neppure la mia famiglia. Non capirebbero quello che faccio, e poi credo che sarebbe un pericolo. Nessuno sa dove abito, anche se la mia foto è sulla pagina facebook. Nessuno sa in che paese vivo. Ho già ricevuto molte minacce.
Che lavoro facevi prima?
Ero assistente sociosanitaria in ospedale. Ora sono in pensione. In realtà, continuo il mio lavoro, solo in un altro modo, curando, ascoltando. Facevo parte del mondo medico; ho lavorato anche in un reparto di cure palliative, quindi c’è qualcosa che continua. In ospedale ti trovi di fronte alla morte. Ma ora mi trovo di fronte a molte morti.
Si prova una sorta di angoscia, di stress, perché ti dici: “Ma…ove sono? Quanti sono? Quanti sopravvissuti?”. Poi ti immagini al loro posto. E quando li portano alle prigioni e li picchiano e li mandano in Libia, sono spesso feriti. Per esempio, nell’ultima barca erano tutti ustionati molto gravemente.
Prima del 2023, in Tunisia, le persone intercettate in mare erano lasciate libere di tornare negli uliveti o nelle città; ma è dal 2023, dai grandi arrivi a Lampedusa e con l’Unione Europea alle spalle, che le autorità tunisine hanno cambiato il loro modo di agire. Ecco cosa hanno causato gli accordi. Altri morti. Ecco tutto. L’Unione Europea vuole fermare il flusso migratorio, ma hanno coscienza delle morti che generano queste politiche?
Potrebbero mandarli a casa loro, se volessero. Che sia l’Algeria o la Tunisia, hanno tutti aeroporti, hanno l’OIM. Io dico: ”Ma fateli partire, non gettateli nel deserto, non mandateli a morire”. Questo è il problema. E così dal 2023: siamo nel 2025, sono passati due anni. Provate a immaginare il numero di morti…
Raccontaci cosa fa ogni giorno Mama Africa…
Sono passati 7 anni, ma non vedo passare il tempo, non lo conto. Sono attiva tutti i giorni, 24 ore su 24, perché le persone migranti che sono lì, gli avventurieri, non mi lasciano dormire. Mi chiamano nel cuore della notte, a volte mi dicono che è urgente.
Sai, mi dicono che la mattina si alzano e la prima cosa che fanno è ascoltare Mama Marino, leggono quello che ho pubblicato su Facebook, le notizie, quali sono i giorni adatti alla navigazione e quali no…Non hanno idea, bisogna stare sempre ad ascoltarli e ti chiedono molte parole, molto sostegno.
Riconoscimento, speranza. Perché non ce l’hanno più, hanno perso tutto. È così. Quindi sono obbligata a rispondere. Spesso mi dicono che non mi devo ammalare: “Curati, curati. Non ti ammalare perché abbiamo bisogno di te, abbiamo troppo bisogno di te. Non ti ammalare”, mi dicono.
Hanno perso tutto, non hanno nulla. Per loro sono una persona importante, anche se per me non è così, ma per loro lo sono. Forse è egoista, ma loro hanno bisogno che io sia lì per le loro richieste, le loro domande, i loro problemi, per aiutare a recuperare quanto hanno perso, per i contatti…
Intorno a te si è creato un incredibile sistema di comunicazione e di sapere condiviso. Ad esempio, quando abbiamo perso un nostro amico in Tunisia, ti abbiamo chiesto di pubblicare la sua foto. Grazie ai commenti al post di questa scomparsa, abbiamo scoperto rapidamente che era stato detenuto, poi deportato e venduto in Libia e che era riuscito a scappare in Algeria; siamo anche riusciti a chiamarlo tramite un cokseur…
Pubblico molti post perché ci sono tantissime persone che scompaiono. Ed è importante pubblicare la foto di qualcuno che molto probabilmente è deceduto, perché significa anche lasciarne una traccia.
Questo è il problema quando le persone scompaiono: perché le autorità non recuperano tutti i corpi di chi muore in mare? Perché li seppelliscono in fosse comuni e nessuno ne sa più nulla? Le famiglie non sono al corrente. Lo trovo inaccettabile. Per esempio: ci sono molte donne che sono morte, diverse incinte, ho molti video… È dura vedere quelle immagini.
A volte vengono deportati e abbandonati più volte, che sia in Libia, in Tunisia, in Algeria. Ci sono migranti che non escono dal deserto per giorni, settimane. Non c’è acqua, non hanno niente, non hanno più il telefono, non possono più comunicare la loro posizione, non sanno dove si trovano. Così muoiono molte persone.
Hai visto dei cambiamenti da quando hai iniziato la tua attività?
Certo. La situazione è peggiorata, perché 7-8 anni fa non vedevo nulla di tutto questo. Ho incominciato quando molte persone migranti erano in Algeria. Le loro condizioni di vita erano pessime. C’erano comunque dei morti nei cantieri, dove lavoravano e vivevano.
Poi ho conosciuto il Niger e anche qui, che dire? Le condizioni anche lì sono disumane: le persone non hanno cibo, fanno la fila per lavarsi, non c’è acqua, ci sono le tempeste di sabbia, dormono per terra all’aperto. Le condizioni sono spaventose. Ma la situazione è peggiorata in tutti i sensi, sia a livello delle autorità, ma anche fra i migranti… la violenza è aumentata.
Perché la violenza chiama violenza. A partire dal settembre 2023, dopo l’ultimo grande ingresso a Lampedusa, è stato un disastro. Ho iniziato così ad occuparmi anche della Tunisia e quello che facevo prima non ha più nulla a che vedere con l’attualità. Ora ad esempio ci sono i rapimenti, un fenomeno che prima non esisteva.
Puoi spiegarti meglio? Chi sono i rapitori, i kidnappeur?
Ci sono sequestri di persona operati a scopo di riscatto da tunisini o altri migranti subsahariani e spesso sono legati ad altre forme di violenza e tortura sulle persone sequestrate. È un sistema in cui trovi migranti e non, arnaqueurs, taxi mafia, cokseurs.
Per esempio – e mi riferisco principalmente alla Tunisia – ci sono persone che vengono respinte nel deserto dell’Algeria e lì trovano i taxi mafia che si offrono di riportarli a Sfax. Le persone pagano, è costoso, tra i 200 e 250 euro. Solo che, invece di essere liberate, sono portate dai kidnappeur, in case e altri luoghi a Sfax. Le persone vengono torturate, picchiate; i sequestratori prendono loro il telefono e chiamano le famiglie.
Un tempo a me accadeva che mi chiamassero mentre torturavano le persone; ricevevo i video. Ci sono i rapimenti che fanno parte di un sistema di violenza diffusa. C’è molta droga, molto alcool, che prima non c’erano. E anche questa è colpa di Sayed, del presidente tunisino. Risale a quando ha cacciato tutti da Sfax, quando ha proibito ai neri di avere un tetto e un lavoro.
Li hanno caricati su dei bus per poi scaricarli negli zitounes (uliveti) e lì, i migranti hanno costruito case di fortuna, per chilometri. L’alcool, i machete, la droga…ma le persone non sono arrivate con i machete, con l’alcol e neppure con la droga, le caramelle, i bonbons come dicono loro. E chi li produce? Chi glieli dà? Non è nemmeno erba, sono pasticche. Vengono da qualche parte, non le producono certo i migranti negli uliveti. Sono i tunisini a far arrivare droga e alcool.
Hai parlato di km, di zitounes…
Risale tutto al 2023, quando le persone sono state cacciate da Sayed e portate a Nord di Sfax. Chi non è partito prendendo il mare, ha costruito tende e baracche sotto gli ulivi, lungo i km di costa. Sono gli zitounes.
Sono campi di ulivi, di proprietà di persone tunisine. A volte sono grandi campi, a volte sono più piccoli. Infiniti chilometri, come noi abbiamo città con tanti chilometri, dal km 5, 6 fino all’80 credo, e quindi tutti i chilometri vengono utilizzati dai migranti per accampare perché non hanno più diritto a stare nelle case. In realtà, le autorità tunisine li hanno parcheggiati in questi posti. E poi li hanno respinti, hanno distrutto le loro tende e loro le hanno ricostruite e così di seguito… e questo non fa altro che creare problemi perché, come ho detto, la violenza genera violenza.
Perché si creano bande che sono in conflitto e che vogliono prendere il controllo dello spazio e dei traffici… e questo crea grossi problemi. La gente ora ha paura. Hanno persino paura di parlarmi.
Più si blocca il mare, più aumenta la violenza… Ma allo stesso tempo, negli zitounes ci sono anche molte iniziative di solidarietà…
Sì, un giorno un migrante mi ha chiamato per dirmi: «Stiamo per avviare un progetto scolastico». Ho detto: «È fantastico, perché ci sono tanti, tantissimi bambini, almeno li terrà occupati». All’inizio ce n’erano una decina, ma poi si sono ritrovati con una trentina di bambini. Era davvero una buona cosa. Li teneva occupati. E poi tutto questo è stato distrutto. C’erano anche delle moschee, luoghi di preghiera, degli ospedali. Ci sono stati matrimoni, ci sono stati battesimi. Le autorità distruggono, loro ricostruiscono.
E le persone ti fanno partecipare a quei momenti così intimi?
Certo! Anche quando ci sono i sacrifici, quando si preparano a salire sulla barca per attraversare, quando sacrificano la pecora prima di un viaggio, tutto questo, sì. Sono al corrente di tutto, mi informano. Ci sono bambini che portano il mio nome.
Ci hai raccontato che a volte ti chiamavano durante le torture…
Ora non lo fanno quasi più, perché gli aguzzini a Sfax, i sequestratori, bloccano i telefoni. Prima, quando mi chiamavano, potevamo localizzarli. Ora non più. Più volte, mi han chiamato e mi hanno fatto sentire come torturano.
Prendono dei sacchetti di plastica, li incendiano e poi li fanno cadere sui loro corpi, oppure usano i coltelli o i machete. Anche le donne vengono picchiate, torturate, violentate. È terribile. La violenza, questa violenza prima non esisteva, perché le persone potevano andarsene. E ora sono bloccati lì a Sfax come topi.
Ma in fondo è quello che le autorità tunisine volevano. Le persone non hanno più niente. Ne ho tanti, tanti che mi chiamano, che mi chiedono aiuto. E io… non posso aiutare tutti. Mi chiedono aiuto ogni giorno, ma io non riesco. Non hanno niente da mangiare e anche questo ovviamente crea violenza.
Come puoi sopportare tutto questo? Appena riattacco, il telefono squilla di nuovo, per un’altra cosa e sono sempre in movimento. Assistere a tutta questa violenza è terribile.
Per chi non ha mai visto la tua pagina, puoi spiegare cosa fai?
Allora, innanzitutto i migranti la usano come pagina di informazione; guardano quello che ho scritto, perché così ricevono almeno informazioni su ciò che accade nei paesi in cui si trovano. Parlo delle aggressioni; quando c’è la polizia che brucia gli uliveti o ci sono arresti, lo racconto. E poi le sparizioni e le deportazioni: persone che scompaiono, le famiglie nei paesi di origine che mi mandano foto, che mi chiedono di pubblicarle. Ne ritroviamo molti.
Ricevo molte chiamate dalle famiglie. Pubblico anche le barche che sono scomparse. O ancora: che una certa barca è partita da un porto. Scrivo sui naufragi, informo sulle condizioni meteo nei luoghi di partenza di Algeria, Tunisia e Marocco e su quelli di arrivo a Lampedusa, Pantelleria, Spagna…dico di non partire con il cattivo tempo.
Perché ho iniziato a farlo? perché penso che potrò salvare delle vite. È il mio obiettivo. Anche dare consigli. Per esempio: esistono problemi di sovraccarico nelle barche, li invito a rispettare le condizioni meteo, di fare attenzione alla costruzione della barca, al motore.
La maggior parte dei naufragi è dovuta a questo, perché le persone partono in condizioni molto sfavorevoli, con barche che erano di legno e ora sono di ferro, saldate male. Non ho mai navigato, eppure sono diventata un’esperta di meteo, barche, di motori. Proprio io, che non sono mai salita su una barca.
Ci sono troppi capitani inesperti, sempre più inesperti, persone che non sono mai state in mare e che sono messe al comando. La maggior parte dei naufragi è dovuta al mancato rispetto delle condizioni base di sicurezza. E poi, nelle pubblicazioni, parlo dei cokseurs. Loro sono le persone che offrono informazioni e contatti per proseguire il viaggio, raccolgono i passeggeri per formare gli equipaggi di autobus, taxi, barche, per costituire insomma il gruppo di viaggio. Ci sono i lanceurs, che “lanciano” in mare le persone.
Lo fanno ovviamente tutti in cambio di soldi. Alcuni sono corretti, altri meno. Capita che gli aventuriers diano i soldi ai cokseurs e questi poi non organizzano il viaggio. Allora il mio compito è quello di far recuperare i soldi alle persone. Organizzo delle conferenze, cerchiamo un terreno d’intesa, un rimborso possibile per chi ha pagato. E se non si trova un accordo, allora io pubblico le facce dei cokseurs sulla mia pagina dicendo che sono degli imbroglioni, degli arnaqueurs.
Finire sulla mia pagina, fa cattiva pubblicità e toglie “clienti” a un cokseur. Adesso, ad esempio, sto denunciando “il mauritano”, fa prezzi stracciati, fa partire con cattivo tempo, con barche di ferro più grandi, fanno molti naufragi le barche del “mauritano”…
Come hai sviluppato questa capacità di rappresentanza, di comunicazione? Nel tuo lavoro, per esempio, facevi attività sindacale? Perché ci sembri quasi una sindacalista dei passeggeri da quello che racconti… ne difendi i diritti di fronte ad “organizzatori” che non rispettano gli accordi…
Mai fatto sindacato. Difendo solo i più poveri e non l’avevo mai fatto prima. Non lo so, è venuto così e sono state le persone a insegnarmi… Sono state loro a darmi le carte in mano. A volte mi arrabbio. A volte ci vogliono mesi e mesi prima di recuperare i soldi. E la gente aspetta un anno, due anni. A volte non hanno tutti i loro soldi, ma va bene, per me se recuperano qualcosa per curarsi, per mangiare.
Hai corrispondenti principali nei diversi paesi…
Sono in contatto con molte persone e poi ci sono quelli che mi chiamano molto spesso e con cui ho già instaurato un rapporto di fiducia e che, anche se rimpatriate, continuano a chiamarmi dalla Guinea, Costa d’Avorio, Mali, Burkina, per raccontarmi di loro e darmi informazioni.
Lavori con il telefono su whatsapp, su Facebook e poi hai dei quaderni…
Questo è il quaderno dove annoto tutto. Ogni volta che ricevo una chiamata, annoto. Per esempio, se tu guardi qui è annotata la data “1° settembre” e ho scritto di una barca che era partita. Conservo tutti i quaderni. Ci sono i numeri di telefono di chi mi chiama, di associazioni, di un medico, di chi può dare una mano…Guarda qui per esempio: “Tarfaya, 8 aprile, non partito. Terza ondata, naufragio, nessun morto, salire, salire sugli scogli, molto stanco, non ha la forza di camminare”.
Scrivo così come viene, come mi dicono. Ah, mi ricordo di questo evento (sfoglia il quaderno): un ragazzo che aveva perso sua sorella, una giovane donna ritrovata poi morta in ospedale. Faccio anche delle ricerche per chi è deceduto, ci sono le famiglie che mi chiamano. Una volta si poteva… Ora non si può più. Avevo dei conoscenti, potevano andare all’obitorio, negli ospedali, cercare in Tunisia.
A un certo punto, era possibile. Facevano delle giornate “porte aperte”, diciamo; ora non è più possibile, non c’è più accesso ad ospedali e obitori. I parenti non sapranno mai dove sono finiti i loro figli. Sono triste perché so che li seppelliscono in fosse comuni.
Ecco un altro esempio: uno studente che aveva i documenti e che aveva perso molti dei suoi fratelli su una barca. Voleva rimpatriare i corpi nel loro paese ma non è stato possibile. C’erano 10 corpi. Li hanno seppelliti nelle fosse comuni che nessuno sa dove siano, perché nessuno lo dice. Come tutte le persone che muoiono in Tunisia negli ospedali.
Mi sono sempre chiesta: dove sono i corpi? Cosa ne fanno? Dove sono le persone? Ci sono molte persone che sono malate. E vanno in ospedale e spariscono. È per questo che i migranti hanno paura di andare in ospedale. Perché sanno che… non si hanno più notizie. Non so cosa ne facciano. Ne ho sentito parlare spesso di traffico degli organi, ma non ho prove.
Cosa ne fanno di tutte queste persone che muoiono? Perché, quando qualcuno muore, dovrebbero segnalarlo all’ambasciata, no? Quello che non riesco a capire è come mai i presidenti africani rimangano in silenzio di fronte al massacro dei propri cittadini. È come se non fossero camerunesi, non fossero nigeriani, non fossero… Non so, se un italiano morisse in Tunisia… sarebbe sulla prima pagina di tutti i giornali.
Ti assumi questa responsabilità di parlare, di raccontare…
Se so che una barca è naufragata, sono obbligata a dirlo, non posso lasciar loro credere che le persone sono vive se non lo sono. Perché la guardia costiera tunisina sulla sua pagina web racconta solo bugie. È anche insopportabile l’ipocrisia europea; perché se ascolti i nostri governanti che stringono accordi con la Tunisia, la Libia, ti dicono che lo fanno per salvare vite umane.
Quindi vogliono bloccare la migrazione perché, se le persone partono, muoiono. Eppure sanno benissimo cosa accade con i loro accordi… quello che vi ho appena raccontato. I migranti mi fanno sempre questa domanda «Ma cosa abbiamo fatto, cosa abbiamo fatto?».
Ed è proprio così: sai dirmi tu cosa hanno fatto?
- Luca Queirolo Palmas, docente di sociologia delle migrazioni all’Università di Genova, coordina il progetto di ricerca Solroutes; Georges Kouagang, mediatore culturale e rifugiato, è parte del Laboratorio di Sociologia Visuale dell’Università di Genova e anima il progetto The Routes Journal;
Marie Millard, filmaker e webdesigner; Roberta Derosas, social worker, ricercatrice indipendente, attivista ↩︎ - Si veda il rapporto State Trafficking a cura del collettivo RR(X) ↩︎
- Equipaggio Della Tanimar, Controdizionario del confine. Parole alla deriva nel Mediterraneo centrale, TAMU, Napoli 2026 ↩︎