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Rimpatri, la nuova stretta dell’UE: «Un regolamento disumano che va respinto»
L’11 marzo 2025 la Commissione Europea ha presentato una nuova proposta di Regolamento sui Rimpatri che, dietro la veste burocratica e il linguaggio tecnico, punta a definire un’Europa più oppressiva e punitiva. Questo regolamento è destinato a sostituire l’attuale Direttiva Rimpatri e per impianto ideologico strizza l’occhio ai promotori del Remigration Summit e alle politiche trumpiane, rafforzando un modello che non ha nulla a che vedere con la tutela dei diritti, ma si allinea alla propaganda securitaria e la normalizzazione di pratiche autoritarie. La logica dichiarata è quella di aumentare i tassi di espulsione, la sostanza è un sistema che poggia i suoi pilastri su detenzione, deportazioni e sorveglianza. Non un testo amministrativo, bensì un manifesto politico che considera la mobilità umana una minaccia e la trasforma in un problema di ordine pubblico. Oltre duecento organizzazioni europee hanno deciso di denunciare il Regolamento con un documento congiunto che smaschera la natura reale della proposta: “Il regolamento sull’espulsione fa parte di un cambiamento nella politica migratoria dell’UE che caratterizza il movimento umano come una minaccia per giustificare deroghe alle garanzie dei diritti fondamentali”, si legge nell’introduzione. Lo statement entra nel dettaglio punto per punto, mostrando la portata devastante delle misure. La prima “novità” riguarda la possibilità di espellere persone considerate irregolari verso paesi terzi in cui non hanno mai vissuto e con cui non hanno alcun legame personale, una pratica che distruggerebbe famiglie e comunità e che aprirebbe la strada a veri e propri centri di rimpatrio offshore, luoghi di detenzione al di fuori dell’UE in cui la tutela dei diritti diventerebbe un miraggio. In pratica, un’estensione e normalizzazione del cosiddetto “modello Albania”. Un altro punto riguarda la sorveglianza generalizzata: gli Stati membri sarebbero obbligati a mettere in atto sistemi di individuazione delle persone irregolari, alimentando così profilazioni razziali, retate di polizia, paura nelle comunità migranti. Un ulteriore elemento è l’estensione della detenzione amministrativa fino a 24 mesi, che colpirebbe indiscriminatamente minori, soggetti vulnerabili e persone che non possono essere espulse: una gravissima violazione del diritto internazionale e della dignità umana.  Il testo denuncia poi l’introduzione di misure punitive e coercitive sproporzionate: multe, restrizioni, divieti di ingresso e accesso ai servizi, fino alla negazione di prestazioni essenziali, con il paradosso di penalizzare chi non può adempiere a obblighi materiali impossibili, come l’ottenimento di documenti in caso di apolidia. Si colpisce anche il diritto di ricorso, eliminando la sospensione automatica delle espulsioni: in questo modo diventa quasi impossibile difendersi da un rimpatrio forzato. Infine, critica l’uso massiccio della sorveglianza digitale, con tracciamenti GPS, raccolta e condivisione di dati sensibili – inclusi quelli sanitari – anche con paesi terzi privi di tutele adeguate, creando un mercato redditizio per le multinazionali della sicurezza e della tecnologia. Le organizzazioni rigettano l’intero regolamento in modo netto: “Non risolverà nulla, ma produrrà solo più irregolarità, più marginalità, più esclusione sociale”.  «Questo regolamento aprirà la strada a un regime distopico di detenzione e deportazione, con decine di migliaia di persone rinchiuse nei centri di detenzione per migranti in tutta Europa, famiglie separate e persone inviate in paesi che non conoscono nemmeno – denuncia Silvia Carta, Advocacy Officer del PICUM – i legislatori dell’UE devono respingerla e lavorare invece su misure che promuovano l’inclusione sociale e la regolarizzazione delle persone costrette a vivere in un limbo legale». Le realtà associative e i movimenti accusano le istituzioni europee di alimentare sentimenti razzisti e xenofobi, di favorire gli interessi economici di chi lucra sui centri di detenzione e sui sistemi di sorveglianza, di sacrificare i diritti sull’altare della propaganda securitaria. Lo statement sottolinea l’assenza di una valutazione di impatto sui diritti fondamentali, evidenziando che si tratta di una proposta costruita senza consultazioni, senza trasparenza, senza rispetto delle stesse regole procedurali che la Commissione dice di voler applicare. “È la conferma di una scelta politica precisa: continuare a investire nella paura e nella punizione invece che nella protezione e nell’inclusione”. Le alternative esistono. Le organizzazioni chiedono di rafforzare i canali regolari di ingresso, di ampliare i permessi di soggiorno basati sui diritti, di garantire accesso alla salute, alla casa, al lavoro dignitoso, di costruire comunità forti e inclusive. «In un momento in cui le politiche di esclusione avanzano, chiediamo un rinnovato impegno verso la solidarietà e i diritti umani la sicurezza non può fondarsi sulla paura e sulla discriminazione, ma solo sull’inclusione, il rispetto e pari opportunità”, afferma Giovanna Cavallo, coordinatrice del Forum per Cambiare l’ordine delle cose e della Road Map per il Diritto d’Asilo e la Libertà di Movimento.  Il documento si chiude con una richiesta inequivocabile: il ritiro immediato della proposta e un’inversione di rotta radicale. Perché un’Europa che si definisce democratica e fondata sul rispetto dei diritti non può scegliere la strada della detenzione di massa e della deportazione. Perché la vera sicurezza non nasce dai muri, ma dalla giustizia sociale. Perché le vite delle persone non sono numeri da espellere, ma priorità da difendere. Lo scenario prossimo è quindi stretto tra questo Regolamento il nuovo e criminale Patto europeo su migrazione e asilo. Segnali inequivocabili di una trasformazione profonda: i governi europei, seppur in modo contradditorio, non parlano più di accoglienza, integrazione o protezione internazionale, ma di rimpatri di massa, detenzione e deportazioni. Un evidente spostamento a destra che occorre contrastare in tutti i modi possibili, attraverso l’attivazione sociale e politica, alleanze transnazionali tra movimenti e soprattutto momenti comuni di mobilitazione. Serve organizzarsi e lottare insieme, in Europa e oltre i suoi confini. Un primo appuntamento di rilievo è già stata lanciata dal Network Against Migrant Detention (NAMD) per l’1 e 2 novembre in Albania: “A due anni dalla firma del memorandum Rama-Meloni torneremo a Tirana, Gjadër e Shëngjin per contestare le deportazioni fasciste e per chiedere la chiusura definitiva dei CPR e le politiche di deportazione”. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Network Against Migrant Detention > (@networkagainstmigrantdetention)
f.Lotta: occupare il Mediterraneo per la libertà di movimento
IL CONTESTO E LE RAGIONI Dal 14 al 16 settembre 2025, ci sarà un  appuntamento in mare per partecipare ad un’azione il cui nome contiene il programma:  f.Lotta, un gioco di parole tra “flotta di mare” e “lotta“ ad “indicare la natura politica e intransigente dell’iniziativa”. Notizie F.LOTTA: UN’OCCUPAZIONE MARITTIMA CONTRO IL SISTEMA DEI CONFINI Dal 10 al 20 settembre a sud di Lampedusa 28 Luglio 2025 Un movimento indipendente, orizzontale e auto-organizzato che prevede una massiccia occupazione del Mediterraneo Centrale, a sud di Lampedusa per rivendicare la libertà di movimento per ogni cittadino del mondo. Questa “critical mass” del mare, nata dal basso, vuole contrastare il modello di controllo e esternalizzazione – razzista, capitalista e neocoloniale – proposto dalla Fortezza Europa. Per tre giorni, in un “spazio” sempre attraversato da soggetti diversi -persone che cercano di passare da una sponda all’altra, cosiddette guardie costiere libiche e tunisine, droni, aerei e navi di Frontex, flotte civili che operano il salvataggio e barche di pescatori – una quindicina di barche si danno appuntamento. Da Lampedusa al cuore del central Med, con l’idea di abitare questa frontiera liquida. Il messaggio generale di f.Lotta è la libertà di movimento, ma, accanto ad esso, si declinano 15 campagne politiche specifiche 1 di cui ogni barca sarà portavoce e testimone. A questa f.Lotta partecipa anche Tanimar, il cui progetto nasce nel 2022: da marinaie e marinai, da ricercatrici e ricercatori che hanno deciso di entrare in relazione con il Mediterraneo, provando a realizzare un’etnografia del mare e nel mare, a cominciare dallo stretto di Sicilia, per continuare con la Tunisia (2023) e con l’Egeo (2025).  Fotografia tratta da Linosa. Isolitudine. Equipaggio della Tanimar (2022) Durante le precedenti navigazioni, hanno tentato di disegnare un percorso che si intreccia con le rotte delle persone in movimento: per ricomporre memorie e analisi, per rendere più visibile la polifonia di voci e la pluralità di visioni sul futuro del Mediterraneo. Per questa nuova navigazione, saliranno a bordo persone e organizzazioni diverse, che, pur con linguaggio e strumenti diversi, hanno un comune fondamentale denominatore: considerano le migrazioni come fenomeni che attraversano confini – geografici, culturali, giuridici – e implicano memorie, diritti e immaginari condivisi. A bordo una fotografa e una filmaker, due professori di sociologia dei processi culturali e migrazioni a Genova e Parma, un mediatore culturale per The Routes Journal, volontari attivisti legati a OnBorders e Mem.Med. E poi il Progetto Melting Pot che ha una storia comune con Tanimar e ne ha già amplificato la voce che questa volta affida a me questa il racconto. Avremo un equipaggio di terra, con gli studenti delle radio universitarie, ma soprattutto coi testimoni del rapporto RRx che aspettano, nascosti negli uliveti e in qualche hangar tra Tunisia e Libia, di poter partire.  In questa prospettiva Tanimar ha deciso di aderire alla campagna lanciata da f.Lotta, organizzazione dal basso che promuove “un’occupazione massiccia del Mediterraneo Centrale, con un’iniziativa orizzontale, dal basso, spontanea”. Le ragioni di questa scelta sono evidenti per l’equipaggio che sale a bordo durante l’iniziativa, dal 14 al 16 settembre. Innanzitutto, perché il discorso politico e mediatico in Italia descrive il Mediterraneo come una barriera naturale tra mondi distanti, una frontiera liquida da controllare, setacciare, luogo in cui si scontrano le politiche europee di sorveglianza e repressione della mobilità e la volontà delle persone migranti di continuare a muoversi. Ma il Central Med non è solo questo. Questo mare, il cui confine che separa non si vede all’orizzonte ma su radar a bordo di barche, ha una storia che racconta di incontri, attraversamenti, scambi. PH: Roberta Derosas Nelle sue acque fatte di incroci si intrecciano persone migranti, pescatori, marinai, guardacoste, funzionari europei e statali, operatori umanitari e solidali, ciascuno portatore di interessi e prospettive diverse. Politiche migratorie europee basate sulla militarizzazione delle frontiere marittime e terrestri hanno contribuito, come conseguenza diretta, a trasformare il Mediterraneo in un confine mortale. Da una sponda all’altra, viene criminalizzato chi offre sostegno e solidarietà a chi è in transito, ma anche chi migra nel tentativo di raggiungere l’Europa: l’assenza di vie legali di accesso all’Europa lascia alle persone che partono l’unica possibilità di intraprendere viaggi rischiosi, su imbarcazioni di fortuna. Eppure, lo spazio mediterraneo continua a generare relazioni e pratiche che superano le dicotomie sociali, intrecciando storie e vissuti in un tessuto complesso. Luogo di incontro e campo di battaglia, spazio cruciale della contemporaneità in cui si riproducono processi di razzializzazione legati alla governance migratoria, il Mediterraneo è ugualmente orizzonte di desiderio e possibilità. Viverlo, percorrerlo, osservarlo è l’unico modo per comprenderlo davvero. Questo Mediterraneo, che si tenta di chiudere con blocchi navali, fermi amministrativi alle navi dei soccorritori civili, respingimenti operati dalle cd. guardie costiere libiche e tunisine e accordi bilaterali che lasciano dietro di sé una scia di sangue e morti, resta comunque aperto e poroso: continua ad essere attraversato con ogni mezzo da chi esercita il proprio diritto alla fuga. Ci sono molti modi di “stare” nel  Mediterraneo: pattugliare, controllare, soccorrere, osservare, accogliere, respingere, affondare, tessere, raccontare sono tutte azioni possibili. Tanimar, ancora una volta, vuole essere testimone civile di ciò che altrove viene nascosto o ridotto a spettacolo.  Per l’azione proposta da f.lotta, con il suo invito a “occupare in modo massiccio il Mediterraneo”, l’equipaggio di Tanimar sarà composto da cittadini provenienti da Africa ed Europa, filmaker, artist3, lavoratori sociali, rifugiat3,  ricercatrici e ricercatori, navigatrici e navigatori: al di là del background, delle funzioni e delle professioni, li unisce credere alle leggi del mare, all’obbligo di rendere soccorso, al doveroso diritto  di ogni singolo essere umano di poter scegliere dove vivere e di non essere respinto, violato, mercificato, soggiogato, torturato. Accanto al suo equipaggio di mare, ne avrà anche a terra: in Tunisia e in Libia, grazie al contributo dei corrispondenti del Giornale delle Rotte (un progetto di comunicazione alternativa sul tema della mobilità impedita animato da persone in viaggio o bloccate in attesa di partire) e ai testimoni del rapporto RR[X]  sul fenomeno della  tratta di Stato, ma anche grazie agli studenti delle radio universitarie di Parma e Bologna e ai volontari che agiscono in altre frontiere, di terra, che arrivano dopo l’approdo a Lampedusa.  Intrecciando attivismo, arte, nautica ed etnografia, Tanimar e i suoi equipaggi vogliono continuare a raccontare l’incontro con il Mediterraneo attraverso parole e immagini, suoni e visioni, in una tessitura che sia insieme politica e poetica. Il desiderio e la volontà dell’equipaggio sono di amplificare le voci di chi è privato del diritto al movimento sulla sponda sud del Mediterraneo, partendo dalle loro stesse parole, per non sostituirsi ad esse, ma condividere con chi vive l’attraversamento, il diritto al racconto, costruendo narrazioni che devono e possono essere incrocio di sguardi, parole, fili tessuti, patchwork a colori che formano una sola coperta. Ed è anche per questo che a bordo sarà portata quella di Yousuf, che è nata e continua a crescere per creare un legame tra le storie dei singoli, primo passo verso la nascita di una comunità. Partecipare a f.Lotta nella navigazione dello spazio mediterraneo significa anche diventare portabandiera e testimone di una specifica campagna nel contesto globale della lotta per la libertà di movimento. La Tanimar Anche Tanimar ne porta una: Stop State trafficking of human beings between Tunisia and Libya. Fermare la tratta di stato di esseri umani tra Tunisia e Libia.  Come rivelato dal Rapporto 2 di RR[X] (un gruppo di ricerca  internazionale che ha deciso di anonimizzarsi sotto uno pseudonimo collettivo per proteggere le proprie fonti), presentato al Parlamento europeo il 25 febbraio, il progressivo inasprimento delle politiche di frontiera dell’UE ha generato una conseguenza inquietante: la vendita e lo riduzione in schiavitù delle persone migranti subsahariani ad opera degli apparati militari e di polizia tunisini. Rapporti e dossier STATE TRAFFICKING SVELA LA TRATTA DI MIGRANTI TRA TUNISIA E LIBIA Un rapporto con 30 testimonianze da un confine esterno della UE Redazione 1 Marzo 2025 Il rapporto Tratta di Stato, accompagnato da un accurato sommario delle violazioni dei diritti umani nel corso delle operazioni di espulsione e deportazione curato da ASGI, intende riaprire il dibattito sulla responsabilità dell’Unione e dei singoli stati nell’esposizione alla morte e alla schiavitù delle persone in viaggio, così come sullo statuto di “paese sicuro” assegnato alla Tunisia, al suo ruolo di partner e beneficiario economico nella gestione della frontiera esterna della UE.  L’equipaggio di Tanimar è potuto entrare in relazione con i testimoni del rapporto RR[X]  sulla Tratta di Stato fra Tunisia e Libia e ha deciso di contribuire ad amplificare le loro storie e le loro richieste.   I testimoni di RR[X] dopo la presentazione del rapporto al parlamento europeo, e in Italia al Senato e alla Camera dei deputati, hanno presentato numerose interrogazioni parlamentari  senza ricevere risposta alcuna dalle istituzioni a cui si sono rivolti. La richiesta principale di questo collettivo che l’equipaggio di Tanimar vuole veicolare è l’apertura di un corridoio legale-umanitario affinché le voci delle vittime della tratta di Stato possano arrivare di fronte a un tribunale europeo. Durante i giorni dell’imbarco, testimoni e corrispondenti ancora in Libia e Tunisia racconteranno non solo la loro esperienza di vendita e deportazione alla frontiera, ma anche la loro lotta per il diritto alla mobilità e per avere giustizia e riparazione.   Attraverso diversi canali – la pagina Instagram del Giornale delle Rotte, una rete di radio universitarie studentesche, il progetto Melting Pot – l’equipaggio di Tanimar intende così contribuire ad amplificare la consapevolezza su un fenomeno recente e ancora poco conosciuto.  Nonostante la retorica europea della lotta ai trafficanti, le politiche di esternalizzazione della frontiera hanno generato un effetto paradossale: alla frontiera tunisino-libica, il trafficante di esseri umani indossa ora un’uniforme. In questo mare che è insieme luogo di transito, crocevia di esistenze, spazio di azione e di resistenza, gli equipaggi di Tanimar navigheranno ascoltando, osservando, raccogliendo, raccontando. Portare a bordo la coperta di Yousuf, amplificare la voce dei testimoni della Tratta di Stato, intrecciare saperi e pratiche dal mare e dalla terra, significa parlare di un altro Mediterraneo: aperto, solidale, plurale, fondato non sul possesso o sul controllo, ma sull’incontro, sulla cura e sulla responsabilità collettiva e condivisa. 1. Tutte le informazioni sulle campagne ↩︎ 2. Consulta il sito del rapporto ↩︎
Presentazioni della rivista ControFuoco: “Alle frontiere della detenzione. Genealogie, politiche, lotte”
«Controfuoco è un processo aperto e collettivo che vuole coinvolgere saperi e conoscenze composite e crescere a partire dalle diverse esperienze e biografie che intreccerà». «La rivista si pone come spazio di inchiesta e confronto, un cantiere collettivo per leggere criticamente l’ordine delle cose, a partire dalle lotte e dalle contraddizioni che lo attraversano». (dall’editoriale di ControFuoco N. 2, giugno 2025) Il secondo numero della rivista ControFuoco, intitolato “Alle frontiere della detenzione. Genealogie, politiche, lotte”, uscito nel mese di giugno, prosegue il percorso di ricerca collettiva e militante avviato con il primo numero, dedicato alle “figure della migrazione”. Questa volta il focus è sul sistema della detenzione amministrativa e sulle nuove frontiere del confinamento: dall’accordo Italia-Albania ai CPR in Italia ed Europa, dalle pratiche di resistenza ai saperi critici che ne smontano la legittimità. Approfondimenti/Il progetto/CPR, Hotspot, CPA CONTROFUOCO. PER UNA CRITICA ALL’ORDINE DELLE COSE (N° 2, GIUGNO 2025) «Alle frontiere della detenzione. Genealogie, politiche, lotte»: il nuovo numero della rivista di Melting Pot 22 Luglio 2025 Per discutere questi temi e intrecciarli con le mobilitazioni sui territori, il numero verrà presentato in tre città nel mese di settembre: Roma, Imperia e Genova. ROMA. SABATO 13 SETTEMBRE, ORE 18:00 Centro socio-culturale Ararat – Largo Dino Frisullo La presentazione aprirà l’assemblea pubblica verso il 27 settembre, giornata di mobilitazione contro il CPR di Ponte Galeria – Roma, che vedrà l’arrivo di Marco Cavallo 1. A dialogare con il pubblico ci saranno Francesco Ferri e Luca Ceraolo, tra gli autori del numero. Un momento per legare riflessione critica e lotta contro il sistema dei centri di detenzione. Evento su FB e IG IMPERIA. MARTEDÌ 16 SETTEMBRE, ORE 18:30 CSA La Talpa e l’Orologio – Via Argine destro 625, Barcheto – Oneglia Intervengono: Omid Firouzi Tabar (Ricercatore UniPD e attivista) Giovanni Marenda (Ricercatore UniGE, attivista Collettivo Rotte Balcaniche) Luca Daminelli (Ricercatore UniGE e attivista) La presentazione sarà anche un momento di solidarietà concreta: quanto raccolto durante la serata servirà a coprire le spese di viaggio per permettere alla famiglia Moussa Balde di essere presente al processo per omicidio colposo contro l’ex direttrice e il medico del CPR di Torino, a seguito della sua morte. Il giovane guineano di 23 anni, morì il 23 maggio 2021 nel CPR di Torino, dove era stato rinchiuso dopo aver subito una violenta aggressione razzista a Ventimiglia. Nonostante le sue condizioni di fragilità, venne posto in isolamento all’interno del centro, in una stanza priva di tutele adeguate, dove si tolse la vita. La sua morte ha scosso profondamente l’opinione pubblica e denunciato la brutalità del sistema dei CPR. Nel settembre 2025 si è aperto il processo 2 a carico dell’ex direttrice e del medico responsabile sanitario della struttura. La richiesta di giustizia portata avanti dai familiari e dalle reti solidali è parte integrante della mobilitazione più ampia contro la detenzione amministrativa. Evento su FB e IG GENOVA. GIOVEDÌ 18 SETTEMBRE, ORE 18:30 Infopoint SolidariPrè – Piazzetta Vittime di Tutte le Mafie Con: Omid Firouzi Tabar Giovanni Marenda Luca Daminelli Un altro momento di confronto sui temi affrontati dalla rivista, seguito da un aperitivo a sostegno dell’Infopoint SolidariPrè, spazio solidale che quotidianamente costruisce pratiche di mutualismo e resistenza nel cuore multiculturale della città. Evento su FB Le tre presentazioni di settembre sono occasioni per mettere in relazione la ricerca con le lotte sui territori, per alimentare un sapere situato e condiviso. ControFuoco non vuole essere solo una rivista, ma uno strumento collettivo: una cassetta degli attrezzi per decostruire le narrazioni dominanti e rafforzare i movimenti che si oppongono alla violenza istituzionale delle frontiere e della detenzione. Acquista una copia cartacea nel nostro shop: 1. Il progetto, lanciato dal Forum Salute Mentale ha raccolto decine di adesioni da associazioni, gruppi, operatori, comitati, attivisti e consiste in un viaggio nei CPR italiani: Gradisca d’Isonzo, Milano, Roma, Palazzo S. Gervasio, Brindisi e Bari. Ogni fermata di questo percorso di denuncia, sarà un’occasione per portare alla luce la realtà dei CPR, raccontare storie dimenticate e denunciare la disumanizzazione di chi vi è rinchiuso. Qui per approfondire ↩︎ 2. Morte di Moussa Balde, la responsabile Cpr si difende. Ma spunta un audio della Garante dei detenuti, La Stampa (9 settembre 2025) ↩︎
“Dal mare al carcere”: report semestrale 2025 di Arci Porco Rosso
Secondo quanto emerso dal report annuale della Polizia di Stato 1, ad aprile 2024 venivano emanati “240 provvedimenti restrittivi a carico di trafficanti e favoreggiatori nell’ambito del contrasto all’immigrazione clandestina e alla tratta di esseri umani, nonché a carico di scafisti” , 72 arresti immediati al momento dello sbarco nei confronti dei cosiddetti scafist3 e “160 arresti per articolo 12 del Testo Unico sul confine sloveno”. Inoltre, una questione che occorre sollevare, riguarda l’utilizzo improprio di queste categorie: termini quali tratta o “smuggling”, impiegati indistintamente dal caso e aventi definizioni molto diverse tra loro, generano confusione invece di praticare chiarezza. Tornando all’analisi dei dati, i 72 presunti scafisti sopramenzionati non corrispondono al numero calcolato dal monitoraggio della cronaca e dei processi del 2024 di Arci Porco Rosso, che ne individua 106 2. Facendo un excursus storico sui numeri diffusi dal progetto “Dal Mare al carcere“: nel 2021 si sono registrati 171 fermi, mentre la polizia ha dichiarato di aver arrestato “225 persone, tra scafisti, organizzatori e basisti”. Dal mare al carcere è un progetto militante promosso da Arci Porco Rosso insieme a Borderline-Europe, attivo dal 2021, che monitora la criminalizzazione delle persone considerate “scafiste”. L’aggiornamento di luglio aggiorna dati, casi giudiziari, deportazioni e dinamiche repressive evidenziate nei 6 mesi precedenti. Gli anni successivi, nel 2022 e nel 2023 sono stati contati rispettivamente 264 e 177 arresti, cifre sostanzialmente in linea con quanto riportato dalla polizia 5. I dati della polizia ad ogni modo confermano che il numero assoluto di fermi di presunti “scafisti” dopo gli sbarchi risulta inferiore rispetto agli anni precedenti. Invece, in termini relativi, cioè in rapporto al numero complessivo degli arrivi, la percentuale rimane sostanzialmente stabile. Dai numeri emerge inoltre che l’articolo 12 del TUI viene oggi applicato in contesti diversi rispetto al passato: emblematico è il caso delle 160 persone arrestate al confine sloveno, una situazione che richiede senza dubbio un’analisi approfondita. E, su questo aspetto, l’associazione Migreurop ha avviato una ricerca i cui esiti sono attesi nei prossimi mesi. Un dato appare ancor meno plausibile: al di fuori degli sbarchi (72 persone) e del confine sloveno (160 persone), sono state contestate accuse di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare sole 8 persone – cifra ottenuta sottraendo 72 e 160 al totale ufficiale di 240 arresti. Considerando le numerose operazioni di polizia condotte lo scorso anno in zone lontane dai confini terrestri e marittimi – come i 9 arresti a Siena, i 10 a Milano e i 28 a Terni – i numeri diffusi dalle autorità risultano non soltanto poco attendibili, ma sembrano piuttosto celare la reale portata del processo di criminalizzazione in corso. DAL CARCERE IN ITALIA AL CARCERE IN EGITTO Arci Porco Rosso negli ultimi mesi ha osservato come numerosi cittadini egiziani siano stati coattivamente trasferiti dal carcere direttamente nel CPR al momento della scarcerazione, e nel caso di tre uomini, prelevati dai CPR di Milo e Pian del Lago e direttamente rimpatriati. Ciò che emerge inoltre di preoccupante evidenziato dal report è: «le persone detenute in Italia come scafiste vengono nuovamente arrestate all’arrivo in Egitto, in misura cautelare, con l’accusa di traffico di persone». Grazie al sostegno legale fornito da Refugees Platform in Egypt, i tre uomini sono stati poi rilasciati. Tuttavia, avvocati italiani riferiscono di altri assistiti che, dopo il rimpatrio, hanno subito la stessa sorte. Secondo un’inchiesta di Mada Masr 3, questa pratica si inserisce nella cosiddetta “rotazione” 4: un meccanismo che consente di arrestare più volte le stesse persone, passando da metodo di repressione indirizzati ad attivisti politici in uno strumento per colpire presunti trafficanti, gonfiare le statistiche e garantire incentivi economici agli agenti. Il fenomeno è così diffuso da aver spinto persino il procuratore generale egiziano ad aprire un’indagine 5. Ci si interroga se tali ri-arresti possano rappresentare una strategia coordinata a livello transnazionale, anche alla luce dell’accordo UE-Egitto da 7,4 miliardi di euro siglato nel 2024 6. L’associazione segue inoltre i casi di due cittadini egiziani detenuti nei CPR di Milo e Bari, entrambi condannati in Italia per art. 12 TUI e quindi a rischio di un nuovo arresto in Egitto. Tra loro c’è Mahammad Al Jezar Ezet 7, arrivato con la nave Diciotti nel 2018, rimasto bloccato a bordo per tre settimane per decisione dell’allora ministro Salvini. Dopo una condanna a sette anni per art. 12 TUI, oggi Mahammad è di nuovo detenuto amministrativamente come richiedente asilo considerato “socialmente pericoloso”, e rischia di subire una terza incarcerazione una volta rimpatriato. LA STRAGE DI FERRAGOSTO 2015 Sono quasi dieci anni che otto giovani scontano condanne pesantissime – tra i 20 e i 30 anni – per la strage di Ferragosto 2015, e la loro battaglia per giustizia e libertà continua, nonostante nuovi e gravi ostacoli. Nell’ottobre 2024, la Cassazione ha confermato la decisione della Corte d’Appello di Messina che aveva dichiarato inammissibile la richiesta di revisione del processo per Tarek Jomaa Laamami 8. Lo scorso maggio, la stessa Corte si è pronunciata allo stesso modo sul caso di Mohammed Assayd 9, condannato a 20 anni in abbreviato. Le irregolarità del processo e le nuove testimonianze raccolte dalle avvocate non sono state ritenute sufficienti. Inoltre, il 12 giugno 2025, la Cassazione ha respinto anche la richiesta di revisione di Alaa Faraj, nonostante una campagna mediatica a sostegno della sua liberazione e la prossima pubblicazione di un libro con Sellerio editori 10. Nonostante la gravità delle irregolarità e il fatto che otto persone stiano scontando pene ingiuste, il sistema giudiziario italiano sembra continuare a ignorare le richieste di revisione. Malgrado queste ingiustizie – tra i condannati ci sono tre ex calciatori professionisti in Libia che avevano tentato di realizzare il loro sogno in Europa – i ragazzi continuano a lottare per la libertà e per far emergere la verità sul loro caso. A luglio 2025, alcuni familiari dalla Libia hanno finalmente ottenuto un visto per visitarli in carcere e, dopo dieci anni si sono potuti riabbracciare. Questo momento di affetto non cancella però la rabbia per le ingiustizie subite. Ribadiamo il nostro impegno per libertà e giustizia per tutt3. ARTICOLO 12-BIS: ARRIVANO LE PRIME CONDANNE Sono in corso le prime condanne per il reato di cui all’art. 12-bis del TUI, introdotto dal decreto-legge n. 20/2023 (c.d. decreto Cutro), che prevede pene particolarmente severe per chi causa, anche indirettamente, la morte o lesioni gravi durante attività di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare. Tale reato comporta una pena massima di 30 anni di carcere e una minima di 15. E così,a dicembre 2024, un cittadino sudanese sbarcato a Lampedusa alla fine del 2023 è stato condannato a 12 anni di carcere dal Tribunale di Agrigento; l’accusa di art. 12-bis è stata contestata solo all’ultima udienza. La condanna è stata confermata in appello a giugno, con una lieve riduzione a 11 anni e 8 mesi. Gli altri tre migranti arrestati con lui, e seguiti dall’associazione Maldusa, – di origine nigeriana, gambiana e ghanese – hanno scelto il rito ordinario, con la prossima udienza fissata per il 18 settembre. Nel mentre proseguono anche altri processi: il minore egiziano Ahmed, sbarcato con la nave Nadir, è imputato insieme a un maggiorenne già condannato a 17 anni e 6 mesi. Sempre ad Agrigento, la procura ha chiesto 16 anni per un altro cittadino egiziano, con sentenza attesa a settembre. Queste prime condanne segnano un arretramento nella tutela dei diritti delle persone migranti. Nei processi precedenti, invece, le accuse di art. 12-bis non avevano retto: a Reggio Calabria due ragazzi del Sierra Leone hanno visto l’accusa ridotta ad art. 12 “semplice”, confermata in appello, e una misura cautelare è stata trasformata in obbligo di firma, permettendo la libertà. Alla Corte di Assise di Locri, 5 dei 7 imputati accusati di art. 12-bis sono stati assolti, mentre le due condanne per art. 12 “semplice” sono state impugnate in appello. CUTRO: I PROCESSI PARALLELI Nel corso di questi due anni, Arci Porco Rosso ha regolarmente fornito aggiornamenti sulla criminalizzazione delle 5 persone migranti accusate di essere i capitani 11 e dunque responsabili della strage di Cutro nel febbraio 2023: «I ricorsi in appello contro le condanne di Sami Fuat, Hasab Hussain e Khalid Arslan devono ancora essere presentati; nel frattempo, la Corte d’Appello ha confermato a marzo la condanna a 20 anni per Abdessalem Mohammed, mentre a giugno la Cassazione ha reso definitiva la condanna per Gun Ufuk». Parallelamente, il 3 marzo 2025, è stato portato avanti anche un ulteriore processo riguardante l’accertamento delle responsabilità istituzionali della strage. 4 finanzieri e 2 militari della Guardia costiera sono accusati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo per gravi negligenze commesse durante le operazioni di salvataggio.  Le prime fasi dell’udienza preliminare si sono concentrate in larga parte sulla questione delle ammissioni come parte civile, un passaggio considerato decisivo nell’ambito del procedimento legato ai soccorsi in mare. Tra coloro che hanno avanzato richiesta di costituirsi parte civile – e quindi di partecipare al processo – figurano i parenti delle vittime, i sopravvissuti al naufragio e, sul piano collettivo, quasi tutte le organizzazioni non governative impegnate nelle operazioni di soccorso, insieme a numerose realtà associative che da anni lavorano in Italia e sul territorio locale per la difesa dei diritti fondamentali, in particolare delle persone migranti (tra queste ARCI, ASGI, Progetto Diritti onlus e Mem.Med). Notizie/In mare NAUFRAGIO DI CUTRO: QUATTRO FINANZIERI E DUE MILITARI DELLA GUARDIA COSTIERA RINVIATI A GIUDIZIO Le Ong parte civile al processo: «Si avvicina la possibilità di ottenere verità e giustizia» Redazione 24 Luglio 2025 Insolita la scelta della Regione Calabria che, il 12 maggio, ha presentato istanza per costituirsi parte civile, salvo poi ritirarla nell’udienza successiva dopo l’intervento del ministro Salvini, giustificando la retromarcia con un presunto errore nelle deleghe. Con riferimento all’udienza del 28 maggio, il giudice dell’udienza preliminare di Crotone ha deciso di non ammettere numerosi soggetti, escludendo in blocco le associazioni, fatta eccezione per le ONG che operano nel salvataggio di vite in mare. Le uniche persone fisiche escluse invece sono Hasab Hussain e Khalid Arslan, condannati in primo grado per art. 12 e che al pari delle altre persone si trovavano sull’imbarcazione. La motivazione dichiarata per la loro esclusione, su richiesta del pubblico ministero, riguarda l’essere stati condannati per lo stesso fatto ascritto agli imputati. Va ricordato, come sottolinea il loro avvocato 12, che i due sono stati assolti dal reato di naufragio colposo e che, al di sopra di tutto, in quanto passeggeri dell’imbarcazione aventi diritto ad essere salvati come ricorda il nostro ordinamento e quello internazionale. “Il salvataggio è un obbligo, non un argomento di dibattito”. FUGGITꞫ DALL’IRAN, PERSEGUITATꞫ DALL’ITALIA Il 16 giugno si è tenuta l’ultima udienza del processo a carico di Marjan Jamali e Amir Babai, cittadinə iranianə arrivatə in Italia nell’ottobre 2023 per sfuggire alla repressione del regime. Marjan – già da un anno agli arresti domiciliari – è stata assolta dal Tribunale, una notizia accolta con sollievo da lei, dal suo bambino e dalla comunità che in questi mesi le è stata vicina con grande solidarietà. Amir Babai, invece, è stato condannato a 6 anni e 1 mese di carcere. Entrambe hanno sempre proclamato la propria innocenza. Pochi giorni dopo la condanna si è diffusa la notizia che Amir abbia tentato il suicidio 13: per fortuna il gesto non è stato fatale, ma mostra chiaramente la disperazione causata da una sentenza tanto dura quanto ingiusta. L’assoluzione di Marjan è stata resa possibile anche grazie alla forte mobilitazione di associazioni e attivistə, attive sia a livello locale che nazionale. Ora l’impegno continua per ottenere la liberazione di Amir. Notizie/In mare NO, NON ERA UNA SCAFISTA: ASSOLTA MARJAN JAMALI Ma Amir Babai resta in carcere tra disperazione e ingiustizia Redazione 20 Giugno 2025 La sua condanna appare ancora più insopportabile se si considera che arriva proprio mentre l’Italia presenta il governo iraniano come nemico del popolo per giustificare le proprie scelte belliche, ma allo stesso tempo imprigiona Amir per aver tentato di sottrarsi a quella dittatura. Tra le realtà che hanno sostenuto questa battaglia va ricordata la rete Oltre i Confini: Scafiste Tutte, nata in Calabria durante la campagna Free Maysoon Majidi e oggi di nuovo attiva per promuovere azioni e dibattito politico sul territorio contro la criminalizzazione sistematica delle persone migranti. Approfondimenti/In mare LA PROCURA CONTESTA L’ASSOLUZIONE DI MAYSOON MAJIDI Appello per asserite lacune e contraddizioni Chiara Lo Bianco 22 Agosto 2025 Per concludere, si ribadisce la necessità della presa di responsabilità del governo italiano e delle sue politiche, che spostano il focus criminalizzando chi tenta di sopravvivere al mare, provocando ulteriore morte. Dal mare al carcere è un progetto militante di Arci Porco Rosso e borderline-europe finalizzato a monitorare la criminalizzazione dei cosiddetti scafist3 in Italia e a fornire supporto socio-legale alle persone coinvolte criminalizzate, dal 2021. 1. Consulta i dati ↩︎ 2. Consulta il rapporto: Dal mare al carcere: aggiornamento semestrale 2025 ↩︎ 3. ‘Recycling’ the migration books: How Egypt manipulates smuggler arrests for EU money, Mada Masr (aprile 2025) ↩︎ 4. Egypt: Special Rapporteur concerned about use of anti-terrorism legislation against human rights defenders, United Nations (gennaio 2025) ↩︎ 5. After Hundreds of Complaints of Fabricated and Rotated Cases, Prosecutor General Orders Nationwide Examination of Unlawful Migration Cases, RPE (aprile 2025) ↩︎ 6. Cosa prevede l’accordo da 7,4 miliardi con l’Egitto, il più sostanzioso mai siglato dall’Ue, EuNews (marzo 2024) ↩︎ 7. “Non sono uno scafista”, la storia del migrante della Diciotti bloccato dopo il carcere che aspetta di vivere a Palermo, Palermo Today (giugno 2025) ↩︎ 8. Per approfondire clicca qui ↩︎ 9. Nessun nuovo processo per uno dei giocatori libici accusati di essere scafisti, RaiNews (maggio 2025) ↩︎ 10. Alaa, fuggito dalla Libia e condannato in Italia come scafista: “Era meglio morire”, LaViaLibera (giugno 2025) ↩︎ 11. Qui per approfondire ↩︎ 12. Cutro, 2 scafisti chiedono di essere parte civile contro militari, Ansa (5 marzo 2025) ↩︎ 13. Amir Babai condannato per scafismo: i comitati denunciano la sentenza e il tentato suicidio, ReggioToday (19 giugno 2025) ↩︎
12 e 13 settembre: «Da Tripoli a Ginevra 2»
“UNHCR = UNFAIR!”, “IOM = NASTY!”: con questi slogan Refugees in Libya annuncia due nuove giornate di mobilitazione a Ginevra, il 12 e 13 settembre 2025, contro le «violazioni dei diritti umani» da parte delle principali agenzie internazionali coinvolte nella gestione delle migrazioni. Venerdì 12 settembre, alle 11, davanti alla sede dell’UNHCR in Rue de Montbrillant 94, è prevista una conferenza stampa con la presentazione del “Book of Shame”, che raccoglie «dozzine di denunce e accuse da parte di rifugiati e migranti in Libia, Tunisia e Niger». Secondo gli organizzatori, «anziché adempiere al proprio mandato di protezione, l’UNHCR sta proteggendo le frontiere europee ed è diventato uno strumento delle politiche di esternalizzazione». Per il collettivo si tratta di un ritorno a Ginevra, dopo la due giorni del 9 e 10 dicembre 2022 – in occasione della Giornata internazionale dei diritti umani – che era stata promossa per denunciare l’operato dell’Agenzia dell’ONU. In questo nuovo appuntamento nella città svizzera, il giorno successivo, sabato 13 settembre, la manifestazione partirà alle 14 dalla sede dell’IOM, in Route des Morillons 17. Al centro delle accuse verso l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sono le pratiche di “ritorno volontario”, considerate una forma di pressione e ricatto: «In Libia conosciamo da molti anni il loro concetto di ricatto – affermano gli attivisti -. Persone detenute e tenute in condizioni insopportabili ricevono come unica proposta quella di tornare nel Paese di origine. In Tunisia abbiamo visto lo stesso sistema, accanto a sgomberi e attacchi contro insediamenti informali». La protesta attraverserà la città, passando anche davanti alla sede delle agenzie governative, con interventi e testimonianze di rifugiati che hanno raggiunto l’Europa. «Non sono disposti a dimenticare le proprie ferite, né i compagni che ancora soffrono in Libia, Tunisia o Niger», sottolineano. Nel comunicato di lancio della due giorni viene denunciata anche l’apertura di un nuovo grande campo per richiedenti asilo a Ginevra, descritto come «una semi-prigione tra la pista dell’aeroporto e un’autostrada, dove le persone sono trattenute per mesi». L’iniziativa fa parte della “chain of action 2025”, una catena di azioni transnazionali che ricorda il decennale dell’estate delle migrazioni del 2015 e rilancia la lotta per la libertà di movimento e i diritti per tutte e tutti.
Poggioreale, privacy violata e diritto d’asilo negato
Il 19 agosto 2025 il deputato Francesco Emilio Borrelli pubblicava su Facebook e Instagram le foto dell’arresto di Elokla Mohmed Kazem. L’immagine ritraeva il ragazzo, richiedente asilo, apparentemente ammanettato, inconsapevole dello scatto e con il volto non oscurato. Il post, commentato con la frase “preso uno dei due evasi da Poggioreale”, ha avuto migliaia di interazioni, alimentando una gogna mediatica di tenore xenofobo e fortemente violento. Successivamente, il deputato pubblicava altri due post con altre immagini del sig. Elokla e del sig. Mahrez Souki, non opportunamente oscurate, ritratti nell’immediatezza dell’arresto. È a partire da questo episodio che diverse associazioni hanno inviato un esposto, redatto dall’avvocata Martina Stefanile di ASGI 1, al Garante nazionale e regionale delle persone private della libertà, al Garante della privacy e all’UNHCR per denunciare due questioni: la diffusione illecita delle immagini dei detenuti Elokla Mohmed Kazem e Mahrez Souki, e la violazione dei diritti fondamentali all’interno della Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” di Napoli – Poggioreale, in particolare la sospensione di fatto del diritto d’asilo per i cittadini stranieri detenuti. A firmarlo sono la Clinica Legale per l’Immigrazione dell’Università Roma 3, l’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione – ASGI, Antigone Campania, Melting Pot Europa, Spazi Circolari, Le Carbet, Attiva Diritti, Chi Rom e…chi no, La Kumpania, Mem.Med – Memoria Mediterranea per LasciateCIEntrare e Gridas. La pubblicazione delle foto, riporta il documento, viola diverse norme nazionali e internazionali, dal diritto alla privacy sancito dalla CEDU al divieto previsto dall’articolo 114 del codice di procedura penale di diffondere immagini di persone private della libertà in stato di coercizione. Ma è tutta la vicenda che, tra esposizione mediatica sensazionalistica e ostacoli burocratici, porta alla luce la condizione fragile e spesso invisibile dei detenuti stranieri in Italia, il cui diritto a chiedere protezione internazionale rischia di restare impossibile da dietro le sbarre. A rendere ancora più evidente la vulnerabilità di Elokla sono le parole del giornalista e volontario della Comunità di Sant’Egidio Antonio Mattone, che lo aveva incontrato di persona: «A chi lo ha conosciuto il ragazzo siriano di 23 anni fuggito da Poggioreale etichettato dalla cronaca come un rapinatore, è sembrato essenzialmente un ragazzo di estrema fragilità». Il giovane, ricostruisce Mattone, «viveva in un paese ai confini con la Turchia ed è scappato a piedi fino a giungere in Italia. Quando gli è stato chiesto della sua famiglia gli sono scesi due lacrimoni: erano tutti morti, uccisi in quell’infinita guerra civile che insanguina la Siria dal 2011. Arrivato nel nostro Paese, senza riferimenti e legami, ha vissuto per strada dove ha iniziato a drogarsi e a compiere gesti di autolesionismo, quasi a volersi lasciare andare. Poi una rapina per avere qualche soldo ed è così finito in carcere». Un quadro che per le associazioni firmatarie avrebbe dovuto imporre maggiore cautela nella tutela della dignità del ragazzo, piuttosto che un’esposizione pubblica capace di aggravare ulteriormente la sua condizione. L’altra denuncia contenuta nell’esposto riguarda il diritto d’asilo, che all’interno di Poggioreale risulta di fatto sospeso. «Su queste premesse, si apre uno scenario gravissimo che vede sistematicamente lesi i diritti dei rifugiati e richiedenti asilo all’interno del penitenziario napoletano», scrivono le associazioni. Secondo le segnalazioni raccolte, i detenuti stranieri possono esprimere la volontà di chiedere protezione internazionale soltanto tramite i loro avvocati, che trasmettono le istanze via PEC all’Ufficio Matricola e alla Questura di Napoli. Se un detenuto tenta di presentare la richiesta autonomamente, ciò è consentito solo a ridosso del fine pena. Ma anche in questi casi le domande rimangono “congelate” per tutta la durata della detenzione. È accaduto anche a Elokla, che nell’aprile 2025 aveva presentato tramite la propria legale una formale richiesta di protezione internazionale. A distanza di mesi, non ha ancora ricevuto un appuntamento né sostenuto l’audizione davanti alla Commissione territoriale, in palese violazione dell’articolo 26 del decreto legislativo 25/2008, che prevede tempi stringenti per la formalizzazione delle domande. Gli esempi citati nell’esposto sono numerosi: cittadini sudanesi e ciadiani che hanno protocollato le loro istanze tra il 2024 e il 2025, senza alcun seguito. Tutti profughi di guerre civili e situazioni drammatiche che avrebbero dovuto garantire loro almeno un rapido accesso alla procedura. Per le associazioni firmatarie, siamo davanti a «violazioni intollerabili dell’impianto normativo posto a tutela dei migranti, rifugiati e richiedenti asilo». L’appello è rivolto ai Garanti, alla Questura e alle Commissioni territoriali: serve «un urgente superamento effettivo delle violazioni di diritto rappresentate, anche previo esercizio dei poteri ispettivi propri dell’Ufficio del Garante». L’invito è a stabilire un coordinamento stabile tra amministrazione penitenziaria e autorità competenti per «assicurare ai detenuti stranieri l’esercizio di tali diritti e facoltà, che possono essere limitati solo con un provvedimento espresso». Infine, le associazioni chiedono all’UNHCR un parere tecnico e un monitoraggio costante della vicenda, mentre al Garante della privacy sollecitano «l’immediata cessazione, mediante rimozione delle immagini diffuse sulle pagine social del deputato, delle condotte lesive dei diritti fondamentali dei ritratti». 1. Leggi l’esposto inviato ↩︎
Marco Cavallo torna a camminare per i diritti
Marco Cavallo, simbolo della lotta per la libertà e i diritti, il cavallo azzurro, nato nel 1973 dai pazienti e operatori del manicomio di San Giovanni a Trieste durante l’esperienza di Franco Basaglia, attraverserà i Centri di Permanenza per il Rimpatrio (CPR) italiani, in cui vengono trattenute persone straniere in attesa di rimpatrio. «Strutture che,» – spiegano i promotori – «per molti versi, ricordano gli OPG, ma che forse sono ancor più crudeli dal punto di vista umano». Notizie/CPR, Hotspot, CPA MARCO CAVALLO SCENDE IN PIAZZA: UN VIAGGIO CONTRO I CPR, LAGER DEL PRESENTE Si parte con una manifestazione a Gradisca d'Isonzo - Gorizia il 6 settembre 29 Luglio 2025 Il progetto, lanciato a febbraio dal Forum Salute Mentale ha raccolto decine di adesioni da associazioni, gruppi, operatori, comitati, attivisti 1. Il viaggio partirà ufficialmente il 6 settembre da Gradisca d’Isonzo 2, da uno dei CPR più duri dove le violenze sistematiche e le condizioni degradanti sono state documentate più volte. Una scelta tutt’altro che casuale quindi: questo centro è da sempre teatro di violenze, malattie lasciate senza cura e abusi quotidiani. Denunce recenti della rete Mai più lager – No CPR hanno raccontato l’estate di chi è rinchiuso lì: celle roventi, scabbia che si diffonde senza che le autorità intervengano, ragazzi che tentano il suicidio, autolesionismi ripetuti. E ancora le denunce di pestaggi notturni con manganelli, come quello che a maggio ha colpito un giovane con problemi psichici e fisici, o la violenza contro S., ventenne che a fine agosto si è procurato tagli profondi e, dopo aver chiesto aiuto e filmato la risposta sprezzante degli agenti, è stato picchiato per strappargli il cellulare dalle mani. «Agosto è il mese peggiore,» – sottolineano le attiviste nella sintesi di quanto accaduto in questo mese – «in cui emarginazione ed abbandono si fanno più vivi e i già scarsi servizi del gestore (presidio della salute compreso) che diventano inconsistenti quando non si estinguono del tutto». Tutto questo avviene in un contesto in cui l’uso degli smartphone, consentito a Gradisca e a Milano (ma non negli altri CPR, compreso quello in Albania), permette di far filtrare qualche prova. Negli altri centri regna invece il buio, con un telefono a sezione e nessuna possibilità di documentare, lasciando campo libero a insabbiamenti e violenze impunite. Un viaggio di solidarietà e testimonianza Il viaggio – frutto di un lavoro collettivo che sta coinvolgendo associazioni, gruppi e cittadini – prevede diverse tappe. Marco Cavallo consegnerà alle persone trattenute nei CPR lettere scritte dai sostenitori, portando un messaggio di vicinanza e speranza. Sarà accompagnato da bandiere realizzate con tessuti di scarto, simbolo poetico di legami e vite intrecciate. Il regista Giovanni Cioni documenterà l’intero percorso per realizzare un film che custodisca e diffonda le voci raccolte lungo la strada. Il 5 settembre, alle 17, al cinema Ariston di Trieste, amici, sostenitori, cittadini e associazioni potranno salutare Marco Cavallo prima della partenza, con la presentazione del progetto da parte dello psichiatra Peppe Dell’Acqua e la proiezione del film Noi siamo gli errori che permettono la vostra intelligenza della regista Erika Rossi. Il viaggio toccherà poi Milano, Roma, Palazzo San Gervasio, Brindisi e Bari, con iniziative pubbliche e momenti di confronto documentati sul Forum Salute Mentale. Questo viaggio si intreccia con la campagna “180 Bene Comune. L’arte per restare umani”, promossa dal Forum Salute Mentale. La legge 180 non è soltanto quella che ha chiuso i manicomi, ma un presidio di civiltà che riguarda tutti: parla di diritti, di riconoscimento dell’altro, della capacità di convivere tra diversità – dentro e fuori di noi. Oggi, mentre si tenta di dimenticare quella legge, i CPR rischiano di diventare le nuove istituzioni della segregazione e della violenza sociale. È per questo che Marco Cavallo ha deciso di rimettersi in viaggio. Ha nitrito di rabbia nell’apprendere cosa accade dentro questi luoghi, con il desiderio di abbatterne i muri; poi, parlando con Peppe Dell’Acqua, ha riconosciuto che questo è ancora una volta il suo momento: trasformare la collera in cammino, in testimonianza, in denuncia. «Sono vecchio e stanco» – confida – «ma ogni volta che mi chiamano in questi luoghi di dolore non posso che rimettermi in movimento» 3. 1. Adesioni a questo link ↩︎ 2. Per sostenere il progetto clicca qui ↩︎ 3. Leggi: Sono una bandiera di libertà: per questo viaggerò nei Cpr italiani. Veronica Rossi intervista Marco Cavallo ↩︎
Geografie di confinamento e governance dell’eccezione: i campi per persone in movimento in Grecia. Corinto come lente di analisi
Papers, una rubrica di Melting Pot per la condivisione di tesi di laurea, ricerche e studi. Per pubblicare il tuo lavoro consulta la pagina della rubrica e scrivi a collaborazioni@meltingpot.org. -------------------------------------------------------------------------------- Università di Bologna Dipartimento Scienze Statistiche “Paolo Fortunati” – STAT Corso di Laurea in Sviluppo e Cooperazione Internazionale GEOGRAFIE DI CONFINAMENTO E GOVERNANCE DELL’ECCEZIONE: I CAMPI PER PERSONE IN MOVIMENTO NELLA GRECIA CONTINENTALE. CORINTO COME LENTE DI ANALISI Tesi di laurea in Geografia dell’Ambiente e dello Sviluppo Sostenibile Elisa Lista (A.A. 2024/2025) Scarica l’elaborato INTRODUZIONE La seguente tesi si propone di analizzare in che modo la configurazione architettonica e spaziale, la localizzazione geografica e il sistema di governance dei campi per richiedenti asilo situati nell’entroterra greco – con particolare attenzione al campo di Corinto – riflettano e riproducano logiche di controllo, segregazione e marginalizzazione nei confronti delle persone in movimento che vi risiedono. Le stesse logiche di contenimento che caratterizzano le politiche migratorie e d’Asilo dell’Unione Europea. L’obiettivo è quello di interrogare le modalità attraverso cui il campo – lungi dall’essere uno spazio neutro – si configura come un dispositivo attivo nella gestione dei corpi dei migranti. Al tempo stesso, la ricerca intende esplorare come tale geografia venga quotidianamente vissuta, rinegoziata e abitata dalle persone che vi passano attraverso. La riflessione si articola attorno ad alcune domande centrali: Che cosa si intende per “forma campo” (Rahola, 2003)? In che modo le scelte architettoniche, infrastrutturali e localizzative influenzano la vita quotidiana dei migranti? Come si intreccia l’organizzazione spaziale dei campi con la logica di contenimento che sottende le politiche europee in materia di migrazione e asilo? In che modo questo si declina nel contesto dei campi della Grecia continentale? Qual è l’impatto della governance multilivello dell’accoglienza – e in particolare della gestione dei fondi europei per la migrazione – nel plasmare materialmente e simbolicamente questi spazi? Infine, quali forme di socialità e resistenza emergono all’interno di ambienti pensati per segregare? Per rispondere a questi interrogativi, è stato adottato un approccio misto, integrando strumenti di tipo qualitativo e autoetnografico con strumenti di tipo quantitativo. La ricerca si è articolata in due momenti di studio sul campo e in un’estensiva analisi documentale. Nel corso di due mesi trascorsi a Corinto, nell’estate 2024, è stata condotta un’osservazione partecipante volta a comprendere le dinamiche quotidiane della vita nel campo di Corinto e a costruire relazioni che hanno permesso di accedere a spazi, pratiche e narrazioni spesso inaccessibili a osservatori esterni. Il coinvolgimento diretto e prolungato e le interazioni informali hanno reso possibile la raccolta di dati qualitativi densi e l’accesso a informazioni sul funzionamento del campo assenti nei report ufficiali del Governo greco. Nel dicembre 2024 è stato effettuato un breve ritorno in Grecia, finalizzato alla raccolta di ulteriori testimonianze e documentazione fotografica, attraverso un lavoro congiunto con Gaia Brunialti. Una parte delle informazioni presentate – in particolare nell’ultimo capitolo – derivano dalle esperienze condivise da persone che hanno vissuto per mesi o anni all’interno del campo di Corinto e che hanno acconsentito a raccontare le loro storie, anche attraverso interviste in differita nei mesi successivi al mio ritorno, e a condividere fotografie degli spazi interni del campo. Per tutelarne l’anonimato e proteggere la loro posizione giuridica – spesso precaria e vulnerabile – ogni riferimento personale è stato reso non identificabile. La maggior parte degli interlocutori coinvolti sono giovani uomini provenienti da Afghanistan, Iraq, Palestina e Iran. L’assenza di testimonianze femminili costituisce un limite dell’indagine, riconducibile alla ridotta partecipazione delle donne alle attività del Community Center, alla barriera linguistica importante e alla diffidenza nel condividere informazioni personali. A complemento del lavoro qualitativo, si è affiancato un approfondito lavoro di ricerca documentale e quantitativa relativa alla governance dei fondi europei destinati alla gestione dei flussi migratori e all’accoglienza in Grecia. Sono state esaminate e confrontate fonti ufficiali e primarie, come documenti di programmazione finanziaria forniti dal Ministero dalla Migrazione e dell’Asilo Greco e dalla Commissione Europea, affiancate a report di monitoraggio di organizzazioni come Il Greek Council for Refugees, Refugee Support Aegean e Mobile Info Team, e schede informative dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM). All’analisi della letteratura scientifica sul ruolo politico della geografia dei campi profughi, si affianca un’analisi cartografica basata su immagini satellitari e fotografie aeree che consentono di osservare la “mappa dei campi” presenti sul territorio greco e la configurazione spaziale del territorio che li circonda. Il lavoro di ricerca non è stato privo di ostacoli, in particolare nell’accesso a dati ufficiali e fonti istituzionali. La trasparenza da parte del governo greco risulta limitata, sia per quanto riguarda la pubblicazione di dati relativi ai campi, sia in merito all’impiego dei fondi europei destinati alla loro gestione. Sia sul sito del Ministero greco della Migrazione e dell’Asilo, sia su quello della Commissione Europea, reperire dati primari e non aggregati relativi all’utilizzo dei fondi europei risulta particolarmente complesso. Le informazioni pubblicate riguardano prevalentemente programmi generali di intervento, spesso espressi in termini vaghi o incoerenti tra loro. Non sono disponibili dati dettagliati sulle singole voci di spesa, né è possibile accedere a documentazione specifica per ciascun campo profughi. La trasparenza è quindi limitata a una panoramica delle misure di intervento o a progetti estesi all’insieme dei centri di accoglienza presenti sul territorio greco, senza distinzione tra strutture, località o modalità di implementazione. L’accesso ai campi da parte delle ONG è fortemente regolato, e l’interazione con il personale interno spesso subordinata a lunghe trafile burocratiche, raramente efficaci. Le principali organizzazioni internazionali coinvolte nella governance dei campi, come l’OIM, si limitano alla diffusione di dati quantitativi sulla popolazione residente, evitando di affrontare in maniera critica le condizioni materiali dell’accoglienza. Ostacoli significativi emergono anche nell’acquisizione di testimonianze dirette da parte delle persone che vivono nei campi. Tali difficoltà riflettono, in parte, l’esigenza di adottare modalità di ascolto attente e non intrusive: esporre la propria esperienza può essere difficile per le persone in movimento, soprattutto quando segnata da violenze e vissuti dolorosi. In secondo luogo, condividere informazioni può rischiare di compromettere il buon andamento della richiesta d’asilo o il rapporto con le autorità che gestiscono i campi. Per queste ragioni, è stato fondamentale adottare un approccio cauto e sensibile, che lasciasse spazio e voce alle persone in movimento nei limiti tracciati da loro stesse. La tesi si articola in cinque capitoli. Il primo capitolo offre una panoramica del contesto migratorio che ha interessato la Grecia negli ultimi anni, un crocevia tra la Rotta migratoria del Mediterraneo Orientale e la Rotta Balcanica. Sebbene geograficamente concepita come territorio di transito, la Grecia si è trasformata, a partire dal 2016 e in seguito all’accordo UE-Turchia, in un punto di stallo per migliaia di persone in movimento. In questo quadro, si analizza la politica di esternalizzazione dell’Unione Europea, che scarica la responsabilità di gestione dei flussi migratori agli Stati membri posti ai confini esterni dell’area Schengen, come la Grecia. Il capitolo approfondisce inoltre il funzionamento del sistema d’asilo a livello europeo e greco, evidenziando come i lunghi processi burocratici portino alla congestione di centri di accoglienza e all’istituzionalizzazione dei cosiddetti “campi profughi”. Il secondo capitolo si concentra sull’analisi dei luoghi dell’accoglienza e sulla definizione della “forma campo”, approfondendone la storia e la funzione simbolica. Esplora la configurazione architettonica, spaziale e temporale dei campi, indagando il modo in cui le agenzie umanitarie ne fanno al contempo uno strumento politico di cura, sorveglianza e controllo. Viene inoltre affrontata la questione della depoliticizzazione del richiedente asilo, spesso ridotto alla figura passiva di mera vittima, ma anche la nuova attenzione della letteratura alle forme di socialità, agency e resistenza che emergono all’interno dei campi e che plasmano la loro materialità. Il terzo capitolo è dedicato all’analisi dell’evoluzione del sistema di accoglienza in Grecia e delle modalità di gestione dell’asilo negli ultimi anni. A partire dalla fase emergenziale del 2016, si esamina la transizione dai programmi di accoglienza diffusa alla progressiva centralità dei campi come unica forma di accoglienza prevista. Viene analizzata la distribuzione territoriale dei campi nell’entroterra greco, il loro isolamento spaziale rispetto ai servizi essenziali, le loro caratteristiche materiali. Il capitolo affronta anche le difficoltà incontrate nell’accesso a dati pubblici sui campi, segnalando la limitata trasparenza del Governo greco nella gestione dei siti e le limitazioni nell’ingresso, che spesso impediscono di raccogliere testimonianze dirette dei residenti. Il quarto capitolo è dedicato all’analisi dei fondi europei destinati alla gestione dei flussi migratori in Grecia, con un confronto tra il ciclo di programmazione 2014-2020 e l’attuale ciclo di programmazione 2021-2027. L’attenzione si concentra in particolare sui fondi utilizzati per la gestione dei campi dell’entroterra greco e sulla governance multilivello dell’accoglienza, che coinvolge attori istituzionali europei, autorità greche, organizzazioni internazionali e soggetti privati. Vengono infine discusse le implicazioni materiali derivanti dallo spostamento delle competenze gestionali dei campi esclusivamente nelle mani delle autorità greche, evidenziando il peggioramento delle condizioni di vita per i richiedenti asilo che vi abitano.  Il quinto capitolo si focalizza sul caso studio del campo di Corinto, adottando una prospettiva etnografica e spaziale e dando voce alle narrazioni delle persone in movimento che l’hanno abitato. Viene percorso il tragitto che collega il centro urbano al campo, analizzando gli spazi che lo compongono, con l’aggiunta di considerazioni derivanti dall’osservazione di immagini satellitari che mostrano la configurazione del territorio che lo circonda. L’attenzione si focalizza sulla carenza strutturale di servizi essenziali e sulle condizioni materiali di vita, ma anche sulle forme di appropriazione e politicizzazione dello spazio – come i graffiti – e sulle pratiche di socialità quotidiana. In parallelo, si affronta la condizione di sospensione e immobilità che caratterizza l’esperienza dell’attesa in un campo.
Ocean Viking sotto attacco della Guardia Costiera libica
Una motovedetta donata dall’Italia apre il fuoco su una nave di ricerca e soccorso con 87 sopravvissuti a bordo. SOS Mediterranee: «Chiediamo la fine immediata della collaborazione con la Libia». «Oggi la Ocean Viking è stata deliberatamente e violentemente attaccata in acque internazionali dalla Guardia Costiera libica che ha sparato centinaia di colpi contro la nostra nave. Gli 87 sopravvissuti e l’equipaggio stanno bene. Stiamo lavorando a ricostruire gli eventi». Con queste parole, intorno alle 20 del 24 agosto, SOS Mediterranee denunciava sui propri canali social uno degli episodi più gravi mai avvenuti contro una nave di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale. Secondo quanto riportato dall’organizzazione, la MV Ocean Viking si trovava in acque internazionali, a circa 40 miglia nautiche a nord della costa libica. L’attacco è iniziato alle 15:03 ora locale di domenica 24 agosto, quando una motovedetta di classe Corrubia della Guardia Costiera libica ha aperto il fuoco sulla nave di soccorso per almeno 20 minuti ininterrotti. «Due uomini a bordo della motovedetta hanno aperto il fuoco sulla nostra nave umanitaria, iniziando un assalto durato almeno 20 minuti ininterrotti direttamente contro di noi», scrive SOS Méditerranée. «Con già a bordo 87 sopravvissuti» – per lo più cittadini sudanesi in fuga da guerra e persecuzioni – «soccorsi tra la notte di sabato 23 agosto e la mattina di domenica 24 agosto – la nave era stata autorizzata dal Centro di coordinamento italiano a sospendere la rotta verso il porto assegnato e cercare un’altra imbarcazione in difficoltà in acque internazionali. Mentre i team erano impegnati nella ricerca, la motovedetta libica ha illecitamente ordinato alla Ocean Viking di abbandonare la zona e dirigersi verso nord. L’ordine è stato comunicato prima in inglese e poi in arabo tramite il mediatore culturale a bordo, che ha confermato dal ponte che la nave stava già lasciando l’area. Tuttavia, senza alcun preavviso o ultimatum, due uomini a bordo della motovedetta hanno aperto il fuoco. La motovedetta ha circondato la Ocean Viking, prendendo deliberatamente di mira i membri dell’equipaggio sul ponte – la parte della nave dove si svolgono le operazioni di navigazione e governo». Durante quei minuti drammatici, i team di SOS Mediterranee e dell’IFRC hanno messo in sicurezza gli 87 sopravvissuti prima di rifugiarsi all’interno della nave. Fortunatamente, nessuno è rimasto ferito. I colpi, dozzine dei quali sono stati rinvenuti a bordo, hanno perforato oblò ad altezza uomo e danneggiato radar, antenne, gommoni di soccorso e raft di salvataggio. «L’attacco ha causato fori di proiettile all’altezza della testa, la distruzione di diverse antenne, quattro finestre rotte sul ponte e diversi proiettili che hanno colpito e danneggiato i tre RHIBS (motoscafi di soccorso veloci), insieme ad altre attrezzature di soccorso», denuncia ancora l’organizzazione. PH: SOS Méditerranée Il giornalista Sergio Scandura, di Radio Radicale, ha condiviso immagini impressionanti dalla nave: oblò crivellati, interni danneggiati, mezzi di soccorso distrutti. > 🔴 Le immagini dalla nave Ocean Viking. > L'aggressione. Dozzine i proiettili rinvenuti a bordo, sparati dalla c.d. > guardia costiera libica. Oblò forati ad altezza uomo, interni, antenne, > radaristica, RHIB di soccorso, raft di salvataggio: aggressione e danni senza > precedenti. https://t.co/pIAU4qtO65 pic.twitter.com/Vqv3o4FtCJ > > — Sergio Scandura (@scandura) August 25, 2025 Dopo lo sbarco avvenuto ad Augusta la sera del 25 agosto, SOS Méditerranée ha ricordato: «Dopo tutto quello che hanno passato, hanno dovuto affrontare gli attacchi armati alla nostra nave di salvataggio da parte della Guardia Costiera libica. Anche la nostra nave umanitaria non è più un luogo sicuro». Il comunicato sottolinea un aspetto cruciale: la motovedetta che ha sparato era stata donata dall’Italia nel 2023 nell’ambito del programma europeo “Support to Integrated Border and Migration Management in Libya (SIBMMIL)”. PH: Sergio Scandura «Ieri, i nostri team e i sopravvissuti della Ocean Viking sono stati colpiti dalla Guardia Costiera libica, su una nave donata dall’Italia. Chiediamo un’indagine completa su questi orribili eventi e la fine immediata di ogni collaborazione con la Libia», scrive SOS Mediterranee. Valeria Taurino, direttrice generale di SOS Méditerranée Italia, ha ribadito: «Chiediamo che venga condotta un’indagine approfondita sugli eventi e che i responsabili di questi atti che mettono a repentaglio la vita delle persone siano assicurati alla giustizia. Chiediamo inoltre la cessazione immediata di ogni collaborazione europea con la Libia. Non possiamo accettare che una guardia costiera riconosciuta a livello internazionale compia aggressioni illegali». Non è la prima volta che la cosiddetta Guardia Costiera libica ostacola i soccorsi. Già nel 2023 una motovedetta aveva sparato nei pressi dei gommoni della Ocean Viking. Allora non seguì nessuna inchiesta. Questa volta però la portata dell’aggressione è senza precedenti: un assalto mirato, con colpi sparati all’altezza della testa e attrezzature di soccorso distrutte. Durante l’assalto la Ocean Viking ha lanciato un mayday alla NATO. La nave più vicina era un’unità della Marina italiana, che tuttavia non ha risposto. La Procura di Siracusa ha aperto un’inchiesta con l’ipotesi di tentato omicidio a carico di ignoti, disponendo rilievi scientifici a bordo della nave e la raccolta di testimonianze. Si dovrà accertare se l’attacco della Guardia costiera libica sia avvenuto in acque internazionali: in tal caso la competenza passerebbe alla Procura di Roma. Sul fronte europeo, la Commissione UE ha dichiarato di aver chiesto chiarimenti alle autorità libiche, ribadendo che spetta a Tripoli fare luce sull’accaduto. Bruxelles, al momento, si concentra sulla ricostruzione dei fatti senza annunciare conseguenze immediate.
«Accoglienza sotto assedio»: la denuncia del collettivo L’AltraMarea a Camigliatello Silano (CS)
«Accogliere con dignità non è una scelta, è un obbligo morale». Con queste parole il collettivo L’AltraMarea di Cosenza ha annunciato la sua nascita e la finalità di denunciare le condizioni dei cittadini e delle cittadine migranti all’interno dei centri di accoglienza governativi e dei centri di detenzione.  Il collettivo si impegna a monitorare, informare e sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni sulle criticità e le ingiustizie che «ancora oggi angosciano i migranti in questi contesti». Inoltre, si propone di far conoscere le reali condizioni di vita all’interno dei centri di accoglienza, fare pressione sulle autorità e promuovere un cambiamento dell’attuale ordinamento giuridico in materia di immigrazione. A fine luglio L’AltraMarea ha diffuso il suo primo report di un monitoraggio dal titolo eloquente: Accoglienza sotto assedio. Sceriffi, minacce e degrado a Camigliatello. Il documento di denuncia, ripreso e confermato dall’articolo della stampa locale 1 , raccoglie testimonianze e fotografie dall’ex hotel La Fenice, trasformato da tempo in Centro di Accoglienza Straordinaria (CAS) gestito dalla società locale Alprex S.a.s. «È singolare – scrive il collettivo – che l’ex Hotel La Fenice – simbolo mitologico di rinascita – si trasformi invece nell’antitesi della vita dignitosa. Qui, dove persone già segnate da violenze e traumi dovrebbero ricominciare, si trovano invece abbandono e maltrattamenti». Già nel 2016 erano state segnalate «violazioni quotidiane dei diritti essenziali dei migranti, parcheggiati come pacchi» sotto la gestione dell’associazione A.N.I.MED. «Siamo tornati a distanza di nove anni», spiega il gruppo di attivistə, «e constatiamo purtroppo un’involuzione del sistema di accoglienza». Tra le testimonianze raccolte spicca quella di T., giovane ospite del centro. Mostrando foto dei pasti, racconta di cibo servito «in piatti di plastica sigillati, gonfi per fermentazione batterica» e «maleodoranti». «Alle nostre proteste – denuncia – la risposta è stata: o mangiate questo o null’altro». Le condizioni igieniche vengono descritte come «un girone infernale»: docce incrostate, rubinetteria assente, muri segnati da calcare e ruggine. Agli ospiti viene consegnato «un solo cambio di vestiti all’arrivo e più nulla», con la lavatrice riservata «esclusivamente alla direzione». I materassi sarebbero «lerci, bucati, macchiati di aloni gialli e marroni», le stanze «umide e ammuffite». Gli ospiti parlano anche di «assenza totale di attività»: niente corsi di lingua, nessuna formazione, nessun percorso di inserimento. «I ragazzi passano le giornate nell’inerzia, vagando lungo la statale o seduti sulle panchine dei bar». Sul piano sanitario, il racconto è analogo: «Viene somministrato sempre e solo lo stesso farmaco, l’Oki. Nessun medico, nessun avvocato, nessuno psicologo». Il punto più inquietante riguarda la gestione interna. «Un membro della direzione, identificato come Alessandro, si atteggia a sceriffo – prosegue L’AltraMarea –. Diversi migranti ci raccontano che avrebbe mostrato una pistola per intimorire gli ospiti. In un caso, documentato da video, avrebbe addirittura aggredito fisicamente un minore». Chi protesta rischia ritorsioni. È lo stesso T. a raccontarlo: dopo aver contattato i carabinieri per denunciare le condizioni del centro, si sarebbe visto decurtare il pocket money di 25 euro al mese. «Un sopruso senza alcuna giustificazione», denuncia il collettivo. «Cambiano i padroni, ma rimane la stessa disumanità», constata il collettivo L’AltraMarea. «Ci chiediamo come sia possibile che le istituzioni non intervengano davanti a episodi tanto gravi, che riguardano anche minori. Queste persone sopravvissute a tragedie immense vengono ridotte a sgualcite banconote ambulanti, utili solo ad alimentare il business di gestori». E conclude: «Non si può continuare a ignorare che dietro ogni numero ci sono vite, ferite e speranze di rinascita». 1.  Il buio ai piedi della candela: viaggio in Sila nell’ex hotel La Fenice, tra degrado e paura, di Alessia Principe – CosenzaChannel ↩︎