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“Nessuno ti sente quando urli”: il sistema di violenza contro le persone migranti in Tunisia
GIORGIO MARCACCIO 1 Il dossier “Nobody hears you when you scream” (Amnesty International, 2025) 2 presenta un quadro sconvolgente: la Tunisia non solo non protegge le persone migranti, ma costruisce attivamente un sistema di violenza contro di loro. Le testimonianze raccolte mostrano un modello coerente: intercettazioni brutali in mare, espulsioni nel deserto al confine con Libia e Algeria, detenzione arbitraria, abusi sessuali e tortura. Parallelamente lo Stato attacca organizzazioni e attiviste/i, escludendo ogni accesso all’asilo. Nonostante ciò, l’Unione Europea continua a finanziare la Tunisia con un Memorandum privo di garanzie sui diritti umani. L’indagine di Amnesty International, condotta tra febbraio 2023 e giugno 2025, ha esaminato le esperienze di rifugiati e migranti in Tunisia, concentrandosi su Tunisi, Sfax e Zarzis. Sono state intervistate 120 persone provenienti da diversi paesi africani e asiatici (92 erano uomini e 28 erano donne), tra cui Afghanistan, Algeria, Nigeria, Sudan, Yemen, Camerun, Repubblica Centrafricana, Ciad, Congo, Costa d’Avorio, Repubblica Democratica del Congo, Gambia, Ghana, Guinea, Libia, Mali, Nigeria, Senegal, Sierra Leone, Sud Sudan 3. Nel novembre del 2025 Amnesty International ha pubblicato il rapporto “Nobody hears you when you scream”, che denuncia le condizioni disumane subite dalle persone migranti in Tunisia e mette in luce un sistema di discriminazione razziale e xenofoba rivolto soprattutto a uomini e donne dall’Africa subsahariana. Il rapporto ricostruisce in modo dettagliato un apparato repressivo che coinvolge istituzioni, forze dell’ordine e ampi settori della società civile, grazie a testimonianze dirette, missioni di indagine e dichiarazioni pubbliche di figure politiche, tra cui il presidente Kaïs Saïed. Uno dei temi centrali è la violazione sistematica e continua dei diritti umani: tortura, trattamenti inumani, detenzione arbitraria, uso eccessivo della forza durante intercettazioni in mare e sbarchi, espulsioni collettive e sommarie lungo il confine meridionale. Molte di queste violazioni sono attribuite alla National Guard, corpo dipendente dal Ministero dell’Interno, formalmente incaricato della protezione dei confini ma spesso coinvolto direttamente in violenze e abusi. > «Quando sono arrivato alla stazione di polizia, un poliziotto mi ha urlato > contro dicendo: “Voi neri create problemi” e un altro mi ha dato una > ginocchiata allo stomaco». > Milena, studentessa del Burkina Faso Parallelamente, si registra un clima politico apertamente razzista: dal febbraio 2023 il Presidente Saïed ha più volte evocato un presunto “complotto” dei migranti volto a cambiare la composizione demografica del Paese, alimentando ostilità e giustificando misure discriminatorie. Approfondimenti TUNISIA: IL CONFINE INVISIBILE D’EUROPA Il punto sulla situazione delle persone migranti tra detenzione e respingimenti Maria Giuliana Lo Piccolo 25 Novembre 2025 LA TUNISIA COME SNODO DELLA ROTTA MEDITERRANEA La Tunisia occupa una posizione strategica per le rotte migratorie provenienti dall’Africa subsahariana verso l’Europa. Le crisi politiche e umanitarie del continente spingono migliaia di persone a dirigersi verso il Nord Africa, spesso senza possibilità di proseguire immediatamente il viaggio, con il rischio di diventare irregolari sul territorio tunisino. Dal 2017, con gli accordi UE-Libia sul contenimento delle partenze, molte persone hanno iniziato a spostarsi irregolarmente dalla Libia alla Tunisia nella speranza di trovare una via più sicura verso l’Europa. Il fenomeno si è consolidato soprattutto dal 2020. Sul piano normativo, la Tunisia non ha sviluppato un sistema efficace di gestione dell’asilo: la Costituzione del 2022 garantisce il diritto d’asilo “secondo la legge”, ma la legge non esiste, creando così un vuoto che impedisce la protezione internazionale. Nonostante l’adozione nel 2018 di una legge avanzata contro discriminazione e razzismo, Amnesty documenta come essa rimanga largamente inapplicata. Le testimonianze raccolte mostrano come le persone africane siano sottoposte a violenze, estorsioni e arresti arbitrari motivati da profiling razziale. > «Hanno semplicemente detto: ‘Non vogliamo neri qui, tornate a casa vostra». > Adama, un giovane ivoriano DISCORSI PRESIDENZIALI E COSTRUZIONE DEL NEMICO INTERNO Uno degli elementi più forti del rapporto è la documentazione dell’impatto del discorso politico. Nel febbraio 2023 il presidente Kaïs Saïed parla pubblicamente di una “minaccia demografica” rappresentata dai migranti subsahariani, accusati di voler “modificare la composizione della popolazione tunisina”. Le parole alimentano un’ondata di xenofobia e violenza. Molti persone migranti raccontano che, subito dopo il discorso, i vicini hanno smesso di salutarli, proprietari di casa hanno annullato contratti d’affitto, tassisti hanno rifiutato di farli salire. > Una donna ivoriana testimonia: > «Dopo quel discorso, era come se tutti avessero ricevuto il permesso di farci > del male». Nessuna istituzione tunisina ha preso pubblicamente le distanze da questa retorica: al contrario, la sicurezza interna ha intensificato controlli, arresti ed espulsioni. 4 INTERCETTAZIONI IN MARE: MANOVRE PERICOLOSE, OPACITÀ ISTITUZIONALE Uno dei capitoli più gravi riguarda le intercettazioni dei migranti in mare, condotte con tattiche pericolose e violente. Da giugno 2024 la Tunisia ha smesso di diffondere i propri dati ufficiali e il 19 giugno 2024 ha notificato all’IMO (International Maritime Organization) l’istituzione di una vasta area SAR (SRR), che consente intercettazioni in una zona molto ampia. Le ONG documentano manovre aggressive come urti volontari, uso di cavi, spray urticanti, violenze fisiche e sequestri di motori. Tali pratiche violano la Convenzione internazionale sul salvataggio marittimo e il Protocollo ONU contro il traffico di migranti. > «Continuavano a colpire la nostra barca con lunghi bastoni con estremità > appuntite, l’hanno bucata… C’erano almeno due donne e tre bambini senza > giubbotti di salvataggio. Li abbiamo visti annegare…» > Céline, una donna camerunese Un ulteriore aspetto critico riguarda la mancata valutazione individuale delle persone in movimento: documenti e beni personali vengono spesso confiscati o distrutti, rendendo impossibile richiedere protezione internazionale. ESPULSIONI COLLETTIVE VERSO LIBIA E ALGERIA Sul fronte terrestre Amnesty documenta migliaia di espulsioni collettive verso Algeria e Libia dall’estate 2023 in avanti. Si tratta di pratiche che violano apertamente il principio di non-refoulement, cardine della Convenzione del 1951 sui rifugiati. Le espulsioni avvengono spesso tramite cooperazione – anche informale – con gruppi armati libici e algerini. Molte persone vengono portate in centri di detenzione illegali e sottoposte a violenze, perquisizioni degradanti e confisca dei documenti. In Algeria si verifica frequentemente il chain refoulement, con respingimenti ulteriori verso Niger o Mali. Il contesto libico è ancora più drammatico, segnato da violenze sistematiche riconosciute dalle Nazioni Unite. > «Avevo un visto valido, ma non ci hanno spiegato nulla né chiesto documenti di > identità… Ci hanno ammanettato con una corda nera e ci hanno messo su un > autobus che ci ha portato in Algeria. Ci hanno solo detto: “Non vogliamo neri > qui, tornate a casa vostra”». ABUSI SESSUALI E TORTURA COME STRUMENTI DI CONTROLLO Numerose donne raccontano di aver subito violenze sessuali da parte di membri della National Guard durante intercettazioni, detenzioni ed espulsioni. Si tratta di abusi che Amnesty classifica esplicitamente come tortura, vietata dalla Convenzione ONU del 1984 5. Anche uomini e minori riportano pestaggi, bruciature, scariche elettriche e violenze degradanti. La discriminazione razziale emerge come fattore strutturale in questi abusi 6. > «Mi hanno presa in tre. Uno mi teneva ferma, gli altri mi toccavano ovunque. > Ho urlato, ma ridevano». ATTACCO ALLE ONG E CHIUSURA DELLO SPAZIO CIVICO Di fronte alle accuse, il governo tunisino nega ogni responsabilità, ma parallelamente porta avanti una strategia di repressione verso ONG e difensori dei diritti umani. Dal maggio 2024 diverse organizzazioni locali e internazionali sono state ostacolate, alcune costrette a chiudere; membri di ONG partner dell’UNHCR sono stati arrestati. Il Presidente Saïed ha alimentato questa campagna definendo le organizzazioni “agenti stranieri” e “traditori”. La situazione è peggiorata quando il governo ha imposto la sospensione delle attività di registrazione dei richiedenti asilo svolte dall’UNHCR dal 2011. Migliaia di persone si sono ritrovate senza possibilità di accedere alla protezione internazionale. > Una volontaria tunisina riferisce: > «Ci trattano come criminali solo perché aiutiamo persone che stanno morendo». IL MEMORANDUM UE–TUNISIA: COOPERAZIONE SENZA TUTELE Il 16 luglio 2023 l’Unione Europea e la Tunisia hanno firmato un Memorandum d’intesa che prevede grandi investimenti europei per contrasto ai trafficanti, controllo dei confini e rimpatri. Secondo Amnesty, il Memorandum è privo di garanzie vincolanti sul rispetto dei diritti umani: non prevede soglie da rispettare né condizioni che limitino l’accesso ai fondi in caso di violazioni. La Tunisia non può essere considerata un “paese terzo sicuro”: non esiste un sistema d’asilo funzionante, il non-refoulement viene violato, e le istituzioni stesse sono responsabili di violenze strutturali contro le persone migranti 7. Il dossier di Amnesty descrive una realtà in cui la Tunisia costruisce un sistema istituzionale e operativo che mira non a gestire le migrazioni, ma a renderle impossibili, attraverso violenza, paura e abbandono. Il titolo del rapporto – Nessuno ti sente quando urli – non è una metafora: è la descrizione puntuale della condizione vissuta da migliaia di persone che, in Tunisia, non hanno alcuna protezione né possibilità di far valere i propri diritti. 1. Studente presso UniPD del corso di Scienze politiche, Relazioni internazionali e Diritti umani al terzo anno, sto svolgendo un tirocinio curricolare presso Melting Pot. Sono appassionato di attualità internazionale e storia delle relazioni internazionali, materia in cui sto scrivendo una tesi di laurea triennale. Ho un diploma di liceo classico ottenuto a Bergamo, e dal liceo in poi ho fatto attività di volontariato locale e in città ↩︎ 2. Tunisia: “Nobody hears you when you scream”: Dangerous shift in Tunisia’s migration policy ↩︎ 3. Metodologia del dossier a pag. 15 ↩︎ 4. Discorsi presidenziali e razzismo istituzionale a pag.25 del rapporto ↩︎ 5. Da pag. 62 del rapporto ↩︎ 6. Sexual violence and torture, da pag. 61 del dossier ↩︎ 7. Le conclusioni di Amnesty da pag. 82 ↩︎
Appello di docenti, ricercatori e ricercatrici universitari/e per la liberazione di Mohamed Shahin
Mohamed Shahin è trattenuto nel CPR di Caltanissetta e a rischio di espulsione verso l’Egitto, Paese in cui sarebbe esposto al rischio concreto di persecuzioni, detenzione arbitraria e persino alla pena di morte. La sua colpa è di essersi mobilitato a fianco del popolo palestinese e di aver pronunciato delle opinioni, poi ritrattate, ritenute sufficienti dal ministero dell’Interno per disporre la revoca del suo permesso di soggiorno, il trattenimento e l’avvio della procedura di espulsione. Attorno alla vicenda di Mohamed Shahin si è mobilitata una vasta rete di realtà sociali, religiose e politiche torinesi e non solo, che sono scese in piazza per chiedere la sua liberazione ricordando come la moschea di via Saluzzo, da lui guidata, sia da sempre un presidio di apertura, cooperazione e dialogo interculturale. Si è mossa anche la comunità accademica, che ha pubblicato un appello per la sua liberazione: «Noi docenti, ricercatori e ricercatrici delle università italiane esprimiamo profonda preoccupazione per la situazione di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn al-Khattab di Torino, attualmente trattenuto nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Caltanissetta a seguito di un decreto di espulsione emesso dal Ministero dell’Interno. La revoca del suo permesso di soggiorno di lungo periodo, e il conseguente rischio di rimpatrio forzato in Egitto, sollevano interrogativi gravi sul rispetto dei diritti fondamentali della persona. È noto che il sig. Shahin, prima del suo arrivo in Italia oltre vent’anni fa, era considerato oppositore politico del regime egiziano. La prospettiva di un suo ritorno forzato in Egitto lo esporrebbe concretamente a rischi di persecuzione, detenzione arbitraria e trattamenti inumani. Le motivazioni alla base della revoca del permesso appaiono collegate alle sue dichiarazioni pubbliche sulla situazione a Gaza e alle sue posizioni critiche rispetto all’operato del governo israeliano. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un precedente estremamente preoccupante: l’uso di strumenti amministrativi per colpire l’esercizio della libertà di opinione, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione e da convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce. Casi analoghi, registrati negli ultimi anni, confermano una tendenza a sanzionare cittadini stranieri per opinioni politiche o per manifestazioni di solidarietà nei confronti del popolo palestinese. L’impiego dei CPR in questo quadro rischia di trasformarsi in una forma di repressione indiretta del dissenso e di limitazione arbitraria dello spazio democratico. È importante ricordare che Mohamed Shahin è da lungo tempo impegnato in pratiche di dialogo interreligioso e cooperazione sociale. Numerose comunità religiose, associazioni civiche e gruppi interconfessionali hanno pubblicamente attestato il suo contributo alla costruzione di relazioni pacifiche tra diverse componenti della città di Torino, evidenziando la natura collaborativa e aperta della sua attività. In particolare, la Rete del dialogo cristiano islamico di Torino, in un comunicato indirizzato al Presidente delle Repubblica e al Ministro dell’Interno, ha evidenziato il ruolo centrale di Mohamed Shahin nel dialogo interreligioso e nella vita associata del quartiere San Salvario. Alla luce di tutto ciò, riteniamo indispensabile un intervento immediato per garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali, della Convenzione di Ginevra e degli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani e protezione contro il refoulement. Chiediamo pertanto: * La liberazione immediata di Mohamed Shahin e la sospensione dell’esecuzione del decreto di espulsione. * La revisione del provvedimento di revoca del permesso di soggiorno di Mohamed Shahin, garantendo un esame imparziale e conforme agli standard giuridici nazionali e internazionali. * La tutela del diritto alla libertà di espressione in ambito accademico, culturale e religioso, indipendentemente dalla provenienza o dalla fede delle persone coinvolte. * La chiusura dei CPR, luoghi di lesione dei diritti umani. Come docenti e ricercatori riconosciamo la responsabilità civica dell’università nel difendere i valori democratici, promuovere il pluralismo e opporci a ogni forma di discriminazione o compressione illegittima delle libertà fondamentali». Clicca qui per firmare e leggere le adesioni
Dal muro al ponte
Confine: «limite di una regione geografica o di uno stato; zona di transizione in cui scompaiono le caratteristiche individuanti di una regione e cominciano quelle differenzianti» 1. Se provassimo a chiudere gli occhi e a concentrarci sul suono della parola confine immagineremmo immediatamente una linea che potrebbe essere dritta o curva, tondeggiante o spigolosa. Quel che è certo di una linea è che separa, crea due zone distinte, almeno all’apparenza. Al di là di essa c’è qualcosa che percepiamo come altro da noi. Sempre rimanendo a occhi chiusi, pensando al termine confine, si possono visualizzare barriere, muri, barricate e fili spinati. Sono immagini che veicolano un suono: un tonfo sordo, violento. Un muro blocca, frammenta e divide. Tuttavia, provando a spingersi oltre si può scorgere un’altra linea di confine, questa volta curva: è un ponte. Il suono che si può avvertire è quello dei passi degli individui che lo attraversano. Il presente articolo ha l’obiettivo di analizzare come le riflessioni del femminismo black e decoloniale contribuiscono ad arricchire il dibattito sul concetto di confine: sociale, interno e geografico, esterno. Per farlo si utilizzeranno tre prospettive: quella dell’antropologia delle migrazioni, funzionale a mostrare la polisemicità del termine confine e il dibattito che lo riguarda; le teorie dell’antropologo Didier Fassin, secondo cui all’amministrazione dei confini esterni corrisponde un aumento dei confini sociali interni tra classi, gruppi sociali e generi, evidenziando l’ambivalenza dei confini; ci si soffermerà poi sulla prospettiva delle autrici femmministe bell hooks, Audre Lorde e Gloria Anzaldúa. Parole chiave: Intersezionalità, femminismo, confini, oppressione, differenze, margine, lotta politica, cultura, colonialismo, decolonizzazione. PH: Andrea Miti (Il deserto dell’Arizona, al confine con il Messico). Reportage Nel deserto, contro la frontiera: Bob e i “Samaritans” A livello teorico la tematica del confine è molto ampia e questa sua complessità è visibile anche a livello semantico, specie se ci si affida alla lingua inglese. Con il termine border, confine esterno, possiamo indicare la linea di divisione politico-territoriale tra due stati nazionali. L’utilizzo del termine boundary si riferisce invece ai limiti simbolici, etnici, culturali e sociali, ovvero i confini interni agli stati nazione. Il termine frontier rimanda a uno spazio più ampio: la fascia geografica che è attraversata dalla linea di confine tra due stati. L’antropologia delle migrazioni adotta questa distinzione, in particolare quella generale tra confine e frontiera, per mostrare come questi spazi possono essere luoghi particolarmente dinamici, nonostante nel senso comune rimandino all’idea di una separazione netta tra due aree o categorie. Le migrazioni si definiscono come fenomeni che travalicano i confini nazionali, mettendoli in discussione, sebbene vengano determinate dalle stesse divisioni geografiche. I movimenti migratori contribuiscono non solo a oltrepassare i confini, ma a stabilirne di nuovi. I fenomeni legati ai confini danno vita a processi dinamici che contribuiscono alla produzione di identità individuali e collettive. A questo proposito l’antropologia delle migrazioni distingue due processi differenti: quello di b/ordering definisce il confine come elemento che limita le ambiguità territoriali e identitarie; quello di othering indica invece la nascita di nuove differenze sulle zone di frontiera, sia a livello territoriale che identitario. Nelle zone di confine i concetti di identità e alterità spesso si scontrano. Storicamente la frammentazione del blocco dell’Est e l’avvento della globalizzazione non ha portato a un universo senza confini, ma li ha trasformati. I confini non sono scomparsi, ma sono diventati mobili, molteplici e differenziali. Questo fenomeno entra in contrapposizione con la definizione giuridica tradizionale dei confini e anche con la loro rappresentazione cartografica canonica che li descrive come ai margini di un territorio. Le frontiere si sono moltiplicate e si è accentuato il loro carattere ambivalente: sono un mezzo di esclusione e al contempo di contatto, di incontro, di scambio, di violenza e di solidarietà. L’evoluzione dei confini è ben rappresentata dal processo di esternalizzazione delle frontiere che caratterizza l’Europa contemporanea. I confini vengono continuamente dislocati, posti all’esterno dello spazio europeo, espandendo i margini della “fortezza Europa”, sempre più inarrivabile. Le stesse politiche migratorie producono una stratificazione delle frontiere, mostrandone il loro carattere poroso e ambiguo. Per tanto, non possono essere concepite solo in termini di esclusione. La contemporanea militarizzazione dei confini esterni si riflette come uno specchio all’interno dei territori: il confine genera un sistema di inclusione differenziale in cui, per mezzo delle politiche, viene indirettamente prodotta l’illegalità delle soggettività migranti. Le politiche di frontiera e migratorie finiscono per condurre a una reificazione delle divisioni razziali e di classe. Secondo l’antropologo Didier Fassin il significato delle frontiere e dei confini è mutato nel corso del tempo, rendendo alcuni periodi storici più favorevoli allo sviluppo di barriere tra territori e individui. Si tratta di momenti di tensione sociale, economica e politica. La sensibilità verso le migrazioni, l’ostilità verso gli stranieri, il consolidamento tra le frontiere e la delimitazione dei confini sono dunque fenomeni ciclici. Se la circolazione delle merci è stata progressivamente facilitata attraverso accordi internazionali per i commerci, la circolazione di persone è diventata invece incredibilmente difficile per la maggior parte della popolazione del pianeta. Questo meccanismo si muove dai borders ai boundaries come un movimento violento che inasprisce le divisioni di genere, etnia e classe inasprendo le discriminazioni. In questa cornice il confine produce la precarietà del migrante: lo stato crea immigrati clandestini, attraverso la formulazione di leggi che istituzionalizzano l’illegalità di residenza. Ne consegue l’ostruzione dell’accesso al mondo del lavoro, che comporta una vita in condizioni di povertà e l’esclusione dalle politiche di welfare. Non casualmente il tema della migrazione viene direttamente affiancato a quello della sicurezza. Il nemico arriva da fuori, è l’outsider, colui che vìola il confine. Si tratta, tuttavia, di logiche di esclusione e distinzione che mirano a rimarcare la differenza tra autoctoni e alloctoni, ignorando il peso della storia coloniale che ha prodotto una distribuzione disomogenea delle ricchezze a livello globale. Anche la riflessione femminista mostra come i confini siano elementi che definiscono identità, generando relazioni di potere. In particolare, il concetto di intersezionalità può costituire un paradigma per pensare in concetto di confine. Il concetto di intersezionalità viene formalizzato nel 1989 dalla giurista afroamericana Kimberlé Crenshaw per correggere alcune alcune sentenze emesse dal sistema americano. Il suo intento è quello di mostrare come la discriminazione delle donne nere avviene tanto per una questione razziale, quanto per il sessismo. Non c’è possibilità di stabilire un confine tra questi due assi di oppressione. In generale, le teoriche dell’intersezionalità pongono l’attenzione sul dinamismo dei sistemi di oppressione: essi non sono monoliti, non si producono separatamente l’uno dall’altro, ma si compenetrano e trasformano vicendevolmente. Se venissero considerati separatamente, si creerebbe l’erronea concezione, storicamente esistita, secondo cui il sessismo può essere analizzato solo dal punto di vista della donna bianca e il razzismo solo dal punto di vista dell’uomo nero. Questo concetto contribuisce a dare valore alla prospettiva del soggetto maggiormente oppresso per comprendere il tema della discriminazione. Il concetto di intersezionalità è fondamentale perché travalica i confini, includendo nella riflessione femminista donne non assimilabili al modello della donna bianca e di classe media. Le donne nere lottano sui confini rivendicando la propria posizione, in un contesto che nega la loro capacità di azione e visibilità. Il tema del condine come elemento che definisce e ridefinisce le identità fa da sfondo agli scritti della teorica e accademica bell hooks (1952-2021). Nasce e cresce nel Kentucky, dove i quartieri abitati dai bianchi erano separati da quelli abitati dai neri tramite una rigida linea di confine, quella della ferrovia. Dai suoi scritti emerge come essere donna in un periodo storico in cui lo spazio era sottoposto a segregazione razziale contribuisce una posizione peculiare, che influisce sulle modalità di abitare e attraversare i luoghi. Le donne nere superavano quotidianamente il confine per andare a lavorare nelle case dei bianchi. Superare il confine è un’azione caratterizzata da forti implicazioni emotive, i neri si sentivano giudicati e fuori posto. Tuttavia, lo spostamento dal margine, identificato come luogo di abitazione dei neri, verso il centro occupato dai bianchi ha anche dei vantaggi: permette la conoscenza di entrambe le realtà e cambia il modo di abitare lo spazio, in particolare quello del “focolare domestico”. Nelle comunità nere, le mansioni di cura svolte dalle donne diventano un campo di battaglia, uno spazio di lotta politica. Le donne nere entravano nelle case dei bianchi per svolgere il lavoro di domestiche, si trattava di una mansione faticosa, che consumava tempo ed energia. Tuttavia, il punto di forza delle donne nere stava proprio nello sforzo di non esaurire tutte se stesse in quel lavoro, per riuscire a dedicarsi anche all’accudimento della propria casa, famiglia e comunità. C’è una netta differenza tra il sessismo che affida alle donne il lavoro riproduttivo perché considerato “naturale” e la condizione delle donne nere. Per queste ultime la gestione della casa diventa un atto politico, la strutturazione di uno spazio di cura opposto alla dimensione disumanizzante e opprimente del razzismo. La casa era uno spazio sicuro creato dalle donne per poter resiste ed esistere come soggetti attivi, non meri oggetti. Nella sfera privata avveniva la restituzione di quella dignità negata nel pubblico. Anche se il concetto di “angelo del focolare” è considerato tradizionalmente sessista dal femminismo bianco, le donne nere attraverso questo ruolo hanno compiuto un atto politico sovversivo e di resistenza. I bianchi avevano, secondo hooks, trovato un modo efficace per sottomettere i neri a livello globale, costruendo strutture sociali che minavano la strutturazione della sfera domestica. Per alimentare la fiamma della speranza e per opporsi alla mentalità colonizzatrice, promotrice dell’odio verso se stessi, le donne nere hanno rivendicato il proprio ruolo nelle abitazioni. Ricordare questo permette di capire il valore politico della resistenza nelle case. Senza uno spazio da abitare, è impossibile costruire una comunità di resistenza. Questa concezione della casa come luogo di rivendicazione politica e comunitaria agisce in due modi: da una parte crea un confine nuovo, frantumando l’immaginario per cui le donne vivono un comune destino, riportando l’attenzione sulla specificità del posizionamento della donna nera; dall’altra ci si riappropria del confine come spazio di autodeterminazione: il margine diventa un luogo di lotta. Le opere della scrittrice Audre Lorde (1934-1992) hanno contribuito ad ampliare profondamente la riflessione femminista, sollevando argomenti attuali, in cui le tematiche dei confini e della differenza risultano essere un punto centrale. Rivolgendo l’attenzione alle molteplici differenze di genere, razza, sesso, classe sociale, salute e malattia che coinvolgono le donne, Lorde ha preceduto di decenni le teorie sull’intersezionalità. Nei suoi scritti, il tema del confine, come anche nei lavori di hooks è rappresentato dalle divisioni sociali interne, i boundaries. In particolare, nel testo Sorella Outsider, che raccoglie una serie di saggi scritti tra il 1976 e il 1984, Lorde si rivolge a chi è consapevole di vivere sui confini: le outsiders, donne che non riconoscendosi negli “strumenti del padrone” non si identificano nei confini tracciati per asservire gli interessi del potere. Il testo è caratterizzato da una fitta critica nei confronti di quel femminismo bianco e accademico che promuove una semplice tolleranza della differenza tra le donne, cercando di raggrupparle in una natura comune, distruggendo di fatto il potere creativo della diversità. Secondo Lorde, infatti, soltanto quando le differenze saranno riconosciute e considerate il nostro essere nel mondo potrà diventare produttivo. Alle donne è stato insegnato di ignorare le differenze o, peggio, di vederle come causa di separazione e sospetto. La paura di una realtà così frammentata non ha permesso una liberazione dall’oppressione, ma solo maggiore vulnerabilità.Secondo Lorde, in una società basata esclusivamente sul profitto e non sul bisogno umano, è fondamentale l’esistenza di un gruppo sistematicamente oppresso e deumanizzato ai fini del mantenimento dei rapporti di potere. Questo crea l’illusione che l’unica via d’uscita per gli oppressi sia quella di omologarsi alle categorie degli oppressori. Per Lorde le differenze esistono, sono la razza, l’età, il sesso e la classe ma non sono quelle a separarci, è il nostro rifiuto a riconoscerle. L’energia necessaria a vivere e a esplorare le differenze viene riversata nel renderle dei confini invalicabili, così da trasformarle in devianze. Tuttavia, la differenza umana deve diventare un trampolino per il cambiamento, il muro che segna il confine deve diventare un ponte. Lorde fa esplicito riferimento a The Pedagogy of the Oppressed di Paulo Freire per mostrare come le possibilità di cambiamento nascono nel momento in cui gli oppressi riconoscono, anche in loro stessi, le dinamiche degli oppressori. Da qui è necessario un cambiamento, una crescita dolorosa: possiamo ridefinirci solo se lottiamo anche a fianco di chi è diverso da noi, nella condivisione di un unico obiettivo. L’azione a cui Lorde mira è legata a una continua rottura dei confini e delle differenze, per arrivare a ridefinirsi connettendo le specificità. Non bisogna chiudersi nei confini di una sola oppressione, ma riconoscere ciò che è comune in tutte loro. Così facendo Lorde riscrive il significato del termine confine da linea di separazione a processo dinamico in cui le differenze racchiudono un potenziale di unione. Le differenze risultano profondamente legate al tema dei confini, tuttavia è necessario un lavorìo politico affinché diventino ponti e non barriere. Nella sua ambivalenza, il confine non è solo il punto in cui le differenze si manifestano, ma anche quello attraverso cui queste entrano in contatto, creando comunicazione e scambio. In questa cornice, le teorie femministe sono fondamentali per riconoscere il confine come luogo di oppressione e di lotta. Questo elemento emerge in modo particolare nel testo Terra di confine/La frontera. La nuova mestiza del 1987 di Gloria Anzaldúa (1942-2004), in cui l’autrice parla della frontiera in cui è nata e cresciuta: il confine tra Texas sudoccidentale e Messico. Secondo Anzaldúa la terra di confine è un luogo in cui due o più culture si costeggiano e persone appartenenti a gruppi sociali diversi abitano lo stesso territorio. Raccontando la sua esperienza personale di vita sul confine si definisce una “donna di frontiera” che è nata e cresciuta tra due culture. Il confine non viene raccontato come un luogo confortevole, è un luogo scomodo e gli aspetti del suo paesaggio sono principalmente sfruttamento, oppressione e rabbia. Tuttavia, ad essere peculiare è la posizione di chi vive a cavallo della frontiera, secondo l’autrice, infatti, questa esperienza di vita scomoda risveglia una serie di facoltà importanti. Sebbene il confine tra Stati Uniti e Messico sia definito come una «herida abierta [ferita aperta] dove il Terzo Mondo si scontra con il primo e sanguina» (Anzaldúa, 2022: 22) è anche il luogo in cui si forma una realtà alternativa: una cultura di confine, una nuova mestiza. «Le frontiere sono innalzate per definire i luoghi insicuri da quelli sicuri, per separare un noi da loro. Una frontiera è una linea divisoria, una striscia sottile lungo un margine ripido. […] è un luogo vago, indefinito, creato dal residuo emotivo di un limite innaturale. È in uno stato di transizione costante. Suoi abitanti sono gli illegali e i non ammessi. Qui vivono los atravesados.» (Anzaldúa, 2022: 22). Nel clima opprimente della zona di frontiera gli unici abitanti considerati legittimi sono i potenti, i bianchi o chi si schiera dalla loro parte. I chicanos, gli indios e i neri sono considerati altro, alieni. Ciò nonostante, il contatto tra due culture crea delle trasformazioni inevitabili. Anzaldúa racconta come il contatto con la cultura bianca capitalista, basata sullo sfruttamento delle risorse ha cambiato e sta cambiando radicalmente lo stile di vita del Messico, rendendolo progressivamente più povero e sempre più dipendente dall’economia statunitense. La massiccia povertà ha come conseguenza, più o meno diretta, la diffusione di una tradizione di emigrazione: le persone possono scegliere se restare in Messico patendo la fame o emigrare verso l’America, con la speranza di sopravvivere. Nel passaggio illegale della frontiera, un migrante su tre viene arrestato. L’attraversamento viene descritto come particolarmente pericoloso per le donne spesso vittime di violenza e di tratta. Secondo Anzaldúa, come tutto ciò che si oppone alla norma egemone, chi abita il confine è considerato deviante. Attraverso il racconto della sua personale esperienza della vita di frontiera l’autrice vuole mettere in luce le potenzialità che nascono da questo essere devianti. Chi vive sulla frontiera è capace, attraverso le sue scelte e la sua esperienza di vita, di mettere in discussione i rapporti di potere, smascherando i meccanismi che li regolano. Le culture ibride che nascono a cavallo dei confini vengono ridiscusse come elementi che sfidano l’egemonia. Il testo di Anzaldúa si caratterizza per un continuo movimento di entrata e uscita dai confini sociopolitici e anche stilistici letterari, infatti si alternano prosa, poesia e lingue differenti. Sotto la guida delle teoriche femministe il confine viene risignificato, diviene un punto prospettico che trasforma lo svantaggio in una spinta alla lotta politica. L’invito di bell hooks a permanere nel margine rappresenta uno slancio tanto teorico quanto pratico. La politica, femminista e non, va necessariamente ripensata dal punto di vista della donna razzializzata, è necessario uno spostamento dal centro al margine per comprendere le potenzialità delle differenze. Secondo le teorie di Audre Lorde, ignorare i confini e le frammentazioni spinge a omologarsi alla logica egemone. Per spezzare la catena risulta imprescindibile conoscere la diversità, perché solo in questo modo sarà possibile superare le disuguaglianze, senza invisibilizzarle. Dal testo di Anzaldúa si percepisce la ricchezza delle culture di confine, delle realtà ibride che nascono dalle migrazioni e dalle mescolanze. È necessario conoscere la propria storia di oppressione al fine di riappropriarsene. Si tratta di un gioco di continui attraversamenti di frontiera in cui le vicende personali acquisiscono un valore politico. La realtà polisemica dei borders e dei boundaries e le teorie femministe presentate chiamano in causa la necessità di un impegno politico differente. È necessario non solo tenere conto delle differenze, ma partire dalle posizioni specifiche dei soggetti svantaggiati per definire una più totale e meno parziale strategia di intervento. BIBLIOGRAFIA Anzaldua, Gloria. 2022. La terra di confine/La frontera. La nuova mestiza. Firenze: Edizioni Black Coffee. (trad. italiana di Paola Zaccaria) Bianchi, Bruna. (a cura di). 2018. “Confini: la riflessione femminista”, Deportate, esuli, profughe. Rivista telematica di studi sulla memoria femminile. 38 Brambilla, Chiara. 2014. “Frontiere e confini.” In Antropologia e migrazioni, a cura di Bruno Riccio, 45-47. Roma: CISU Fassin, Didier. 2011. “Policing Borders, Producing Boundaries. The Governmentality of Immigration in Dark Times”. Annual Review of Anthropology 40: 213-26 hooks, bell. 2022. Elogio del margine/Scrivere al buio. Napoli: Tamu. (trad. italiana di Maria Nadotti) Lorde, Audre. 2022. Sorella Outsider. Scritti politici. Milano: Meltemi. (trad. italiana di Margherita Giacobino e Marta Gianello Guida) Rudan, Paola. 2020. Donna. Storia e critica di un concetto polemico. Bologna: Il Mulino 1. da Treccani online ↩︎
Agadez, il limbo nel deserto: cinque anni di attesa e silenzio per i rifugiati intrappolati nel “centro umanitario”
Da oltre cinque anni, quasi duemila rifugiati e richiedenti asilo vivono intrappolati nel deserto del Niger, nel “centro umanitario” di Agadez. Sono persone fuggite da guerre, persecuzioni, violenze; persone che hanno attraversato confini dove hanno subìto abusi in Algeria e in Libia, che sono sopravvissute ai respingimenti e ai rastrellamenti, e che oggi si ritrovano abbandonate in un luogo che, più che un rifugio, somiglia a una prigione a cielo aperto. Una vicenda che come redazione seguiamo con attenzione dal novembre 2024, in contatto diretto con le persone che si trovano nel centro. L’appello pubblicato il 25 novembre scorso 1 ci offre l’occasione di continuare a tenere gli occhi aperti su Agadez e di rilanciare la loro voce: una voce stremata ma ostinata, che continua a chiedere solo ciò che dovrebbe essere garantito a chiunque – dignità, protezione, futuro. Agadez è distante quindici chilometri dalla città, isolato nel nulla. Il campo, costruito con fondi europei e italiani, si presenta come un progetto umanitario, ma chi lo abita lo descrive come un luogo di confinamento: tende consumate dal vento del deserto, prefabbricati che non proteggono né dal sole né dalle tempeste di sabbia, un accesso irregolare a servizi essenziali come acqua potabile, cure mediche, elettricità, istruzione. Dal 2025, perfino l’assistenza alimentare è stata ridotta: solo alcune categorie, considerate “vulnerabili”, ricevono ancora un sostegno regolare. Gli altri, quelli che l’UNHCR non ha inserito in liste di priorità, sopravvivono come possono. La protesta, iniziata il 22 settembre 2024, ha oltrepassato l’anno. Per mesi gli abitanti del campo hanno organizzato sit-in, marce, lettere aperte, scioperi della fame: sempre pacifici, sempre ignorati. Il loro slogan, «We don’t want to stay here», è un grido semplice e limpido: non chiedono privilegi, ma di essere liberati da un’attesa infinita che li consuma. La risposta delle autorità è stata troppo però spesso la criminalizzazione del dissenso. A marzo 2025 otto rappresentanti dei rifugiati sono stati arrestati durante una protesta. Sono stati rilasciati dopo dieci giorni, ma l’episodio ha lasciato un segno profondo: molti hanno perso lo status di protezione, altri vivono nella paura di subire la stessa sorte. Il “centro umanitario” di Agadez è un simbolo potente dell’esternalizzazione delle frontiere europee. Qui, nel cuore del deserto, si materializzano le contraddizioni di un sistema che, in nome della sicurezza e del controllo migratorio, preferisce trattenere le persone lontano dai propri confini – anche quando questo significa lasciarle vivere per anni in condizioni disumane. La retorica della “protezione internazionale” si sgretola davanti alla realtà: non si tratta di accoglienza, ma di sospensione della vita. Di un tempo morto imposto a uomini, donne, bambini che non hanno alcuna prospettiva di reinsediamento né possibilità di integrarsi nel Niger. L’appello chiede di ascoltare finalmente le loro voci, di riconoscere che quanto accade ad Agadez non è un’emergenza ma una scelta politica. Chiede che si aprano percorsi di reinsediamento reali, che si garantiscano condizioni minime di vita dignitosa, che si ponga fine a un sistema che confonde la gestione con l’abbandono. Chiede, soprattutto, di vedere i rifugiati per ciò che sono: persone che hanno perso tutto e che ora rischiano di perdere anche la speranza. Agadez non è un episodio isolato: è un ingranaggio di un meccanismo che sposta sempre più lontano la responsabilità, rendendo invisibili le vite che schiaccia. Raccontare ciò che accade nel deserto del Niger significa rompere un silenzio conveniente, riportare al centro ciò che troppo spesso resta ai margini: la dignità umana come principio non negoziabile. 1. Leggi l’appello sul blog di Davide Tommasin ↩︎
Silence fini
Silence fini è il racconto di tre settimane nel Mediterraneo centrale a bordo del veliero Nadir 1 di RESQSHIP, in cui ho vissuto il soccorso in mare e osservato da vicino le vite delle persone migranti e dell’equipaggio, tra responsabilità, vulnerabilità e privilegio, in un mare che resta coerente e implacabile. Attraverso la mia esperienza personale, esploro cosa sia un soccorso e come frontiere, norme e gerarchie si manifestino nei corpi, nei gesti, nelle decisioni e negli sguardi. Silence fini vuole aprire ad una riflessione sulle contraddizioni etiche e politiche del Mediterraneo contemporaneo. Il racconto della navigazione a bordo di questo veliero della Civil fleet che opera monitoraggio e soccorso nel central med, vuole ricordare la violenza strutturale che colpisce chi attraversa, tra respingimenti, detenzioni e pratiche di Stati che negano sicurezza e diritti fondamentali. SILENCE, ATTENTION. C’è molto da raccontare dopo tre settimane a bordo della Nadir: le vite che l’hanno attraversata e abitata, il dovere dei soccorsi a cui ho preso parte, il dolore, la miseria. E non penso solo a quella di chi parte e sale al sicuro: quella è una povertà facile.  Mi riferisco a quella sporca, di esseri umani che infliggono tortura e degradazione ad altri, quella di chi nega diritti,  quella in cui gli Stati bianchi e protetti da una fortezza pagano complici a sud per ricacciare indietro uomini, donne, bambini: vite che hanno diritti di cui si tenta di ignorare l’esistenza, vittime di un’indecenza a cui si tenta di rispondere. Tre settimane in un veliero, eterotopia per eccellenza in cui si rende onore al dovere di soccorso e in cui navigare è pratica politica. Ventuno giorni che, nel loro dispiegarsi, hanno disegnato, affermato, cancellato e sospeso frontiere. Il mare continua a essere perfetto anche quando tutto il resto non lo è, fa il suo mestiere con coerenza millimetrica: ospita, custodisce, trasporta, ingoia, mentre gli uomini sembrano smarrire il proprio compito, quando cercano senza trovare o ignorano ciò che si vede.  L’attesa talvolta è stata una compagna complessa, faticosa, che mi si è attorcigliata come un filo mal teso. Durante la navigazione, il mare mi è apparso, talvolta,  come una superficie uniforme. Più spesso, mi ha rivelato correnti, decisioni, ruoli, movimenti. Sono stata a bordo con sette persone  che lo hanno vissuto per il tempo sospeso della rotation #10. Quattro uomini e tre donne che, nel tempo di questa navigazione tra il 25 ottobre e il 15 novembre, sono stati marinai, volontari, ricercatori, giuristi, film maker, fotografi, esperti di logistica, sia rivestendo ruoli già conosciuti perché parte del loro quotidiano nel loro paese di origine, ma altrettanto nuovi e differenti nello spazio marino.  Abbiamo abitato l’ordine mobile imposto dall’acqua e dal vento,  nel ritmo altalenante delle onde, nel perimetro stretto delle manovre, nel silenzio che precede le comunicazioni radio, nel gracchiare di un canale VHF connesso h 24 rumoroso nei momenti più inopportuni. Ogni gesto quotidiano – tra nodi, scelta delle rotte, controllo di motori, mail, cibo cucinato e condiviso, soccorsi – ha disegnato una coreografia ripetuta eppure varia.  Per tre settimane ho osservato il mare e suoi i movimenti, chi lo lo abita e lo traversa, chi lo confina o ne apre i varchi e, allo stesso tempo, me  stessa lì dentro: ciò che che ho temuto, affrontato, invocato, curato. Quello che mi ha suscitato domande e quello che ha generato certezze, in un costante movimento di relazione all’Altro. Etnografia e auto etnografia del mare. Ho condiviso un tempo e uno spazio con altre persone a cominciare dalla crew. L’equipaggio aveva, in parte, esperienze pregresse di SAR nel Mediterraneo Centrale. Tutti provenienti dalla Germania tranne due persone, la comunicazione a bordo è sempre stata l’inglese, ma talvolta una lingua ibrida si è usata tra i membri, un broken english, sporcato da accenti diversi e parole tedesche, italiane e francesi, a seconda delle lingue comuni. Il capitano, I., tedesco, oltre che essere uno dei fondatori di questa OnG, lo è stato anche di un’altra, da cui si è allontanato nel 2019. Meccanico in pensione, ha profonde conoscenze dei salvataggi in mare, in cui opera come capitano volontario da oltre dieci anni. Il meccanico di bordo, ma anche responsabile degli ospiti, M.,  ha già partecipato con diverse organizzazioni a missioni di soccorso. In Germania si occupa a domicilio di persone paraplegiche, con un ruolo che prevede la cura fisica e quella amministrativa.  Il medico, una donna, ha una lunga esperienza nei contesti di emergenza in Germania, ma era alla sua prima navigazione. Il fatto di partecipare a questa rotazione è un’idea che si è fatta strada, per lei, nel corso del 2025. Come Filmmaker e Official Media Communicator oltre che RHIB driver, T., un altro tedesco appassionato di fotografia, ma di mestiere operatore sanitario nei contesti di urgenza da più di 25 anni nella sua città, nel nord della Germania. Di operazioni di soccorso, ne ha fatte molteplici. Come guest care un altro tedesco, J, che ha partecipato, anche lui, a molte operazioni. In Germania è avvocato penalista. Poi D, una ragazza greca che vive in Francia come me: è stata co- skipper e nel RHIB si è occupata di avere il primo contatto con le persone migranti. È la più giovane del gruppo e si affaccia alla search and rescue bubble, ma ha al suo attivo una forte esperienza di militanza con persone migranti. Naviga per mestiere. E poi ci sono io, a metà tra Italia e Francia, a metà tra lavoro sociale e ricerca. Ho il compito di comunicare con le autorità sia per scritto che via radio VHF e telefono, ma anche degli ospiti a bordo insieme a J., sia per la distribuzione di vestiti e cibo quando le persone saranno soccorse che per spiegare loro cosa significa arrivare in Europa. Questa è la seconda operazione a cui partecipo: ciò non fa di me una grande esperta, solo una persona cosciente di cosa mi aspetta. Le motivazioni che ci hanno spinti a bordo sono molteplici e col denominatore comune di pensare al soccorso in mare come un atto doveroso quando le persone attraversano. Ne abbiamo parlato in queste tre settimane di vita comune, ma più sono aumentati i giorni di navigazione che hanno trasformato la terra in un miraggio alle nostre spalle, meno sono stati gli spazi condivisi di discussione sulle motivazioni che ci avevano spinti a bordo: abbiamo vissuto in un sistema di shift in cui, due alla volta, ci siamo divisi le giornate a spicchi e quando non siamo stati di watch, spesso abbiamo cercato di dormire. La fatica  e il sonno rendono silenziosi. Il tempo in barca si ritesse come la frontiera che abbiamo percorso senza sosta.  Accanto alla relazione a me stessa e all’equipaggio di cui ho fatto parte, si è aggiunta quella con tutti gli altri attori del Mediterraneo, dalle persone in movimento, ai pescatori, dagli altri membri della civil fleet marina, aerea e terrestre, a quelli istituzionali, compagni talvolta imposti dal mare e dal diritto che lo regola, ma profondamente temuti e indesiderati, come le GC Tunisina e Libica. Nelle note che seguono, il Mediterraneo centrale è al contempo attore e scenario: con la sua bellezza ha accolto e accompagnato la nostra azione e la navigazione di questa barca, accentuando il contrasto indecente tra la perfezione della natura – che mi stupisce sempre – e l’assoluta assenza di logica che abita talvolta il soccorso in mare, tra barche segnalate che non si trovano e altre cariche solo di oggetti lasciati a macerare, ma prive di persone di cui non si conosce il destino. Siamo partiti da Malta, dove la barca è ancorata tra un’operazione e l’altra, isola che scopro per la prima volta. Mi fa pensare a Lampedusa, che arrivando dall’aereo, appare piccola piccola. Il maltese mi sembra un insieme strano di inglese, siciliano, arabo. Una lingua vecchia di rapporti e dominazione, di parole eleganti e suoni duri, un archivio di incontri, ferite, scambi, compromessi. Nelle parole si sente chi è arrivato dal mare e chi dal deserto. Mi fa pensare a chi, nei secoli, attraverso questa lingua, ha perso una patria o ne ha conquistata una, chi ha scelto di rimanere e chi è stato costretto a farlo. In fondo, un idioma è più onesto delle politiche che si applicano in migrazione: non c’è lingua che resta pura, né confine che rimane intatto. Le vocali sono un prestito, le consonanti diventano testimoni di un movimento umano: di lavoro, di fuga, di desiderio, di sopravvivenza. Le lingue si sporcano e tessono di incontri: sono testimoni del fatto che nessun popolo è mai stato solo e isolato. A bordo, navigando, si sono tessute conversazioni. A volte, il mondo si è apparentemente diviso tra noi e loro, The migrants come li chiamano nella bubble SAR: Corpi bruciati, carne ossidata dal sale, mare, gasolio che laviamo con acqua e sapone quando salgono a bordo. Persone, cicatrici, dolore, movimento, oggetto, soggetto, vittime, attori. Ossimoro vivente, continuamente riprodotto dal mare e dallo sguardo di chi lo attraversa. Io faccio fatica, all’inizio della navigazione, a usare questa parola per indicare le persone che si incontrano perché mi pare di ridurle al solo fatto della migrazione, di dimenticare che sono molto altro che il viaggio che affrontano. Penso a Sayed quando dice che l’immigrato, per definizione, non é jamais tout à fait un homme: il est d’abord immigré, un’identità che cancella la biografia, una parola che descrive la persona solo attraverso una lente e lo riduce, esclusivamente, a soggetto in movimento. Ma quante storie esistono dentro queste persone che si muovono? Penso a H. Arendt e a Judith Butler che invita a riflettere a come il linguaggio crei una frontiera tra “noi” e “loro”. Se loro sono “migranti da soccorrere”, allora automaticamente noi siamo “soccorritori”. Siamo categorie: i salvati da una parte, i salvatori dall’altra, come se non esistessero alternative. E invece la realtà è meno ordinata di così. Il viaggio ci mette tutti in una condizione vulnerabile, solo in forme diverse. C’è chi ha perso la terra da cui viene, chi si misura con la frattura tra ciò che vede e ciò che il mondo finge di non vedere e il movimento non lascia nessuno intatto. Cosa significa essere soccorsi o soccorrere, essere tratti dall’acqua, riconosciuti come persone? Cosa significa avere il diritto a esistere senza dover giustificare la propria esistenza? Le frontiere non sono solo nel mare o tra le terre, ma cominciano dalle parole e dagli sguardi.  Durante la navigazione, in mare, non esistono confini tracciati a vista o muri fatti di reti, eppure ogni tratto d’acqua ha qualcuno che ne ascolta le voci. Nella zona SAR, quando un’emergenza appare, la centrale di coordinamento di quell’area deve intervenire e distribuire i ruoli: chi si avvicina, chi rimane in attesa, chi osserva. Non si tratta di approvare o giudicare, ma di mantenere l’ordine necessario perché le vite sull’acqua non vadano disperse nella confusione. Nel soccorso in mare il paese “proprietario” di quelle acque è destinato ad averne il controllo e  riportare nella propria terra, nei propri porti. Ma da quando la Libia è un porto sicuro? E la Tunisia lo è? Perché in questi luoghi gli esseri umani sono venduti, torturati e liberati solo a condizione di pagare un riscatto. Il principio di non refoulement, che detto in francese suona elegante,  e il duty to render assistance sono solo parole inanellate le une alle altre. Il Mediterraneo Centrale è un’Odissea moderna, popolata da creature strane, luoghi, farabutti, avventurieri, eroi, protagonisti e personaggi che fanno da sfondo. Abbiamo navigato percorrendo la banana route, derivato accanto alla piattaforma di Miskar nel Golfo di Gabes: una struttura innaturale che, eppure, si confonde col paesaggio. Un sistema di piani, scale e tubature che lavora per catturare ciò che si nasconde sotto il fondale. Di giorno, il metallo sembra un’anima priva di vita; di notte, le luci la rendono una presenza spettrale. Miskar non è soltanto metallo. È anche una specie di frontiera: tra l’uomo e il mare, tra ciò che si estrae dal profondo e ciò che resta in superficie, in una sorta di dimensione sospesa. Senza essere un luogo, lo diventa, come una barca ancorata in eterno. Ne ho sentito parlare senza sosta da chi ha già navigato nel Mediterraneo Centrale partecipando a operazioni di soccorso e ne ho memoria dai racconti di un amico etiope, che lasciando la Libia nel 2006, l’ha incrociata di notte e confusa con una nave insieme ai compagni d’avventura. Mi ha raccontato dell’entusiasmo, mentre navigava con gli altri, nel vedere le luci in lontananza, ma poi della delusione alla certezza che non si trattasse di una barca.  Nel cuore di questo sud liquido, abbiamo incontrato imbarcazioni: piene di persone, vuote. Di lamiera, di gomma, di legno, di vetroresina. Blu, nere, azzurre, grigie, ruggine. Anonime o col marchio di fabbrica: una tra tutte quella incontrata  dopo qualche giorno di navigazione. Dieci metri di lamiera stridenti incollata con lo sputo e il sudore destinate ad accogliere almeno ottanta persone. Sulla chiglia, a prua, il marchio di chi l’ha prodotta: King 24. Di questo mostro di metallo, Marinetti avrebbe riprodotto una serie di suoni sinistri. È un affronto alle leggi della fisica. Dentro, qualche scarpa, qualche pneumatico nero, uno zaino da bambino, due macchinine giocattolo, distrazione infantile durante un viaggio insensato. Abbiamo tentato di affondarlo, questo mostro, ma ci ha resistito cigolando in modo sinistro.  In ventuno giorni, abbiamo perlustrato, derivato, corso, veleggiato, usato il motore: ci siamo imbattuti per caso in barche abbandonate, ci siamo diretti verso mezzi di fortuna segnalati che non abbiamo mai trovato. Certi giorni abbiamo lottato, altri abbiamo dovuto riporre la speranza. Penso al giorno in cui siamo andati la mattina in direzione di un target che non abbiamo mai raggiunto e di cui, la sera, abbiamo conosciuto il triste epilogo: uomini che, partiti dalla Libia, sono rimasti troppo vicini alle coste e entrati nella SAR tunisina. Sottratti al mare dalla GC Tunisina, sono stati immediatamente detenuti. L’epilogo si conosce: saranno portati alla frontiera tra Tunisia e Libia, incarcerati, trasferiti e poi venduti dagli agenti di Stato Tunisini ai miliziani libici. Ne parlano anche i testimoni del rapporto State Trafficking del collettivo RRX. Si sa; è storia nota che si vuole tenere all’oscuro. C’è un privilegio che ho sentito dolorosamente a bordo: quello della bellezza costante di questo mare, quella della navigazione su un veliero, quella di essere bianchi e nati dentro la fortezza e non al di fuori, quella di scegliere sempre da che parte stare.  1. Nadir è un veliero che svolge operazioni di search and rescue nel Mediterraneo e fa parte della Civil Fleet ↩︎
Tunisia: il confine invisibile d’Europa
Detenzioni arbitrarie, deportazioni e cooperazione UE: come la strategia di esternalizzazione alimenta violenze e violazioni dei diritti delle persone migranti. La Tunisia è uno dei principali Paesi di transito, ma anche di destinazione, per persone migranti, rifugiati e richiedenti asilo, provenienti principalmente dall’Africa sub-sahariana. In passato, le condizioni di vita di rifugiati e migranti erano considerate generalmente migliori rispetto a quelle di altri Paesi, come ad esempio la Libia. Dal 2023, tuttavia, in seguito alla decisione del governo di adottare un approccio più duro, la situazione è nettamente peggiorata.  Kaïs Saïed è in carica dal 2019, ma è nel 2021 che, sospeso il parlamento, ha cominciato a governare per decreto, tanto da parlare di “iper-presidenzialismo”, in cui l’opposizione politica è praticamente assente.  In questa situazione, la questione migratoria viene utilizzata politicamente per compattare la nazione contro un nemico comune, fomentando il razzismo già presente nella società tunisina.  Il presidente, infatti, ha dichiarato che l’arrivo di «orde di migranti illegali» dall’Africa sub-sahariana fa parte di un «piano criminale per cambiare la composizione demografica» 1 della Tunisia. Come ha sottolineato l’antropologa Kenza Ben Azouz, «Incolpando la comunità subsahariana senza affrontare in modo sostanziale la questione migratoria, egli si aggrappa a una logica populista e opportunistica» 2, in accordo con le diffuse (soprattutto in Europa) narrative di una presunta “sostituzione etnica”. Inevitabilmente, questi commenti «danno legittimità a chiunque voglia attaccare una persona nera per strada» 3, denuncia Saadia Mosbah. Quest’ultima, presidente dell’associazione Mnemty, è stata arrestata nel maggio 2024 4, mentre l’associazione, impegnata nella lotta contro il razzismo, è stata sottoposta, insieme a molte altre organizzazioni per i diritti umani, a un mese di sospensione delle attività 5.  E infatti è stato documentato un incremento di violenza contro i migranti africani, tramite raid, arresti arbitrari e detenzioni, ma anche deportazioni di massa ai confini con Algeria e Libia. Le persone migranti vengono abbandonate senza cibo e acqua ed esposte al rischio di rapimenti, estorsioni, lavoro forzato, violenza sessuale e perfino morte 6. Nonostante i richiami e le ingiunzioni al governo da parte delle Nazioni Unite, affinché migliorasse il trattamento delle persone senza cittadinanza e mettesse fine alla retorica xenofoba, il trattamento discriminatorio e violento continua, così come la propaganda razzista.  Ad aprile 2025, ad esempio, le autorità hanno smantellato i campi vicino Sfax, che ospitavano circa 7000 migranti sub-sahariani, dando fuoco alle tende prima di arrestarli e deportarli  7. L’incremento di questo tipo di azioni, insieme alla detenzione di rappresentanti delle organizzazioni della società civile e alla retorica xenofoba, coincide con il crescente supporto dell’Unione Europea per quanto riguarda il controllo del confine e la gestione dei flussi migratori, che è a sua volta parte della più generale strategia di esternalizzazione del confine europeo.  Una tappa fondamentale nella costruzione delle relazioni UE-Tunisia è stata il Memorandum d’intesa firmato a luglio 2023 dal presidente tunisino Kais Saied, dalla presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, dalla premier italiana Giorgia Meloni e dall’ex-premier olandese Mark Rutte. Grazie a questo accordo la Tunisia ha ottenuto 105 milioni di euro dedicati alla gestione dei confini e alla “lotta contro l’immigrazione illegale” 8, che hanno finanziato anche la Guardia Nazionale tunisina, la quale, secondo un’indagine del The Guardian, ha sottoposto centinaia di migranti a stupri, pestaggi e altri abusi 9.  L’ultimo rapporto di Global Detention Project (GDP) e Forum Tunisien pour les droits économiques et sociaux (FTDES) 10, pubblicato a ottobre, fa luce proprio sulla situazione attuale e sulle numerose problematiche legate alla detenzione di migranti, rifugiati e richiedenti asilo. L’utilizzo della detenzione per le persone in movimento è impiegato sistematicamente in Tunisia, anche se la legge tunisina non contiene disposizioni specifiche relative alla detenzione amministrativa per motivi di immigrazione o alla detenzione prima del rimpatrio. Il GDP e l’FTDES, infatti, hanno documentato ripetutamente l’uso di centri di detenzione informali nel Paese, nonostante l’assenza di qualsiasi base legale chiara per il loro funzionamento. Il Forum Tunisien pour les Droits Économiques et Sociaux (FTDES) è un’organizzazione tunisina indipendente, fondata nel 2011, che si occupa di difendere e promuovere i diritti economici, sociali e ambientali. Conduce ricerche, monitora politiche pubbliche e denuncia violazioni riguardanti lavoro, migrazioni, disuguaglianze regionali e giustizia sociale. È riconosciuto come una delle principali voci della società civile tunisina. Questi includono la struttura Al-Wardia, fuori Tunisi, e un’altra vicino a Ben Guerdane, utilizzata per raccogliere i migranti prima della loro deportazione in Libia. Sebbene le autorità designino alcuni siti come “centri di accoglienza e orientamento”, nella pratica essi funzionano come vere e proprie strutture di detenzione. Nel 2020, diverse organizzazioni, come Avocats Sans Frontières e Terre d’Asile Tunisie, hanno inviato degli avvocati al centro di Al-Wardia, i quali hanno riferito di essersi visti negare l’ingresso, confermando che per migranti all’interno non era possibile uscire 11. In seguito alle pressioni della società civile, 22 migranti sono stati rilasciati nel settembre dello stesso anno, ma le autorità hanno comunque continuato a trattenere i non-cittadini all’interno della struttura, compresi donne e bambini, nonostante manchino le basi legali per farlo 12.  Oltre a queste strutture, gli osservatori riportano anche l’uso di stazioni di polizia, sedi della polizia di frontiera e stazioni della polizia di frontiera aeroportuali e marittime per la detenzione di persone senza la cittadinanza tunisina. Rapporti attendibili indicano, inoltre, che un numero significativo di migranti subsahariani viene detenuto all’interno delle carceri del paese e nei “dépôts” (strutture di detenzione preventiva) a seguito della loro condanna per ingresso, soggiorno e uscita irregolari. Alcuni vengono trasferiti in centri di detenzione informali (senza autorizzazione giudiziaria), il che comporta sostanzialmente un allungamento significativo del periodo della loro reclusione 13. Pochi osservatori sono stati in grado di entrare in questi centri e quindi vi è una trasparenza molto limitata riguardo ciò che accade all’interno. Tuttavia, il GDP e l’FTDES hanno documentato in diversi rapporti le condizioni e i trattamenti che i non-cittadini, la maggior parte dei quali di origine subsahariana, devono affrontare durante la permanenza in queste strutture. Nel marzo 2023, France 24 ha pubblicato rapporti e foto dall’interno del centro Al-Wardia, che includono accuse di abusi fisici, grave sovraffollamento e spazio insufficiente per dormire 14. Gli osservatori riportano inoltre che i detenuti hanno difficoltà a contattare avvocati e interpreti, il che, combinato con il mancato obbligo delle autorità di informare i detenuti del loro diritto di fare ricorso, crea significative barriere all’accesso a qualsiasi forma di revisione giudiziaria significativa. A ciò si aggiunge che, poiché la legge tunisina non prevede la detenzione amministrativa, essa non contiene disposizioni riguardanti la durata massima della detenzione, lasciando i detenuti esposti al rischio di detenzione indefinita 15.  Persone migranti, rifugiati e richiedenti asilo detenuti nella struttura di Al-Wardia hanno inoltre segnalato violenze durante perquisizioni e arresti, trasferimenti verso altri siti non identificati e problemi, tra cui scarsa igiene, mancanza di cibo, confisca dei beni, stress psicologico. Inoltre, poiché il trattenimento legato all’immigrazione non è previsto dalla legge tunisina, non esistono nemmeno garanzie o protezioni formali per gruppi vulnerabili come i bambini, le vittime di tratta e i richiedenti asilo. Allo stesso tempo, tuttavia, la legge non prevede alcuna base giuridica per privare tali gruppi della libertà per motivi legati alla migrazione 16.  Inoltre, in assenza di un sistema nazionale di asilo, l’UNHCR ha condotto la registrazione dei richiedenti asilo e la determinazione dello status di rifugiato, ma queste procedure sono state sospese nel giugno 2024, lasciando molte persone bloccate senza uno status legale. Ciò ha lasciato centinaia di persone senza protezione ed esposte all’arresto e alla detenzione. I rapporti indicano che molti – in particolare quelli provenienti dall’Africa sub-sahariana – che intendono richiedere protezione vengono arrestati, detenuti e deportati senza avere l’opportunità di fare domanda di asilo.  L’FTDES e il GDP chiedono pertanto la ripresa immediata della registrazione delle domande di asilo e l’adozione di una legge nazionale sull’asilo conforme agli standard internazionali. Ritengono inoltre che le strutture di detenzione debbano essere chiuse immediatamente. Le organizzazioni che presentano la denuncia invitano inoltre le autorità ad adottare regole chiare e pubbliche per qualsiasi luogo in cui una persona sia privata della libertà: registrazione, informazioni in una lingua che il detenuto comprenda, accesso a un avvocato e a un interprete al momento dell’arrivo, certificato medico, separazione tra uomini e donne e visite regolari da parte di organizzazioni indipendenti. Senza trarre insegnamenti dai risultati devastanti della cooperazione con la Libia, l’attuale cooperazione UE-Tunisia in materia di controllo delle migrazioni ha portato al contenimento delle persone in un Paese in cui sono esposte a diffuse violazioni dei diritti umani. Questa cooperazione è ancora in corso a più di due anni di distanza, nonostante le allarmanti e ben documentate segnalazioni di violazioni. Tuttavia, dando priorità al controllo della migrazione a scapito del diritto internazionale, la collaborazione è stata celebrata dai funzionari europei come un successo, citando una significativa riduzione degli arrivi irregolari via mare di persone dalla Tunisia dal 2024 17. Come ha dichiarato Heba Morayef, direttrice regionale per il Medio Oriente e il Nord Africa di Amnesty International, «il silenzio dell’UE e dei suoi Stati membri di fronte a questi orribili abusi è particolarmente allarmante. Ogni giorno che l’UE persiste nel sostenere in modo sconsiderato il pericoloso attacco della Tunisia ai diritti dei migranti, dei rifugiati e di coloro che li difendono, senza rivedere in modo significativo la sua cooperazione in materia di migrazione, i leader europei rischiano di diventarne complici» 18. 1. Tunisia’s President Saied claims sub-Saharan migrants threaten country’s identity, Le Monde (23 febbraio 2023) ↩︎ 2. Cfr. Le Monde (23 febbraio 2023) ↩︎ 3. Cfr. Le Monde (23 febbraio 2023) ↩︎ 4. Affaire Mnemty : la justice tunisienne relance les poursuites, la société civile alerte, tunisienews (6 agosto 2025) ↩︎ 5. Suspension des activités de l’association Mnemty, BusinessNews (28 ottobre 2025) ↩︎ 6. Global Detention Project, “Tunisia: Detention and “Desert Dumping” of Sub-Saharan Refugees,” 8 luglio 2024 ↩︎ 7. Tunisia dismantles sub-Saharan migrant camps and forcibly deports some | Reuters, Reuters (5 aprile 2025) ↩︎ 8. EU-Tunisia Memorandum of Understanding ↩︎ 9. The brutal truth behind Italy’s migrant reduction: beatings and rape by EU-funded forces in Tunisia | Global development | The Guardian, The Guardian (19 settembre 2024) ↩︎ 10. Global Detention Project, “Tunisia: Issues Related To The Immigration Detention Of Migrants, Refugees, And Asylum Seekers”, ottobre 2025 ↩︎ 11. Note-juridique-El-Ourdia-VF.pdf, OMCT, “Note sur la détention arbitraire au centre de détention de migrants d’El-Ouardia,” 2023 ↩︎ 12. Tunisia, la denuncia: “Nei centri di detenzione illegale anche migranti bambini”, Dire (17 novembre 2025) ↩︎ 13. Note-juridique-El-Ourdia-VF.pdf, OMCT, “Note sur la détention arbitraire au centre de détention de migrants d’El-Ouardia,” 2023 ↩︎ 14. ‘They spit on us’: What’s really going on in the El Ouardia migrant centre in Tunis, France24 (13 marzo 2023). ↩︎ 15. Note-juridique-El-Ourdia-VF.pdf, OMCT, “Note sur la détention arbitraire au centre de détention de migrants d’El-Ouardia,” 2023 ↩︎ 16. En Tunisie, “les prisons sont remplies de migrants subsahariens” condamnés pour “séjour irrégulier” – InfoMigrants, Infomigrants (18 novembre 2024) ↩︎ 17. Answer given by Mr Brunner on behalf of the European Commission ↩︎ 18. Tunisia: Rampant violations against refugees and migrants expose EU’s complicity risk, Amnesty International (6 novembre 2025) ↩︎
Il caso Moussa Baldé e la violenza strutturale della detenzione amministrativa
La vicenda di Moussa Baldé ha messo ancora una volta in luce la violenza radicata nei CPR, rivelando come la deumanizzazione sia la regola all’interno di queste strutture e sottolineando l’urgenza di continuare a lottare contro ogni forma di razzismo sistemico e istituzionale. In questa intervista, l’Avvocato Gianluca Vitale, che assiste la famiglia di Moussa e segue il processo in corso, ricostruisce le responsabilità istituzionali, le omissioni e le violenze – anche invisibili – che hanno trasformato una vittima in un “irregolare” da espellere, fino all’isolamento e al suicidio. Una testimonianza indispensabile per comprendere non solo ciò che è accaduto a Moussa, ma ciò che accade ogni giorno nei CPR. PH: Stop CPR Roma QUALI SONO LE CIRCOSTANZE CHE HANNO PORTATO MOUSSA BALDÉ A ESSERE RINCHIUSO NEL CPR DI TORINO, SOPRATTUTTO DOPO AVER SUBITO UNA VIOLENTA AGGRESSIONE? Subito dopo l’aggressione, Moussa – pur essendo la vittima di un reato – è tornato a essere considerato semplicemente un “clandestino”, da trattare come tale: quindi da rinchiudere ed espellere. Era arrivato in Italia qualche anno prima e aveva chiesto la protezione internazionale, un passaggio quasi obbligato per chi entra nel Paese senza reali canali di ingresso regolare. Aveva iniziato un percorso molto positivo: parlava bene italiano e partecipava ad attività con gruppi antirazzisti. Col tempo, però, l’attesa infinita e l’incertezza sul suo futuro hanno incrinato questo equilibrio. Non sapendo se la sua domanda sarebbe mai stata accolta, aveva tentato di raggiungere la Francia, ma era stato respinto. Da lì era iniziata una vita ai margini, fino a perdere il permesso di soggiorno e diventare irregolare. Poi l’aggressione davanti a un supermercato di Ventimiglia. Dopo quel fatto, Moussa è stato fermato dalla polizia che, accertata la sua irregolarità, lo ha consegnato all’ufficio immigrazione. Da lì è iniziato il percorso verso il CPR. COSA SAPPIAMO DELL’AGGRESSIONE SUBITA DA MOUSSA A VENTIMIGLIA? CI SONO INDAGINI IN CORSO SU QUELL’EPISODIO DI VIOLENZA? Il video dell’aggressione, ripreso da una residente, è circolato rapidamente online. I tre aggressori italiani, temendo di essere riconosciuti, si sono presentati spontaneamente alla polizia e sono stati denunciati a piede libero. Moussa, invece, è finito al CPR. Gli aggressori hanno tentato di sostenere di essersi solo difesi, accusando Moussa di averli aggrediti, ma il processo ha poi smentito questa versione. Il giorno successivo, mentre il video suscitava interrogativi e molti parlavano già di un’aggressione a sfondo razzista, la polizia ha diffuso una dichiarazione in cui escludeva motivazioni razziali, avallando la tesi – priva di riscontri – della presunta “precedente aggressione”. Il processo, celebrato a Imperia, si è concluso con la condanna dei tre aggressori a due anni di reclusione con sospensione condizionale della pena. Anche in quella sede la Procura ha deciso di non contestare l’aggravante dell’odio etnico, nonostante un’aggressione del genere non possa che evocare, almeno, un evidente rapporto di superiorità degli aggressori sulla vittima. SECONDO LEI, MOUSSA AVREBBE DOVUTO ESSERE TRATTENUTO IN UN CENTRO DI DETENZIONE, CONSIDERANDO LE SUE CONDIZIONI PSICOLOGICHE E FISICHE DOPO L’AGGRESSIONE? Una volta classificato come straniero irregolare, Moussa ha perso ogni riconoscimento della sua condizione di vittima, e la sua vulnerabilità non è stata minimamente considerata. Avrebbe avuto diritto a essere ascoltato, a presentare denuncia, forse a chiedere un permesso per motivi di giustizia. Aveva bisogno di supporto. Ma nessuno gli ha spiegato nulla. In commissariato gli è stato semplicemente chiesto se volesse denunciare l’aggressione, senza chiarire cosa comportasse. Impaurito e confuso, ha detto di voler solo essere lasciato in pace. Da lì è stato trasferito all’ufficio immigrazione, sempre senza capire cosa gli stesse accadendo. È arrivato al CPR in uno stato di grande fragilità, senza comprendere le ragioni della sua detenzione. È stato quasi subito messo in isolamento, perché presentava delle lesioni cutanee e gli altri detenuti temevano potesse essere scabbia. La soluzione più comoda – anche per evitare tensioni interne – non è stata quella di verificare se fosse psicologicamente idoneo alla detenzione o, in caso contrario, rilasciarlo. Né di spiegare agli altri detenuti che non correvano alcun rischio. Si è preferito isolarlo in una cella, da solo, “eliminando” il problema. Di fatto, non gli è stata garantita alcuna assistenza né supporto psicologico. QUALI RESPONSABILITÀ AVEVANO LA DIREZIONE DEL CPR E IL PERSONALE MEDICO NEI CONFRONTI DI MOUSSA – E DOVE RITIENE CHE ABBIANO FALLITO? Una recente sentenza del Consiglio di Stato ha annullato il capitolato nazionale di gestione dei CPR proprio perché carente nell’assistenza sanitaria e psicologica e privo di protocolli dedicati al rischio suicidario. La stessa sentenza ribadisce che, al di là delle lacune dell’appalto, gli enti privati che gestiscono i CPR hanno comunque l’obbligo di garantire la salute psicofisica delle persone trattenute. Approfondimenti/CPR, Hotspot, CPA CPR, IL CONSIGLIO DI STATO CONFERMA: VIOLATO IL DIRITTO ALLA SALUTE DEI TRATTENUTI Una sentenza che svela la patogenicità della detenzione amministrativa Avv. Arturo Raffaele Covella 11 Novembre 2025 Questo, per Moussa e per molti altri, non è stato fatto. La valutazione dell’idoneità al trattenimento, ad esempio, si limita a verificare l’assenza di malattie contagiose e la capacità della persona di vivere in una comunità – non in “quel tipo” di comunità, cioè un luogo di detenzione, ma in una comunità generica. In pratica, ci si concentra quasi esclusivamente sull’eventuale presenza di gravi malattie infettive, senza prestare alcuna attenzione alle condizioni psichiche della persona migrante. Oltre a non riconoscere né considerare quella vulnerabilità, né a fornire alcun tipo di supporto, Moussa è stato anche isolato, lasciato da solo in una condizione di ulteriore abbandono, che non poteva che accrescere il rischio di comportamenti autolesivi. CREDE CHE IL SUICIDIO DI MOUSSA POTESSE ESSERE EVITATO CON UN ADEGUATO SUPPORTO MEDICO E PSICOLOGICO? Un’adeguata presa in carico psicologica avrebbe certamente potuto aiutare Moussa a superare quel momento di estrema fragilità. Ma garantire davvero questo tipo di supporto, all’interno del centro, avrebbe richiesto attività di monitoraggio e osservazione costante: un impegno ulteriore che non è stato messo in campo. Al contrario, Moussa è stato collocato da solo nella cella di isolamento, senza alcun sostegno. Quella cella, situata nei cosiddetti “ospedaletti” e separata dalle altre aree del CPR, era totalmente inadatta a qualsiasi forma di osservazione sanitaria. Il Garante nazionale dei detenuti l’aveva descritta come “una gabbia dei vecchi zoo”, a testimonianza delle condizioni disumane dello spazio. Il suo corpo è stato trovato la mattina. La sera precedente, l’infermiera incaricata di somministrargli la terapia si era avvicinata alla cella e lo aveva chiamato. Non avendo ricevuto risposta, ha semplicemente lasciato il bicchierino con i farmaci su un muretto, senza verificare il suo stato. Non sappiamo nemmeno se, in quel momento, Moussa fosse ancora vivo e se un intervento tempestivo avrebbe potuto salvarlo. C’è poi un ulteriore elemento decisivo: non è stata mai presa in considerazione quella che avrebbe dovuto essere l’“opzione zero”. Di fronte alle sue condizioni, alla vulnerabilità evidente e all’aggressione appena subita, le autorità avrebbero dovuto decidere di non detenerlo affatto, avviando semmai un percorso di presa in carico. Evitare la detenzione sarebbe stato, senza dubbio, il modo più efficace per prevenire il rischio di un gesto suicidario. LA SUA FAMIGLIA HA DICHIARATO CHE “SI VEDEVA CHE STAVA MALE“, EPPURE NON SONO STATI INFORMATI DELLA SUA MORTE. PERCHÉ, SECONDO LEI, LE AUTORITÀ NON LI HANNO AVVISATI TEMPESTIVAMENTE? Moussa, come tutte le persone migranti trattenute, non era più visto come una persona, con i diritti e gli affetti che questo comporta. Era ridotto a un semplice soggetto – o addirittura oggetto – da detenere. Quando una persona viene trattenuta, nessuno si preoccupa di capire se abbia una famiglia, legami affettivi o qualcuno da avvisare. Anzi, chi ha appena perso la libertà perde spesso anche il diritto alle relazioni esterne: durante quel periodo, Moussa è stato privato del suo telefono, impossibilitato a comunicare con chi gli era vicino. Nessuno si preoccupa di dire ai parenti che è detenuto; perchè dovrebbero preoccuparsi di avvisarli che è morto? Così è stato anche per Moussa: i suoi familiari in Guinea hanno saputo dell’accaduto solo tramite altre persone, senza alcun contatto diretto dalle autorità italiane. Né lo Stato, né l’ente gestore del CPR hanno mai cercato di mettersi in contatto con la famiglia, neanche per esprimere un minimo segno di vicinanza. Qualche settimana dopo la sua morte, la Ministra dell’Interno, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha limitato la propria dichiarazione ad affermare che “era stato fatto tutto regolarmente”, senza mostrare alcuna forma di dispiacere o un minimo sentimento di cordoglio e umanità per quella perdita. PH: Mai più lager – NO ai CPR C’È UN PROCEDIMENTO LEGALE IN CORSO, E CHI VIENE RITENUTO RESPONSABILE: IL DIRETTORE DEL CPR, IL PERSONALE MEDICO, LO STATO? Attualmente a Torino è in corso un processo nei confronti della direttrice del centro e del responsabile medico, accusati di omicidio colposo per non aver fornito a Moussa un’adeguata assistenza, per non aver predisposto un protocollo di prevenzione del rischio suicidiario e per averlo collocato in isolamento. Nessuno dei funzionari della Questura o, ancor più, della Prefettura è sotto processo. Inizialmente erano stati indagati anche alcuni funzionari per aver utilizzato e consentito l’uso di un luogo di isolamento non previsto da alcuna norma di legge. Tuttavia, il procedimento si è concluso con un’archiviazione, perché quegli spazi – i cosiddetti “ospedaletti” – erano utilizzati da anni e nessuno si era accorto che trattenere una persona lì, senza alcuna base normativa, costituisse un sequestro di persona. Lo Stato, dunque, si è assolto, e sotto processo ci sono solo i gestori privati di quella detenzione. RITIENE CHE IL CASO DI MOUSSA SIA UNA TRAGEDIA ISOLATA O FACCIA PARTE DI UN PROBLEMA SISTEMICO NEL MODO IN CUI L’ITALIA TRATTA I MIGRANTI NEI CENTRI DI DETENZIONE? Il caso di Moussa, purtroppo, è tutt’altro che una eccezione. È quel tipo di detenzione che porta con sé, come conseguenza quasi necessaria, che la persona sia dimenticata in una cella, abbandonata e sottoposta all’arbitrio di chi gestisce il centro (e di chi dovrebbe controllare quella gestione). Di Moussa si è saputo e se ne è parlato solo perché c’era il video della sua aggressione, e perché era evidente che era una vittima e avrebbe dovuto essere trattato come tale. Invece di ricevere aiuto, lo Stato gli ha inflitto l’ulteriore violenza della cella e dell’isolamento. Purtroppo, situazioni simili accadono ogni giorno. Ricordo, ad esempio, anni fa una donna straniera priva di permesso di soggiorno: dopo ore di violenza in una fabbrica abbandonata era riuscita a fuggire e a fermare una volante. Pur potendo denunciare il suo aguzzino, la sua condizione di “clandestina” ha subito avuto la meglio: le è stato notificato un decreto di espulsione. Un altro caso riguarda una badante senza permesso, investita insieme all’anziano che assisteva. Invece di scappare, si era fermata ad aspettare i soccorsi, arrivati insieme alla polizia. Nonostante fosse vittima, la sua posizione irregolare ha prevalso e le è stato notificato un decreto di espulsione. Anche in occasione di un altro decesso al CPR di Torino, quello di Fatih nel 2008, si sospettò che non fosse stato soccorso nonostante un malore. Nel tentativo di far interrogare gli altri detenuti e proteggerli dall’espulsione, un Pubblico Ministero mi rispose che non c’era motivo di agitarsi, perché si trattava “solo di un clandestino” e non c’erano responsabili. Un caso più recente, quello di Faisal nel 2019, conferma lo stesso schema: con evidenti problemi psichici, Faisal era stato collocato nell’“ospedaletto” per valutare la sua compatibilità psicologica con il trattenimento, e lì era rimasto isolato per oltre cinque mesi, fino alla morte. Anche in questo caso, il centro si era limitato a “dimenticare” una persona vulnerabile. Questa disattenzione alle persone è la normalità; non solo a Torino, ma in ogni luogo di detenzione amministrativa. QUALI RIFORME O CAMBIAMENTI STRUTTURALI SAREBBERO NECESSARI PER EVITARE CHE UNA TRAGEDIA DEL GENERE SI RIPETA? È l’intero sistema di gestione dell’immigrazione a dover essere rivoluzionato. La libertà di circolazione dovrebbe essere un diritto per tutte e tutti, mentre da anni si fanno sforzi continui per ostacolarla e limitarla, pur liberalizzando al contempo la circolazione dei capitali e dei flussi finanziari, favorendo nuove forme di colonialismo e affermando il “nostro” diritto di muoverci liberamente. Che senso ha subordinare la possibilità di cercare lavoro alla necessità di “avere già” un lavoro? Proprio questa politica crea l’imbuto in cui si ritrovano molte persone migranti: l’unica via d’accesso diventa la richiesta di protezione internazionale, con tempi di attesa lunghi e spesso frustranti, e infine il tritacarne della detenzione. Il sistema è costruito per non funzionare: trasforma le persone migranti in una massa di forza lavoro facilmente ricattabile, ridotta a semplice fattore produttivo, di cui ci si può facilmente disfare quando diventa “inutile” o quando inizia a rivendicare diritti. PH: Mai più lager – NO ai CPR HA AVUTO ACCESSO A DOCUMENTI, REGISTRAZIONI VIDEO O TESTIMONIANZE UTILI PER COSTRUIRE IL CASO? HA INCONTRATO OSTACOLI NEL REPERIRE QUESTE INFORMAZIONI? Per quanto riguarda l’aggressione subita a Ventimiglia, nel corso del processo sono stati acquisiti tutti i video delle telecamere di sorveglianza, compresa quella della polizia: l’aggressione, infatti, è avvenuta proprio sotto le finestre del più grande commissariato della città. Per quanto riguarda il CPR, è stato acquisito tutto ciò che era possibile ottenere. Il problema principale è che l’“ospedaletto” – formalmente una stanza di osservazione sanitaria – non dispone di alcun sistema di videosorveglianza interno (né esterno). Tutto ciò che accade all’interno rimane quindi invisibile a chiunque dall’esterno. COSA PENSA SIA PIÙ IMPORTANTE CHE L’OPINIONE PUBBLICA SAPPIA SU CHI ERA MOUSSA, AL DI LÀ DEI TITOLI DI GIORNALE? Come molti giovani migranti che arrivano in Italia e in Europa, Moussa era una persona piena di desiderio e gioia di vivere, che inseguiva sogni e speranze. Il folle sistema di gestione della migrazione lo ha prima inserito nel circuito dell’accoglienza, per poi non offrirgli alcuna via d’uscita, gettandolo nell’irregolarità. Moussa è stato vittima non solo della violenza di chi lo ha aggredito, ma anche del razzismo di una società che lo ha visto – come vede altri in difficoltà – come un corpo estraneo da espellere. È stato vittima del razzismo istituzionale di un Paese che rifiuta di comprendere che persone come lui rappresentano una risorsa preziosa. Non dimenticherò mai il suo sguardo spento e disperato, quando mi diceva che non sarebbe rimasto nel CPR, così come non dimenticherò il suo sguardo luminoso in un video di qualche anno prima, in cui raccontava quanto stesse apprezzando la vita in Italia, prima di essere tradito nelle sue speranze e gettato via. QUALE MESSAGGIO DESIDERA LANCIARE ALL’OPINIONE PUBBLICA E AI RESPONSABILI POLITICI ATTRAVERSO QUESTO PROCESSO? Il processo è il luogo deputato ad accertare se è stato commesso un reato, e ad accertare se a commetterlo sono state le persone che in quel processo compaiono come imputati. Insieme ai familiari, che si sono costituiti parte civile, alla Garante cittadina dei diritti delle persone private della libertà, all’ASGI, all’Associazione Franz Fanon, anche loro costituiti parte civile, vorremmo che questo processo servisse anche a far emergere l’inutilità e la disumanità dei CPR, aggiungendo un tassello al percorso verso la loro chiusura. Il processo accerterà se gli imputati siano colpevoli, ma ci auguriamo che dimostri anche a tutti come molti, a diversi livelli, siano responsabili di quella morte e di altre simili. COME STA AFFRONTANDO TUTTO QUESTO LA FAMIGLIA DI MOUSSA? È COINVOLTA NEL PERCORSO GIUDIZIARIO? Come dicevo i familiari, i genitori e le sorelle e i fratelli, si sono costituiti parte civile, e stanno seguendo il processo con enorme dolore ma anche con una straordinaria dignità. Ripetono sempre che questo deve essere un processo che porti verità e giustizia per la morte di Moussa, ma che allo stesso tempo costituisca un passo verso verità e giustizia per tutte le persone migranti che sono state e sono detenute in questi luoghi. Credo che tutti noi possiamo trarre un insegnamento da chi, pur avendo perso un figlio a causa dell’insensibilità di questo Paese, non cerca vendetta, ma giustizia per tutte le persone migranti.
Frontex conferma le responsabilità delle autorità bulgare nella morte di tre minori
A quasi un anno dalla morte di tre minori egiziani in Bulgaria, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex (The Fundamental Rights Officer – FRO) ha pubblicato un report 1 che conferma il racconto di Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen, identificando chiaramente la responsabilità diretta della polizia di frontiera bulgara per queste morti. Nel dicembre 2024, Ahmed Samra, Ahmed Elawdan e Seifalla Elbeltagy – tre minori egiziani – avevano comunicato ai gruppi solidali di trovarsi in condizioni di emergenza nella zona di Gabar, in Bulgaria, dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro. Pur essendo stata avvisata con ripetute telefonate, la polizia di frontiera bulgara non solo non ha risposto alle chiamate, ma si è anche adoperata per bloccare i tentativi del Collettivo di raggiungere i tre minori, che sono poi morti di ipotermia. A quasi un anno di distanza, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex conferma la versione delle organizzazioni solidali: “Le autorità bulgare avevano l’obbligo di assistere e soccorrere i migranti. Avendo informazioni sufficienti a determinare che essi si trovavano in pericolo di vita, essendo a conoscenza della loro posizione esatta e avendo i mezzi per intervenire, esse non hanno comunque adottato le misure necessarie in tempo, con il risultato che tre persone hanno perso la vita”. L’Agenzia europea rigetta inoltre la campagna di diffamazione avviata dal Ministero dell’Interno bulgaro dopo la pubblicazione del report Frozen Lives redatto dalle organizzazioni.  Rapporti e dossier/Confini e frontiere VITE CONGELATE AL CONFINE: LE RESPONSABILITÀ DELLE AUTORITÀ BULGARE E LA COMPLICITÀ DELL’UE Il rapporto di No Name Kitchen e del Collettivo Rotte Balcaniche Anna Bonzanino 5 Febbraio 2025 Secondo il Collettivo Rotte Balcaniche, inoltre la polizia di frontiera «ha intensificato il livello di criminalizzazione delle ONG, moltiplicando le indagini e gli arresti, in un chiaro tentativo di silenziare il lavoro di denuncia della violenza sul confine». Il documento di Frontex riconosce, inoltre che, al di là di questo evento specifico, la cosiddetta “incapacità” di compiere operazioni di ricerca e soccorso è in realtà una pratica di routine delle autorità bulgare. Negli ultimi anni, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali ha documentato ripetutamente le azioni della polizia di frontiera bulgara, affermando che “i pushback, spesso caratterizzati da alti livelli di violenza e trattamenti inumani o degradanti, sono una pratica quotidiana della polizia di frontiera bulgara” ed esprimendo una “profonda preoccupazione rispetto alle accuse ripetute nei confronti delle autorità bulgare di non rispondere in maniera appropriata alle chiamate di emergenza.” Tuttavia, il Collettivo ci tiene a sottolineare anche il ruolo strumentale di Frontex «che finanzia e collabora alle attività di controllo dei confini bulgari, si autoassolve nuovamente, scaricando la responsabilità dell’accaduto sulle autorità bulgare e utilizzando persino queste morti per richiedere un aumento della propria presenza in Bulgaria». Questa posizione viene definita contraddittoria, poiché il personale di Frontex opera legalmente sotto il controllo delle autorità locali: secondo il Collettivo, infatti, «i migranti intercettati da Frontex vengono poi espulsi in maniera illegale e violenta», mentre il personale dell’Agenzia «rischia di essere complice – o meglio è direttamente responsabile – di queste espulsioni». A partire da marzo 2025, Frontex ha inoltre «ripetutamente bloccato e seguito per ore squadre di ricerca e soccorso», impedendo loro di raggiungere le persone in movimento in condizione di emergenza. E ciò nonostante l’Ufficio per i Diritti Fondamentali riconosca il lavoro delle squadre civili come «autentico», denunciando al contempo i tentativi della polizia di ostacolarlo. Il Collettivo definisce però queste affermazioni come meri interventi superficiali, privi di ricadute operative: «Affermazioni come quelle dell’Ufficio restano soltanto cosmetiche se non accompagnate da azioni concrete». Da qui la richiesta di interrompere «immediatamente ogni collaborazione con e supporto alle autorità bulgare». Infine, un’eventuale inazione di Frontex sarebbe solo un’ulteriore conferma del carattere sistemico delle politiche europee di frontiera: «Se Frontex non adotterà misure adeguate, sarà una conferma in più che queste morti non sono state un incidente ma il risultato voluto e cercato di politiche di confine europee che, se non smantellate, possono soltanto uccidere». Dello stesso avviso anche No Name Kitchen che tramite la rappresentante Ric Fernandez afferma che «questi minori avrebbero potuto essere salvati, le stesse conclusioni di Frontex confermano l’esistenza di un sistema progettato per lasciar morire le persone alla frontiera, e chiunque sostenga tale sistema ne è responsabile». Anche NNK chiede a Frontex di sospendere immediatamente ogni cooperazione operativa con la polizia di frontiera bulgara, nonché di pubblicare i risultati completi del FRO e tutte le comunicazioni interne relative all’incidente, infine garantire di accertare la responsabilità per qualsiasi agente coinvolto nell’ostruzione dei soccorsi. «Questo caso non è una tragedia isolata. Esso mette in luce le carenze sistemiche nell’applicazione delle norme di frontiera dell’UE, dove le operazioni di Frontex e le autorità nazionali effettuano congiuntamente respingimenti illegali, pratiche violente e ostacoli ai soccorsi. Se Frontex continuerà a cooperare con le autorità bulgare nonostante questi risultati, confermerà che queste morti non sono incidenti isolati, ma il risultato prevedibile della politica dell’UE, una politica che continuerà a uccidere se non verrà modificata radicalmente», conclude No Name Kitchen. 1. Frontex Report – Serious Incident Reports Cat 1 ↩︎
Livorno, i ragazzi tunisini morti al porto sono vittime delle politiche di respingimento
Due giovani ancora senza nome sono morti nel porto industriale di Livorno. Era il 30 ottobre, intorno alle 13:30, quando i loro corpi sono stati risucchiati dalle eliche delle navi in manovra, nelle acque del canale tra la Darsena Toscana e il varco Zara.   I due ragazzi erano stati trovati poco prima dalla Polizia Marittima sulla nave Stena Shipper, battente bandiera danese, ma noleggiata dalla compagnia statale tunisina CoTuNav, proveniente dal porto di Radès. Erano arrivati a Livorno nascosti in uno dei container della nave.  Una volta scoperti, sarebbero stati reimbarcati sulla stessa nave e affidati alla custodia del comandante, in attesa di essere rimpatriati. Una riconsegna quindi “informale”, al di fuori di qualsiasi procedura operativa e prevista dalle normative, senza alcuna identificazione. Chiusi in una cabina a bordo, sarebbero riusciti a liberarsi e, nel tentativo disperato di evitare il ritorno in Tunisia, si sarebbero gettati in mare. Quel che è certo è che erano vivi, in Italia, quando la polizia di frontiera li ha fatti scendere dal cargo e poi risalire, per essere riconsegnati al comandante della nave. Nessun colloquio con un avvocato, nessun mediatore, nessuna informativa sui loro diritti. Nessuna possibilità di chiedere asilo, o anche solo di manifestare la volontà di farlo.  Le autorità parlano di una “procedura standard”, ma si tratta in realtà di un respingimento informale, una pratica che da anni si consuma silenziosamente nei porti italiani, probabilmente i più noti alle cronache sono quelli dell’Adriatico. Un’inchiesta di Lighthouse Reports, pubblicata nel gennaio 2023 1, grazie al lavoro del Network Porti Adriatici aveva infatti documentato decine di casi di rimpatri forzati – compresi minori non accompagnati – dai porti di Venezia, Ancona, Bari e Brindisi verso la Grecia, in violazione del diritto internazionale.  Anche a Livorno, il comportamento delle autorità sembra ricalcare lo stesso schema: quando i due giovani hanno capito che sarebbero stati rispediti indietro, hanno tentato di fuggire e si sono buttati in mare.  Appresa la notizia, i primi a chiedere di fare chiarezza sulla vicenda sono stati i sindacati e le associazioni. «Troppe cose ancora non tornano – hanno scritto Usb Livorno e la sezione locale di Asgi -: due ragazzi sono morti nel tentativo di conquistare una vita migliore. Non sappiamo niente di loro perché qualcuno ha deciso che non avevano diritto di parlare con un avvocato, un mediatore o un’associazione. Dopo averli fatti sbarcare e tenuti ore al varco portuale, li hanno rinchiusi in una cabina e, una volta tuffatisi in mare, sono morti affogati». Durante il partecipato presidio del 7 novembre al varco Zara, al quale ha preso parte anche il Sindaco della città, il rappresentante di Usb Livorno ha chiesto giustizia: «Vogliamo sapere chi ha deciso per il rimpatrio immediato, se c’è un decreto di espulsione, se davvero hanno chiesto, come alcuni testimoni affermano, di parlare con un avvocato. E perché, quando i loro corpi non erano ancora stati trovati, è stato autorizzato il passaggio di un’altra nave nel canale. Evidentemente, la vita di due persone vale meno dei traffici marittimi». Anche la Cgil Toscana e la Cgil Livorno hanno definito l’episodio l’ennesimo capitolo nero del fallimento delle politiche securitarie. «La criminalizzazione e l’etichetta di clandestino hanno sostituito l’umanità e le buone pratiche di accoglienza – si legge in una nota -. Occorre individuare le responsabilità di chi ha portato due ragazzi a gettarsi in mare piuttosto che affidarsi alle istituzioni». Il deputato Marco Grimaldi di AVS è intervenuto in Parlamento: «Lo Stato ha altri due morti sulla coscienza. Non gli è stato permesso di chiedere protezione internazionale, di vedere un medico, un avvocato. La polizia li ha caricati su una nave perché li riportasse in Tunisia. Si sono buttati in acqua e sono morti. Perché non hanno ricevuto cure e accoglienza? Perché non hanno avuto la possibilità di chiedere asilo?». Nel frattempo, la procura di Livorno ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. Nessuno è al momento indagato. Il comandante della nave avrebbe dichiarato di aver “controllato i due migranti ogni venti minuti”. Asgi ha predisposto un esposto perché ci sia un’indagine accurata sulle procedure utilizzate e si chiariscano le responsabilità.  Secondo i dati pubblicati da Il Tirreno, nel porto di Livorno si registrano in media una ventina di respingimenti l’anno. Ma altre fonti parlano di più del doppio. Negli ultimi due anni – riferisce ancora il quotidiano – sono state rafforzate le barriere fisiche a chiusura della banchina destinata alle navi provenienti dal Nordafrica, per rendere più difficile l’accesso alle aree di sbarco. Dall’inizio del 2024, circa sessanta navi arrivate da Tunisi e Radès, molte delle quali appartenenti alla compagnia CoTuNav, hanno attraccato nello stesso punto. Il fenomeno strutturale dei respingimenti interessa sicuramente altri porti tirrenici, ma al momento non si hanno dati ufficiali.  Di sicuro il caso di Livorno non è isolato, ma un ulteriore tassello della pratica dei respingimenti informali che da anni si consuma nei porti italiani, tanto sull’Adriatico quanto sul Tirreno. Una pratica illegittima, che viola la Convenzione di Ginevra, l’articolo 10 della Costituzione e l’articolo 33 della Convenzione europea dei diritti umani, perché impedisce a chi arriva di esercitare il diritto di chiedere protezione internazionale.  Qualsiasi persona rintracciata in area portuale o prima dell’ingresso formale nel territorio nazionale deve essere informata dalle autorità della possibilità di presentare domanda d’asilo, ricevere assistenza legale e linguistica e non può essere rimandata in un Paese dove potrebbe rischiare persecuzioni o trattamenti inumani e degradanti.  La violazione è resa ancor più grave con due giovani che potevano essere ancora minorenni. Nulla di tutto ciò è accaduto e due ragazzi sono morti perché un sistema politico, culturale e amministrativo è strutturalmente razzista e seleziona chi può restare e chi deve essere respinto in base alla provenienza geografica, al colore e alla classe.  Chi parla di “incidente” o “fatalità” non vuole mettere in discussione questa nuda verità: le morti sono l’effetto diretto di un clima politico che favorisce delle scelte che riducono le persone a “irregolari” da espellere, senza alcuna valutazione ulteriore, senza il rispetto dei loro diritti. Scelte che ancora una volta hanno ucciso. 1. Respingimenti illegali dall’Italia alla Grecia: richiedenti asilo detenuti in prigioni segrete, Meltingpot.org ↩︎
Rifinanziati i “rimpatri umanitari” dalla Libia nonostante l’allarme dell’ONU
Nonostante i richiami delle Nazioni Unite, il governo italiano ha rifinanziato i programmi di “rimpatrio volontario umanitario” dalla Libia, strumenti che da anni sollevano gravi criticità sul rispetto dei diritti fondamentali delle persone migranti 1. Lo rende noto il progetto Sciabaca & Oruka di Asgi che promuove, in rete con organizzazioni della società civile europee e africane, azioni di contenzioso strategico per la libertà di circolazione e per contrastare le violazioni dei diritti umani causate dalle politiche di esternalizzazione delle frontiere. A luglio 2025 il Ministero degli Affari Esteri, scrive il progetto, ha disposto l’erogazione di 7 milioni di euro all’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) per l’attuazione del progetto Multi-Sectoral Support for Migrants and Vulnerable Populations in Libya, della durata di due anni. Oltre 3 milioni saranno destinati al rimpatrio di 910 persone verso i paesi d’origine, attraverso il cosiddetto Voluntary Humanitarian Return (VHR), una forma di rimpatrio volontario assistito rivolta a migranti «bloccati o in situazioni di vulnerabilità, tra cui l’intercettazione in mare, la detenzione arbitraria e lo sfruttamento». Secondo i documenti ufficiali, tali operazioni mirano a «ridurre la vulnerabilità» delle persone e a «migliorare la loro situazione di protezione». Ma la realtà descritta da numerosi organismi internazionali è ben diversa. Già il 30 aprile 2025, la Relatrice Speciale sulla tratta di esseri umani, il Relatore Speciale sui diritti dei migranti e il Gruppo di lavoro sulla detenzione arbitraria delle Nazioni Unite avevano indirizzato una comunicazione formale al governo italiano per esprimere forte preoccupazione riguardo a un progetto simile, anch’esso finanziato dall’Italia, denominato “Multi-Sectoral Support for Vulnerable Migrants in Libya”. Nel documento, lə espertə Onu evidenziavano che il rimpatrio volontario, nelle condizioni esistenti in Libia, «funziona in pratica come l’ultima e l’unica soluzione alle intercettazioni e alla detenzione prolungata per periodi indeterminati». In queste circostanze, aggiungevano, «in assenza di alternative, migranti, rifugiati e richiedenti asilo possono essere costretti ad accettare di tornare in situazioni non sicure, dove rischiano di essere esposti alle medesime condizioni da cui fuggivano». Inoltre, sottolineavano come le persone coinvolte non possano esprimere un consenso libero e informato, poiché «la mancanza di assistenza adeguata le priva di fatto della possibilità di accedere alla protezione internazionale e alle garanzie giudiziarie». La comunicazione denunciava anche il rischio che i programmi VHR «possano aprire canali di mobilità forzata verso i paesi di origine e legittimare la cooperazione con la Libia in violazione del principio di non respingimento». Lə relatorə delle Nazioni Unite rilevavano inoltre la mancanza di trasparenza sull’impatto di questi progetti e l’assenza di «misure preventive e di mitigazione contro i rischi di tratta o di rimpatrio illegale». Un ulteriore elemento critico è il supporto tecnico e operativo previsto per le autorità libiche: il progetto include infatti attività di rafforzamento della capacità di gestione delle operazioni di ricerca e soccorso (SAR) e di intercettazione in mare. Secondo gli esperti, ciò rischia di tradursi in un aumento delle intercettazioni e dei respingimenti illegali verso la Libia, dove le persone migranti sono sistematicamente esposte a detenzioni arbitrarie, torture e violenze, in un contesto che la stessa giurisprudenza italiana riconosce come non sicuro. La comunicazione ONU si concludeva con una serie di richieste al governo italiano: informazioni sull’utilizzo dei fondi, sulle misure di prevenzione delle violazioni dei diritti umani e sulle alternative alla detenzione e al rimpatrio. Tuttavia, nella risposta fornita a luglio 2025, l’Italia non ha dato riscontri sostanziali alle criticità sollevate. La valutazione del monitoraggio è stata completamente delegata all’OIM, senza alcun controllo indipendente da parte del governo. UNA STRATEGIA DI ESTERNALIZZAZIONE SEMPRE PIÙ STRUTTURALE Nonostante le contestazioni, l’Italia ha proseguito nella strategia di esternalizzazione delle frontiere. Ad aprile 2025 è stato approvato un ulteriore stanziamento di 20 milioni di euro per il programma L.A.I.T. – Sviluppo dei meccanismi di rimpatrio volontario assistito e di reintegrazione (AVRR) e di rimpatrio volontario umanitario (VHR), in collaborazione con OIM e AICS. Il nuovo progetto prevede il rimpatrio di oltre 3.300 persone da Algeria, Libia e Tunisia e il rafforzamento delle capacità istituzionali dei governi di questi paesi nella gestione dei rimpatri. Si tratta di un tassello ulteriore in un processo ormai consolidato: il massiccio finanziamento dei rimpatri “volontari”, che consente di rimpatriare persone in assenza delle garanzie previste per i rimpatri forzati, contribuendo al contempo ad “alleggerire” la pressione migratoria sui paesi di transito e a consolidare la cooperazione con regimi autoritari o instabili. Questi programmi, presentati come strumenti di protezione umanitaria, finiscono invece per legittimare il blocco della mobilità e per violare il diritto d’asilo e il principio di non-refoulement. A fronte di queste pratiche, diverse organizzazioni italiane – tra cui ASGI, A Buon Diritto, ActionAid Italia, Lucha y Siesta, Differenza Donna, Spazi Circolari e Le Carbet – hanno promosso un contenzioso legale e lanciato la campagna di comunicazione «Voluntary Humanitarian Refusal – a choice you cannot refuse», per denunciare «l’uso distorto dei fondi pubblici destinati a programmi che, sotto la facciata di “umanitari”, contribuiscono in realtà a violare diritti fondamentali e limitare la libertà di movimento». > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da VHR: Voluntary Humanitarian Refusal > (@voluntary.humanitarian.refusal) 1. Nowhere but Back. Assisted return, reintegration and the human rights protection of migrants in Libya, by the OHCHR Migration Unit ↩︎