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I rifugiati di Agadez lanciano una petizione urgente dopo oltre 300 giorni di protesta
Mentre il governo del Niger intensifica la repressione e viola i diritti dei rifugiati, stare al loro fianco è più importante che mai. Firma e condividi ora 1. Da oltre 300 giorni, i rifugiati del Centro “Umanitario” di Agadez, in Niger, continuano la loro protesta pacifica, denunciando condizioni sempre più dure, negligenza amministrativa e intimidazioni da parte delle autorità nazionali. Dall’inizio di luglio, la maggior parte delle persone ospitate nel centro ha smesso di ricevere l’assistenza alimentare. Secondo l’UNHCR, l’aiuto continuerebbe a essere garantito alle cosiddette “categorie vulnerabili”, come vedove, minori non accompagnati e persone con disabilità o patologie croniche. Ma in pratica, le liste degli aventi diritto, emesse dall’UNHCR, hanno escluso numerose persone che rientrano chiaramente nei criteri dichiarati. Inoltre, chi aveva ricevuto aiuti da ONG partner nel 2023 è stato retroattivamente escluso dai nuovi elenchi. A queste persone, al momento della distribuzione, non era stato comunicato che si trattava di un progetto legato all’integrazione economica, né che quel sostegno avrebbe compromesso la possibilità di ricevere aiuti in futuro. In un comunicato diffuso lo scorso maggio, l’UNHCR ha giustificato i tagli come un’opportunità per “favorire l’autosufficienza” attraverso corsi di formazione professionale. Ma la realtà sul campo è che la maggior parte dei rifugiati oggi fatica a soddisfare i propri bisogni fondamentali.  Interviste/Confini e frontiere MENO CIBO, PIÙ AUTONOMIA? IL PARADOSSO DELL’ASSISTENZA DI UNHCR AL CAMPO DI AGADEZ, NIGER I rifugiati: «Non vogliamo restare qui, nel deserto» Laura Morreale 20 Giugno 2025 L’agenzia ONU attribuisce le difficoltà operative ai tagli dei finanziamenti internazionali e alle restrizioni imposte dal governo del Niger. Tuttavia, alcuni operatori umanitari presenti sul territorio segnalano un contesto sempre più repressivo, che rende difficile persino il dialogo diretto con la popolazione rifugiata. In particolare, lo staff UNHCR ha dovuto affrontare ostacoli e intimidazioni quando ha cercato di dialogare con i rifugiati coinvolti nella protesta. I rifugiati riportano che funzionari dell’Ufficio CNE – l’organismo nazionale incaricato di valutare le richieste d’asilo – hanno impedito o interrotto incontri tra il personale UNHCR e i rappresentanti dei rifugiati. Secondo diverse testimonianze, un funzionario del CNE avrebbe affrontato in modo aggressivo e minaccioso un rappresentante dell’UNHCR responsabile delle politiche nutrizionali nel campo, durante un incontro di routine. Episodi simili fanno pensare che le autorità locali stiano volutamente limitando la capacità dell’UNHCR di comunicare e difendere i diritti dei rifugiati. Notizie/Confini e frontiere GESTIRE IL DISSENSO AD AGADEZ Le autorità nigerine dichiarano sciolti i comitati dei rifugiati Laura Morreale 22 Aprile 2025 Nei giorni scorsi, ad alcuni rifugiati è stato detto di “parlare solo per sé stessi”, perché gli organismi di rappresentanza collettiva sono osteggiati dalle autorità nazionali. A partire da maggio, il CNE ha infatti dichiarato illegittimo il comitato dei rifugiati che guida la protesta. All’epoca, otto attivisti erano stati arrestati senza accuse formali e poi rilasciati. Sei di loro – tre donne e tre uomini – si sono visti sospendere la procedura d’asilo tramite un decreto ministeriale datato 3 luglio, con la motivazione di “disturbo dell’ordine pubblico e rifiuto di rispettare le leggi e i regolamenti in vigore nel paese ospitante”. I tentativi di contestare la decisione sono stati respinti dai giudici, che hanno rinviato i casi all’ufficio del governatore. I rifugiati che hanno cercato di presentare denunce formali sono stati ignorati o dirottati altrove. PH: Refugees in Niger Secondo le persone del centro con cui sono in contatto, altri due rifugiati sarebbero stati deportati verso il loro paese d’origine perché “si erano rivolte al tribunale e avevano parlato con i giudici delle condizioni del centro, del trattamento riservato ai rifugiati da parte del personale e degli incidenti verificatisi nel centro, in particolare l’omicidio di un rifugiato nel 2022”. In un contesto di tagli all’assistenza alimentare, restrizioni alla libertà d’espressione e mancanza di accesso alla giustizia, le condizioni psicologiche dei residenti del centro sono peggiorate. Una rifugiata, Nawal Daoud Mohamed, è stata rilasciata dal centro nonostante fosse noto che soffrisse di disturbi psicologici e ora risulta scomparsa. Il CNE ha riferito che sarebbe apparsa in un villaggio a ottanta chilometri dalla città di Agadez, ma i rifugiati non sanno se l’informazione sia accurata o se si tratti di una strategia per evitare disordini nel campo. Secondo i rifugiati, questo caso è emblematico di una negligenza generalizzata verso il benessere psicologico dei residenti del centro. Secondo i rifugiati, questo caso è emblematico di una negligenza generalizzata verso il benessere psicologico dei residenti del centro. Di seguito, condividiamo il messaggio e la petizione inviataci dai rifugiati di Agadez con cui siamo in contatto da diversi mesi: -------------------------------------------------------------------------------- Grazie a Melting Pot Europa per il sostegno costante e per aver dato visibilità agli abusi in corso ad Agadez. Nonostante la nostra resistenza, e una protesta pacifica e legale che dura da oltre 309 giorni, la situazione è purtroppo peggiorata. Abbiamo bisogno della vostra voce. Vi chiediamo di firmare, condividere e amplificare queste storie, petizioni e testimonianze da Agadez. Enough is enough: when peaceful protest is met with collective punishment Dal 15 luglio 2025, i rifugiati del Centro Umanitario di Agadez hanno vissuto quanto segue: * Nawal Daoud Mohamed, una donna di 27 anni, è scomparsa dopo essere uscita dal campo. Era in stato di grave sofferenza psicologica a causa delle condizioni di vita estreme e disumane del Centro Umanitario di Agadez. * Pompe dell’acqua disattivate nel mese più caldo dell’anno, lasciando 2.000 persone – tra cui 800 bambini – senza acqua adeguata, con temperature nel deserto che superano i 50°C. * Assistenza alimentare eliminata per 1.730 persone come punizione per l’espressione pacifica del dissenso. L’UNHCR lo chiama “promozione dell’autosufficienza”. Il diritto internazionale lo chiama punizione collettiva. Su oltre 2.000 residenti, solo 270 persone classificate come “più vulnerabili” hanno ancora accesso alla nutrizione di base. * Otto leader comunitari, sopravvissuti a una detenzione arbitraria a marzo, oggi affrontano nuove minacce semplicemente perché si rifiutano di restare in silenzio. Il CNE ha intensificato le intimidazioni, avvertendo che lo status di rifugiato potrebbe essere revocato a chiunque continui a documentare le condizioni del centro con la campagna #KeepEyesOnAgadez. * Le cure mediche sono state ridotte al minimo, con farmaci limitati a semplici antidolorifici, mentre donne incinte muoiono durante il parto e i bambini vengono respinti da cliniche chiuse. -------------------------------------------------------------------------------- Non possiamo lasciare che tutto questo continui. Firma ora le petizioni per chiedere il ripristino immediato di cibo, acqua, cure mediche e la fine delle intimidazioni. Ogni firma aumenta la pressione sul governo del Niger e sull’UNHCR. ✍️ Petizione al Governo del Niger ✍️ Petizione all’UNHCR Bastano 5 minuti, ma possono salvare delle vite. Condividi questo appello e tagga 3 persone che hanno a cuore i diritti umani. Quando firmiamo insieme, i funzionari devono ascoltare. 1. ✍️ Petizione al Governo del Niger ✍️ Petizione all’UNHCR ↩︎
Donne migranti e lavoro: sfruttamento e abusi negli insediamenti informali
Questo testo analizza le condizioni di lavoro e di vita delle donne migranti impiegate nei settori agricolo e domestico, con particolare attenzione allo sfruttamento nei contesti informali e alle dinamiche di genere. Per molte donne migranti, l’impiego in agricoltura rappresenta, insieme al lavoro domestico e di cura, una delle poche opportunità di accesso al mondo del lavoro. Le braccianti lavorano nelle campagne in condizioni di sfruttamento e degrado: la giornata lavorativa dura generalmente dalle nove alle dieci ore; le lavoratrici passano la maggior parte del tempo piegate o in piedi, esposte a temperature elevate e a contatto diretto con fitofarmaci altamente aggressivi. A queste condizioni si sommano ulteriori elementi di discriminazione, come la differenza salariale di genere (“gender pay gap”). Secondo l’ultimo Rendiconto di Genere del Consiglio di Indirizzo e Vigilanza dell’INPS, molte lavoratrici risultano formalmente assunte con contratti a tempo determinato che registrano meno di 50 giornate lavorative annue, nonostante l’effettivo impiego sia ben superiore. Questo escamotage le esclude dall’accesso a misure di welfare fondamentali come sussidi di disoccupazione e maternità. La mancanza di reti familiari e sociali di supporto rende la loro condizione ancora più vulnerabile. Le difficili condizioni lavorative si intrecciano spesso con situazioni abitative precarie: sovraffollamento, isolamento, e dipendenza dal datore di lavoro – soprattutto nei casi in cui l’alloggio è fornito da quest’ultimo – creano un contesto favorevole ad abusi e violenze. In molti casi, il bisogno di ottenere o rinnovare un permesso di soggiorno vincolato al contratto di lavoro obbliga le donne a sopportare condizioni inaccettabili.  Allargando lo sguardo, anche il lavoro domestico e di cura è fortemente femminilizzato e rappresenta il settore con il più alto tasso di irregolarità. Le cause sono molteplici: difficoltà nei controlli, mancanza di servizi pubblici di assistenza, svalorizzazione del lavoro di cura, paura di denunciare per timore di perdere lavoro o permesso di soggiorno. Spesso i contratti sono informali e poco chiari, negoziati caso per caso, senza tutele né prospettive. Situazioni di particolare vulnerabilità si verificano nei casi di co-residenza con il datore di lavoro, sfociando in alcuni casi in vere e proprie situazioni di servitù domestica. In entrambi i settori, agricolo e domestico, le donne migranti vivono un intreccio di discriminazioni legate al genere, alla nazionalità, allo status socio-economico e giuridico, che le espone a esclusione sociale e a frequenti violazioni dei diritti umani. Come sottolinea la ricercatrice Letizia Palumbo dell’Università di Venezia, questo multiplo livello di sfruttamento non può essere ridotto a fatto episodico ma va analizzato nella “natura sistemica che lo caratterizza, in un quadro socio-economico segnato da profonde disuguaglianze, dalla perdurante eredità patriarcale e da politiche migratorie sempre più restrittive e selettive 1”. La “vulnerabilità” delle lavoratrici migranti, è quindi determinata dall’intreccio di fattori personali, sociali, economici e culturali, in un contesto segnato da discriminazioni e disuguaglianze strutturali che si traduce nella mancanza di una reale possibilità di scelte alternative. Il termine vulnerabilità negli ultimi anni si è diffuso nel linguaggio politico e giuridico, spesso usato per indicare categorie di soggetti considerati ontologicamente vulnerabili, come donne, minori e disabili. Tuttavia, la vulnerabilità in questo ambito è solo e unicamente il risultato di fattori sociali che riducono o annullano la capacità di una persona di prevenire e/o reagire a un rischio, e dunque di sottrarsi a un vulnus, a un’offesa. È sempre legata alla posizione sociale e ai rapporti di potere. Nell’esperienza femminile, è proprio per la loro posizione subordinata nei rapporti di potere che le donne sono vulnerabili rispetto a molteplici rischi e violazioni dei loro diritti. PATRIARCATO E RETI DI RESISTENZA INTERNA La percezione, da parte delle donne migranti, di non avere altra scelta che sottomettersi allo sfruttamento lavorativo deve essere letta alla luce delle gerarchie patriarcali che regolano i rapporti sociali. In molti casi, le lavoratrici domestiche hanno lasciato il proprio paese per sostenere economicamente la famiglia d’origine: figli, genitori e, spesso, anche il marito. Questa centralità nel sostentamento familiare si traduce in una pressione psicologica fortissima, che spinge molte donne ad accettare condizioni di lavoro e di vita profondamente ingiuste pur di non interrompere il flusso di reddito verso casa 2. Nel lavoro agricolo, la situazione assume tratti differenti, ma altrettanto complessi: qui, molte donne scelgono questo impiego perché è l’unico che consente loro di vivere con i figli, seppur in condizioni abitative e sanitarie spesso drammatiche. Il bisogno di conciliare lavoro e maternità si scontra con un sistema che non prevede tutele, né alternative. L’aspetto più critico, come già evidenziato, è il doppio livello di sfruttamento a cui molte donne sono sottoposte: a quello lavorativo si aggiunge frequentemente l’abuso sessuale. Questa dinamica, lungi dall’essere eccezionale, è talmente diffusa da essere percepita come parte “normale” dell’esperienza migratoria e lavorativa femminile. Non sorprende, dunque, che alcune donne abbiano iniziato a organizzarsi per proteggere le più giovani, consapevoli che senza forme di tutela esse sarebbero esposte a violenze tali da compromettere perfino la loro “reputazione” e, con essa, le possibilità future di matrimonio. Nel libro “Amara Terra”, Amina, una lavoratrice di origine marocchina, racconta come molte donne siano pienamente consapevoli del rischio di essere ricattate o abusate sessualmente una volta giunte nei campi della Calabria. La raccolta delle cipolle, ad esempio, viene spesso associata all’idea di “disponibilità sessuale” da parte dei caporali, il che può compromettere in modo permanente la posizione sociale e matrimoniale delle giovani donne. Proprio per questo, le lavoratrici marocchine hanno elaborato strategie di mutuo supporto: organizzano le partenze in modo da tutelare le più vulnerabili, proteggendole da esperienze che le marchierebbero socialmente. Questo tipo di resistenza interna mostra come lo sfruttamento sia talmente sistemico da indurre le donne a ideare autonomamente pratiche di autodifesa collettiva. IL CASO DEL RAGUSANO Un esempio particolarmente emblematico di questa complessa rete di sfruttamento è rappresentato dalle lavoratrici rumene impiegate nelle serre della provincia di Ragusa. A partire dalla fine degli anni Sessanta, la produzione agricola della zona si è trasformata da stagionale a permanente, grazie all’introduzione estensiva delle coltivazioni in serra. Questa transizione ha portato con sé un progressivo reclutamento di manodopera migrante stanziale, spesso femminile. Nel tempo, si è così sviluppato un modello organizzativo sistemico in cui le aziende agricole non solo gestiscono il lavoro, ma anche l’alloggio delle lavoratrici e delle loro famiglie. Gli spazi abitativi forniti sono però, nella maggior parte dei casi, insediamenti informali ricavati da vecchi magazzini, garage o capannoni situati direttamente all’interno delle proprietà agricole. Isolati, lontani dai centri abitati e privi di servizi essenziali, questi luoghi diventano un terreno invisibile di subordinazione, che alimenta dinamiche di controllo, dipendenza e dominio – vere e proprie forme di neocolonialismo radicate nel territorio. Un tema centrale è rappresentato dalle  condizioni abitative delle lavoratrici e dei lavoratori migranti nel settore agro-alimentare:  tra ottobre 2021 e gennaio 2022, è stata condotta la prima indagine nazionale “InCas” sulle condizioni di vita dei migranti impiegati nel settore agro-alimentare, con particolare attenzione alla mappatura degli insediamenti informali 3. L’inchiesta ha coinvolto 3.851 Comuni italiani – pari al 48,7% del totale – e ha restituito un quadro allarmante dello sfruttamento lungo tutta la filiera agricola nazionale. Non si è trattato solo di un’analisi delle condizioni lavorative, ma anche di un’esplorazione approfondita dei contesti territoriali che, attivamente o per omissione, contribuiscono a mantenere e riprodurre situazioni di marginalizzazione e dominio, in una logica che richiama dinamiche neocoloniali. Le principali nazionalità che subiscono tali condizioni sono: rumena, marocchina, indiana, albanese, senegalese, pakistana e nigeriana. Secondo i dati raccolti, sono 38 i Comuni in cui è stata rilevata la presenza di migranti che vivono in insediamenti informali o spontanei: strutture non autorizzate, spesso definite “ghetti”, come nel caso emblematico di Borgo Mezzanone (Manfredonia) o del Ghetto di Rignano (San Severo). In totale, questi insediamenti accolgono oltre 10.000 persone, in condizioni di vita estremamente precarie. La gravità della situazione emerge con particolare evidenza dalla quasi totale assenza di servizi essenziali. In ben 32 insediamenti informali – pari al 34% del totale mappato – mancano completamente acqua potabile, energia elettrica, strade asfaltate e trasporti pubblici. Anche dove questi servizi sono presenti, si tratta comunque di una minoranza di casi: meno della metà degli insediamenti dispone di almeno uno dei servizi primari. Ancora più drammatica è la situazione sul piano socio-sanitario e lavorativo. L’assistenza socio-sanitaria, pur essendo il servizio più diffuso, è garantita solo nel 13,8% dei casi, mentre strumenti fondamentali come la formazione professionale, l’orientamento al lavoro e la rappresentanza sindacale sono pressoché assenti. Si tratta di un isolamento strutturale, che esclude un segmento di società non solo da tutele fondamentali, ma lo ostacola nel processo di emancipazione dallo sfruttamento. Particolarmente preoccupante è la presenza di nuclei familiari con minori: oltre un insediamento su cinque ospita bambini, e circa il 30% degli abitanti degli insediamenti informali è costituito da rifugiati o richiedenti asilo. In assenza di servizi educativi, sanitari e di sicurezza, si configura un quadro di esclusione permanente che compromette tanto il presente quanto il futuro di intere famiglie. La mancanza di illuminazione pubblica e di servizi igienici accentua la vulnerabilità, soprattutto per le donne, esponendole a rischi quotidiani di violenza e rendendo estremamente difficile cercare aiuto o denunciare abusi. In un contesto già segnato dallo sfruttamento lavorativo, la precarietà abitativa e l’assenza di diritti basilari diventano ostacoli strutturali all’emancipazione individuale e collettiva. L’indagine InCas restituisce così l’immagine di un sistema agricolo che non si limita a sfruttare il lavoro delle persone migranti, ma ne gestisce attivamente la segregazione e la marginalizzazione, negando loro l’accesso a qualsiasi forma di cittadinanza attiva. La mancanza di prospettive non è un effetto collaterale, ma il prodotto diretto di un modello economico e politico che alimenta, attraverso l’abbandono istituzionale, una forza lavoro sottomessa, silenziosa e ricattabile. COME STIMARE GLI ABUSI NEGLI INSEDIAMENTI INFORMALI? Stimare con precisione la diffusione degli abusi e dello sfruttamento nelle campagne italiane è estremamente complesso. La maggior parte delle lavoratrici non denuncia per paura di ritorsioni, perdita del lavoro o del permesso di soggiorno. Tuttavia, alcuni indicatori indiretti possono offrire uno spaccato della violenza sommersa. Uno di questi è il numero delle interruzioni volontarie di gravidanza tra le donne migranti. Secondo i dati ISTAT relativi al triennio 2016–2018, in Puglia e in particolare nella provincia di Foggia, dove si concentrano i principali insediamenti informali, è stato registrato il numero più alto di aborti volontari tra donne rumene. Nel solo 2017, 119 su 324 interruzioni sono state eseguite a Foggia. Questi numeri non possono essere letti semplicemente come dati sanitari: sono segnali allarmanti di contesti lavorativi segnati da abusi e controllo sul corpo delle donne. A testimoniare questa realtà è la storia di T., una lavoratrice rumena che per nove anni ha subito un doppio sfruttamento, sessuale e lavorativo, da parte del suo datore di lavoro. Ogni estate, racconta Alessandra Sciurba nell’articolo “Libere di scegliere? L’aborto delle donne migranti in Italia, tra politiche migratorie, sfruttamento lavorativo e casi estremi di abusi e violenza“, T. tornava in Romania per sottoporsi ad aborto, spesso in modo clandestino e rischioso, utilizzando anche metodi estremi come l’acqua bollente. La sua vicenda non è un’eccezione, ma la manifestazione di un sistema che agisce nel silenzio. La prostituzione nei ghetti agricoli rappresenta un’altra espressione brutale dello sfruttamento. In diverse aree del sud Italia, in particolare in Puglia e Campania, molte donne – in particolare nigeriane – vengono avviate alla prostituzione già nei centri di accoglienza, per poi essere trasferite nei campi. La componente di genere aggiunge quindi un livello specifico e sistemico di violenza: non solo forza lavoro sfruttata, ma corpi su cui esercitare controllo e dominio sessuale.  Tra Foggia e Manfredonia, nel 2019, la testimonianza di un operatore umanitario al quotidiano Avvenire: “Qua c’è prostituzione in baracca, 10 euro a prestazione, e anche per strada, 30-40 euro. Vengono tanti italiani di notte per ‘consumare’. Anche ragazzi. Perfino per feste di laurea e compleanni. Altri italiani, sfruttatori legati a gruppi criminali, vengono e le portano via, per farle prostituire. Le ragazze comunque qui stanno poco, ci sono partenze per gli altri ghetti, anche fuori regione, e nuovi arrivi”. Insediamento informale a Rosarno (RC) – Ph: Intersos Molte lavoratrici vivono, anche con i loro bambini, in abitazioni informali. In questo scenario di totale dipendenza dal datore di lavoro, di invisibilità e isolamento, aggravati dalla carenza dei servizi, lo sfruttamento è spesso caratterizzato da ricatti e abusi sessuali. Spesso bambini e ragazzi assistono a queste dinamiche o diventano essi stessi strumenti di ricatto.  È il caso di Luana, una donna rumena che viveva e lavorava in una serra con i suoi due figli. Il datore di lavoro li accompagnava a scuola, ma in cambio la donna doveva cedere alle sue richieste sessuali per mantenere lavoro e alloggio, raccontano sempre Letizia Palumbo e Alessandra Sciurba in un articolo su Melting Pot, purtroppo ancora attuale. Quando l’uomo temette che i bambini potessero denunciare, smise di portarli a scuola. Luana rifiutò di continuare a subire abusi, ma il datore la minacciò di togliere ai bambini l’accesso all’acqua potabile. Solo allora, con l’aiuto del centro anti-tratta di Ragusa, Luana fuggì con i figli. Tuttavia, dopo qualche mese e senza alternative concrete, abbandonò il centro e tornò a lavorare in un’altra azienda agricola, probabilmente ancora in condizioni di sfruttamento. PERCHÉ LA DENUNCIA “TARDA” AD ARRIVARE? OSSERVAZIONI CONCLUSIVE E PROSPETTIVE FUTURE Quando vengono individuate situazioni di super-sfruttamento, ciò che le lavoratrici chiedono prima di tutto è un’alternativa lavorativa concreta. Troppo spesso, però, gli interventi repressivi si limitano all’avvio di procedimenti penali contro gli autori, senza prevedere supporti per aiutare le vittime a ricostruire un percorso di vita e migratorio, aumentando così la loro vulnerabilità. È quindi necessario orientare il processo penale verso una giustizia “utile” alle vittime, istituendo un sistema di presa in carico reale, che le indirizzi verso percorsi di protezione e assistenza adeguati. Tra i progetti si segnala “Navigare”, una rete nazionale antitratta che sostiene le vittime di sfruttamento, soprattutto nei settori agricolo e domestico. Attraverso sportelli mobili, assistenza legale e percorsi di inserimento socio-lavorativo, aiuta le donne migranti a uscire dalla vulnerabilità e a ricostruire la propria autonomia. Conoscenza dei fenomeni, esperienza e competenza nel settore sono fondamentali per ottenere dei risultati: la Cooperativa Sociale Dedalus, con sede a Napoli, capofila del progetto “Fuori Tratta” in Campania, rappresenta un modello esemplare di accoglienza nel supporto alle vittime di tratta e sfruttamento, sia lavorativo che sessuale. Attraverso unità mobili di strada, sportelli di primo contatto e centri d’ascolto, Dedalus ha raggiunto oltre 12.000 contatti, supportando quasi 800 persone con percorsi individualizzati di orientamento al lavoro, assistenza legale, sostegno psicologico, corsi di lingua e autonomia abitativa. Un intervento integrato, incluse attività di formazione per operatori e campagne di sensibilizzazione territoriali. Come già precedentemente affermato, lo sfruttamento delle donne migranti non è un’emergenza episodica, ma il risultato del razzismo istituzionale, di disuguaglianze strutturali, leggi restrittive e assenza di tutele. Per cambiare questo sistema serve un impegno concreto: politiche inclusive con fondi e progettualità, un aumento generale all’accesso ai diritti e sostegno a progetti virtuosi che offrano alternative concrete alla vulnerabilità e all’invisibilità. 1. Sfruttamento lavorativo e vulnerabilità in un’ottica di genere. Le condizioni di vita e di lavoro delle lavoratrici migranti nelle serre del Ragusano. Letizia Palumbo, Università Ca’ Foscari di Venezia  ↩︎ 2. Le donne migranti in agricoltura: sfruttamento, vulnerabilità, dignità e autonomia. Maria Grazia Giammarinaro e Letizia Palumbo ↩︎ 3. Tabelle e grafici sono ripresi dal rapporto ↩︎
Bari, fuoco e repressione nel CPR: la protesta che nessuno vuole vedere
In Puglia sono attualmente attivi due Centri di Permanenza per il Rimpatrio: uno a Bari-Palese, l’altro a Restinco, frazione di Brindisi 1. Entrambe le strutture si trovano in aree periferiche, militarizzate e difficilmente accessibili da osservatori esterni. Quello di Bari 2 è attivo come CPR dal 2017; ad oggi, vi sono state trattenute circa 750 persone. Ed è proprio in questo centro che, nella notte tra il 22 e il 23 luglio, è esplosa una nuova protesta. Le persone recluse hanno appiccato incendi all’interno dei moduli detentivi, incendiando materassi e suppellettili. Alcuni si sono rifugiati sui tetti per sfuggire al fumo, lanciando slogan come “libertà” e “tutti liberi”. Le rivolte sono l’esito di condizioni di detenzione estreme: caldo insopportabile, scarsa igiene, cibo avariato, deterioramento della salute fisica e mentale. Gli attivisti della rete Mai più lager – No ai CPR documentano un clima di disperazione, con episodi di autolesionismo e tentativi di fuga, in un contesto in cui l’unico orizzonte possibile resta la detenzione stessa. Secondo quanto riferito dai collettivi locali – che denunciano le «condizioni disumane» del centro e si sono recati subito sul posto documentando con foto e video gli incendi – una delle persone trattenute ha riportato fratture agli arti durante un tentativo di fuga, restando intrappolata per ore senza ricevere soccorsi. La Prefettura ha dichiarato che l’assistenza medica è avvenuta tempestivamente, ma la discrepanza tra le dichiarazioni ufficiali e le testimonianze raccolte all’interno alimenta il sospetto che il sistema operi in una condizione di opacità. L’intervento delle forze dell’ordine per sedare le proteste è stato descritto come violento da attivisti e testimoni diretti, con punizioni collettive e isolamento forzato. PROTESTA DI INIZIO LUGLIO E PROCESSO LAMPO Anche all’inizio di luglio erano state denunciate proteste da parte dei detenuti. La segnalazione era stata lanciata dalla comunità Intifada Studentesca, che ha riferito di «tantissime persone salite sui tetti in segno di rivolta» durante il primo fine settimana del mese, per chiedere di parlare con la direttrice della struttura. Un episodio specifico, avvenuto nei primi giorni di luglio, ha visto tre persone recluse – tutti incensurate – protagoniste di una protesta interna più contenuta, che è però sfociata in arresti in flagranza. Nel processo per direttissima, davanti al giudice Mario Matromatteo, hanno spiegato di aver agito dopo settimane di condizioni igienico-sanitarie degradanti e totale mancanza di ascolto da parte delle autorità. Dopo tentativi pacifici, come lo sciopero della fame, hanno deciso di protestare in modo più eclatante. «Portateci in carcere, ma non di nuovo in quell’inferno», è una delle frasi che hanno detto. 3 Assistiti dalle avvocate Loredana Liso e Uliana Gazidede, i tre hanno patteggiato sei mesi di reclusione con pena sospesa (dequalificati da “organizzatori” a semplici partecipanti), mentre il giudice ha disposto il trasferimento degli atti e del verbale dell’udienza alla Procura, affinché siano verificate le condizioni del centro e accertate eventuali responsabilità legate alla sua cattiva gestione. ATTI DI AUTOLESIONISMO Il 1° maggio 2025 un giovane trattenuto all’interno del centro, dopo una settimana di sciopero della fame, è stato portato all’ospedale San Paolo di Bari in seguito all’ingestione di shampoo. Accanto alla denuncia dell’evento, sono emerse testimonianze su atti di autolesionismo compiuti da un secondo “ospite” del centro e sul tentato suicidio di un terzo. L’assemblea No CPR Puglia ha inoltre segnalato l’abuso di psicofarmaci, l’uso sistematico di isolamento dei detenuti, l’erogazione di pasti deteriorati e una scarsa assistenza medica. STRETTA DEL GOVERNO SULLE VISITE ISPETTIVE NEI CPR Non sarà semplice, ora, poter appurare i fatti e verificare le condizioni dei detenuti: il diritto di ispezione sulle strutture è stato progressivamente compromesso. Una circolare del Ministero dell’Interno, datata 18 aprile 2025, ha introdotto nuove restrizioni formali all’accesso di parlamentari, consiglieri regionali ed eurodeputati nei CPR. Le visite “ispettive” sono state ridimensionate – nella pratica, ostacolate – imponendo che gli accompagnatori siano “soggetti funzionalmente incardinati”, una condizione non prevista dalla normativa primaria, che di fatto limita l’accesso indipendente a queste strutture di detenzione amministrativa. Approfondimenti/Circolari del Ministero dell'Interno/CPR, Hotspot, CPA CPR: VIETATO ENTRARE Il Ministero dell’Interno limita e depotenzia le visite ispettive ai Centri di Permanenza per i Rimpatri Avv. Arturo Raffaele Covella 18 Luglio 2025 Intanto in provincia di Gorizia, al CPR di Gradisca d’Isonzo, attivisti della rete No CPR e trattenuti denunciano da settimane la diffusione di un’epidemia di scabbia tra i reclusi, in un contesto di sovraffollamento, scarsa igiene e cibo di bassa qualità. Le tensioni, legate anche alla diffusione della malattia, hanno generato proteste ripetute. Non c’è più tempo da perdere. I CPR vanno chiusi. 1. Alla fine del 2024, la capienza effettiva della struttura era tornata a 48 posti. Fonte Action Aid. ↩︎ 2. La scheda di questo CPR su Action Aid ↩︎ 3. Bari, protesta dei migranti nel Cpr di Palese: atti ai Pm sulle condizioni del centro, La Gazzetta del Mezzogiorno (10 luglio 2025) ↩︎
«Chiudere il Cpr di Ponte Galeria»: le associazioni aderiscono all’Azione popolare
A Buon Diritto, ActionAid, Antigone Lazio, Arci, ASGI, Baobab Experience, Casa dei Diritti Sociali, CGIL Roma e Lazio, CILD, Cittadinanzattiva, Medici Senza Frontiere, Nonna Roma, Oxfam Italia, Progetto Diritti, Psichiatria Democratica, SIMM – Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, Spazi Circolari annunciano la loro adesione all’Azione popolare per la chiusura immediata del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, a Roma. La recente sentenza n. 96/2025 della Corte costituzionale ha ribadito ciò che il mondo del diritto e della società civile denunciano da anni: i Cpr rappresentano una grave violazione dello Stato di diritto e dei principi costituzionali. A Ponte Galeria, l’unico Cpr in Italia che trattiene anche donne, si assiste quotidianamente a situazioni di abbandono terapeutico, sofferenza psicologica e lesione della dignità umana. Abbiamo deciso di intervenire in questa specifica battaglia per la chiusura del Cpr di Ponte Galeria perché in questo “buco nero”, oltre al catalogo degli orrori che riguarda tutti i centri, si evidenzia una carenza ancor più grave: la presenza di donne trattenute e il conclamato abbandono terapeutico delle persone con vulnerabilità psicologica», scrivono le associazioni. Abbiamo scelto di aderire formalmente all’Azione popolare promossa da un gruppo di personalità romane del mondo accademico, in sostituzione del Sindaco di Roma, poiché riteniamo che la chiusura del Cpr non sia solo una battaglia giuridica, ma un’urgenza politica e civile. La detenzione amministrativa in strutture opache, fuori dal controllo dell’autorità giudiziaria e chiuse al monitoraggio della società civile, è inaccettabile in un paese che dice di fondarsi sul rispetto dei diritti umani. Il Cpr di Ponte Galeria è una ferita aperta nel cuore della nostra città. Non è più tollerabile che esista uno spazio dove si calpestano quotidianamente i diritti fondamentali, senza alcuna garanzia giuridica, senza condizioni igienico-sanitarie adeguate, senza una sufficiente assistenza medica, dove non è rispettata la dignità delle persone. Come organizzazioni e associazioni impegnate nella tutela dei diritti, non accettiamo che a Roma esista un luogo di questo tipo, in totale contrasto con i principi costituzionali e dello Statuto di Roma Capitale. L’Azione popolare, la cui prima udienza è fissata per il 16 ottobre 2025, rappresenta un’opportunità importante per riportare al centro del dibattito pubblico il tema dell’illegittimità dei Cpr e dell’abbandono istituzionale delle persone con vulnerabilità psicologica, nonché per porre un argine al razzismo istituzionale e alla discriminazione nei confronti di persone con background migratorio. Pertanto invitiamo tutte le cittadine e i cittadini di Roma, le organizzazioni, le reti sociali e culturali a sostenere l’iniziativa, formalmente o pubblicamente. La chiusura del Cpr di Ponte Galeria è un atto dovuto. È tempo di restituire giustizia e umanità a una città che vuole dirsi aperta e accogliente. * E’ possibile aderire all’Azione popolare o ricevere informazioni sulle modalità di sottoscrizione:  attivadiritti@gmail.com Comunicati stampa e appelli/CPR, Hotspot, CPA IL MONDO ACCADEMICO PROMUOVE UN’AZIONE POPOLARE PER LA CHIUSURA DEL CPR DI ROMA PONTE GALERIA Inviata un’istanza al Sindaco di Roma affinché ne chieda la chiusura immediata 20 Settembre 2024
Controfuoco. Per una critica all’ordine delle cose (N° 2, giugno 2025)
> con·tro·fuò·co/ > Incendio, appiccato volontariamente, > per eliminare il materiale > combustibile e quindi contrastare > l’avanzata di un incendio di grandi > proporzioni, spec. nei boschi. ARCHITETTURE DEL CONFINAMENTO: IL TRATTENIMENTO COME INFRASTRUTTURA L’editoriale di Francesco Ferri e Omid Firouzi Tabar Sono passati oramai dieci anni dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” e appare sempre più chiaro come il regime complessivo di regolamentazione, filtraggio e selezione della mobilità delle persone migranti sia vivendo una preoccupante virata autoritaria e repressiva, una recrudescenza che vede nella privazione della libertà un fattore sempre più diffuso, strutturale e normalizzato. Questa “sicuritarizzazione” dell’apparato sicuritario-umanitario, che vediamo da alcuni anni intrecciare e ibridare dinamiche di controllo e segregazione con quelle dell’assistenzialismo compassionevole e infantilizzante, si sta progressivamente infiltrando gran parte dei contesti legati alle migrazioni. Lo vediamo nelle narrazioni mediatiche sempre più stigmatizzanti, nel piano normativo che restringe progressivamente diritti e garanzie e nelle prassi istituzionali sempre più segnate da dinamiche di abbandono socio-economico e dalla moltiplicazione degli ostacoli amministrativi e burocratici. Stiamo assistendo in primo luogo a un vero e proprio attacco frontale al diritto di asilo per come lo abbiamo conosciuto, che si materializza attraverso la progressiva centralità di concetti come “paesi sicuro” e alle conseguenti procedure “accelerate” o di “frontiera”. In questo senso la richiesta di protezione internazionale non è più soltanto preludio a una vera e propria trappola sociale, ma è sempre più un’opzione che viene semplicemente negata, soprattutto per sottrarre le persone al pacchetto di diritti che tutt’ora implicherebbe. In tale direzione vanno legislazioni nazionali e il nuovo Patto europeo su migrazioni e asilo, punto di svolta decisivo delle politiche migratorie continentali. A questa erosione del diritto di asilo si accompagna una sorta di “Hotspotizzazione” della regolamentazione delle persone anche oltre alle fasi successive all’approdo. Al netto della resistenza, talvolta anche ostinata, di alcuni tribunali, la prospettiva politica sembra essere quella di dare una progressiva centralità (non soltanto simbolica) a strutture classicamente detentive come i Cpr, ma anche a strutture ibride di trattenimento come i centri albanesi (e altri che fioriranno sul perimetro europeo per le “procedure di frontiera”), e quelli di Pozzallo e Porto Empedocle adibiti per le “procedure veloci”. In parallelo, la costante minaccia di “deportabilità” in questi luoghi, ben agevolata dalla diffusione di misure di militarizzazione urbana come le “Zone Rosse”, diventa ingrediente ricattatorio di estrema violenza. Senza scordarci, per completare questo cupo quadro, di una certa intensificazione della criminalizzazione delle pratiche solidali, soprattutto in mare, e di quella, statisticamente preoccupante, dello smuggling e dei cosiddetti “capitani”, che sta allargando la stretta penale su un numero sempre più vasto di migranti. Tutto ciò non sembra proiettarsi nella direzione di un rafforzamento di forme di mera esclusione ed estromissione delle persone dalla cosiddetta “Fortezza Europa”, concetto che ci appare oggi anche poco funzionale, talvolta del tutto fuorviante, per leggere in profondità i processi in corso e le razionalità che li sottendono. In campo sembra invece persistere un’economia politica del modello confinario imperniata su dinamiche di selettività e di violenta (im)mobilizzazione, orientate a garantire nuove linee di inclusione subalterna e di produzione di soggettività, più che a materializzare una rigida (e improduttiva) impermeabilizzazione del perimetro europeo. Più che alla tensione tra rigide linee che separano estromissione da e inclusione nello spazio europeo, dobbiamo in sintesi sforzarci a cogliere tensioni e conflittualità sempre più molecolari e interstiziali tra espressione di mobilità indisciplinata e tentativo di produzione di soggettività esposte a forme sempre più intensive di sfruttamento lavorativo e di stigmatizzazione utile a nutrire le retoriche sicuritarie. Questi nuovi sviluppi si materializzano dentro una congiuntura di guerra che, oltre alle uccisioni, ai massacri, ai genocidi e alle devastazioni che produce nelle zone di conflitto dove è materialmente in atto, si espande in quanto regime complessivo di produzione di linee di comando, ispirando drammaticamente molte politiche europee tra cui quelle che riguardano migrazioni e confini. In questo scenario bellico la costruzione dei blocchi e delle polarizzazioni, strutturati intorno a un ritorno di costruzioni identitarie come popolo, stato e nazione, produce inevitabili e considerevoli ripercussioni nei regimi di  “bordering” e di “othering”, ponendosi come frame perfettamente coerente con la stretta sicuritaria vissuta in questa fase storica in molti territori europei. Scendendo su un piano più concreto, l’analisi del “modello Albania” fornisce indicazioni utili per cogliere le tendenze che attraversano il regime confinario. Il funzionamento del centro di Gjader ha evidentemente caratteristiche peculiari ma non è, dal punto di vista della logica che lo informa, un’eccezione. Questo progetto, infatti, rende visibile e leggibile una delle traiettorie più rilevanti del governo della mobilità: l’estensione selettiva del trattenimento come pratica ordinaria. In Italia, la detenzione amministrativa si presenta come diffusa ma non generalizzata: uno scarto importante, da cogliere per darne preciso rilievo politico. Infatti, la gran parte delle persone rimpatriate non passa dai Cpr. Ma questo dato non ridimensiona il ruolo politico di quei centri. Al contrario, lo chiarisce: i Cpr non funzionano per volumi, ma per effetto. Producono una pedagogia della minaccia, inscrivono nella vita migrante una moltiforme precarietà costitutiva, alimentano una condizione permanente di esponibilità alla violenza e al rimpatrio. Il modello Albania riproduce questa stessa logica: poche persone effettivamente trattenute bastano a produrre un salto, simbolico e materiale, nell’architettura del confinamento. È per questo che l’analisi non può fermarsi ai numeri. Serve uno sguardo qualitativo e politico sulla detenzione, che è poi quello che questo numero di Controfuoco tenta di portare. Le molteplici forme del trattenimento non vanno valutate unicamente sulla base della capienza o del tasso di rimpatri che producono, ma interrogati come dispositivi: macchine selettive di produzione della soggettività e della forza-lavoro migrante. Le loro funzioni travalicano i corpi che rinchiudono. La violenza concreta che esercitano non va dunque ridimensionata, ma compresa nella sua estensione. La lista dei diritti violati – libertà personale, difesa, salute, unità familiare – è solo la soglia di un impatto più ampio: una violenza sistemica, che agisce al di là delle griglie giuridiche. È una violenza strutturale, fatta di trattamento differenziale, segregazione materiale e simbolica, disciplinamento sociale. Il trattenimento va allora letto come infrastruttura, non come eccezione. Non è una parentesi nella vita migrante, ma una condizione che incide sui tempi, gli spazi, le possibilità di movimento e di relazione. La deportabilità – più che la deportazione effettiva – è oggi la condizione generalizzata che definisce la collocazione sociale di ampi settori di soggettività migrante. Il rischio permanente della detenzione orienta le traiettorie, comprime le aspettative, spezza le reti, contribuisce alla collocazione nel mercato del lavoro, nei modelli dell’abitare. È in questo scenario che si colloca il presente numero di Controfuoco, dedicato alle molteplici forme del trattenimento. Le attraversa, le connette, le storicizza. Non per restituirne un’immagine unitaria, ma per mapparne le articolazioni, le ricadute, le resistenze. Il trattenimento non è ai margini: è un asse portante delle politiche migratorie. È dentro la società, ne riflette le gerarchie, ne rafforza i confini. L’ambizione di questo numero è chiara: contribuire, con strumenti agili e accessibili, alla politicizzazione del dibattito sul trattenimento. Passando in rassegna i vari contributi, Chiara Denaro presenta delle riflessioni che riguardano i nuovi piani di sperimentazione della detenzione migrante. Si parla dei centri di Pozzallo e Porto Empedocle, pensati per trattenere migranti giunti dai “paesi sicuri”, mentre viene esaminata la loro richiesta di protezione internazionale. L’autrice si sofferma in particolare sulla privazione della libertà vista come ingrediente sempre più diffuso del controllo delle migrazioni e sul ruolo svolto dai giudici e dal diritto in questo campo di tensioni. Francesco Ferri presenta una riflessione critica rispetto a un tema che ha avuto recentemente molta amplificazione mediatica, quello dei centri di detenzione in Albania. Ferri si sofferma nello specifico sulla funzione latente di questi luoghi, interpretati come strumenti punitivi che incarnano, anche in prospettiva delle nuove politiche europee, uno specifico modello di controllo della mobilità indisciplinata. In particolare emerge l’idea che tali luoghi rappresentino un confine interno esternalizzato, dove la dislocazione della detenzione pone, tra i vari, seri problemi dal punto di vista del controllo giurisdizionale e della tutela legale. Il tema della detenzione amministrativa è stato approfondito da Rocco Sapienza, in relazione alla struttura collocata a Palazzo San Gervasio, in Provincia di Potenza. Le riflessioni intorno a questo Cpr si soffermano non soltanto sulla violenza istituzionale agita con le forme del trattenimento all’interno di questo luogo, ma si sviluppano anche in riferimento alla sua collocazione nel territorio e in particolar modo nelle reti e infrastrutture dello sfruttamento lavorativo. La progressiva recrudescenza delle politiche di controllo delle migrazioni e la crescente centralità di strumenti necropolitici e repressivi è la cornice di riferimento del contributo di Francesca Esposito. L’autrice, focalizzandosi sul tema della detenzione amministrativa in Italia e in Europa, propone una riflessione critica di orientamento transfemminista e abolizionista indicando la necessità di guardare alle molteplici interconnessioni tra la violenza confinaria e violenza di genere, con particolare riferimento allo sguardo portato nel dibattito attuale dal femminismo anticarcerario. Anche il contributo di Luca Ceraolo affronta il tema della detenzione delle persone migranti all’interno del Cpr. Tenendo la salute mentale come cornice generale di riferimento, in questo contributo viene messa a fuoco la relazione tra diversi campi del sapere – con particolare attenzione a quello medico – nelle pratiche detentive e la materializzazione di un “continuum coloniale” nei processi di stigmatizzazione che riguardano le soggettività migranti. Luca Daminelli e Andrea Contenta si focalizzano sulla Grecia e sul borderscape rappresentato da quella particolare porta d’ingresso verso l’Europa, segnata fortemente dagli accordi con la Turchia che continuano ad avere molteplici conseguenze. In questo contributo l’attenzione è rivolta ai dispositivi di privazione della libertà, che fungono in modo sempre più diffuso e normalizzato come strategie di regolamentazione, esclusione ed inclusione subalterna dei migranti irregolarizzati, ma anche dei richiedenti asilo. Infine troviamo le riflessioni presentate da Giovanni Marenda, che volge lo sguardo verso la Bulgaria, di nuovo imperniate sull’analisi della centralità assunta dalla pratica della detenzione nel governo delle migrazioni indisciplinate. Secondo l’autore le prassi osservabili in quel territorio, segnate da diffusi soprusi e violenze discrezionali degli attori istituzionali, possono essere interpretate come una sorta di anticipazione del recente Patto europeo sulle migrazioni che tende ad incorporarle, legalizzandole. Quest’ultimo infatti viene immaginato non tanto come cambio di paradigma, ma come normalizzazione di un sistema che prevede lo strapotere di polizia e la generalizzazione della detenzione come fulcri operativi. CONTROFUOCO N° 2 GIUGNO 2025 SOMMARIO I nuovi centri di detenzione per i richiedenti asilo. Genealogia di un fallimento governativo Chiara Denaro Da dove viene la singolare pretesa di trasportare i migranti in Albania per aumentare i rimpatri? Francesco Ferri Geografia del controllo: note da Palazzo San Gervasio Rocco Sapienza Per una critica transfemminista abolizionista della detenzione amministrativa in Italia Francesca Esposito Politiche della diagnosi e continuum della colonia. Riflessioni sulla salute nella detenzione amministrativa Luca Ceraolo La Grecia scudo d’Europa. Di razzismo istituzionale, condizioni di vita inumane e politiche di morte Andrea Contenta e Luca Daminelli Reclusi alla periferia d’Europa. Uno sguardo sulla detenzione dei migranti in Bulgaria Giovanni Marenda Clicca sull’immagine di copertina per scaricare gratuitamente la rivista o qui sotto Download in pdf Acquista una copia cartacea Fotografie: Silvia Di Meo, Rami Sole, Luca Greco, Marios Lolos, Francesco Cibati, Rocco Sapienza, Stop CPR Roma e Mel Progetto grafico: Giacomo Bertorelle Gruppo redazionale: Jacopo Anderlini, Emilio Caja, Francesco Della Puppa, Francesco Ferri, Enrico Gargiulo, Barbara Barbieri, Stefano Bleggi, Giovanni Marenda, Omid Firouzi Tabar, Martina Lo Cascio La foto di copertina è stata scattata durante la mobilitazione del Network Against Migrant Detention in Albania l’1 e 2 dicembre 2024. NAMD è una rete di attivist* transnazionale che chiede l’abolizione della detenzione amministrativa. Cooperativa editrice Tele Radio City s.c.s., Vicolo Pontecorvo, 1/A – 35121 Padova, Italy, Iscr. Albo Soc. Coop. n. A121522 Melting Pot è una testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Padova in data 15/06/2015 n. 2359 del Registro Stampa. Controfuoco è un processo aperto e collettivo che vuole coinvolgere saperi e conoscenze composite e crescere a partire dalle diverse esperienze e biografie che intreccerà. Per contribuire scrivi a collaborazioni@meltingpot.org.