Tag - Razzismo e discriminazioni

Assegno sociale negato a rifugiato, l’INPS condannato per condotta discriminatoria
Il Tribunale di Roma – Sezione Lavoro condanna l’Inps per aver negato l’assegno sociale ad un rifugiato politico siriano che non aveva prodotto l’attestazione da parte dell’ambasciata del paese di origine circa l’assenza di redditi. La sentenza si segnala in quanto riconosce la natura discriminatoria della condotta posta in essere dall’INPS. Il provvedimento impugnato pregiudica i rifugiati politici che non hanno possibilità di accedere senza rischi nelle ambasciate del loro paese per richiedere una documentazione reddituale superflua e priva di riscontro normativo. Assegnaci il tuo 5‰: scrivi 00994500288 Secondo il provvedimento del Tribunale: “Detta pretesa si traduce in una violazione del vincolo di parità di trattamento in ragione del fatto che porre quale condizione necessaria ad un rifugiato la produzione di documentazione personale e reddituale da richiedere alle autorità del proprio Paese di cittadinanza – lo stesso dal quale il cittadino straniero è fuggito per un pericolo di persecuzione e ha ottenuto protezione in Italia – equivale ad impedire allo stesso di accedere in concreto alla prestazione sociale alla quale avrebbe diritto per legge”. Tribunale di Roma, sentenza n. 7872 del 3 luglio 2025 Si ringrazia l’Avv. Marco Galdieri per la segnalazione e il commento.
Spagna (Murcia). Torre Pacheco come sintomo?
Nel luglio 2025, il comune murciano di Torre Pacheco è stato teatro di un’escalation di violenza razzista a seguito dell’aggressione a un uomo di 68 anni, attribuita a tre giovani presumibilmente di origine magrebina. Questo episodio è stato immediatamente strumentalizzato da gruppi di estrema destra – tra cui Vox, Frente Obrero e collettivi come Deport Them Now 1 – per fomentare un clima di odio, con vere e proprie “caccia all’immigrato”, incendi e minacce nei confronti della comunità migrante, in particolare nordafricana. In risposta agli attacchi e al clima di terrore, diverse realtà sociali, sindacati e collettivi antirazzisti in tutto il paese si sono mobilitate per manifestare il loro rifiuto del razzismo strutturale e chiedere giustizia per le vittime della violenza xenofoba. A seguire la traduzione di questa interessante analisi di Antonio J. Ramírez Melgarejo pubblicata dalla rivista Zona de Estrategia, ringraziando l’autore e l’editore per la gentile concessione. La revisione del testo è stata curata da Ángel Luis Lara. Le persone migranti hanno il diritto di pianificare il proprio progetto di vita, non vengono per ripopolare i paesi o pagare le pensioni, questa visione utilitaristica delle persone è miserabile. Dovrebbero poter fare ciò che ritengono opportuno, ma questo non è ammesso in un modello di organizzazione sociale svilito dall’individualismo identitario. A questo punto si è scritto e detto molto di ciò che sta accadendo a Torre Pacheco (Murcia) nell’estate del 2025, ma riteniamo importante cercare di approfondire le cause e le conseguenze per comprendere questo tipo di conflitti, perché siamo certe che questa esplosione razzista, xenofoba e fascista non sarà l’ultima. Il 9 luglio 2025, un pensionato di Torre Pacheco è stato picchiato nelle prime ore del mattino, presumibilmente da alcuni giovani vicini di origine marocchina. La crescente tensione sociale reazionaria degli ultimi anni e i discorsi di odio contro i migranti, le diversità sessuali, la sinistra politica, ecc. hanno facilitato la trasformazione di questo evento in un canale per incanalare la violenza fomentata, diffusa e incoraggiata da bufale e disinformazione diffuse massicciamente sui social network. Non intendiamo analizzare qui come si generano queste dinamiche né le razzie fasciste, ma piuttosto, cercare di fornire un quadro esplicativo critico che contestualizzi l’evento al di là dell’opinione urgente e angosciata e dell’impotenza di vedere gruppi neonazisti che cercano di trasformare un paese in un laboratorio di pogrom. Un fatto che non è isolato, ma che si inserisce in un aumento generalizzato della violenza contro le persone migranti in tutta Europa. Sappiamo bene che l’espansione dell’internazionale reazionaria e le sue conseguenze concrete, in questo caso in un paese della Murcia, come potrebbe essere (e purtroppo sarà) in qualsiasi altro luogo. In Spagna, le periferie sono quasi sempre oggetto di notizie per fatti tragici. Torre Pacheco era un luogo sconosciuto alla grande maggioranza della popolazione fino ad ora. Si tratta di un paese della campagna di Cartagena, a soli 10 chilometri dal maltrattato Mar Menor. L’intera zona è un’enclave produttiva agroindustriale intensiva e globale, dove vengono coltivati, con metodi tecnologici avanzati, meloni, angurie e ortaggi che vengono esportati in tutta Europa.  Questi prodotti sono coltivati, raccolti e confezionati per il 90% da migranti, la maggior parte dei quali provenienti dal Marocco, che costituiscono circa il 7-8% della popolazione totale. I dati statistici rivelano che le famiglie di migranti sono quelle con il reddito più basso, anche se in proporzione sono più iscritte alla previdenza sociale rispetto agli spagnoli, dati disponibili per chiunque voglia consultarli. La storia delle persone migranti a Torre Pacheco, come in tanti territori periferici del sud della Spagna, inizia negli anni ’90, quando i primi giovani provenienti dal Marocco cominciano ad arrivare nei campi di Cartagena. Con o senza contratto, lavoravano a cottimo nei campi e vivevano in condizioni precarie in casolari fatiscenti e/o abbandonati in mezzo alla campagna: non erano visibili, non erano prossimi, solo forza lavoro sfruttata su cui si è fondato il modello di sviluppo agroindustriale del paese e dell’intera regione. Nel 1993 la popolazione totale non raggiungeva le 18.000 persone, mentre oggi è una piccola città di quasi 40.000 abitanti. Torre Pacheco è uno dei pochi paesi che ha visto aumentare la popolazione negli ultimi 30 anni, moltiplicandosi per 125%. Il dinamismo economico e demografico della zona è il risultato dello sfruttamento della forza lavoro migrante vulnerabile, in gran parte priva di diritti di cittadinanza, dipendente da un lavoro agricolo mal retribuito che non poteva permettersi di perdere perché con esso manteneva le proprie famiglie là e sopravviveva qui. Questo processo ha creato una classe operaia migrante priva di strumenti comunitari e sindacali con cui difendere il proprio diritto a migliorare le condizioni di vita e di lavoro. È stata loro lasciata solo la possibilità di diventare schiavi moderni del capitale agroindustriale.  Con il passare degli anni questi uomini sono riusciti, nonostante tutte le difficoltà, i pregiudizi e le vessazioni, a stabilizzarsi nel lavoro e nel territorio, riunendo le loro famiglie e mettendo al mondo figli e figlie nel paese. Ciò non è stato accettato da una parte della popolazione locale che ha votato Vox come primo partito già nel 2019, sostenendo il suo discorso di paura e odio contro le persone migranti accusate di reati e violenze sessuali, dati che non trovano riscontro nelle statistiche. Una forma classica di criminalizzazione che affonda le sue radici e cresce nei pregiudizi contro ciò che è diverso e sconosciuto. Come accade in tanti altri territori o periferie urbane come il nord di Parigi o l’est di Londra, dove nel 2024 si sono verificati gravi attacchi razzisti, territori urbani in tensione che hanno assistito a simili cacce all’uomo. Manifestazione antirazzista a Murcia (PH: Dani Gago) Abbiamo, quindi, una popolazione originaria del Marocco in crescita che si sta insediando in un paese a bassa densità demografica e con ampie zone rurali. La competizione iniziale per i posti di lavoro nei campi tra stranieri e nazionali è durata poco. Il tessuto imprenditoriale ha scommesso definitivamente sul reclutamento di manodopera migrante, più facilmente sfruttabile e disumanizzabile, a cui poter chiedere di lavorare più velocemente e guadagnare meno, per guadagnare di più. Inoltre, molti contadini autoctoni non potevano più competere con le grandi agroindustrie che cominciavano a insediarsi nel paese e hanno dovuto trovare altri lavori per sopravvivere e/o vendere i loro terreni ai nuovi grandi imprenditori. A Torre Pacheco, come in qualsiasi enclave agroindustriale, convivono in tensione classi sociali molto disuguali. Da un lato, le grandi rendite dei capitalisti dell’agro, generate dai corpi sacrificati della classe operaia, e dall’altro, la classe operaia a basso reddito, composta principalmente da migranti nel caso dell’agricoltura, che condivide lo spazio con gli abitanti autoctoni del comune. In effetti, pochi capitalisti spagnoli hanno lucrato enormemente per tre decenni sfruttando lavoratori e lavoratrici di origine straniera. Pertanto, non c’è concorrenza sul posto di lavoro tra migranti e “nazionali” perché la segregazione è attualmente istituzionalizzata. L’unica “concorrenza” è quella che si percepisce nell’occupazione dello spazio pubblico, nella pratica del diritto alla città. Negli ultimi trent’anni, infatti, la popolazione marocchina ha costruito la piccola città di Torre Pacheco, aprendo attività commerciali, frequentando parchi, scuole e centri sanitari, come veri e propri vicini. Durante questo processo, ben documentato dalla crescita demografica e dalla trasformazione urbana, non c’è stato un vero processo di socializzazione, comunicazione e conoscenza tra le due comunità. La tensione e la sfiducia sono state la norma. È evidente che i datori di lavoro e una parte dei residenti autoctoni non li considerano veri e propri vicini, ma li vedono come una semplice forza lavoro necessaria da sopportare per mantenere l’economia. Ancora una volta, l’economia prevale sulla vita, pura essenza capitalista. Questa è la base del risentimento verso la comunità migrante, che in risposta a questo disprezzo ha costruito le proprie relazioni, in cui sono cresciute le loro famiglie, i figli e le figlie nati in Spagna, che sono stati educati qui con la speranza che “non fossero come noi”, che avessero opportunità lavorative e di vita diverse da quelle dei loro padri e delle loro madri, il desiderio di poter costruire un progetto di vita come chiunque altro, studiare se lo si desidera, lavorare, formare una famiglia…  Ma questi figli di persone migranti già nati a Torre Pacheco sanno che non sarà facile, che porteranno con sé il peso della loro condizione razzializzata per tutta la vita nonostante siano murciani e spagnoli, che i partiti politici neofascisti, ma anche una parte della popolazione, non li considereranno mai spagnoli né persone con il diritto di decidere liberamente della propria vita. Loro sanno che gli imprenditori e i politici, ma anche una parte della popolazione autoctona, li vogliono legati all’agricoltura, a ciò che hanno fatto e fanno i loro padri e le loro madri; li vogliono senza pieni diritti, senza autonomia né capacità di decidere. Li vogliono invisibili, silenziosi, vulnerabili, spaventati, perché sanno bene che chiunque ne abbia l’opportunità cercherà prima o poi di uscire dalle condizioni di semi-schiavitù dell’agricoltura e della dipendenza. Questi figli di persone migranti, erroneamente definiti seconda generazione, devono provare un crescente senso di impotenza e rabbia per l’impossibilità materiale di poter realizzare il proprio progetto di vita; stanno constatando che non avranno autonomia e che, se necessario, le loro decisioni saranno molto limitate; intuendo che non avranno la vita che è stata loro promessa, come tutta una generazione di giovani nel Paese, indipendentemente dalla loro provenienza. Questo sentimento di delusione rivelatrice è lo stesso che pulsa nelle banlieue francesi o nella zona est di Londra, lo stesso che provano milioni di lavoratori migranti in tutto il mondo quando scoprono che il capitalismo li vuole solo come corpi da sfruttare e consumatori ipnotizzati, attori secondari in un film di cui non saranno mai protagonisti. Le promesse di crescita sostenuta e di crescente capacità di consumo non saranno mantenute come avevano immaginato. Il capitalismo, razzista e colonizzatore, non può mantenere le sue promesse, solo pochi ne sono i beneficiari. Lo sforzo e la sottomissione dei loro genitori non sono serviti ad altro che a sopravvivere, e loro lo sanno, lo sentono ogni giorno. Si tratta di una forma di violenza che, sebbene non sia direttamente fisica, danneggia le loro vite e quelle della società in cui vivono.  È violenza strutturale: quella che subiscono perché sono lavoratori poveri e per di più migranti, peggio ancora se sono donne. È il tipo di violenza che impedisce loro di avere gli stessi diritti degli altri, che li condanna a una posizione subordinata nella società, a occupare posti di lavoro precari e rifiutati dai nativi. Ma anche se riescono a uscire da quella situazione, è altamente probabile che non potranno mai cancellare la loro condizione di migranti, e questa è una forma di violenza simbolica che deriva dall’interiorizzazione della posizione di dominati nella società, dall’impossibilità di migliorare la propria vita.  Il che ci porta alla terza forma di violenza che subiscono, quella normalizzata, quella che ricevono quotidianamente sotto forma di disprezzo, insulti, esclusione dallo spazio sociale; quella che subiscono sul lavoro, con contratti falsi, con gli inganni delle agenzie di lavoro interinale, con il mancato versamento dei contributi, con i maltrattamenti e i gravissimi casi di molestie sul lavoro e anche sessuali nei confronti delle donne migranti che hanno già mandato in galera diversi responsabili spagnoli, sia a Torre Pacheco 2 che a Huelva, anche se non si continua ad agire con fermezza contro le molestie sessuali e gli stupri. Il clamoroso contrasto tra il silenzio come risposta a queste aggressioni e violenze quotidiane contro le donne migranti e il rumore generato dall’aggressione al pensionato di Torre Pacheco che è stato picchiato è particolarmente illuminante e doloroso. Questa generazione, spagnola e murciana, ripeto, vuole uscire dall’invisibilità dei primi migranti, e questo viene punito. Come persone integrali rivendicano il loro diritto alla città, a quella città che in gran parte hanno costruito, non vogliono continuare a essere invisibili nei campi, nelle case, nelle strade. Il capitalismo non offre, non può offrire loro alcun tipo di progetto civilizzatore, è un modello socioeconomico basato sulla competizione, che fomenta la lotta del penultimo contro l’ultimo, non può costruire comunità perché la sua tendenza è quella di distruggerla, individualizzare, isolare, frammentare. Per offrire un orizzonte di speranza è necessario porre fine alle condizioni di sfruttamento e segregazione lavorativa come premessa fondamentale affinché esista una possibilità di convivenza. Inoltre, tenendo conto che le persone migranti hanno il diritto di pianificare il proprio progetto di vita, non vengono a ripopolare i paesi o a pagare le pensioni, questa visione utilitaristica delle persone è miserabile. Dovrebbero poter fare ciò che ritengono opportuno, e questo non è ammesso in un modello di organizzazione sociale svilito dall’individualismo identitario. Gran parte del nostro futuro, della possibilità di lottare per un futuro comune diverso, gioioso, entusiasmante e degno di essere vissuto, è in gioco nella socializzazione e nella politicizzazione delle persone migranti, come ci sta insegnando la rinascita sindacale negli Stati Uniti, guidata principalmente da lavoratori migranti che stanno perdendo la paura e che hanno saputo identificare il loro vero nemico: i rapporti di sfruttamento capitalistico e la frammentazione sociale che essi producono. Di fronte a ciò, le alleanze trasversali di razza, genere e classe sono senza dubbio la strada da seguire per imparare a indirizzare bene la nostra rabbia, ma anche la nostra solidarietà. 1. Torre Pacheco, come un canale Telegram razzista ha scatenato la “caccia all’immigrato” in Spagna, Fernanda Gonzalez – Wired (16 luglio 2025) ↩︎ 2. Detenido un encargado agrícola por una veintena de agresiones sexuales a temporeras en Cartagena, El Diario (settembre 2020) ↩︎
Controfuoco. Per una critica all’ordine delle cose (N° 2, giugno 2025)
> con·tro·fuò·co/ > Incendio, appiccato volontariamente, > per eliminare il materiale > combustibile e quindi contrastare > l’avanzata di un incendio di grandi > proporzioni, spec. nei boschi. ARCHITETTURE DEL CONFINAMENTO: IL TRATTENIMENTO COME INFRASTRUTTURA L’editoriale di Francesco Ferri e Omid Firouzi Tabar Sono passati oramai dieci anni dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” e appare sempre più chiaro come il regime complessivo di regolamentazione, filtraggio e selezione della mobilità delle persone migranti sia vivendo una preoccupante virata autoritaria e repressiva, una recrudescenza che vede nella privazione della libertà un fattore sempre più diffuso, strutturale e normalizzato. Questa “sicuritarizzazione” dell’apparato sicuritario-umanitario, che vediamo da alcuni anni intrecciare e ibridare dinamiche di controllo e segregazione con quelle dell’assistenzialismo compassionevole e infantilizzante, si sta progressivamente infiltrando gran parte dei contesti legati alle migrazioni. Lo vediamo nelle narrazioni mediatiche sempre più stigmatizzanti, nel piano normativo che restringe progressivamente diritti e garanzie e nelle prassi istituzionali sempre più segnate da dinamiche di abbandono socio-economico e dalla moltiplicazione degli ostacoli amministrativi e burocratici. Stiamo assistendo in primo luogo a un vero e proprio attacco frontale al diritto di asilo per come lo abbiamo conosciuto, che si materializza attraverso la progressiva centralità di concetti come “paesi sicuro” e alle conseguenti procedure “accelerate” o di “frontiera”. In questo senso la richiesta di protezione internazionale non è più soltanto preludio a una vera e propria trappola sociale, ma è sempre più un’opzione che viene semplicemente negata, soprattutto per sottrarre le persone al pacchetto di diritti che tutt’ora implicherebbe. In tale direzione vanno legislazioni nazionali e il nuovo Patto europeo su migrazioni e asilo, punto di svolta decisivo delle politiche migratorie continentali. A questa erosione del diritto di asilo si accompagna una sorta di “Hotspotizzazione” della regolamentazione delle persone anche oltre alle fasi successive all’approdo. Al netto della resistenza, talvolta anche ostinata, di alcuni tribunali, la prospettiva politica sembra essere quella di dare una progressiva centralità (non soltanto simbolica) a strutture classicamente detentive come i Cpr, ma anche a strutture ibride di trattenimento come i centri albanesi (e altri che fioriranno sul perimetro europeo per le “procedure di frontiera”), e quelli di Pozzallo e Porto Empedocle adibiti per le “procedure veloci”. In parallelo, la costante minaccia di “deportabilità” in questi luoghi, ben agevolata dalla diffusione di misure di militarizzazione urbana come le “Zone Rosse”, diventa ingrediente ricattatorio di estrema violenza. Senza scordarci, per completare questo cupo quadro, di una certa intensificazione della criminalizzazione delle pratiche solidali, soprattutto in mare, e di quella, statisticamente preoccupante, dello smuggling e dei cosiddetti “capitani”, che sta allargando la stretta penale su un numero sempre più vasto di migranti. Tutto ciò non sembra proiettarsi nella direzione di un rafforzamento di forme di mera esclusione ed estromissione delle persone dalla cosiddetta “Fortezza Europa”, concetto che ci appare oggi anche poco funzionale, talvolta del tutto fuorviante, per leggere in profondità i processi in corso e le razionalità che li sottendono. In campo sembra invece persistere un’economia politica del modello confinario imperniata su dinamiche di selettività e di violenta (im)mobilizzazione, orientate a garantire nuove linee di inclusione subalterna e di produzione di soggettività, più che a materializzare una rigida (e improduttiva) impermeabilizzazione del perimetro europeo. Più che alla tensione tra rigide linee che separano estromissione da e inclusione nello spazio europeo, dobbiamo in sintesi sforzarci a cogliere tensioni e conflittualità sempre più molecolari e interstiziali tra espressione di mobilità indisciplinata e tentativo di produzione di soggettività esposte a forme sempre più intensive di sfruttamento lavorativo e di stigmatizzazione utile a nutrire le retoriche sicuritarie. Questi nuovi sviluppi si materializzano dentro una congiuntura di guerra che, oltre alle uccisioni, ai massacri, ai genocidi e alle devastazioni che produce nelle zone di conflitto dove è materialmente in atto, si espande in quanto regime complessivo di produzione di linee di comando, ispirando drammaticamente molte politiche europee tra cui quelle che riguardano migrazioni e confini. In questo scenario bellico la costruzione dei blocchi e delle polarizzazioni, strutturati intorno a un ritorno di costruzioni identitarie come popolo, stato e nazione, produce inevitabili e considerevoli ripercussioni nei regimi di  “bordering” e di “othering”, ponendosi come frame perfettamente coerente con la stretta sicuritaria vissuta in questa fase storica in molti territori europei. Scendendo su un piano più concreto, l’analisi del “modello Albania” fornisce indicazioni utili per cogliere le tendenze che attraversano il regime confinario. Il funzionamento del centro di Gjader ha evidentemente caratteristiche peculiari ma non è, dal punto di vista della logica che lo informa, un’eccezione. Questo progetto, infatti, rende visibile e leggibile una delle traiettorie più rilevanti del governo della mobilità: l’estensione selettiva del trattenimento come pratica ordinaria. In Italia, la detenzione amministrativa si presenta come diffusa ma non generalizzata: uno scarto importante, da cogliere per darne preciso rilievo politico. Infatti, la gran parte delle persone rimpatriate non passa dai Cpr. Ma questo dato non ridimensiona il ruolo politico di quei centri. Al contrario, lo chiarisce: i Cpr non funzionano per volumi, ma per effetto. Producono una pedagogia della minaccia, inscrivono nella vita migrante una moltiforme precarietà costitutiva, alimentano una condizione permanente di esponibilità alla violenza e al rimpatrio. Il modello Albania riproduce questa stessa logica: poche persone effettivamente trattenute bastano a produrre un salto, simbolico e materiale, nell’architettura del confinamento. È per questo che l’analisi non può fermarsi ai numeri. Serve uno sguardo qualitativo e politico sulla detenzione, che è poi quello che questo numero di Controfuoco tenta di portare. Le molteplici forme del trattenimento non vanno valutate unicamente sulla base della capienza o del tasso di rimpatri che producono, ma interrogati come dispositivi: macchine selettive di produzione della soggettività e della forza-lavoro migrante. Le loro funzioni travalicano i corpi che rinchiudono. La violenza concreta che esercitano non va dunque ridimensionata, ma compresa nella sua estensione. La lista dei diritti violati – libertà personale, difesa, salute, unità familiare – è solo la soglia di un impatto più ampio: una violenza sistemica, che agisce al di là delle griglie giuridiche. È una violenza strutturale, fatta di trattamento differenziale, segregazione materiale e simbolica, disciplinamento sociale. Il trattenimento va allora letto come infrastruttura, non come eccezione. Non è una parentesi nella vita migrante, ma una condizione che incide sui tempi, gli spazi, le possibilità di movimento e di relazione. La deportabilità – più che la deportazione effettiva – è oggi la condizione generalizzata che definisce la collocazione sociale di ampi settori di soggettività migrante. Il rischio permanente della detenzione orienta le traiettorie, comprime le aspettative, spezza le reti, contribuisce alla collocazione nel mercato del lavoro, nei modelli dell’abitare. È in questo scenario che si colloca il presente numero di Controfuoco, dedicato alle molteplici forme del trattenimento. Le attraversa, le connette, le storicizza. Non per restituirne un’immagine unitaria, ma per mapparne le articolazioni, le ricadute, le resistenze. Il trattenimento non è ai margini: è un asse portante delle politiche migratorie. È dentro la società, ne riflette le gerarchie, ne rafforza i confini. L’ambizione di questo numero è chiara: contribuire, con strumenti agili e accessibili, alla politicizzazione del dibattito sul trattenimento. Passando in rassegna i vari contributi, Chiara Denaro presenta delle riflessioni che riguardano i nuovi piani di sperimentazione della detenzione migrante. Si parla dei centri di Pozzallo e Porto Empedocle, pensati per trattenere migranti giunti dai “paesi sicuri”, mentre viene esaminata la loro richiesta di protezione internazionale. L’autrice si sofferma in particolare sulla privazione della libertà vista come ingrediente sempre più diffuso del controllo delle migrazioni e sul ruolo svolto dai giudici e dal diritto in questo campo di tensioni. Francesco Ferri presenta una riflessione critica rispetto a un tema che ha avuto recentemente molta amplificazione mediatica, quello dei centri di detenzione in Albania. Ferri si sofferma nello specifico sulla funzione latente di questi luoghi, interpretati come strumenti punitivi che incarnano, anche in prospettiva delle nuove politiche europee, uno specifico modello di controllo della mobilità indisciplinata. In particolare emerge l’idea che tali luoghi rappresentino un confine interno esternalizzato, dove la dislocazione della detenzione pone, tra i vari, seri problemi dal punto di vista del controllo giurisdizionale e della tutela legale. Il tema della detenzione amministrativa è stato approfondito da Rocco Sapienza, in relazione alla struttura collocata a Palazzo San Gervasio, in Provincia di Potenza. Le riflessioni intorno a questo Cpr si soffermano non soltanto sulla violenza istituzionale agita con le forme del trattenimento all’interno di questo luogo, ma si sviluppano anche in riferimento alla sua collocazione nel territorio e in particolar modo nelle reti e infrastrutture dello sfruttamento lavorativo. La progressiva recrudescenza delle politiche di controllo delle migrazioni e la crescente centralità di strumenti necropolitici e repressivi è la cornice di riferimento del contributo di Francesca Esposito. L’autrice, focalizzandosi sul tema della detenzione amministrativa in Italia e in Europa, propone una riflessione critica di orientamento transfemminista e abolizionista indicando la necessità di guardare alle molteplici interconnessioni tra la violenza confinaria e violenza di genere, con particolare riferimento allo sguardo portato nel dibattito attuale dal femminismo anticarcerario. Anche il contributo di Luca Ceraolo affronta il tema della detenzione delle persone migranti all’interno del Cpr. Tenendo la salute mentale come cornice generale di riferimento, in questo contributo viene messa a fuoco la relazione tra diversi campi del sapere – con particolare attenzione a quello medico – nelle pratiche detentive e la materializzazione di un “continuum coloniale” nei processi di stigmatizzazione che riguardano le soggettività migranti. Luca Daminelli e Andrea Contenta si focalizzano sulla Grecia e sul borderscape rappresentato da quella particolare porta d’ingresso verso l’Europa, segnata fortemente dagli accordi con la Turchia che continuano ad avere molteplici conseguenze. In questo contributo l’attenzione è rivolta ai dispositivi di privazione della libertà, che fungono in modo sempre più diffuso e normalizzato come strategie di regolamentazione, esclusione ed inclusione subalterna dei migranti irregolarizzati, ma anche dei richiedenti asilo. Infine troviamo le riflessioni presentate da Giovanni Marenda, che volge lo sguardo verso la Bulgaria, di nuovo imperniate sull’analisi della centralità assunta dalla pratica della detenzione nel governo delle migrazioni indisciplinate. Secondo l’autore le prassi osservabili in quel territorio, segnate da diffusi soprusi e violenze discrezionali degli attori istituzionali, possono essere interpretate come una sorta di anticipazione del recente Patto europeo sulle migrazioni che tende ad incorporarle, legalizzandole. Quest’ultimo infatti viene immaginato non tanto come cambio di paradigma, ma come normalizzazione di un sistema che prevede lo strapotere di polizia e la generalizzazione della detenzione come fulcri operativi. CONTROFUOCO N° 2 GIUGNO 2025 SOMMARIO I nuovi centri di detenzione per i richiedenti asilo. Genealogia di un fallimento governativo Chiara Denaro Da dove viene la singolare pretesa di trasportare i migranti in Albania per aumentare i rimpatri? Francesco Ferri Geografia del controllo: note da Palazzo San Gervasio Rocco Sapienza Per una critica transfemminista abolizionista della detenzione amministrativa in Italia Francesca Esposito Politiche della diagnosi e continuum della colonia. Riflessioni sulla salute nella detenzione amministrativa Luca Ceraolo La Grecia scudo d’Europa. Di razzismo istituzionale, condizioni di vita inumane e politiche di morte Andrea Contenta e Luca Daminelli Reclusi alla periferia d’Europa. Uno sguardo sulla detenzione dei migranti in Bulgaria Giovanni Marenda Clicca sull’immagine di copertina per scaricare gratuitamente la rivista o qui sotto Download in pdf Acquista una copia cartacea Fotografie: Silvia Di Meo, Rami Sole, Luca Greco, Marios Lolos, Francesco Cibati, Rocco Sapienza, Stop CPR Roma e Mel Progetto grafico: Giacomo Bertorelle Gruppo redazionale: Jacopo Anderlini, Emilio Caja, Francesco Della Puppa, Francesco Ferri, Enrico Gargiulo, Barbara Barbieri, Stefano Bleggi, Giovanni Marenda, Omid Firouzi Tabar, Martina Lo Cascio La foto di copertina è stata scattata durante la mobilitazione del Network Against Migrant Detention in Albania l’1 e 2 dicembre 2024. NAMD è una rete di attivist* transnazionale che chiede l’abolizione della detenzione amministrativa. Cooperativa editrice Tele Radio City s.c.s., Vicolo Pontecorvo, 1/A – 35121 Padova, Italy, Iscr. Albo Soc. Coop. n. A121522 Melting Pot è una testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Padova in data 15/06/2015 n. 2359 del Registro Stampa. Controfuoco è un processo aperto e collettivo che vuole coinvolgere saperi e conoscenze composite e crescere a partire dalle diverse esperienze e biografie che intreccerà. Per contribuire scrivi a collaborazioni@meltingpot.org.