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Il deserto dei Tartari
Silence fini è il racconto di tre settimane nel Mediterraneo centrale a bordo del veliero Nadir 1 di RESQSHIP, in cui ho vissuto il soccorso in mare e osservato da vicino le vite delle persone migranti e dell’equipaggio, tra responsabilità, vulnerabilità e privilegio, in un mare che resta coerente e implacabile. Attraverso la mia esperienza personale, esploro cosa sia un soccorso e come frontiere, norme e gerarchie si manifestino nei corpi, nei gesti, nelle decisioni e negli sguardi. Silence fini vuole aprire ad una riflessione sulle contraddizioni etiche e politiche del Mediterraneo contemporaneo. Il racconto della navigazione a bordo di questo veliero della Civil fleet che opera monitoraggio e soccorso nel central med, vuole ricordare la violenza strutturale che colpisce chi attraversa, tra respingimenti, detenzioni e pratiche di Stati che negano sicurezza e diritti fondamentali. SILENCE ET ATTENTE. IL DESERTO DEI TARTARI Se mi chiedessero quanto tempo dura un soccorso, potrò dire che può durare 26 minuti e che quei minuti ovviamente perdono dimensione: si dilatano, allungano, sparpagliano.  Notte insonne o quasi.  Alle dieci di mattina del 5 novembre, riceviamo un Mayday relay forte e chiaro da Eagle 1, Frontex: un gommone sgonfio con a bordo circa 70 persone. Siamo a solo due ore dal target, o poco più.  Ci prepariamo, con calma, con ordine: sappiamo che siamo in SAR Libica e che la segnalazione di frontex via radio arriva a tutti, compresa alla so called Libyan GC. Siamo, quasi, poco convinti… in questi giorni le segnalazioni sono state numerose, ma alla fine qualcosa ci ha sottratto al soccorso: un’altra barca della civil fleet nella migliore delle situazioni, un naufragio o una cattura da parte di GC tunisine o libiche, nelle altre. Nel frattempo arriva la comunicazione via VHF anche da SB, aereo che fa parte della flotta civile. Ci conferma le informazioni di E1, ma aggiunge che i libici si stanno dirigendo veloci verso quella direzione e che sono armati fino ai denti. Lascio che questa informazione mi scivoli addosso, come molte di quelle che arriveranno nelle ore che seguono: giusto parole, una dopo l’altra, che non si aggrappano al cervello. Non trattengo, non “processo”, non registro. Quanto di più tipico durante un’azione d’urgenza. Mi ci soffermerò dopo, ad operazione finita, lo farò nei prossimi giorni. Una certezza: chi presta soccorso, non è e non deve essere armato, se non di forza, coraggio, speranza, desiderio, cura e molto altro. Ma no, nella lista le armi non sono previste.  Ci dirigiamo e continuiamo la corsa.  Poi, li avvistiamo e ci facciamo riconoscere. L’immagine che si profila e che appare poco a poco più netta, mi sembra quella tipica di un soccorso, come se ne vedono molte: le persone sono a bordo di un gommone mezzo sgonfio, sovraffollato. Sono dentro e a cavalcioni di questa cosa che galleggia. Ovunque persone: sui lati, all’interno. Piedi nudi,  gambe sospese nel vuoto.  Niente di rosso ci appare: nessun gilet di salvataggio, solo qualche pneumatico nero attorno alle braccia di quelli che sono più esterni, seduti sui bordi.  Facciamo segno, ci riconoscono, esultano. L’accoglienza che ci riservano, le benedizioni che ci inviano è bella ma pericolosa: il loro equilibrio è talmente precario che in un attimo lacosachegalleggia potrebbe capovolgersi. Li invitiamo alla calma. Con le parole, coi gesti.  Le procedure standard, su cui siamo formati, prevederebbero di mettere in mare il nostro RHIB. Ma la corsa contro il tempo non lo consente e quindi ci limitiamo ad avvicinarci e a comunicare in modo chiaro e forte chi siamo, che li porteremo a bordo e come lo faremo. Il resto non so spiegarlo. Come un film al rallentatore,  una serie di gesti che si incollano un pezzo alla volta. Noi dell’equipaggio funzioniamo come un corpo a cui la testa ha dato i comandi. Io a prua e un’altra persona a poppa dobbiamo lanciare una cima che le persone a bordo di quella cosa sgonfia dovranno tenere, dall’inizio alla fine, senza mai lasciarla. Due persone devono stare all’interno, per accogliere chi entrerà a bordo, due alla porta d’ingresso per farle passare dalla zattera alla nostra nave, primo porto sicuro. Il capitano al comando di questa manovra.  Iniziamo e da questo momento fino al termine dell’operazione sono concentrata su quello che devo fare senza avere una completa visibilità su quello che i miei compagni compiono. Eppure siamo coordinati. Scoprirò alla fine che per far salire a bordo tutte le 71 persone, ci abbiamo messo soltanto 26 minuti. Lancio loro la cima. Non ricordo se sono la prima a farlo o il mio compagno a poppa. Reportage e inchieste/In mare SILENCE FINI Il racconto di una navigazione a bordo del veliero Nadir Roberta Derosas 27 Novembre 2025 Lancio e la prendono, la afferrano, la stringono. Se potessero, mi sembra che se la legherebbe attorno. Dall’altro lato è uguale. Il gommone nero si attacca alla chiglia della nostra N. Le braccia si tendono. La maggior parte delle persone è adulta: dalla posizione in cui mi trovo, mi ricordano i miei figli quando da piccoli mi tendevano le braccia. Vedo i visi, gli occhi, gli sguardi.  E ancora le braccia tese.  Si appendono alle cime, cercano di arrampicarsi, mentre gridiamo per farci sentire: è pericoloso quello che che accade. Il loro barcone ondeggia mentre sono tutti in piedi nel suo ventre sgonfio e bagnato. Grida di paura, grida di ordine, di comando, di indicazioni, di pretese e richieste di essere accolti per primi.  Sollevano i bambini, vogliono passarceli, salvarli. D’istinto ne prendo uno che qualcuno mi passa.  Penso a quella celebre frase che ricorda che nessun genitore affronterebbe quel viaggio se avesse un’altra scelta. Nessuno metterebbe in mare i propri figli dandoli in pasto alla morte, prima del tempo.  Comincia il trasbordo: cerchiamo di far passare prima le donne e i bambini. Ma non sempre è possibile. le persone si pressano, accalcano: la paura di non farcela li rende aggressivi tra loro all’inizio. Uno, due, tre, quattro… “mantenete la calma, salirete a bordo tutti”.  Cinque, sei, sette, otto…  “Non lasciate le cime”  Nove, dieci, undici e ancora, ancora, ancora, uno di più, senza smettere, senza pace né tregua, correndo per portarli tutti a bordo.  E mentre alcuni salgono, altri aspettano il loro turno, chi con calma, chi con ansia, mentre li rassicuriamo. A gesti e a parole.  Un ragazzo di fronte a me, un minore che viaggia da solo. Mi guarda e mantengo il contatto con lo sguardo, gli sorrido, lo rassicura. Potrebbe avere l’età di mia figlia. Tra i 16 e i 17 anni. Lei è al caldo, a quest’ora è a scuola. Le persone salgono a bordo e io indico agli uomini che salgono sul ponte dove sedersi a prua. Le donne e i bambini all’interno. Il gommone nero si svuota. Ne restano a bordo tre, due, uno. Nessuno.  Sono tutti qui ora nella nostra barca.  Tutti al sicuro.  La procedura prevede mail e chiamate, compreso la MRCC libica. Tocca a me, fa parte delle mie funzioni a bordo. Al primo e secondo numero non risponde nessuno. Al terzo, mi rispondono. “No english, only arabic”. Ripeto e provo anche in francese. La risposta è la stessa. Silenzio. Riagganciano. Da MRCC Malta non risponde nessuno. Solo una segreteria telefonica. Da Roma invece qualcuno all’altro capo del filo. L’ufficiale di servizio conferma di aver ricevuto la mail. Sudo. Questa è la parte che mi fa più timore, eppure ho sempre l’appoggio del capitano. Ma basta una mail mandata al momento sbagliato, una parola non precisa che si rischia l’arresto delle operazioni da parte delle autorità. Nel frattempo, la N si trasforma: non esiste uno spazio vuoto. Le nostre cabine sono piene di oggetti. Altrove, persone ovunque.  E poi odore di urina, di escrementi, di paura, di mare bagnato.  Gente che vomita ovunque.  Le persone sono fradice: di viaggio, di fatica, di anni di lotta ed erranza. Se mi chiedessero quale odore associo alla migrazione di chi arriva dall’Africa attraverso il mare, è questo. Lo stesso che ho sentito ai moli durante gli approdi.  Cominciamo ad aiutare le donne a lavarsi, a mettere vestiti asciutti. Ancora una volta: una, due, tre, quattro…. Ci vuole qualche ora perché siano tutte coi vestiti asciutti. I sacchi si riempiono di panni bagnati pieni di vomito, urina, dolore.  Siamo in tre donne a prenderci cura di loro. Le aiutiamo a lavarsi, a passare il sapone su schiene, seni, ventri che hanno cicatrici di colpi e smagliature dei parti. Corpi nudi, indifesi. A cui cerchiamo di restituire ciò che mi sembra sia stato tolto per anni. Non smetto di pensare a come mi sentirei se una sconosciuta mi guardasse nuda. Cerco di essere discreta, a me non piacerebbe. Credo vorrei solo chiudermi da qualche parte lontano da tutto. Chiediamo loro se vogliano essere aiutate. Nessuna rifiuta. Metto tenerezza in quel gesto, la stessa cura che userei verso i miei figli, verso me stessa, verso chi conosco e amo. Alcune parlano, altre distolgono lo sguardo, altre ancora raccontano la loro storia. Una donna nigeriana mi dice che è rimasta in Libia oltre un anno dopo aver restituito il debito alla madam. “Ho continuato a lavorare per conto mio, mi sono pagata il viaggio”. Ha una grossa ferita sul seno. Mi dice che le è esplosa una bombola di gas addosso mentre cucinava. Non faccio domande, ascolto chi ha voglia di raccontare. Osservo i corpi, in silenzio: i lividi, le cicatrici, le scarificazioni, la forma, le macchie; Siamo tutti sfiancati:  le persone a bordo sono stanche, gli ospiti si addormentano, adattando i corpi ai posti disponibili. Noi ci diamo i turni per avere qualche ora di riposo. Il ponte è dorato dalle coperte termiche; fa lo stesso rumore della carta di una caramella. Solo che le caramelle qui sono persone. 49 uomini. Dentro 26 donne. 5 bambini, tra cui una neonata di soli 21 giorni, che una madre sfinita allatta senza sosta ad ogni risveglio. Per fortuna, non ricorderà nulla di questa notte senza fine.  Avrà memoria degli anni che arriveranno, delle procedure, dei centri, dei cambiamenti di case e paesi. Forse.  Ma non dei 26 minuti di questo soccorso. 1. Nadir è un veliero che svolge operazioni di search and rescue nel Mediterraneo e fa parte della Civil Fleet ↩︎
Riparte “Annick. Per il diritto all’unità familiare”
Dopo il forte impatto della prima edizione, Melting Pot Odv rilancia il progetto “Annick. Per il diritto all’unità familiare”, un impegno annuale che accompagnerà, anche nel 2026, persone con background migratorio e titolari di protezione internazionale nel percorso spesso tortuoso del ricongiungimento familiare. Una nuova stagione di attività ha preso ufficialmente avvio poche settimane fa. Il progetto, nato in memoria di Annick Mireille Blandine, vuole continuare a ricordare che dietro numeri e procedure ci sono vite, affetti e diritti fondamentali. La sua vicenda resta il filo rosso che guida l’iniziativa, lo specchio di un sistema che, colpevolmente, prolunga per anni separazioni forzate nonostante i 120 giorni previsti dalla legge. Quest’anno Annick riparte rafforzato dall’esperienza precedente. Intorno alla casella email dedicata annick@meltingpot.org si attiverà nuovamente una rete di operatrici e operatori legali, avvocate e avvocati, volontarie e volontari che offriranno ascolto, orientamento e consulenza anche attraverso appuntamenti online per chi non può raggiungere gli sportelli territoriali. Le oltre 85 richieste di supporto ricevute nel 2024 hanno mostrato che una risposta strutturata è non solo necessaria, ma continua ad essere urgente. Un’attenzione particolare sarà nuovamente riservata ai casi emblematici, quelli che rivelano criticità sistemiche: situazioni su cui si lavorerà sia sul piano individuale, sia su quello collettivo, con ricorsi strategici al fine di evidenziare le responsabilità delle Pubbliche amministrazioni (Prefetture, Ambasciate e MAECI) e sollecitare un cambiamento reale. Parallelamente, proseguirà il lavoro di advocacy e comunicazione pubblica, con articoli, approfondimenti e materiali utili a moltiplicare le azioni legali. Fondamentale sarà, anche quest’anno, il coinvolgimento della società civile. Per questo è previsto un primo momento pubblico: giovedì 11 dicembre alle ore 17 si terrà online la call iniziale per volontarie e volontari, un incontro aperto a operatori e operatrici, avvocate e avvocati interessati a dare un contributo concreto. Sarà l’occasione per conoscere il progetto, capire come partecipare e avviare insieme un percorso condiviso. Nei primi mesi del 2026 sono inoltre previste due sessioni di formazione online rivolte alla rete legale e a chiunque dimostri interesse: un’occasione per approfondire gli aspetti normativi del ricongiungimento familiare e per sviluppare strumenti utili all’advocacy, rafforzando così competenze e reti territoriali. Annick ribadisce che il diritto a vivere insieme ai propri cari è una questione di giustizia sociale che non può essere ostacolata da ritardi e silenzi amministrativi; per questo rinnova il proprio impegno per una società più giusta e inclusiva che riconosca il diritto dei legami familiari a tutte le persone, senza distinzione.  * Per informazioni e per partecipare alla call di giovedì 11 dicembre ore 17 scrivi a: annick@meltingpot.org . -------------------------------------------------------------------------------- Il progetto “Annick. Per il diritto all’unità familiare” è realizzato con i Fondi dell’Otto per Mille della Chiesa Valdese.
Appello di docenti, ricercatori e ricercatrici universitari/e per la liberazione di Mohamed Shahin
Mohamed Shahin è trattenuto nel CPR di Caltanissetta e a rischio di espulsione verso l’Egitto, Paese in cui sarebbe esposto al rischio concreto di persecuzioni, detenzione arbitraria e persino alla pena di morte. La sua colpa è di essersi mobilitato a fianco del popolo palestinese e di aver pronunciato delle opinioni, poi ritrattate, ritenute sufficienti dal ministero dell’Interno per disporre la revoca del suo permesso di soggiorno, il trattenimento e l’avvio della procedura di espulsione. Attorno alla vicenda di Mohamed Shahin si è mobilitata una vasta rete di realtà sociali, religiose e politiche torinesi e non solo, che sono scese in piazza per chiedere la sua liberazione ricordando come la moschea di via Saluzzo, da lui guidata, sia da sempre un presidio di apertura, cooperazione e dialogo interculturale. Si è mossa anche la comunità accademica, che ha pubblicato un appello per la sua liberazione: «Noi docenti, ricercatori e ricercatrici delle università italiane esprimiamo profonda preoccupazione per la situazione di Mohamed Shahin, imam della moschea Omar Ibn al-Khattab di Torino, attualmente trattenuto nel Centro di Permanenza per il Rimpatrio di Caltanissetta a seguito di un decreto di espulsione emesso dal Ministero dell’Interno. La revoca del suo permesso di soggiorno di lungo periodo, e il conseguente rischio di rimpatrio forzato in Egitto, sollevano interrogativi gravi sul rispetto dei diritti fondamentali della persona. È noto che il sig. Shahin, prima del suo arrivo in Italia oltre vent’anni fa, era considerato oppositore politico del regime egiziano. La prospettiva di un suo ritorno forzato in Egitto lo esporrebbe concretamente a rischi di persecuzione, detenzione arbitraria e trattamenti inumani. Le motivazioni alla base della revoca del permesso appaiono collegate alle sue dichiarazioni pubbliche sulla situazione a Gaza e alle sue posizioni critiche rispetto all’operato del governo israeliano. Se così fosse, ci troveremmo di fronte a un precedente estremamente preoccupante: l’uso di strumenti amministrativi per colpire l’esercizio della libertà di opinione, tutelata dall’articolo 21 della Costituzione e da convenzioni internazionali cui l’Italia aderisce. Casi analoghi, registrati negli ultimi anni, confermano una tendenza a sanzionare cittadini stranieri per opinioni politiche o per manifestazioni di solidarietà nei confronti del popolo palestinese. L’impiego dei CPR in questo quadro rischia di trasformarsi in una forma di repressione indiretta del dissenso e di limitazione arbitraria dello spazio democratico. È importante ricordare che Mohamed Shahin è da lungo tempo impegnato in pratiche di dialogo interreligioso e cooperazione sociale. Numerose comunità religiose, associazioni civiche e gruppi interconfessionali hanno pubblicamente attestato il suo contributo alla costruzione di relazioni pacifiche tra diverse componenti della città di Torino, evidenziando la natura collaborativa e aperta della sua attività. In particolare, la Rete del dialogo cristiano islamico di Torino, in un comunicato indirizzato al Presidente delle Repubblica e al Ministro dell’Interno, ha evidenziato il ruolo centrale di Mohamed Shahin nel dialogo interreligioso e nella vita associata del quartiere San Salvario. Alla luce di tutto ciò, riteniamo indispensabile un intervento immediato per garantire il pieno rispetto dei principi costituzionali, della Convenzione di Ginevra e degli obblighi internazionali dell’Italia in materia di diritti umani e protezione contro il refoulement. Chiediamo pertanto: * La liberazione immediata di Mohamed Shahin e la sospensione dell’esecuzione del decreto di espulsione. * La revisione del provvedimento di revoca del permesso di soggiorno di Mohamed Shahin, garantendo un esame imparziale e conforme agli standard giuridici nazionali e internazionali. * La tutela del diritto alla libertà di espressione in ambito accademico, culturale e religioso, indipendentemente dalla provenienza o dalla fede delle persone coinvolte. * La chiusura dei CPR, luoghi di lesione dei diritti umani. Come docenti e ricercatori riconosciamo la responsabilità civica dell’università nel difendere i valori democratici, promuovere il pluralismo e opporci a ogni forma di discriminazione o compressione illegittima delle libertà fondamentali». Clicca qui per firmare e leggere le adesioni
Agadez, il limbo nel deserto: cinque anni di attesa e silenzio per i rifugiati intrappolati nel “centro umanitario”
Da oltre cinque anni, quasi duemila rifugiati e richiedenti asilo vivono intrappolati nel deserto del Niger, nel “centro umanitario” di Agadez. Sono persone fuggite da guerre, persecuzioni, violenze; persone che hanno attraversato confini dove hanno subìto abusi in Algeria e in Libia, che sono sopravvissute ai respingimenti e ai rastrellamenti, e che oggi si ritrovano abbandonate in un luogo che, più che un rifugio, somiglia a una prigione a cielo aperto. Una vicenda che come redazione seguiamo con attenzione dal novembre 2024, in contatto diretto con le persone che si trovano nel centro. L’appello pubblicato il 25 novembre scorso 1 ci offre l’occasione di continuare a tenere gli occhi aperti su Agadez e di rilanciare la loro voce: una voce stremata ma ostinata, che continua a chiedere solo ciò che dovrebbe essere garantito a chiunque – dignità, protezione, futuro. Agadez è distante quindici chilometri dalla città, isolato nel nulla. Il campo, costruito con fondi europei e italiani, si presenta come un progetto umanitario, ma chi lo abita lo descrive come un luogo di confinamento: tende consumate dal vento del deserto, prefabbricati che non proteggono né dal sole né dalle tempeste di sabbia, un accesso irregolare a servizi essenziali come acqua potabile, cure mediche, elettricità, istruzione. Dal 2025, perfino l’assistenza alimentare è stata ridotta: solo alcune categorie, considerate “vulnerabili”, ricevono ancora un sostegno regolare. Gli altri, quelli che l’UNHCR non ha inserito in liste di priorità, sopravvivono come possono. La protesta, iniziata il 22 settembre 2024, ha oltrepassato l’anno. Per mesi gli abitanti del campo hanno organizzato sit-in, marce, lettere aperte, scioperi della fame: sempre pacifici, sempre ignorati. Il loro slogan, «We don’t want to stay here», è un grido semplice e limpido: non chiedono privilegi, ma di essere liberati da un’attesa infinita che li consuma. La risposta delle autorità è stata troppo però spesso la criminalizzazione del dissenso. A marzo 2025 otto rappresentanti dei rifugiati sono stati arrestati durante una protesta. Sono stati rilasciati dopo dieci giorni, ma l’episodio ha lasciato un segno profondo: molti hanno perso lo status di protezione, altri vivono nella paura di subire la stessa sorte. Il “centro umanitario” di Agadez è un simbolo potente dell’esternalizzazione delle frontiere europee. Qui, nel cuore del deserto, si materializzano le contraddizioni di un sistema che, in nome della sicurezza e del controllo migratorio, preferisce trattenere le persone lontano dai propri confini – anche quando questo significa lasciarle vivere per anni in condizioni disumane. La retorica della “protezione internazionale” si sgretola davanti alla realtà: non si tratta di accoglienza, ma di sospensione della vita. Di un tempo morto imposto a uomini, donne, bambini che non hanno alcuna prospettiva di reinsediamento né possibilità di integrarsi nel Niger. L’appello chiede di ascoltare finalmente le loro voci, di riconoscere che quanto accade ad Agadez non è un’emergenza ma una scelta politica. Chiede che si aprano percorsi di reinsediamento reali, che si garantiscano condizioni minime di vita dignitosa, che si ponga fine a un sistema che confonde la gestione con l’abbandono. Chiede, soprattutto, di vedere i rifugiati per ciò che sono: persone che hanno perso tutto e che ora rischiano di perdere anche la speranza. Agadez non è un episodio isolato: è un ingranaggio di un meccanismo che sposta sempre più lontano la responsabilità, rendendo invisibili le vite che schiaccia. Raccontare ciò che accade nel deserto del Niger significa rompere un silenzio conveniente, riportare al centro ciò che troppo spesso resta ai margini: la dignità umana come principio non negoziabile. 1. Leggi l’appello sul blog di Davide Tommasin ↩︎
Silence fini
Silence fini è il racconto di tre settimane nel Mediterraneo centrale a bordo del veliero Nadir 1 di RESQSHIP, in cui ho vissuto il soccorso in mare e osservato da vicino le vite delle persone migranti e dell’equipaggio, tra responsabilità, vulnerabilità e privilegio, in un mare che resta coerente e implacabile. Attraverso la mia esperienza personale, esploro cosa sia un soccorso e come frontiere, norme e gerarchie si manifestino nei corpi, nei gesti, nelle decisioni e negli sguardi. Silence fini vuole aprire ad una riflessione sulle contraddizioni etiche e politiche del Mediterraneo contemporaneo. Il racconto della navigazione a bordo di questo veliero della Civil fleet che opera monitoraggio e soccorso nel central med, vuole ricordare la violenza strutturale che colpisce chi attraversa, tra respingimenti, detenzioni e pratiche di Stati che negano sicurezza e diritti fondamentali. SILENCE, ATTENTION. C’è molto da raccontare dopo tre settimane a bordo della Nadir: le vite che l’hanno attraversata e abitata, il dovere dei soccorsi a cui ho preso parte, il dolore, la miseria. E non penso solo a quella di chi parte e sale al sicuro: quella è una povertà facile.  Mi riferisco a quella sporca, di esseri umani che infliggono tortura e degradazione ad altri, quella di chi nega diritti,  quella in cui gli Stati bianchi e protetti da una fortezza pagano complici a sud per ricacciare indietro uomini, donne, bambini: vite che hanno diritti di cui si tenta di ignorare l’esistenza, vittime di un’indecenza a cui si tenta di rispondere. Tre settimane in un veliero, eterotopia per eccellenza in cui si rende onore al dovere di soccorso e in cui navigare è pratica politica. Ventuno giorni che, nel loro dispiegarsi, hanno disegnato, affermato, cancellato e sospeso frontiere. Il mare continua a essere perfetto anche quando tutto il resto non lo è, fa il suo mestiere con coerenza millimetrica: ospita, custodisce, trasporta, ingoia, mentre gli uomini sembrano smarrire il proprio compito, quando cercano senza trovare o ignorano ciò che si vede.  L’attesa talvolta è stata una compagna complessa, faticosa, che mi si è attorcigliata come un filo mal teso. Durante la navigazione, il mare mi è apparso, talvolta,  come una superficie uniforme. Più spesso, mi ha rivelato correnti, decisioni, ruoli, movimenti. Sono stata a bordo con sette persone  che lo hanno vissuto per il tempo sospeso della rotation #10. Quattro uomini e tre donne che, nel tempo di questa navigazione tra il 25 ottobre e il 15 novembre, sono stati marinai, volontari, ricercatori, giuristi, film maker, fotografi, esperti di logistica, sia rivestendo ruoli già conosciuti perché parte del loro quotidiano nel loro paese di origine, ma altrettanto nuovi e differenti nello spazio marino.  Abbiamo abitato l’ordine mobile imposto dall’acqua e dal vento,  nel ritmo altalenante delle onde, nel perimetro stretto delle manovre, nel silenzio che precede le comunicazioni radio, nel gracchiare di un canale VHF connesso h 24 rumoroso nei momenti più inopportuni. Ogni gesto quotidiano – tra nodi, scelta delle rotte, controllo di motori, mail, cibo cucinato e condiviso, soccorsi – ha disegnato una coreografia ripetuta eppure varia.  Per tre settimane ho osservato il mare e suoi i movimenti, chi lo lo abita e lo traversa, chi lo confina o ne apre i varchi e, allo stesso tempo, me  stessa lì dentro: ciò che che ho temuto, affrontato, invocato, curato. Quello che mi ha suscitato domande e quello che ha generato certezze, in un costante movimento di relazione all’Altro. Etnografia e auto etnografia del mare. Ho condiviso un tempo e uno spazio con altre persone a cominciare dalla crew. L’equipaggio aveva, in parte, esperienze pregresse di SAR nel Mediterraneo Centrale. Tutti provenienti dalla Germania tranne due persone, la comunicazione a bordo è sempre stata l’inglese, ma talvolta una lingua ibrida si è usata tra i membri, un broken english, sporcato da accenti diversi e parole tedesche, italiane e francesi, a seconda delle lingue comuni. Il capitano, I., tedesco, oltre che essere uno dei fondatori di questa OnG, lo è stato anche di un’altra, da cui si è allontanato nel 2019. Meccanico in pensione, ha profonde conoscenze dei salvataggi in mare, in cui opera come capitano volontario da oltre dieci anni. Il meccanico di bordo, ma anche responsabile degli ospiti, M.,  ha già partecipato con diverse organizzazioni a missioni di soccorso. In Germania si occupa a domicilio di persone paraplegiche, con un ruolo che prevede la cura fisica e quella amministrativa.  Il medico, una donna, ha una lunga esperienza nei contesti di emergenza in Germania, ma era alla sua prima navigazione. Il fatto di partecipare a questa rotazione è un’idea che si è fatta strada, per lei, nel corso del 2025. Come Filmmaker e Official Media Communicator oltre che RHIB driver, T., un altro tedesco appassionato di fotografia, ma di mestiere operatore sanitario nei contesti di urgenza da più di 25 anni nella sua città, nel nord della Germania. Di operazioni di soccorso, ne ha fatte molteplici. Come guest care un altro tedesco, J, che ha partecipato, anche lui, a molte operazioni. In Germania è avvocato penalista. Poi D, una ragazza greca che vive in Francia come me: è stata co- skipper e nel RHIB si è occupata di avere il primo contatto con le persone migranti. È la più giovane del gruppo e si affaccia alla search and rescue bubble, ma ha al suo attivo una forte esperienza di militanza con persone migranti. Naviga per mestiere. E poi ci sono io, a metà tra Italia e Francia, a metà tra lavoro sociale e ricerca. Ho il compito di comunicare con le autorità sia per scritto che via radio VHF e telefono, ma anche degli ospiti a bordo insieme a J., sia per la distribuzione di vestiti e cibo quando le persone saranno soccorse che per spiegare loro cosa significa arrivare in Europa. Questa è la seconda operazione a cui partecipo: ciò non fa di me una grande esperta, solo una persona cosciente di cosa mi aspetta. Le motivazioni che ci hanno spinti a bordo sono molteplici e col denominatore comune di pensare al soccorso in mare come un atto doveroso quando le persone attraversano. Ne abbiamo parlato in queste tre settimane di vita comune, ma più sono aumentati i giorni di navigazione che hanno trasformato la terra in un miraggio alle nostre spalle, meno sono stati gli spazi condivisi di discussione sulle motivazioni che ci avevano spinti a bordo: abbiamo vissuto in un sistema di shift in cui, due alla volta, ci siamo divisi le giornate a spicchi e quando non siamo stati di watch, spesso abbiamo cercato di dormire. La fatica  e il sonno rendono silenziosi. Il tempo in barca si ritesse come la frontiera che abbiamo percorso senza sosta.  Accanto alla relazione a me stessa e all’equipaggio di cui ho fatto parte, si è aggiunta quella con tutti gli altri attori del Mediterraneo, dalle persone in movimento, ai pescatori, dagli altri membri della civil fleet marina, aerea e terrestre, a quelli istituzionali, compagni talvolta imposti dal mare e dal diritto che lo regola, ma profondamente temuti e indesiderati, come le GC Tunisina e Libica. Nelle note che seguono, il Mediterraneo centrale è al contempo attore e scenario: con la sua bellezza ha accolto e accompagnato la nostra azione e la navigazione di questa barca, accentuando il contrasto indecente tra la perfezione della natura – che mi stupisce sempre – e l’assoluta assenza di logica che abita talvolta il soccorso in mare, tra barche segnalate che non si trovano e altre cariche solo di oggetti lasciati a macerare, ma prive di persone di cui non si conosce il destino. Siamo partiti da Malta, dove la barca è ancorata tra un’operazione e l’altra, isola che scopro per la prima volta. Mi fa pensare a Lampedusa, che arrivando dall’aereo, appare piccola piccola. Il maltese mi sembra un insieme strano di inglese, siciliano, arabo. Una lingua vecchia di rapporti e dominazione, di parole eleganti e suoni duri, un archivio di incontri, ferite, scambi, compromessi. Nelle parole si sente chi è arrivato dal mare e chi dal deserto. Mi fa pensare a chi, nei secoli, attraverso questa lingua, ha perso una patria o ne ha conquistata una, chi ha scelto di rimanere e chi è stato costretto a farlo. In fondo, un idioma è più onesto delle politiche che si applicano in migrazione: non c’è lingua che resta pura, né confine che rimane intatto. Le vocali sono un prestito, le consonanti diventano testimoni di un movimento umano: di lavoro, di fuga, di desiderio, di sopravvivenza. Le lingue si sporcano e tessono di incontri: sono testimoni del fatto che nessun popolo è mai stato solo e isolato. A bordo, navigando, si sono tessute conversazioni. A volte, il mondo si è apparentemente diviso tra noi e loro, The migrants come li chiamano nella bubble SAR: Corpi bruciati, carne ossidata dal sale, mare, gasolio che laviamo con acqua e sapone quando salgono a bordo. Persone, cicatrici, dolore, movimento, oggetto, soggetto, vittime, attori. Ossimoro vivente, continuamente riprodotto dal mare e dallo sguardo di chi lo attraversa. Io faccio fatica, all’inizio della navigazione, a usare questa parola per indicare le persone che si incontrano perché mi pare di ridurle al solo fatto della migrazione, di dimenticare che sono molto altro che il viaggio che affrontano. Penso a Sayed quando dice che l’immigrato, per definizione, non é jamais tout à fait un homme: il est d’abord immigré, un’identità che cancella la biografia, una parola che descrive la persona solo attraverso una lente e lo riduce, esclusivamente, a soggetto in movimento. Ma quante storie esistono dentro queste persone che si muovono? Penso a H. Arendt e a Judith Butler che invita a riflettere a come il linguaggio crei una frontiera tra “noi” e “loro”. Se loro sono “migranti da soccorrere”, allora automaticamente noi siamo “soccorritori”. Siamo categorie: i salvati da una parte, i salvatori dall’altra, come se non esistessero alternative. E invece la realtà è meno ordinata di così. Il viaggio ci mette tutti in una condizione vulnerabile, solo in forme diverse. C’è chi ha perso la terra da cui viene, chi si misura con la frattura tra ciò che vede e ciò che il mondo finge di non vedere e il movimento non lascia nessuno intatto. Cosa significa essere soccorsi o soccorrere, essere tratti dall’acqua, riconosciuti come persone? Cosa significa avere il diritto a esistere senza dover giustificare la propria esistenza? Le frontiere non sono solo nel mare o tra le terre, ma cominciano dalle parole e dagli sguardi.  Durante la navigazione, in mare, non esistono confini tracciati a vista o muri fatti di reti, eppure ogni tratto d’acqua ha qualcuno che ne ascolta le voci. Nella zona SAR, quando un’emergenza appare, la centrale di coordinamento di quell’area deve intervenire e distribuire i ruoli: chi si avvicina, chi rimane in attesa, chi osserva. Non si tratta di approvare o giudicare, ma di mantenere l’ordine necessario perché le vite sull’acqua non vadano disperse nella confusione. Nel soccorso in mare il paese “proprietario” di quelle acque è destinato ad averne il controllo e  riportare nella propria terra, nei propri porti. Ma da quando la Libia è un porto sicuro? E la Tunisia lo è? Perché in questi luoghi gli esseri umani sono venduti, torturati e liberati solo a condizione di pagare un riscatto. Il principio di non refoulement, che detto in francese suona elegante,  e il duty to render assistance sono solo parole inanellate le une alle altre. Il Mediterraneo Centrale è un’Odissea moderna, popolata da creature strane, luoghi, farabutti, avventurieri, eroi, protagonisti e personaggi che fanno da sfondo. Abbiamo navigato percorrendo la banana route, derivato accanto alla piattaforma di Miskar nel Golfo di Gabes: una struttura innaturale che, eppure, si confonde col paesaggio. Un sistema di piani, scale e tubature che lavora per catturare ciò che si nasconde sotto il fondale. Di giorno, il metallo sembra un’anima priva di vita; di notte, le luci la rendono una presenza spettrale. Miskar non è soltanto metallo. È anche una specie di frontiera: tra l’uomo e il mare, tra ciò che si estrae dal profondo e ciò che resta in superficie, in una sorta di dimensione sospesa. Senza essere un luogo, lo diventa, come una barca ancorata in eterno. Ne ho sentito parlare senza sosta da chi ha già navigato nel Mediterraneo Centrale partecipando a operazioni di soccorso e ne ho memoria dai racconti di un amico etiope, che lasciando la Libia nel 2006, l’ha incrociata di notte e confusa con una nave insieme ai compagni d’avventura. Mi ha raccontato dell’entusiasmo, mentre navigava con gli altri, nel vedere le luci in lontananza, ma poi della delusione alla certezza che non si trattasse di una barca.  Nel cuore di questo sud liquido, abbiamo incontrato imbarcazioni: piene di persone, vuote. Di lamiera, di gomma, di legno, di vetroresina. Blu, nere, azzurre, grigie, ruggine. Anonime o col marchio di fabbrica: una tra tutte quella incontrata  dopo qualche giorno di navigazione. Dieci metri di lamiera stridenti incollata con lo sputo e il sudore destinate ad accogliere almeno ottanta persone. Sulla chiglia, a prua, il marchio di chi l’ha prodotta: King 24. Di questo mostro di metallo, Marinetti avrebbe riprodotto una serie di suoni sinistri. È un affronto alle leggi della fisica. Dentro, qualche scarpa, qualche pneumatico nero, uno zaino da bambino, due macchinine giocattolo, distrazione infantile durante un viaggio insensato. Abbiamo tentato di affondarlo, questo mostro, ma ci ha resistito cigolando in modo sinistro.  In ventuno giorni, abbiamo perlustrato, derivato, corso, veleggiato, usato il motore: ci siamo imbattuti per caso in barche abbandonate, ci siamo diretti verso mezzi di fortuna segnalati che non abbiamo mai trovato. Certi giorni abbiamo lottato, altri abbiamo dovuto riporre la speranza. Penso al giorno in cui siamo andati la mattina in direzione di un target che non abbiamo mai raggiunto e di cui, la sera, abbiamo conosciuto il triste epilogo: uomini che, partiti dalla Libia, sono rimasti troppo vicini alle coste e entrati nella SAR tunisina. Sottratti al mare dalla GC Tunisina, sono stati immediatamente detenuti. L’epilogo si conosce: saranno portati alla frontiera tra Tunisia e Libia, incarcerati, trasferiti e poi venduti dagli agenti di Stato Tunisini ai miliziani libici. Ne parlano anche i testimoni del rapporto State Trafficking del collettivo RRX. Si sa; è storia nota che si vuole tenere all’oscuro. C’è un privilegio che ho sentito dolorosamente a bordo: quello della bellezza costante di questo mare, quella della navigazione su un veliero, quella di essere bianchi e nati dentro la fortezza e non al di fuori, quella di scegliere sempre da che parte stare.  1. Nadir è un veliero che svolge operazioni di search and rescue nel Mediterraneo e fa parte della Civil Fleet ↩︎
Cosenza e Crotone: prassi illegittime e diritti negati ai richiedenti asilo
Tempi d’attesa «biblici», dinieghi «copia e incolla», richieste arbitrarie di documenti, uffici inaccessibili persino agli avvocati. È il quadro che emerge dalle segnalazioni inviate il 14 novembre da una coalizione di oltre venti organizzazioni 1 – coordinate da ASGI Calabria – al Ministero dell’Interno, alla Prefettura e alla Questura di Cosenza, alla Commissione Nazionale Asilo e alla Commissione territoriale di Crotone. Lettere dettagliate che descrivono un sistema «cronico e in costante peggioramento», capace di negare diritti fondamentali ai richiedenti asilo e di gravare sul funzionamento della giustizia. L’iniziativa ha raccolto inoltre un’ampia adesione tra decine tra avvocati, operatori sociali, centri SAI. Nella lettera indirizzata alla Questura di Cosenza 2, le associazioni parlano di una situazione che «le persone sono costrette a subire da più di tre anni». L’Ufficio immigrazione «riceve quotidianamente un numero di persone molto inferiore al totale di quante vorrebbero accedervi», con la formazione di code interminabili e «persone costrette ad arrivare estremamente presto negli orari mattutini» per sperare di entrare. Le violazioni più gravi riguardano la fase iniziale della procedura di protezione internazionale. Le associazioni firmatarie denunciano l’«attuale sostanziale impossibilità di presentare domanda di protezione internazionale»: appuntamenti fissati per «marzo 2026», rinvii orali, settimane di tentativi a vuoto per accedere agli uffici. Tutto ciò lascia i richiedenti asilo «privi di un valido titolo di soggiorno», impossibilitati ad accedere a cure mediche, lavoro, alloggi e accoglienza, e potenzialmente esposti al rischio di espulsione. Non solo: l’amministrazione subordina la formalizzazione della domanda alla presentazione di documenti sull’ospitalità, richiesta non prevista dalla legge e in contraddizione con quanto la stessa Questura aveva dichiarato in un precedente accesso civico. Una prassi che il Tribunale di Catanzaro ha già più volte censurato, condannando l’Ufficio a provvedere entro 3–10 giorni. Le associazioni denunciano anche una totale incertezza sul rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno, con informazioni «contraddittorie» fornite oralmente e richieste di documentazione «non prevista da alcun disposto normativo». Le tempistiche superano «i previsti 60 giorni» e spesso perfino i 180 giorni massimi, arrivando «a svariati mesi, se non addirittura anni». Di particolare gravità, scrivono le organizzazioni, è il fatto che sia «sistematicamente impedito l’ingresso» agli avvocati e agli operatori legali che accompagnano i propri assistiti: una violazione palese del diritto di difesa all’interno di un ufficio «che è diretta espressione dell’amministrazione dello Stato sul territorio». Si segnalano inoltre «mancanza di mediatori» adeguati, rilascio ritardato dell’attestazione della domanda d’asilo, violazioni della legge 241/90 sul procedimento amministrativo e una serie di «comportamenti inurbani e aggressivi» da parte del personale di sportello. LA COMMISSIONE TERRITORIALE DI CROTONE: DINIEGHI STEREOTIPATI E TEMPI INTERMINABILI La seconda lettera, indirizzata alla Commissione territoriale di Crotone 3, descrive altrettante criticità. Viene riferito un «altissimo numero di provvedimenti di diniego» spesso formulati attraverso «mere formule di rito, dal contenuto stereotipato» e privi di qualunque ricerca COI (country of origin information). Questi rifiuti, si legge, vengono «nella grandissima maggioranza dei casi» ribaltati in Tribunale già in primo grado, con un aggravio inutile per la Sezione specializzata del Tribunale di Catanzaro. Allarmante anche quanto riferito su alcuni commissari di nuova nomina, che durante le audizioni avrebbero commentato: «tanto poi c’è il ricorso», mostrando «assoluta non consapevolezza del delicato ruolo ricoperto». I tempi di convocazione per le audizioni «arrivano anche a due anni dalla presentazione della domanda», mentre le decisioni possono richiedere 8-9 mesi. Ancora più critica la situazione dei pareri relativi alla protezione speciale: ritardi ingiustificati, pareri «nella stragrande maggioranza dei casi di senso negativo» e totale assenza della valutazione degli elementi previsti dalla legge. Nella lettera sono denunciate anche «ostilità verso la produzione documentale» da parte di legali e operatori durante le audizioni, trasferimenti immotivati di fascicoli ad altre Commissioni, e l’abbandono delle prassi virtuose di confronto con il territorio che in passato caratterizzavano l’ufficio. Le conseguenze, scrivono le associazioni, sono la «lesione dei diritti dei richiedenti asilo», l’aumento del contenzioso e un generale «svilimento» della procedura amministrativa. LE RICHIESTE DELLE ASSOCIAZIONI: VERIFICHE E MISURE CORRETTIVE Dinanzi a un quadro giudicato «cronico e strutturale», le organizzazioni firmatarie chiedono che le autorità competenti avviino «una verifica approfondita delle prassi contestate» e adottino misure urgenti per ristabilire legalità, trasparenza e il rispetto delle garanzie previste dalla legge italiana ed europea. Le associazioni si dichiarano inoltre disponibili a un incontro «con tutte le realtà operanti nel settore» per individuare soluzioni e ripristinare un dialogo con le istituzioni. 1. Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione – ASGI Associazione Don Vincenzo Matrangolo E.T.S. di Acquaformosa Agorà Kroton soc. coop. sociale onlus Ambulatorio medico “A. Grandinetti” e Auser Cosenza ArciRed Associazione Comunità Progetto Sud ETS Associazione Culturale “La Kasbah ETS” Carovane Migranti Centro Sai Cerchiara coop. soc. Medihospes Cidis Impresa sociale ETs CNCA Calabria Collettivo L’Altra Marea Equipe sociosanitaria-sopravvissuti a tortura Germinal APS La Base La Terra di Piero Lotta Senza Quartiere ODV Prendocasa Sabir Srl Sociale ETS Sportello legale “Stand-Up” Usb Cosenza Avvocati di strada di Cosenza. ↩︎ 2. Lettera indirizzata alla Questura di Cosenza ↩︎ 3. Segnalazione in merito all’attività della Commissione Territoriale di Crotone ↩︎
Solroutes: una conferenza per ripensare la solidarietà lungo le rotte migratorie
STATION 5. DE-BORDERLANDS: NAMING, GENDERING, INFRASTRUCTURING FREEDOM OF MOVEMENT Intermediate conference Negli ultimi decenni, la ricerca accademica sulla migrazione ha sempre più superato il nazionalismo metodologico. All’interno di questo cambiamento, la solidarietà è emersa sia come ideale normativo che come oggetto empirico, animata da vari attori – ovvero migranti, attivisti, reti di parentela, movimenti di base e ONG – che operano in diversi ambiti, luoghi e scale. Tuttavia, la solidarietà è ben lungi dall’essere una categoria stabile o universale; è piuttosto un campo controverso e dinamico di azione sociale e significato, profondamente radicato nelle lingue, nelle relazioni sociali di genere e nelle infrastrutture culturali, sociali e materiali. Abbiamo suggerito di concepire la solidarietà attraverso la lente di un approccio materialistico: durante quasi due anni di lavoro etnografico sul campo in Africa settentrionale e occidentale, nei Balcani e nelle aree mediterranee, i ricercatori di SOLROUTES 1 hanno cercato di esplorare come la solidarietà, in quanto energia circolante, apra percorsi e opportunità di superamento dei confini, affrontando i vincoli sempre più severi delle politiche e delle tecnologie di frontiera. La conferenza intermedia è stata convocata in risposta alla necessità di una teorizzazione plurale e situata della solidarietà, fondata sulle esperienze vissute da coloro che abitano, resistono e navigano le rotte migratorie. Inoltre, l’obiettivo è quello di presentare i risultati intermedi del progetto entrando in un dialogo teorico e metodologico con colleghi e studiosi che lavorano su argomenti simili. Per chi desidera approfondire, sono disponibili per il download il programma completo, il libro degli abstract e il programma degli eventi artistici (in lingua italiana), che accompagnano una conferenza pensata non solo come spazio accademico, ma come occasione collettiva per interrogare – e immaginare – nuove forme di solidarietà nelle migrazioni contemporanee. 1. Solroutes è un progetto di sociologia basata anche sull’espressività dell’arte. Ricerca sociologica e ricerca artistica si intrecciano per poter raccogliere e restituire al meglio i racconti e le voci dei migranti che incontriamo nelle nostre pratiche, nei loro difficili e drammatici viaggi, nei luoghi che abitano costantemente provvisori. In questi due anni abbiamo esplorato molteplici linguaggi – etnografia, scrittura, fotografia, documentario, musica, illustrazione, teatro e arte contemporanea – per costruire uno sguardo plurale e condiviso ↩︎
Controdizionario del confine. Parole alla deriva nel Mediterraneo centrale
Prefazione di Georges Kouagang Navigando in mare aperto bisogna sempre avere con sé strumenti per non andare alla deriva. Nell’oceano delle migrazioni contemporanee, solcato da fratture di classe, genere e provenienza, che come linee su una cartina tracciano confini tra chi può spostarsi comodamente e chi rischia la vita per sfidare frontiere militarizzate, anche le parole sono una scialuppa di salvataggio. L’Europa ha chiuso da anni i propri confini meridionali trasformando il Mediterraneo in un posto di frontiera, appaltandone il controllo a polizie nazionali e transnazionali o delegando colonialmente questa violenza strutturale ai governi autoritari di alcuni paesi di transito. Le persone la cui libertà di movimento è stata limitata hanno elaborato, ibridando lingue diverse o risignificando termini esistenti, un linguaggio non neutro – opposto alle retoriche occidentali criminalizzanti ed escludenti – frutto di scelte intrise di bisogni materiali, che restituisce il punto di vista di chi si sposta e il modo in cui il viaggio è vissuto, raccontato e nominato. Parole con cui chiamare alleati, luoghi e mezzi ma anche scovare nemici, pericoli e contraddizioni, descrivere forme di solidarietà e atti di violenza. Strumenti per conoscersi e riconoscersi tentando di rompere il confine. Il Controdizionario che le raccoglie è una bussola imprescindibile per chiunque voglia orientarsi nel mare delle migrazioni, intersecare le rotte e navigare insieme. * La scheda dl libro L’Equipaggio della Tanimar è composto da un gruppo di ricercatrici e ricercatori delle Università di Genova e di Parma che studia le forme di mobilità e l’abitare migrante nel regime di frontiera mediterraneo. Formato da sociologi, antropologi e giuristi, si occupa di migrazioni, immaginari e confini usando metodi etnografici, visuali e partecipativi. Dopo anni di ricerca sul confine mediterraneo, nel 2022 l’equipaggio ha navigato tra Pantelleria, Malta e le Isole Pelagie, esperienza da cui è nato il libro Crocevia mediterraneo (Elèuthera, 2023). Un secondo viaggio etnografico ha interessato, nel 2023, l’area dei porti tunisini di Kerkennah, Sfax, Mahdia e Monastir e un terzo, nel 2025, le isole dell’Egeo, tra Grecia e Turchia. Nel settembre 2025 l’equipaggio ha partecipato all’iniziativa politica f.Lotta, un’occupazione massiccia del Mediterraneo.
Frontex conferma le responsabilità delle autorità bulgare nella morte di tre minori
A quasi un anno dalla morte di tre minori egiziani in Bulgaria, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex (The Fundamental Rights Officer – FRO) ha pubblicato un report 1 che conferma il racconto di Collettivo Rotte Balcaniche e No Name Kitchen, identificando chiaramente la responsabilità diretta della polizia di frontiera bulgara per queste morti. Nel dicembre 2024, Ahmed Samra, Ahmed Elawdan e Seifalla Elbeltagy – tre minori egiziani – avevano comunicato ai gruppi solidali di trovarsi in condizioni di emergenza nella zona di Gabar, in Bulgaria, dopo aver attraversato il confine turco-bulgaro. Pur essendo stata avvisata con ripetute telefonate, la polizia di frontiera bulgara non solo non ha risposto alle chiamate, ma si è anche adoperata per bloccare i tentativi del Collettivo di raggiungere i tre minori, che sono poi morti di ipotermia. A quasi un anno di distanza, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali di Frontex conferma la versione delle organizzazioni solidali: “Le autorità bulgare avevano l’obbligo di assistere e soccorrere i migranti. Avendo informazioni sufficienti a determinare che essi si trovavano in pericolo di vita, essendo a conoscenza della loro posizione esatta e avendo i mezzi per intervenire, esse non hanno comunque adottato le misure necessarie in tempo, con il risultato che tre persone hanno perso la vita”. L’Agenzia europea rigetta inoltre la campagna di diffamazione avviata dal Ministero dell’Interno bulgaro dopo la pubblicazione del report Frozen Lives redatto dalle organizzazioni.  Rapporti e dossier/Confini e frontiere VITE CONGELATE AL CONFINE: LE RESPONSABILITÀ DELLE AUTORITÀ BULGARE E LA COMPLICITÀ DELL’UE Il rapporto di No Name Kitchen e del Collettivo Rotte Balcaniche Anna Bonzanino 5 Febbraio 2025 Secondo il Collettivo Rotte Balcaniche, inoltre la polizia di frontiera «ha intensificato il livello di criminalizzazione delle ONG, moltiplicando le indagini e gli arresti, in un chiaro tentativo di silenziare il lavoro di denuncia della violenza sul confine». Il documento di Frontex riconosce, inoltre che, al di là di questo evento specifico, la cosiddetta “incapacità” di compiere operazioni di ricerca e soccorso è in realtà una pratica di routine delle autorità bulgare. Negli ultimi anni, l’Ufficio per i Diritti Fondamentali ha documentato ripetutamente le azioni della polizia di frontiera bulgara, affermando che “i pushback, spesso caratterizzati da alti livelli di violenza e trattamenti inumani o degradanti, sono una pratica quotidiana della polizia di frontiera bulgara” ed esprimendo una “profonda preoccupazione rispetto alle accuse ripetute nei confronti delle autorità bulgare di non rispondere in maniera appropriata alle chiamate di emergenza.” Tuttavia, il Collettivo ci tiene a sottolineare anche il ruolo strumentale di Frontex «che finanzia e collabora alle attività di controllo dei confini bulgari, si autoassolve nuovamente, scaricando la responsabilità dell’accaduto sulle autorità bulgare e utilizzando persino queste morti per richiedere un aumento della propria presenza in Bulgaria». Questa posizione viene definita contraddittoria, poiché il personale di Frontex opera legalmente sotto il controllo delle autorità locali: secondo il Collettivo, infatti, «i migranti intercettati da Frontex vengono poi espulsi in maniera illegale e violenta», mentre il personale dell’Agenzia «rischia di essere complice – o meglio è direttamente responsabile – di queste espulsioni». A partire da marzo 2025, Frontex ha inoltre «ripetutamente bloccato e seguito per ore squadre di ricerca e soccorso», impedendo loro di raggiungere le persone in movimento in condizione di emergenza. E ciò nonostante l’Ufficio per i Diritti Fondamentali riconosca il lavoro delle squadre civili come «autentico», denunciando al contempo i tentativi della polizia di ostacolarlo. Il Collettivo definisce però queste affermazioni come meri interventi superficiali, privi di ricadute operative: «Affermazioni come quelle dell’Ufficio restano soltanto cosmetiche se non accompagnate da azioni concrete». Da qui la richiesta di interrompere «immediatamente ogni collaborazione con e supporto alle autorità bulgare». Infine, un’eventuale inazione di Frontex sarebbe solo un’ulteriore conferma del carattere sistemico delle politiche europee di frontiera: «Se Frontex non adotterà misure adeguate, sarà una conferma in più che queste morti non sono state un incidente ma il risultato voluto e cercato di politiche di confine europee che, se non smantellate, possono soltanto uccidere». Dello stesso avviso anche No Name Kitchen che tramite la rappresentante Ric Fernandez afferma che «questi minori avrebbero potuto essere salvati, le stesse conclusioni di Frontex confermano l’esistenza di un sistema progettato per lasciar morire le persone alla frontiera, e chiunque sostenga tale sistema ne è responsabile». Anche NNK chiede a Frontex di sospendere immediatamente ogni cooperazione operativa con la polizia di frontiera bulgara, nonché di pubblicare i risultati completi del FRO e tutte le comunicazioni interne relative all’incidente, infine garantire di accertare la responsabilità per qualsiasi agente coinvolto nell’ostruzione dei soccorsi. «Questo caso non è una tragedia isolata. Esso mette in luce le carenze sistemiche nell’applicazione delle norme di frontiera dell’UE, dove le operazioni di Frontex e le autorità nazionali effettuano congiuntamente respingimenti illegali, pratiche violente e ostacoli ai soccorsi. Se Frontex continuerà a cooperare con le autorità bulgare nonostante questi risultati, confermerà che queste morti non sono incidenti isolati, ma il risultato prevedibile della politica dell’UE, una politica che continuerà a uccidere se non verrà modificata radicalmente», conclude No Name Kitchen. 1. Frontex Report – Serious Incident Reports Cat 1 ↩︎
A Trento sabato 13 dicembre una manifestazione contro la costruzione del CPR
Sabato 13 dicembre il Coordinamento Trentino-Alto Adige/Südtirol No CPR chiama la cittadinanza a scendere in piazza alle ore 14.30 contro la costruzione del Centro di Permanenza per il Rimpatrio previsto in Destra Adige, vicino al quartiere di Piedicastello. La manifestazione arriva dopo una partecipata assemblea che si è svolta il 12 novembre al Centro sociale Bruno, che ha segnato una nuova tappa di un percorso condiviso tra oltre quaranta realtà sociali e politiche del territorio, la maggior parte delle quali sono impegnate quotidianamente nella solidarietà e nel sostegno alle persone migranti 1. Il progetto del CPR nasce dall’accordo firmato il 24 ottobre 2025 2 tra il presidente della Provincia Maurizio Fugatti e il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi e potrebbe essere il primo realizzato dal governo Meloni su suolo italiano, perché la Provincia di Trento si è impegnata a finanziare l’opera e ad andare in deroga a qualsiasi criterio urbanistico, economico e di trasparenza pur di accelerarne la costruzione. Per il Coordinamento si tratta di «una gigantesca gabbia stretta tra l’autostrada e la tangenziale di tremila metri quadrati, con container, filo spinato, barriere e telecamere, destinata a rinchiudere decine di persone che non hanno commesso alcun reato» e il risultato «di anni di retorica razzista che parla di “sicurezza” mentre crea esclusione sociale e paura del migrante». Nell’appello, le realtà promotrici ricordano che i CPR sono strutture detentive dove vengono trattenute persone che non hanno ottenuto «il documento giusto», cioè «uomini e donne colpevoli soltanto di un’irregolarità amministrativa, puniti con la privazione della libertà personale». È un sistema che da «ben ventisette anni […] produce solo violenza, soprusi e morte» e che continua a esistere grazie a politiche che creano irregolarità «discriminando in base al paese di origine, allo status giuridico e alla classe di appartenenza». I CPR, si legge, sono lo strumento di deterrenza per eccellenza: «perché se sei senza documenti, sei ricattabile e disposto ad accettare qualunque sopruso pur di evitare di finire inghiottito nel gorgo dei CPR». Oggi in Italia sono dieci i CPR attivi, a cui si aggiunge la struttura aperta in Albania, frutto di un accordo definito «neocoloniale» nell’appello, perché esternalizza la detenzione fuori dai confini mantenendone la gestione italiana. Il Coordinamento definisce i CPR «il simbolo di una violenza sistemica normalizzata, luoghi di tortura legalizzata», come vengono descritti dalle persone che vi sono rinchiuse e dalle organizzazioni che da anni ne documentano le condizioni. Sono anche definiti «i manicomi del presente», spazi che nascondono alla vista pubblica chi viene ritenuto indesiderato o non produttivo. Non esiste, sostengono, una forma “mite” di detenzione amministrativa: «Non c’è modo di renderli “più umani”, come non è possibile riformare questo sistema: i CPR sono lager di Stato, perché non esiste un modo giusto per fare una cosa ingiusta». Questo dispositivo, aggiunge l’appello, è incompatibile con i principi fondamentali dello Stato di diritto poiché «legittima la privazione della libertà senza reato e introduce un doppio binario razziale, di vera e propria apartheid, tra cittadini e cittadine appartenenti alla stessa comunità». La costruzione del CPR si colloca inoltre dentro un quadro più ampio che ricadute ben visibile anche a livello locale: «Lo smantellamento del sistema di accoglienza, l’aumento dell’esclusione e della povertà, la cancellazione di qualsiasi ipotesi di regolarizzazione e il progressivo restringimento dei diritti di chi vive e lavora in Italia». A Trento tra le 1.200 e le 1.500 persone richiedenti asilo che avrebbero diritto a un’accoglienza dignitosa sono già oggi «escluse da qualsiasi forma di assistenza, lasciate in strada, a serio rischio di irregolarità». L’accordo del 24 ottobre prevede inoltre un dimezzamento dei posti nel sistema di accoglienza per richiedenti asilo che passerebbero dagli attuali 700 a 350. Per queste ragioni le realtà del Coordinamento parlano di «un salto di crudeltà della giunta Fugatti e dell’ennesima falsa soluzione a problemi complessi». E invitano la popolazione a mobilitarsi: «È il momento di opporsi alla costruzione del CPR nel nostro territorio». E invitano alla partecipazione collettiva: «Scendiamo in piazza unit* per dire che la vera sicurezza non nasce dalla sofferenza, né dall’esclusione: nasce dal pieno riconoscimento dei diritti di cittadinanza e dalla giustizia sociale. È ora che le istituzioni smettano di eludere i propri doveri». Il documento si chiude con una piattaforma politica articolata, che non viene proposta come una lista di richieste ma come un orizzonte comune: «Per la chiusura di tutti i centri di detenzione amministrativa: questo sistema non è riformabile; per il ripristino e potenziamento del sistema di accoglienza diffusa come alternativa strutturale alla realizzazione dei CPR in Trentino-Alto Adige/Südtirol; per l’abolizione della legge Bossi-Fini e dei cosiddetti decreti “sicurezza”; vogliamo percorsi di regolarizzazione, diritti e inclusione, vogliamo allargare il diritto fondamentale alla libera circolazione anche ai cittadini e alle cittadine non comunitarie». Notizie/CPR, Hotspot, CPA TRENTO DICE NO AL CPR: UN’INTERA CITTÀ CONTRO L’ACCORDO FUGATTI-PIANTEDOSI Cresce la mobilitazione: “Né qui né altrove” Redazione 30 Ottobre 2025 1. Aderiscono al Coordinamento regionale: Assemblea Antirazzista Trento; Bozen Solidale, Centro Sociale Bruno; Spazio autogestito 77; Scuola di italiano Libera La parola Trento; Coordinamento Studentesco Trento; Collettivo Mamadou; Gruppo Trentino con Mimmo Lucano; CucinaCultura; SOS Bozen; Scioglilingua Bolzano; Alleanza Verdi e Sinistra del Trentino; Sinistra die Linke; Ambiente e Salute – Umwelt und Gesundheit; Unione Popolare Alto Adige; LINX; Rifondazione Comunista (Trentino e Alto Adige); Pace Terra Dignità Alto Adige; OMAS GEGEN RECHTS – Bozen; ANPI (Trentino e Alto Adige); Rete dei diritti dei senza voce; Mediterranea Trento; Centro Pace ecologia e diritti – Rovereto; Il Gioco degli Specchi APS; Associazione Oratorio S. Antonio; Comunità di S. Francesco Saverio; Donne per la Pace Trento; Arcigay del Trentino; GrIS Trentino; Associazione A scuola di Solidarietà; ATAS Onlus; Donne in nero di Rovereto; Arci del Trentino; Cortili di Pace di Pergine; Yaku onlus; Extinction Rebellion Trento; Associazione 46° Parallelo ETS / Atlante delle Guerre e dei Conflitti del Mondo; Onda Trentino (in aggiornamento…) ↩︎ 2. Scarica l’accordo di collaborazione ↩︎