Il deserto dei Tartari
Silence fini è il racconto di tre settimane nel Mediterraneo centrale a bordo
del veliero Nadir 1 di RESQSHIP, in cui ho vissuto il soccorso in mare e
osservato da vicino le vite delle persone migranti e dell’equipaggio, tra
responsabilità, vulnerabilità e privilegio, in un mare che resta coerente e
implacabile.
Attraverso la mia esperienza personale, esploro cosa sia un soccorso e come
frontiere, norme e gerarchie si manifestino nei corpi, nei gesti, nelle
decisioni e negli sguardi.
Silence fini vuole aprire ad una riflessione sulle contraddizioni etiche e
politiche del Mediterraneo contemporaneo.
Il racconto della navigazione a bordo di questo veliero della Civil fleet che
opera monitoraggio e soccorso nel central med, vuole ricordare la violenza
strutturale che colpisce chi attraversa, tra respingimenti, detenzioni e
pratiche di Stati che negano sicurezza e diritti fondamentali.
SILENCE ET ATTENTE. IL DESERTO DEI TARTARI
Se mi chiedessero quanto tempo dura un soccorso, potrò dire che può durare 26
minuti e che quei minuti ovviamente perdono dimensione: si dilatano, allungano,
sparpagliano.
Notte insonne o quasi.
Alle dieci di mattina del 5 novembre, riceviamo un Mayday relay forte e chiaro
da Eagle 1, Frontex: un gommone sgonfio con a bordo circa 70 persone. Siamo a
solo due ore dal target, o poco più.
Ci prepariamo, con calma, con ordine: sappiamo che siamo in SAR Libica e che la
segnalazione di frontex via radio arriva a tutti, compresa alla so called Libyan
GC.
Siamo, quasi, poco convinti… in questi giorni le segnalazioni sono state
numerose, ma alla fine qualcosa ci ha sottratto al soccorso: un’altra barca
della civil fleet nella migliore delle situazioni, un naufragio o una cattura da
parte di GC tunisine o libiche, nelle altre. Nel frattempo arriva la
comunicazione via VHF anche da SB, aereo che fa parte della flotta civile.
Ci conferma le informazioni di E1, ma aggiunge che i libici si stanno dirigendo
veloci verso quella direzione e che sono armati fino ai denti. Lascio che questa
informazione mi scivoli addosso, come molte di quelle che arriveranno nelle ore
che seguono: giusto parole, una dopo l’altra, che non si aggrappano al cervello.
Non trattengo, non “processo”, non registro. Quanto di più tipico durante
un’azione d’urgenza. Mi ci soffermerò dopo, ad operazione finita, lo farò nei
prossimi giorni. Una certezza: chi presta soccorso, non è e non deve essere
armato, se non di forza, coraggio, speranza, desiderio, cura e molto altro. Ma
no, nella lista le armi non sono previste.
Ci dirigiamo e continuiamo la corsa.
Poi, li avvistiamo e ci facciamo riconoscere. L’immagine che si profila e che
appare poco a poco più netta, mi sembra quella tipica di un soccorso, come se ne
vedono molte: le persone sono a bordo di un gommone mezzo sgonfio,
sovraffollato. Sono dentro e a cavalcioni di questa cosa che galleggia. Ovunque
persone: sui lati, all’interno. Piedi nudi, gambe sospese nel vuoto.
Niente di rosso ci appare: nessun gilet di salvataggio, solo qualche pneumatico
nero attorno alle braccia di quelli che sono più esterni, seduti sui bordi.
Facciamo segno, ci riconoscono, esultano. L’accoglienza che ci riservano, le
benedizioni che ci inviano è bella ma pericolosa: il loro equilibrio è talmente
precario che in un attimo lacosachegalleggia potrebbe capovolgersi.
Li invitiamo alla calma. Con le parole, coi gesti.
Le procedure standard, su cui siamo formati, prevederebbero di mettere in mare
il nostro RHIB. Ma la corsa contro il tempo non lo consente e quindi ci
limitiamo ad avvicinarci e a comunicare in modo chiaro e forte chi siamo, che li
porteremo a bordo e come lo faremo. Il resto non so spiegarlo. Come un film al
rallentatore, una serie di gesti che si incollano un pezzo alla volta.
Noi dell’equipaggio funzioniamo come un corpo a cui la testa ha dato i comandi.
Io a prua e un’altra persona a poppa dobbiamo lanciare una cima che le persone a
bordo di quella cosa sgonfia dovranno tenere, dall’inizio alla fine, senza mai
lasciarla.
Due persone devono stare all’interno, per accogliere chi entrerà a bordo, due
alla porta d’ingresso per farle passare dalla zattera alla nostra nave, primo
porto sicuro. Il capitano al comando di questa manovra.
Iniziamo e da questo momento fino al termine dell’operazione sono concentrata su
quello che devo fare senza avere una completa visibilità su quello che i miei
compagni compiono. Eppure siamo coordinati.
Scoprirò alla fine che per far salire a bordo tutte le 71 persone, ci abbiamo
messo soltanto 26 minuti. Lancio loro la cima. Non ricordo se sono la prima a
farlo o il mio compagno a poppa.
Reportage e inchieste/In mare
SILENCE FINI
Il racconto di una navigazione a bordo del veliero Nadir
Roberta Derosas
27 Novembre 2025
Lancio e la prendono, la afferrano, la stringono. Se potessero, mi sembra che se
la legherebbe attorno. Dall’altro lato è uguale. Il gommone nero si attacca alla
chiglia della nostra N. Le braccia si tendono. La maggior parte delle persone è
adulta: dalla posizione in cui mi trovo, mi ricordano i miei figli quando da
piccoli mi tendevano le braccia. Vedo i visi, gli occhi, gli sguardi.
E ancora le braccia tese.
Si appendono alle cime, cercano di arrampicarsi, mentre gridiamo per farci
sentire: è pericoloso quello che che accade. Il loro barcone ondeggia mentre
sono tutti in piedi nel suo ventre sgonfio e bagnato. Grida di paura, grida di
ordine, di comando, di indicazioni, di pretese e richieste di essere accolti per
primi.
Sollevano i bambini, vogliono passarceli, salvarli. D’istinto ne prendo uno che
qualcuno mi passa. Penso a quella celebre frase che ricorda che nessun genitore
affronterebbe quel viaggio se avesse un’altra scelta. Nessuno metterebbe in mare
i propri figli dandoli in pasto alla morte, prima del tempo.
Comincia il trasbordo: cerchiamo di far passare prima le donne e i bambini. Ma
non sempre è possibile. le persone si pressano, accalcano: la paura di non
farcela li rende aggressivi tra loro all’inizio. Uno, due, tre, quattro…
“mantenete la calma, salirete a bordo tutti”.
Cinque, sei, sette, otto…
“Non lasciate le cime”
Nove, dieci, undici e ancora, ancora, ancora, uno di più, senza smettere, senza
pace né tregua, correndo per portarli tutti a bordo.
E mentre alcuni salgono, altri aspettano il loro turno, chi con calma, chi con
ansia, mentre li rassicuriamo. A gesti e a parole.
Un ragazzo di fronte a me, un minore che viaggia da solo. Mi guarda e mantengo
il contatto con lo sguardo, gli sorrido, lo rassicura. Potrebbe avere l’età di
mia figlia. Tra i 16 e i 17 anni. Lei è al caldo, a quest’ora è a scuola.
Le persone salgono a bordo e io indico agli uomini che salgono sul ponte dove
sedersi a prua. Le donne e i bambini all’interno. Il gommone nero si svuota. Ne
restano a bordo tre, due, uno. Nessuno.
Sono tutti qui ora nella nostra barca.
Tutti al sicuro.
La procedura prevede mail e chiamate, compreso la MRCC libica. Tocca a me, fa
parte delle mie funzioni a bordo. Al primo e secondo numero non risponde
nessuno.
Al terzo, mi rispondono. “No english, only arabic”. Ripeto e provo anche in
francese. La risposta è la stessa. Silenzio. Riagganciano. Da MRCC Malta non
risponde nessuno. Solo una segreteria telefonica.
Da Roma invece qualcuno all’altro capo del filo. L’ufficiale di servizio
conferma di aver ricevuto la mail. Sudo. Questa è la parte che mi fa più timore,
eppure ho sempre l’appoggio del capitano. Ma basta una mail mandata al momento
sbagliato, una parola non precisa che si rischia l’arresto delle operazioni da
parte delle autorità.
Nel frattempo, la N si trasforma: non esiste uno spazio vuoto. Le nostre cabine
sono piene di oggetti. Altrove, persone ovunque.
E poi odore di urina, di escrementi, di paura, di mare bagnato.
Gente che vomita ovunque.
Le persone sono fradice: di viaggio, di fatica, di anni di lotta ed erranza. Se
mi chiedessero quale odore associo alla migrazione di chi arriva dall’Africa
attraverso il mare, è questo. Lo stesso che ho sentito ai moli durante gli
approdi.
Cominciamo ad aiutare le donne a lavarsi, a mettere vestiti asciutti. Ancora una
volta: una, due, tre, quattro…. Ci vuole qualche ora perché siano tutte coi
vestiti asciutti. I sacchi si riempiono di panni bagnati pieni di vomito, urina,
dolore.
Siamo in tre donne a prenderci cura di loro. Le aiutiamo a lavarsi, a passare il
sapone su schiene, seni, ventri che hanno cicatrici di colpi e smagliature dei
parti. Corpi nudi, indifesi. A cui cerchiamo di restituire ciò che mi sembra sia
stato tolto per anni. Non smetto di pensare a come mi sentirei se una
sconosciuta mi guardasse nuda. Cerco di essere discreta, a me non piacerebbe.
Credo vorrei solo chiudermi da qualche parte lontano da tutto.
Chiediamo loro se vogliano essere aiutate. Nessuna rifiuta. Metto tenerezza in
quel gesto, la stessa cura che userei verso i miei figli, verso me stessa, verso
chi conosco e amo. Alcune parlano, altre distolgono lo sguardo, altre ancora
raccontano la loro storia. Una donna nigeriana mi dice che è rimasta in Libia
oltre un anno dopo aver restituito il debito alla madam.
“Ho continuato a lavorare per conto mio, mi sono pagata il viaggio”.
Ha una grossa ferita sul seno. Mi dice che le è esplosa una bombola di gas
addosso mentre cucinava. Non faccio domande, ascolto chi ha voglia di
raccontare. Osservo i corpi, in silenzio: i lividi, le cicatrici, le
scarificazioni, la forma, le macchie;
Siamo tutti sfiancati: le persone a bordo sono stanche, gli ospiti si
addormentano, adattando i corpi ai posti disponibili. Noi ci diamo i turni per
avere qualche ora di riposo.
Il ponte è dorato dalle coperte termiche; fa lo stesso rumore della carta di una
caramella. Solo che le caramelle qui sono persone. 49 uomini. Dentro 26 donne. 5
bambini, tra cui una neonata di soli 21 giorni, che una madre sfinita allatta
senza sosta ad ogni risveglio.
Per fortuna, non ricorderà nulla di questa notte senza fine.
Avrà memoria degli anni che arriveranno, delle procedure, dei centri, dei
cambiamenti di case e paesi. Forse.
Ma non dei 26 minuti di questo soccorso.
1. Nadir è un veliero che svolge operazioni di search and rescue nel
Mediterraneo e fa parte della Civil Fleet ↩︎