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I rifugiati di Agadez lanciano una petizione urgente dopo oltre 300 giorni di protesta
Mentre il governo del Niger intensifica la repressione e viola i diritti dei rifugiati, stare al loro fianco è più importante che mai. Firma e condividi ora 1. Da oltre 300 giorni, i rifugiati del Centro “Umanitario” di Agadez, in Niger, continuano la loro protesta pacifica, denunciando condizioni sempre più dure, negligenza amministrativa e intimidazioni da parte delle autorità nazionali. Dall’inizio di luglio, la maggior parte delle persone ospitate nel centro ha smesso di ricevere l’assistenza alimentare. Secondo l’UNHCR, l’aiuto continuerebbe a essere garantito alle cosiddette “categorie vulnerabili”, come vedove, minori non accompagnati e persone con disabilità o patologie croniche. Ma in pratica, le liste degli aventi diritto, emesse dall’UNHCR, hanno escluso numerose persone che rientrano chiaramente nei criteri dichiarati. Inoltre, chi aveva ricevuto aiuti da ONG partner nel 2023 è stato retroattivamente escluso dai nuovi elenchi. A queste persone, al momento della distribuzione, non era stato comunicato che si trattava di un progetto legato all’integrazione economica, né che quel sostegno avrebbe compromesso la possibilità di ricevere aiuti in futuro. In un comunicato diffuso lo scorso maggio, l’UNHCR ha giustificato i tagli come un’opportunità per “favorire l’autosufficienza” attraverso corsi di formazione professionale. Ma la realtà sul campo è che la maggior parte dei rifugiati oggi fatica a soddisfare i propri bisogni fondamentali.  Interviste/Confini e frontiere MENO CIBO, PIÙ AUTONOMIA? IL PARADOSSO DELL’ASSISTENZA DI UNHCR AL CAMPO DI AGADEZ, NIGER I rifugiati: «Non vogliamo restare qui, nel deserto» Laura Morreale 20 Giugno 2025 L’agenzia ONU attribuisce le difficoltà operative ai tagli dei finanziamenti internazionali e alle restrizioni imposte dal governo del Niger. Tuttavia, alcuni operatori umanitari presenti sul territorio segnalano un contesto sempre più repressivo, che rende difficile persino il dialogo diretto con la popolazione rifugiata. In particolare, lo staff UNHCR ha dovuto affrontare ostacoli e intimidazioni quando ha cercato di dialogare con i rifugiati coinvolti nella protesta. I rifugiati riportano che funzionari dell’Ufficio CNE – l’organismo nazionale incaricato di valutare le richieste d’asilo – hanno impedito o interrotto incontri tra il personale UNHCR e i rappresentanti dei rifugiati. Secondo diverse testimonianze, un funzionario del CNE avrebbe affrontato in modo aggressivo e minaccioso un rappresentante dell’UNHCR responsabile delle politiche nutrizionali nel campo, durante un incontro di routine. Episodi simili fanno pensare che le autorità locali stiano volutamente limitando la capacità dell’UNHCR di comunicare e difendere i diritti dei rifugiati. Notizie/Confini e frontiere GESTIRE IL DISSENSO AD AGADEZ Le autorità nigerine dichiarano sciolti i comitati dei rifugiati Laura Morreale 22 Aprile 2025 Nei giorni scorsi, ad alcuni rifugiati è stato detto di “parlare solo per sé stessi”, perché gli organismi di rappresentanza collettiva sono osteggiati dalle autorità nazionali. A partire da maggio, il CNE ha infatti dichiarato illegittimo il comitato dei rifugiati che guida la protesta. All’epoca, otto attivisti erano stati arrestati senza accuse formali e poi rilasciati. Sei di loro – tre donne e tre uomini – si sono visti sospendere la procedura d’asilo tramite un decreto ministeriale datato 3 luglio, con la motivazione di “disturbo dell’ordine pubblico e rifiuto di rispettare le leggi e i regolamenti in vigore nel paese ospitante”. I tentativi di contestare la decisione sono stati respinti dai giudici, che hanno rinviato i casi all’ufficio del governatore. I rifugiati che hanno cercato di presentare denunce formali sono stati ignorati o dirottati altrove. PH: Refugees in Niger Secondo le persone del centro con cui sono in contatto, altri due rifugiati sarebbero stati deportati verso il loro paese d’origine perché “si erano rivolte al tribunale e avevano parlato con i giudici delle condizioni del centro, del trattamento riservato ai rifugiati da parte del personale e degli incidenti verificatisi nel centro, in particolare l’omicidio di un rifugiato nel 2022”. In un contesto di tagli all’assistenza alimentare, restrizioni alla libertà d’espressione e mancanza di accesso alla giustizia, le condizioni psicologiche dei residenti del centro sono peggiorate. Una rifugiata, Nawal Daoud Mohamed, è stata rilasciata dal centro nonostante fosse noto che soffrisse di disturbi psicologici e ora risulta scomparsa. Il CNE ha riferito che sarebbe apparsa in un villaggio a ottanta chilometri dalla città di Agadez, ma i rifugiati non sanno se l’informazione sia accurata o se si tratti di una strategia per evitare disordini nel campo. Secondo i rifugiati, questo caso è emblematico di una negligenza generalizzata verso il benessere psicologico dei residenti del centro. Secondo i rifugiati, questo caso è emblematico di una negligenza generalizzata verso il benessere psicologico dei residenti del centro. Di seguito, condividiamo il messaggio e la petizione inviataci dai rifugiati di Agadez con cui siamo in contatto da diversi mesi: -------------------------------------------------------------------------------- Grazie a Melting Pot Europa per il sostegno costante e per aver dato visibilità agli abusi in corso ad Agadez. Nonostante la nostra resistenza, e una protesta pacifica e legale che dura da oltre 309 giorni, la situazione è purtroppo peggiorata. Abbiamo bisogno della vostra voce. Vi chiediamo di firmare, condividere e amplificare queste storie, petizioni e testimonianze da Agadez. Enough is enough: when peaceful protest is met with collective punishment Dal 15 luglio 2025, i rifugiati del Centro Umanitario di Agadez hanno vissuto quanto segue: * Nawal Daoud Mohamed, una donna di 27 anni, è scomparsa dopo essere uscita dal campo. Era in stato di grave sofferenza psicologica a causa delle condizioni di vita estreme e disumane del Centro Umanitario di Agadez. * Pompe dell’acqua disattivate nel mese più caldo dell’anno, lasciando 2.000 persone – tra cui 800 bambini – senza acqua adeguata, con temperature nel deserto che superano i 50°C. * Assistenza alimentare eliminata per 1.730 persone come punizione per l’espressione pacifica del dissenso. L’UNHCR lo chiama “promozione dell’autosufficienza”. Il diritto internazionale lo chiama punizione collettiva. Su oltre 2.000 residenti, solo 270 persone classificate come “più vulnerabili” hanno ancora accesso alla nutrizione di base. * Otto leader comunitari, sopravvissuti a una detenzione arbitraria a marzo, oggi affrontano nuove minacce semplicemente perché si rifiutano di restare in silenzio. Il CNE ha intensificato le intimidazioni, avvertendo che lo status di rifugiato potrebbe essere revocato a chiunque continui a documentare le condizioni del centro con la campagna #KeepEyesOnAgadez. * Le cure mediche sono state ridotte al minimo, con farmaci limitati a semplici antidolorifici, mentre donne incinte muoiono durante il parto e i bambini vengono respinti da cliniche chiuse. -------------------------------------------------------------------------------- Non possiamo lasciare che tutto questo continui. Firma ora le petizioni per chiedere il ripristino immediato di cibo, acqua, cure mediche e la fine delle intimidazioni. Ogni firma aumenta la pressione sul governo del Niger e sull’UNHCR. ✍️ Petizione al Governo del Niger ✍️ Petizione all’UNHCR Bastano 5 minuti, ma possono salvare delle vite. Condividi questo appello e tagga 3 persone che hanno a cuore i diritti umani. Quando firmiamo insieme, i funzionari devono ascoltare. 1. ✍️ Petizione al Governo del Niger ✍️ Petizione all’UNHCR ↩︎
f.Lotta: un’occupazione marittima contro il sistema dei confini
IL DESERTO DEL MEDITERRANEO CENTRALE Il Mediterraneo centrale è una delle rotte migratorie più letali al mondo, dove il razzismo delle politiche di frontiera dell’Unione Europea appare in modo evidente: oltre 25.000 persone sono morte dal 2014 1. I soldi dell’Unione Europea finanziano il controllo del confine, costruiscono centri di detenzione in Nord Africa e ostacolano gli sforzi delle navi ONG. La strategia ha dato i suoi frutti: lo stato ha espanso il proprio controllo in questa zona di frontiera, irregimentando la solidarietà in un quadro operativo che si conclude quasi sempre con la detenzione o l’assegnazione di un porto lontano per lo sbarco. Peggio ancora: la violenza frontaliera dello stato sta diventando invisibile. F.LOTTA f.Lotta è una chiamata dal basso a rifiutare questa situazione e il sistema mondo che l’ha normalizzata.  f.Lotta organizzerà una protesta in mare a sud di Lampedusa, riunendo il maggior numero possibile di imbarcazioni, per ripoliticizzare quello che oggi è un cimitero a cielo aperto. Vogliamo occupare il Mediterraneo centrale con la nostra solidarietà e resistenza collettiva, vogliamo riscattarlo dal regime dei confini. Barche provenienti da molti porti d’Italia e d’Europa convergeranno verso Lampedusa attraverso tappe logistico-politiche in diversi porti, per diffondere le idee di f.Lotta e creare connessioni con le realtà locali e le reti di solidarietà. La protesta in mare a sud di Lampedusa durerà 3 giorni, in un periodo compreso tra il 10 e il 20 settembre. Comprenderà due momenti di concentrazione vicino all’isola, una navigazione collettiva attraverso il confine meridionale dell’Unione Europea e commemorActions. OCOB: ONE CAMPAIGN ONE BOAT f.Lotta è una campagna di campagne. L’orizzonte politico comune di f.Lotta è la libertà di movimento. Gruppi politici e collettive a terra sostengono f.Lotta sviluppando campagne specifiche che arricchiscono una piattaforma politica condivisa a favore di un sistema diverso. Ogni barca di f.Lotta diventa testimone e portabandiera di una specifica campagna, portandola simbolicamente con sé durante l’azione in mare: se f.Lotta fosse un manifesto, ogni barca sarebbe una rivendicazione. Potete scoprire le campagne sul nostro sito web. F.LOTTINE E F.LOTTA DI TERRA f.Lotta vuole contrastare l’espansione dell’estrema destra e non si esaurisce con la protesta in mare a sud di Lampedusa. Le f.Lottine e la f.Lotta di terra sono ulteriori articolazioni dell’iniziativa, azioni di protesta parallele che collegano lo spazio del Mediterraneo centrale con altre città europee e altre aree di confine. Una f.Lottina è un’altra occupazione marittima o fluviale, mentre un’azione di f.Lotta di terra può assumere diverse forme: un’occupazione, una marcia, un sit-in davanti a un centro di deportazione. Crediamo che molteplici occupazioni di mare, di fiume e di terra siano necessarie per creare connessioni con realtà e lotte già esistenti, raggiungendo quante più persone possibile. Da quando l’Europa ha deciso di diventare una fortezza, ha accettato il rischio di un assedio collettivo. LA MARCIA DELLA SPERANZA f.Lotta rende omaggio e trae ispirazione da un momento che 10 anni fa sconvolse i rapporti di forza all’interno del sistema dei confini. A settembre 2015, migliaia di rifugiate iniziarono a camminare sulle autostrade dall’Ungheria verso la Germania. La loro azione spontanea e diretta aprì i confini interni dell’Unione Europea. Alcuni anniversari devono essere rumorosi. CHI SIAMO f.Lotta federa un gruppo molteplice di persone unite dalla convinzione che un orizzonte politico diverso sia possibile. Non siamo un’organizzazione istituzionalizzata. La protesta in mare apre il Mediterraneo centrale a forme di solidarietà e resistenza diverse rispetto al soccorso marittimo professionalizzato, riunendo persone, collettive, gruppi con o senza barche. Invita la società civile a rigettare ovunque il regime di frontiera, fino alle sue fondamenta: razzismo, colonialismo, capitalismo e patriarcato. CON O SENZA BARCA Qui potete leggere la nostra chiamata, con diversi modi per sostenere f.Lotta. Squattiamo il mare assieme! Contatti: https://flotta.noblogs.org F_Lotta@inventati.org https://www.instagram.com/f.lotta_ 1. Si veda: Missing Migrant Project ↩︎
Abriendo Fronteras a Calais, l’ultima frontiera
Non ci sono prati a Calais. Ogni fazzoletto di erba è stato coperto con grossi massi bianchi. Neppure i parchi pubblici sono stati risparmiati. Lo hanno fatto per impedire ai migranti di accamparsi. Hanno voluto togliere loro anche lo spazio per sistemare un sacco a pelo e passarci una notte. I sociologi francesi lo chiamano “arredo a vocazione disciplinare“, è di fatto un arredo urbano anti-povero e prolifera in tante città specialmente di frontiera, anche italiane. Calais è l’ultima frontiera per le persone migranti dirette nel Regno Unito. Una frontiera dove la Francia, di fatto, fa da «barriera preventiva», come i Paesi di transito balcanici lo fanno per l’Europa. PH: Carovane Migranti «I migranti sono relegati e abbandonati in un ghetto, una sorta di tendopoli fatiscente senza il minimo servizio – spiega Damiana Massara, attivista torinese di Carovane Migranti -. Ogni due o tre giorni arriva la polizia e sbaracca tutto: taglia i sacchi a pelo, sequestra i cellulari, rompe tutto quello che si può rompere». Si stima siano più di 1.800 le persone che sopravvivono in condizioni difficilissime in un’area compresa tra Calais e Dunquerke, in insediamenti informali senza accesso all’acqua, al cibo, all’assistenza sanitaria. Damiana è arrivata a Calais seguendo la Caravana Abriendo Fronteras. Le attiviste e gli attivisti spagnoli sono partiti da Irun l’11 luglio. A Parigi hanno raccolto la delegazione italiana, composta da una quindicina di persone e, dopo una partecipata manifestazione a Place de la Bastille, sono partiti per la Francia settentrionale, sino a raggiungere Calais. > Visualizza questo post su Instagram > > > > > Un post condiviso da Caravana Abriendo Fronteras (@caravanaabriendofronteras) Dal 15 al 17 luglio il gruppo di carovanieri ha partecipato a manifestazioni di protesta, momenti di commemorazione delle morti di frontiera, azioni di denuncia e seminari formativi sulla criminalizzazione della solidarietà, sui diritti dei minori e la sorveglianza tecnologica delle frontiere. Come di consueto nei suoi viaggi verso le frontiere d’Europa, Carovane Migranti ha portato i lenzuoli della memoria: lunghi teli bianchi dove vengono ricamati i nomi delle persone migranti uccise dalle frontiere. «A Calais abbiamo aperto un nuovo lenzuolo: il primo nome è stato quello di un migrante morto nel tentativo di attraversare la Manica proprio il giorno del nostro arrivo», racconta Damiana. PH: Carovane Migranti Quante persone sono state uccise, non dal mare, ma dalla frontiera tra Francia e Gran Bretagna? L’anno più mortifero è stato il 2024, con 89 morti. Quest’anno siamo a quota 25. Con Carovane sono arrivati a Calais anche tre testimoni di altre frontiere assassine: Laila, la madre, e le sue due giovani figlie, Fatima e Setayesh. Il fratello di Laila, sua moglie e i loro tre figli sono stati uccisi nel naufragio di Cutro. Il corpo di uno dei ragazzi non è ancora stato trovato e Carovane Migranti ha chiesto alla Comunità Europea di attivarsi per recuperare il relitto e poter dare un nome a tutti coloro che sono periti in quella tragedia. Non è solo una questione di rispetto. Senza un corpo su cui piangere, i familiari non possono fare a meno di coltivare dolorose speranze. «A Calais abbiamo toccato con mano le conseguenze di una frontiera. Una frontiera tanto inutile quanto sanguinosa – prosegue Damiana -. Ma abbiamo trovato anche tanta solidarietà. Come quel grande magazzino gestito da un collettivo di associazioni, come Human Rights Observers, dove le attiviste e gli attivisti raccolgono materiale come sacchi a pelo, suppellettili, cellulari usati per rimpiazzare ciò che la polizia distrugge durante gli sgomberi. Poi c’è la Caritas, che ha organizzato un efficiente punto di accoglienza dei migranti, con bagni pubblici e docce, corrente elettrica, consulenza legale e informazioni.» PH: Carovane Migranti Calais, assieme alle spiagge della Normandia, è un punto di passaggio obbligato per le rotte migratorie. Arrivano dai Paesi subsahariani, dalla Libia, Siria, Pakistan, Eritrea, Iran, Iraq, Kuwait, soprattutto. Un passaggio costa circa 1.500 euro. Negli ultimi tempi sono giunti anche migranti vietnamiti. «A loro i trafficanti chiedono un prezzo maggiore, perché si dice che siano i più ricchi – spiega l’attivista Marta Peradotto -. Un giro d’affari milionario che ormai viaggia online. Il che dimostra quanto sia ridicolo, oltre che criminale, pensare di poter risolvere la questione migratoria alzando muri o ricorrendo a sgomberi o altre brutalità. Gommoni, barche e motori vengono messi all’asta su internet alla luce del sole. Il passaggio a Dover è diventato una merce acquistabile e vendibile online. Discorso diverso per i giubbotti di salvataggio, che sono stati praticamente messi fuori commercio. Non se ne trovano in tutta la città e le persone sono costrette a imbarcarsi anche senza questa minima protezione. E se non è criminale questo…». A Calais è evidente l’ipocrisia delle politiche migratorie europee, che esternalizzano le frontiere, reprimono la solidarietà e bloccano il diritto di migrare. «Di fronte a ciò – ha scritto Abriendo Fronteras – insistiamo sulla necessità urgente di vie legali e sicure, di una protezione reale per chi fugge dalla guerra, dalla miseria o dal saccheggio, e del riconoscimento politico delle reti di sostegno che si prendono cura delle vite che gli Stati violano». PH: Caravana Abriendo Fronteras
Bari, fuoco e repressione nel CPR: la protesta che nessuno vuole vedere
In Puglia sono attualmente attivi due Centri di Permanenza per il Rimpatrio: uno a Bari-Palese, l’altro a Restinco, frazione di Brindisi 1. Entrambe le strutture si trovano in aree periferiche, militarizzate e difficilmente accessibili da osservatori esterni. Quello di Bari 2 è attivo come CPR dal 2017; ad oggi, vi sono state trattenute circa 750 persone. Ed è proprio in questo centro che, nella notte tra il 22 e il 23 luglio, è esplosa una nuova protesta. Le persone recluse hanno appiccato incendi all’interno dei moduli detentivi, incendiando materassi e suppellettili. Alcuni si sono rifugiati sui tetti per sfuggire al fumo, lanciando slogan come “libertà” e “tutti liberi”. Le rivolte sono l’esito di condizioni di detenzione estreme: caldo insopportabile, scarsa igiene, cibo avariato, deterioramento della salute fisica e mentale. Gli attivisti della rete Mai più lager – No ai CPR documentano un clima di disperazione, con episodi di autolesionismo e tentativi di fuga, in un contesto in cui l’unico orizzonte possibile resta la detenzione stessa. Secondo quanto riferito dai collettivi locali – che denunciano le «condizioni disumane» del centro e si sono recati subito sul posto documentando con foto e video gli incendi – una delle persone trattenute ha riportato fratture agli arti durante un tentativo di fuga, restando intrappolata per ore senza ricevere soccorsi. La Prefettura ha dichiarato che l’assistenza medica è avvenuta tempestivamente, ma la discrepanza tra le dichiarazioni ufficiali e le testimonianze raccolte all’interno alimenta il sospetto che il sistema operi in una condizione di opacità. L’intervento delle forze dell’ordine per sedare le proteste è stato descritto come violento da attivisti e testimoni diretti, con punizioni collettive e isolamento forzato. PROTESTA DI INIZIO LUGLIO E PROCESSO LAMPO Anche all’inizio di luglio erano state denunciate proteste da parte dei detenuti. La segnalazione era stata lanciata dalla comunità Intifada Studentesca, che ha riferito di «tantissime persone salite sui tetti in segno di rivolta» durante il primo fine settimana del mese, per chiedere di parlare con la direttrice della struttura. Un episodio specifico, avvenuto nei primi giorni di luglio, ha visto tre persone recluse – tutti incensurate – protagoniste di una protesta interna più contenuta, che è però sfociata in arresti in flagranza. Nel processo per direttissima, davanti al giudice Mario Matromatteo, hanno spiegato di aver agito dopo settimane di condizioni igienico-sanitarie degradanti e totale mancanza di ascolto da parte delle autorità. Dopo tentativi pacifici, come lo sciopero della fame, hanno deciso di protestare in modo più eclatante. «Portateci in carcere, ma non di nuovo in quell’inferno», è una delle frasi che hanno detto. 3 Assistiti dalle avvocate Loredana Liso e Uliana Gazidede, i tre hanno patteggiato sei mesi di reclusione con pena sospesa (dequalificati da “organizzatori” a semplici partecipanti), mentre il giudice ha disposto il trasferimento degli atti e del verbale dell’udienza alla Procura, affinché siano verificate le condizioni del centro e accertate eventuali responsabilità legate alla sua cattiva gestione. ATTI DI AUTOLESIONISMO Il 1° maggio 2025 un giovane trattenuto all’interno del centro, dopo una settimana di sciopero della fame, è stato portato all’ospedale San Paolo di Bari in seguito all’ingestione di shampoo. Accanto alla denuncia dell’evento, sono emerse testimonianze su atti di autolesionismo compiuti da un secondo “ospite” del centro e sul tentato suicidio di un terzo. L’assemblea No CPR Puglia ha inoltre segnalato l’abuso di psicofarmaci, l’uso sistematico di isolamento dei detenuti, l’erogazione di pasti deteriorati e una scarsa assistenza medica. STRETTA DEL GOVERNO SULLE VISITE ISPETTIVE NEI CPR Non sarà semplice, ora, poter appurare i fatti e verificare le condizioni dei detenuti: il diritto di ispezione sulle strutture è stato progressivamente compromesso. Una circolare del Ministero dell’Interno, datata 18 aprile 2025, ha introdotto nuove restrizioni formali all’accesso di parlamentari, consiglieri regionali ed eurodeputati nei CPR. Le visite “ispettive” sono state ridimensionate – nella pratica, ostacolate – imponendo che gli accompagnatori siano “soggetti funzionalmente incardinati”, una condizione non prevista dalla normativa primaria, che di fatto limita l’accesso indipendente a queste strutture di detenzione amministrativa. Approfondimenti/Circolari del Ministero dell'Interno/CPR, Hotspot, CPA CPR: VIETATO ENTRARE Il Ministero dell’Interno limita e depotenzia le visite ispettive ai Centri di Permanenza per i Rimpatri Avv. Arturo Raffaele Covella 18 Luglio 2025 Intanto in provincia di Gorizia, al CPR di Gradisca d’Isonzo, attivisti della rete No CPR e trattenuti denunciano da settimane la diffusione di un’epidemia di scabbia tra i reclusi, in un contesto di sovraffollamento, scarsa igiene e cibo di bassa qualità. Le tensioni, legate anche alla diffusione della malattia, hanno generato proteste ripetute. Non c’è più tempo da perdere. I CPR vanno chiusi. 1. Alla fine del 2024, la capienza effettiva della struttura era tornata a 48 posti. Fonte Action Aid. ↩︎ 2. La scheda di questo CPR su Action Aid ↩︎ 3. Bari, protesta dei migranti nel Cpr di Palese: atti ai Pm sulle condizioni del centro, La Gazzetta del Mezzogiorno (10 luglio 2025) ↩︎
«Chiudere il Cpr di Ponte Galeria»: le associazioni aderiscono all’Azione popolare
A Buon Diritto, ActionAid, Antigone Lazio, Arci, ASGI, Baobab Experience, Casa dei Diritti Sociali, CGIL Roma e Lazio, CILD, Cittadinanzattiva, Medici Senza Frontiere, Nonna Roma, Oxfam Italia, Progetto Diritti, Psichiatria Democratica, SIMM – Società Italiana di Medicina delle Migrazioni, Spazi Circolari annunciano la loro adesione all’Azione popolare per la chiusura immediata del Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria, a Roma. La recente sentenza n. 96/2025 della Corte costituzionale ha ribadito ciò che il mondo del diritto e della società civile denunciano da anni: i Cpr rappresentano una grave violazione dello Stato di diritto e dei principi costituzionali. A Ponte Galeria, l’unico Cpr in Italia che trattiene anche donne, si assiste quotidianamente a situazioni di abbandono terapeutico, sofferenza psicologica e lesione della dignità umana. Abbiamo deciso di intervenire in questa specifica battaglia per la chiusura del Cpr di Ponte Galeria perché in questo “buco nero”, oltre al catalogo degli orrori che riguarda tutti i centri, si evidenzia una carenza ancor più grave: la presenza di donne trattenute e il conclamato abbandono terapeutico delle persone con vulnerabilità psicologica», scrivono le associazioni. Abbiamo scelto di aderire formalmente all’Azione popolare promossa da un gruppo di personalità romane del mondo accademico, in sostituzione del Sindaco di Roma, poiché riteniamo che la chiusura del Cpr non sia solo una battaglia giuridica, ma un’urgenza politica e civile. La detenzione amministrativa in strutture opache, fuori dal controllo dell’autorità giudiziaria e chiuse al monitoraggio della società civile, è inaccettabile in un paese che dice di fondarsi sul rispetto dei diritti umani. Il Cpr di Ponte Galeria è una ferita aperta nel cuore della nostra città. Non è più tollerabile che esista uno spazio dove si calpestano quotidianamente i diritti fondamentali, senza alcuna garanzia giuridica, senza condizioni igienico-sanitarie adeguate, senza una sufficiente assistenza medica, dove non è rispettata la dignità delle persone. Come organizzazioni e associazioni impegnate nella tutela dei diritti, non accettiamo che a Roma esista un luogo di questo tipo, in totale contrasto con i principi costituzionali e dello Statuto di Roma Capitale. L’Azione popolare, la cui prima udienza è fissata per il 16 ottobre 2025, rappresenta un’opportunità importante per riportare al centro del dibattito pubblico il tema dell’illegittimità dei Cpr e dell’abbandono istituzionale delle persone con vulnerabilità psicologica, nonché per porre un argine al razzismo istituzionale e alla discriminazione nei confronti di persone con background migratorio. Pertanto invitiamo tutte le cittadine e i cittadini di Roma, le organizzazioni, le reti sociali e culturali a sostenere l’iniziativa, formalmente o pubblicamente. La chiusura del Cpr di Ponte Galeria è un atto dovuto. È tempo di restituire giustizia e umanità a una città che vuole dirsi aperta e accogliente. * E’ possibile aderire all’Azione popolare o ricevere informazioni sulle modalità di sottoscrizione:  attivadiritti@gmail.com Comunicati stampa e appelli/CPR, Hotspot, CPA IL MONDO ACCADEMICO PROMUOVE UN’AZIONE POPOLARE PER LA CHIUSURA DEL CPR DI ROMA PONTE GALERIA Inviata un’istanza al Sindaco di Roma affinché ne chieda la chiusura immediata 20 Settembre 2024
Spagna (Murcia). Torre Pacheco come sintomo?
Nel luglio 2025, il comune murciano di Torre Pacheco è stato teatro di un’escalation di violenza razzista a seguito dell’aggressione a un uomo di 68 anni, attribuita a tre giovani presumibilmente di origine magrebina. Questo episodio è stato immediatamente strumentalizzato da gruppi di estrema destra – tra cui Vox, Frente Obrero e collettivi come Deport Them Now 1 – per fomentare un clima di odio, con vere e proprie “caccia all’immigrato”, incendi e minacce nei confronti della comunità migrante, in particolare nordafricana. In risposta agli attacchi e al clima di terrore, diverse realtà sociali, sindacati e collettivi antirazzisti in tutto il paese si sono mobilitate per manifestare il loro rifiuto del razzismo strutturale e chiedere giustizia per le vittime della violenza xenofoba. A seguire la traduzione di questa interessante analisi di Antonio J. Ramírez Melgarejo pubblicata dalla rivista Zona de Estrategia, ringraziando l’autore e l’editore per la gentile concessione. La revisione del testo è stata curata da Ángel Luis Lara. Le persone migranti hanno il diritto di pianificare il proprio progetto di vita, non vengono per ripopolare i paesi o pagare le pensioni, questa visione utilitaristica delle persone è miserabile. Dovrebbero poter fare ciò che ritengono opportuno, ma questo non è ammesso in un modello di organizzazione sociale svilito dall’individualismo identitario. A questo punto si è scritto e detto molto di ciò che sta accadendo a Torre Pacheco (Murcia) nell’estate del 2025, ma riteniamo importante cercare di approfondire le cause e le conseguenze per comprendere questo tipo di conflitti, perché siamo certe che questa esplosione razzista, xenofoba e fascista non sarà l’ultima. Il 9 luglio 2025, un pensionato di Torre Pacheco è stato picchiato nelle prime ore del mattino, presumibilmente da alcuni giovani vicini di origine marocchina. La crescente tensione sociale reazionaria degli ultimi anni e i discorsi di odio contro i migranti, le diversità sessuali, la sinistra politica, ecc. hanno facilitato la trasformazione di questo evento in un canale per incanalare la violenza fomentata, diffusa e incoraggiata da bufale e disinformazione diffuse massicciamente sui social network. Non intendiamo analizzare qui come si generano queste dinamiche né le razzie fasciste, ma piuttosto, cercare di fornire un quadro esplicativo critico che contestualizzi l’evento al di là dell’opinione urgente e angosciata e dell’impotenza di vedere gruppi neonazisti che cercano di trasformare un paese in un laboratorio di pogrom. Un fatto che non è isolato, ma che si inserisce in un aumento generalizzato della violenza contro le persone migranti in tutta Europa. Sappiamo bene che l’espansione dell’internazionale reazionaria e le sue conseguenze concrete, in questo caso in un paese della Murcia, come potrebbe essere (e purtroppo sarà) in qualsiasi altro luogo. In Spagna, le periferie sono quasi sempre oggetto di notizie per fatti tragici. Torre Pacheco era un luogo sconosciuto alla grande maggioranza della popolazione fino ad ora. Si tratta di un paese della campagna di Cartagena, a soli 10 chilometri dal maltrattato Mar Menor. L’intera zona è un’enclave produttiva agroindustriale intensiva e globale, dove vengono coltivati, con metodi tecnologici avanzati, meloni, angurie e ortaggi che vengono esportati in tutta Europa.  Questi prodotti sono coltivati, raccolti e confezionati per il 90% da migranti, la maggior parte dei quali provenienti dal Marocco, che costituiscono circa il 7-8% della popolazione totale. I dati statistici rivelano che le famiglie di migranti sono quelle con il reddito più basso, anche se in proporzione sono più iscritte alla previdenza sociale rispetto agli spagnoli, dati disponibili per chiunque voglia consultarli. La storia delle persone migranti a Torre Pacheco, come in tanti territori periferici del sud della Spagna, inizia negli anni ’90, quando i primi giovani provenienti dal Marocco cominciano ad arrivare nei campi di Cartagena. Con o senza contratto, lavoravano a cottimo nei campi e vivevano in condizioni precarie in casolari fatiscenti e/o abbandonati in mezzo alla campagna: non erano visibili, non erano prossimi, solo forza lavoro sfruttata su cui si è fondato il modello di sviluppo agroindustriale del paese e dell’intera regione. Nel 1993 la popolazione totale non raggiungeva le 18.000 persone, mentre oggi è una piccola città di quasi 40.000 abitanti. Torre Pacheco è uno dei pochi paesi che ha visto aumentare la popolazione negli ultimi 30 anni, moltiplicandosi per 125%. Il dinamismo economico e demografico della zona è il risultato dello sfruttamento della forza lavoro migrante vulnerabile, in gran parte priva di diritti di cittadinanza, dipendente da un lavoro agricolo mal retribuito che non poteva permettersi di perdere perché con esso manteneva le proprie famiglie là e sopravviveva qui. Questo processo ha creato una classe operaia migrante priva di strumenti comunitari e sindacali con cui difendere il proprio diritto a migliorare le condizioni di vita e di lavoro. È stata loro lasciata solo la possibilità di diventare schiavi moderni del capitale agroindustriale.  Con il passare degli anni questi uomini sono riusciti, nonostante tutte le difficoltà, i pregiudizi e le vessazioni, a stabilizzarsi nel lavoro e nel territorio, riunendo le loro famiglie e mettendo al mondo figli e figlie nel paese. Ciò non è stato accettato da una parte della popolazione locale che ha votato Vox come primo partito già nel 2019, sostenendo il suo discorso di paura e odio contro le persone migranti accusate di reati e violenze sessuali, dati che non trovano riscontro nelle statistiche. Una forma classica di criminalizzazione che affonda le sue radici e cresce nei pregiudizi contro ciò che è diverso e sconosciuto. Come accade in tanti altri territori o periferie urbane come il nord di Parigi o l’est di Londra, dove nel 2024 si sono verificati gravi attacchi razzisti, territori urbani in tensione che hanno assistito a simili cacce all’uomo. Manifestazione antirazzista a Murcia (PH: Dani Gago) Abbiamo, quindi, una popolazione originaria del Marocco in crescita che si sta insediando in un paese a bassa densità demografica e con ampie zone rurali. La competizione iniziale per i posti di lavoro nei campi tra stranieri e nazionali è durata poco. Il tessuto imprenditoriale ha scommesso definitivamente sul reclutamento di manodopera migrante, più facilmente sfruttabile e disumanizzabile, a cui poter chiedere di lavorare più velocemente e guadagnare meno, per guadagnare di più. Inoltre, molti contadini autoctoni non potevano più competere con le grandi agroindustrie che cominciavano a insediarsi nel paese e hanno dovuto trovare altri lavori per sopravvivere e/o vendere i loro terreni ai nuovi grandi imprenditori. A Torre Pacheco, come in qualsiasi enclave agroindustriale, convivono in tensione classi sociali molto disuguali. Da un lato, le grandi rendite dei capitalisti dell’agro, generate dai corpi sacrificati della classe operaia, e dall’altro, la classe operaia a basso reddito, composta principalmente da migranti nel caso dell’agricoltura, che condivide lo spazio con gli abitanti autoctoni del comune. In effetti, pochi capitalisti spagnoli hanno lucrato enormemente per tre decenni sfruttando lavoratori e lavoratrici di origine straniera. Pertanto, non c’è concorrenza sul posto di lavoro tra migranti e “nazionali” perché la segregazione è attualmente istituzionalizzata. L’unica “concorrenza” è quella che si percepisce nell’occupazione dello spazio pubblico, nella pratica del diritto alla città. Negli ultimi trent’anni, infatti, la popolazione marocchina ha costruito la piccola città di Torre Pacheco, aprendo attività commerciali, frequentando parchi, scuole e centri sanitari, come veri e propri vicini. Durante questo processo, ben documentato dalla crescita demografica e dalla trasformazione urbana, non c’è stato un vero processo di socializzazione, comunicazione e conoscenza tra le due comunità. La tensione e la sfiducia sono state la norma. È evidente che i datori di lavoro e una parte dei residenti autoctoni non li considerano veri e propri vicini, ma li vedono come una semplice forza lavoro necessaria da sopportare per mantenere l’economia. Ancora una volta, l’economia prevale sulla vita, pura essenza capitalista. Questa è la base del risentimento verso la comunità migrante, che in risposta a questo disprezzo ha costruito le proprie relazioni, in cui sono cresciute le loro famiglie, i figli e le figlie nati in Spagna, che sono stati educati qui con la speranza che “non fossero come noi”, che avessero opportunità lavorative e di vita diverse da quelle dei loro padri e delle loro madri, il desiderio di poter costruire un progetto di vita come chiunque altro, studiare se lo si desidera, lavorare, formare una famiglia…  Ma questi figli di persone migranti già nati a Torre Pacheco sanno che non sarà facile, che porteranno con sé il peso della loro condizione razzializzata per tutta la vita nonostante siano murciani e spagnoli, che i partiti politici neofascisti, ma anche una parte della popolazione, non li considereranno mai spagnoli né persone con il diritto di decidere liberamente della propria vita. Loro sanno che gli imprenditori e i politici, ma anche una parte della popolazione autoctona, li vogliono legati all’agricoltura, a ciò che hanno fatto e fanno i loro padri e le loro madri; li vogliono senza pieni diritti, senza autonomia né capacità di decidere. Li vogliono invisibili, silenziosi, vulnerabili, spaventati, perché sanno bene che chiunque ne abbia l’opportunità cercherà prima o poi di uscire dalle condizioni di semi-schiavitù dell’agricoltura e della dipendenza. Questi figli di persone migranti, erroneamente definiti seconda generazione, devono provare un crescente senso di impotenza e rabbia per l’impossibilità materiale di poter realizzare il proprio progetto di vita; stanno constatando che non avranno autonomia e che, se necessario, le loro decisioni saranno molto limitate; intuendo che non avranno la vita che è stata loro promessa, come tutta una generazione di giovani nel Paese, indipendentemente dalla loro provenienza. Questo sentimento di delusione rivelatrice è lo stesso che pulsa nelle banlieue francesi o nella zona est di Londra, lo stesso che provano milioni di lavoratori migranti in tutto il mondo quando scoprono che il capitalismo li vuole solo come corpi da sfruttare e consumatori ipnotizzati, attori secondari in un film di cui non saranno mai protagonisti. Le promesse di crescita sostenuta e di crescente capacità di consumo non saranno mantenute come avevano immaginato. Il capitalismo, razzista e colonizzatore, non può mantenere le sue promesse, solo pochi ne sono i beneficiari. Lo sforzo e la sottomissione dei loro genitori non sono serviti ad altro che a sopravvivere, e loro lo sanno, lo sentono ogni giorno. Si tratta di una forma di violenza che, sebbene non sia direttamente fisica, danneggia le loro vite e quelle della società in cui vivono.  È violenza strutturale: quella che subiscono perché sono lavoratori poveri e per di più migranti, peggio ancora se sono donne. È il tipo di violenza che impedisce loro di avere gli stessi diritti degli altri, che li condanna a una posizione subordinata nella società, a occupare posti di lavoro precari e rifiutati dai nativi. Ma anche se riescono a uscire da quella situazione, è altamente probabile che non potranno mai cancellare la loro condizione di migranti, e questa è una forma di violenza simbolica che deriva dall’interiorizzazione della posizione di dominati nella società, dall’impossibilità di migliorare la propria vita.  Il che ci porta alla terza forma di violenza che subiscono, quella normalizzata, quella che ricevono quotidianamente sotto forma di disprezzo, insulti, esclusione dallo spazio sociale; quella che subiscono sul lavoro, con contratti falsi, con gli inganni delle agenzie di lavoro interinale, con il mancato versamento dei contributi, con i maltrattamenti e i gravissimi casi di molestie sul lavoro e anche sessuali nei confronti delle donne migranti che hanno già mandato in galera diversi responsabili spagnoli, sia a Torre Pacheco 2 che a Huelva, anche se non si continua ad agire con fermezza contro le molestie sessuali e gli stupri. Il clamoroso contrasto tra il silenzio come risposta a queste aggressioni e violenze quotidiane contro le donne migranti e il rumore generato dall’aggressione al pensionato di Torre Pacheco che è stato picchiato è particolarmente illuminante e doloroso. Questa generazione, spagnola e murciana, ripeto, vuole uscire dall’invisibilità dei primi migranti, e questo viene punito. Come persone integrali rivendicano il loro diritto alla città, a quella città che in gran parte hanno costruito, non vogliono continuare a essere invisibili nei campi, nelle case, nelle strade. Il capitalismo non offre, non può offrire loro alcun tipo di progetto civilizzatore, è un modello socioeconomico basato sulla competizione, che fomenta la lotta del penultimo contro l’ultimo, non può costruire comunità perché la sua tendenza è quella di distruggerla, individualizzare, isolare, frammentare. Per offrire un orizzonte di speranza è necessario porre fine alle condizioni di sfruttamento e segregazione lavorativa come premessa fondamentale affinché esista una possibilità di convivenza. Inoltre, tenendo conto che le persone migranti hanno il diritto di pianificare il proprio progetto di vita, non vengono a ripopolare i paesi o a pagare le pensioni, questa visione utilitaristica delle persone è miserabile. Dovrebbero poter fare ciò che ritengono opportuno, e questo non è ammesso in un modello di organizzazione sociale svilito dall’individualismo identitario. Gran parte del nostro futuro, della possibilità di lottare per un futuro comune diverso, gioioso, entusiasmante e degno di essere vissuto, è in gioco nella socializzazione e nella politicizzazione delle persone migranti, come ci sta insegnando la rinascita sindacale negli Stati Uniti, guidata principalmente da lavoratori migranti che stanno perdendo la paura e che hanno saputo identificare il loro vero nemico: i rapporti di sfruttamento capitalistico e la frammentazione sociale che essi producono. Di fronte a ciò, le alleanze trasversali di razza, genere e classe sono senza dubbio la strada da seguire per imparare a indirizzare bene la nostra rabbia, ma anche la nostra solidarietà. 1. Torre Pacheco, come un canale Telegram razzista ha scatenato la “caccia all’immigrato” in Spagna, Fernanda Gonzalez – Wired (16 luglio 2025) ↩︎ 2. Detenido un encargado agrícola por una veintena de agresiones sexuales a temporeras en Cartagena, El Diario (settembre 2020) ↩︎
Eritrea: la diaspora accusa Rai3 di aver riscritto la realtà
Martedì 15 luglio 2025, Rai3 ha trasmesso La Grande Bugia – Eritrea andata e ritorno, un documentario a cura di Francesca Ronchin e Salomon Mebrahtu. Il programma ha sollevato forti critiche da parte della diaspora eritrea, per il modo in cui mette in discussione la narrazione consolidata sull’esilio politico degli eritrei, mostrando migranti che tornano nel proprio paese d’origine durante l’estate, “senza ripercussioni” e “riaccolti dal paese”. LA VOCE CRITICA DELLA DIASPORA L’associazione Eritrea Democratica ha risposto con una lettera aperta indirizzata alla Direzione di Rai3, in cui esprime “profonda preoccupazione e indignazione” per i contenuti del documentario. «La trasmissione, a nostro avviso – sottolinea l’associazione – diffonde una narrazione distorta e pericolosa sulla realtà eritrea e sulla diaspora, legittimando di fatto la propaganda del regime di Asmara e delegittimando l’esperienza di migliaia di veri rifugiati politici». La lettera contesta anche la selezione delle testimonianze incluse nel documentario: «Molti degli intervistati – benché presentati come eritrei incontrati o contattati casualmente – si mostrano apertamente favorevoli, se non collaborativi, nei confronti del regime. Alcuni di loro, pur avendo ottenuto protezione internazionale in Italia dichiarando di essere fuggiti da persecuzioni e violenze, ripropongono oggi esattamente l’immagine della diaspora diffusa dalla dittatura, contraddicendo quanto affermato nel proprio percorso d’asilo». L’associazione denuncia il rischio che simili rappresentazioni alimentino sospetti e ostilità nei confronti della comunità eritrea rifugiata, e invita la società civile a una presa di posizione collettiva: «Ogni firma è per noi importante: è un gesto di solidarietà e un contributo alla tutela della verità, della dignità dei rifugiati, della libertà di informazione e del dovere di responsabilità che spetta al servizio pubblico radiotelevisivo». Un messaggio forte, rivolto a studiosi, attivisti, associazioni e cittadine e cittadini, affinché si uniscano per difendere la verità storica e politica sull’Eritrea e sull’esilio forzato di tanti suoi abitanti. Per sottoscrivere la petizione clicca qui LE REAZIONI NEL MONDO DELL’INFORMAZIONE Anche l’associazione Carta di Roma è intervenuta sul documentario con un editoriale firmato da Vittorio Longhi, che richiama l’attenzione sul contesto di censura e repressione in Eritrea. PH: Gianluca Costantini (In occasione del 19º anniversario della scomparsa dei prigionieri di coscienza eritrei, nel 2019 si è tenuta a Washington “Let Them Shine”, una performance commemorativa) «Ricordiamo – scrive Longhi – che l’Eritrea vanta il triste primato della più lunga detenzione al mondo di giornalisti. Dal 2001 almeno undici uomini sono in carcere per aver tentato di fondare organi di informazione libera e chiedere il rispetto del diritto di espressione, presupposto di qualsiasi democrazia. Oggi nel paese non esiste stampa indipendente: l’unica emittente è la televisione di Stato, EriTV, sotto il pieno controllo del regime». Non a caso, sottolinea l’editoriale, l’Eritrea si colloca all’ultimo posto (180°) nell’Indice della Libertà di Stampa pubblicato da Reporters Without Borders. «Questo documentario – conclude l’associazione Eritrea Democratica – è una macchia sulla credibilità di chi accoglie. È un’offesa per chi ha sofferto e continua a vivere con traumi profondi. Ma può diventare anche un’occasione, se ben gestita, per fare chiarezza e porre fine a un’ambiguità che da troppo tempo viene tollerata». Anche la conclusione dell’editoriale di Carta di Roma è netta: «Il documentario ci appare un pessimo esempio di giornalismo libero e indipendente, come invece ci si aspetterebbe dal servizio pubblico. Sembra piuttosto un allineamento acritico e ossequioso ai progetti di cooperazione e investimento promossi dall’attuale governo italiano in collaborazione con il regime eritreo. Oltre ai limiti giornalistici, inquietano le possibili conseguenze sul piano della protezione internazionale per gli eritrei in fuga dalla dittatura».
Controfuoco. Per una critica all’ordine delle cose (N° 2, giugno 2025)
> con·tro·fuò·co/ > Incendio, appiccato volontariamente, > per eliminare il materiale > combustibile e quindi contrastare > l’avanzata di un incendio di grandi > proporzioni, spec. nei boschi. ARCHITETTURE DEL CONFINAMENTO: IL TRATTENIMENTO COME INFRASTRUTTURA L’editoriale di Francesco Ferri e Omid Firouzi Tabar Sono passati oramai dieci anni dalla cosiddetta “crisi dei rifugiati” e appare sempre più chiaro come il regime complessivo di regolamentazione, filtraggio e selezione della mobilità delle persone migranti sia vivendo una preoccupante virata autoritaria e repressiva, una recrudescenza che vede nella privazione della libertà un fattore sempre più diffuso, strutturale e normalizzato. Questa “sicuritarizzazione” dell’apparato sicuritario-umanitario, che vediamo da alcuni anni intrecciare e ibridare dinamiche di controllo e segregazione con quelle dell’assistenzialismo compassionevole e infantilizzante, si sta progressivamente infiltrando gran parte dei contesti legati alle migrazioni. Lo vediamo nelle narrazioni mediatiche sempre più stigmatizzanti, nel piano normativo che restringe progressivamente diritti e garanzie e nelle prassi istituzionali sempre più segnate da dinamiche di abbandono socio-economico e dalla moltiplicazione degli ostacoli amministrativi e burocratici. Stiamo assistendo in primo luogo a un vero e proprio attacco frontale al diritto di asilo per come lo abbiamo conosciuto, che si materializza attraverso la progressiva centralità di concetti come “paesi sicuro” e alle conseguenti procedure “accelerate” o di “frontiera”. In questo senso la richiesta di protezione internazionale non è più soltanto preludio a una vera e propria trappola sociale, ma è sempre più un’opzione che viene semplicemente negata, soprattutto per sottrarre le persone al pacchetto di diritti che tutt’ora implicherebbe. In tale direzione vanno legislazioni nazionali e il nuovo Patto europeo su migrazioni e asilo, punto di svolta decisivo delle politiche migratorie continentali. A questa erosione del diritto di asilo si accompagna una sorta di “Hotspotizzazione” della regolamentazione delle persone anche oltre alle fasi successive all’approdo. Al netto della resistenza, talvolta anche ostinata, di alcuni tribunali, la prospettiva politica sembra essere quella di dare una progressiva centralità (non soltanto simbolica) a strutture classicamente detentive come i Cpr, ma anche a strutture ibride di trattenimento come i centri albanesi (e altri che fioriranno sul perimetro europeo per le “procedure di frontiera”), e quelli di Pozzallo e Porto Empedocle adibiti per le “procedure veloci”. In parallelo, la costante minaccia di “deportabilità” in questi luoghi, ben agevolata dalla diffusione di misure di militarizzazione urbana come le “Zone Rosse”, diventa ingrediente ricattatorio di estrema violenza. Senza scordarci, per completare questo cupo quadro, di una certa intensificazione della criminalizzazione delle pratiche solidali, soprattutto in mare, e di quella, statisticamente preoccupante, dello smuggling e dei cosiddetti “capitani”, che sta allargando la stretta penale su un numero sempre più vasto di migranti. Tutto ciò non sembra proiettarsi nella direzione di un rafforzamento di forme di mera esclusione ed estromissione delle persone dalla cosiddetta “Fortezza Europa”, concetto che ci appare oggi anche poco funzionale, talvolta del tutto fuorviante, per leggere in profondità i processi in corso e le razionalità che li sottendono. In campo sembra invece persistere un’economia politica del modello confinario imperniata su dinamiche di selettività e di violenta (im)mobilizzazione, orientate a garantire nuove linee di inclusione subalterna e di produzione di soggettività, più che a materializzare una rigida (e improduttiva) impermeabilizzazione del perimetro europeo. Più che alla tensione tra rigide linee che separano estromissione da e inclusione nello spazio europeo, dobbiamo in sintesi sforzarci a cogliere tensioni e conflittualità sempre più molecolari e interstiziali tra espressione di mobilità indisciplinata e tentativo di produzione di soggettività esposte a forme sempre più intensive di sfruttamento lavorativo e di stigmatizzazione utile a nutrire le retoriche sicuritarie. Questi nuovi sviluppi si materializzano dentro una congiuntura di guerra che, oltre alle uccisioni, ai massacri, ai genocidi e alle devastazioni che produce nelle zone di conflitto dove è materialmente in atto, si espande in quanto regime complessivo di produzione di linee di comando, ispirando drammaticamente molte politiche europee tra cui quelle che riguardano migrazioni e confini. In questo scenario bellico la costruzione dei blocchi e delle polarizzazioni, strutturati intorno a un ritorno di costruzioni identitarie come popolo, stato e nazione, produce inevitabili e considerevoli ripercussioni nei regimi di  “bordering” e di “othering”, ponendosi come frame perfettamente coerente con la stretta sicuritaria vissuta in questa fase storica in molti territori europei. Scendendo su un piano più concreto, l’analisi del “modello Albania” fornisce indicazioni utili per cogliere le tendenze che attraversano il regime confinario. Il funzionamento del centro di Gjader ha evidentemente caratteristiche peculiari ma non è, dal punto di vista della logica che lo informa, un’eccezione. Questo progetto, infatti, rende visibile e leggibile una delle traiettorie più rilevanti del governo della mobilità: l’estensione selettiva del trattenimento come pratica ordinaria. In Italia, la detenzione amministrativa si presenta come diffusa ma non generalizzata: uno scarto importante, da cogliere per darne preciso rilievo politico. Infatti, la gran parte delle persone rimpatriate non passa dai Cpr. Ma questo dato non ridimensiona il ruolo politico di quei centri. Al contrario, lo chiarisce: i Cpr non funzionano per volumi, ma per effetto. Producono una pedagogia della minaccia, inscrivono nella vita migrante una moltiforme precarietà costitutiva, alimentano una condizione permanente di esponibilità alla violenza e al rimpatrio. Il modello Albania riproduce questa stessa logica: poche persone effettivamente trattenute bastano a produrre un salto, simbolico e materiale, nell’architettura del confinamento. È per questo che l’analisi non può fermarsi ai numeri. Serve uno sguardo qualitativo e politico sulla detenzione, che è poi quello che questo numero di Controfuoco tenta di portare. Le molteplici forme del trattenimento non vanno valutate unicamente sulla base della capienza o del tasso di rimpatri che producono, ma interrogati come dispositivi: macchine selettive di produzione della soggettività e della forza-lavoro migrante. Le loro funzioni travalicano i corpi che rinchiudono. La violenza concreta che esercitano non va dunque ridimensionata, ma compresa nella sua estensione. La lista dei diritti violati – libertà personale, difesa, salute, unità familiare – è solo la soglia di un impatto più ampio: una violenza sistemica, che agisce al di là delle griglie giuridiche. È una violenza strutturale, fatta di trattamento differenziale, segregazione materiale e simbolica, disciplinamento sociale. Il trattenimento va allora letto come infrastruttura, non come eccezione. Non è una parentesi nella vita migrante, ma una condizione che incide sui tempi, gli spazi, le possibilità di movimento e di relazione. La deportabilità – più che la deportazione effettiva – è oggi la condizione generalizzata che definisce la collocazione sociale di ampi settori di soggettività migrante. Il rischio permanente della detenzione orienta le traiettorie, comprime le aspettative, spezza le reti, contribuisce alla collocazione nel mercato del lavoro, nei modelli dell’abitare. È in questo scenario che si colloca il presente numero di Controfuoco, dedicato alle molteplici forme del trattenimento. Le attraversa, le connette, le storicizza. Non per restituirne un’immagine unitaria, ma per mapparne le articolazioni, le ricadute, le resistenze. Il trattenimento non è ai margini: è un asse portante delle politiche migratorie. È dentro la società, ne riflette le gerarchie, ne rafforza i confini. L’ambizione di questo numero è chiara: contribuire, con strumenti agili e accessibili, alla politicizzazione del dibattito sul trattenimento. Passando in rassegna i vari contributi, Chiara Denaro presenta delle riflessioni che riguardano i nuovi piani di sperimentazione della detenzione migrante. Si parla dei centri di Pozzallo e Porto Empedocle, pensati per trattenere migranti giunti dai “paesi sicuri”, mentre viene esaminata la loro richiesta di protezione internazionale. L’autrice si sofferma in particolare sulla privazione della libertà vista come ingrediente sempre più diffuso del controllo delle migrazioni e sul ruolo svolto dai giudici e dal diritto in questo campo di tensioni. Francesco Ferri presenta una riflessione critica rispetto a un tema che ha avuto recentemente molta amplificazione mediatica, quello dei centri di detenzione in Albania. Ferri si sofferma nello specifico sulla funzione latente di questi luoghi, interpretati come strumenti punitivi che incarnano, anche in prospettiva delle nuove politiche europee, uno specifico modello di controllo della mobilità indisciplinata. In particolare emerge l’idea che tali luoghi rappresentino un confine interno esternalizzato, dove la dislocazione della detenzione pone, tra i vari, seri problemi dal punto di vista del controllo giurisdizionale e della tutela legale. Il tema della detenzione amministrativa è stato approfondito da Rocco Sapienza, in relazione alla struttura collocata a Palazzo San Gervasio, in Provincia di Potenza. Le riflessioni intorno a questo Cpr si soffermano non soltanto sulla violenza istituzionale agita con le forme del trattenimento all’interno di questo luogo, ma si sviluppano anche in riferimento alla sua collocazione nel territorio e in particolar modo nelle reti e infrastrutture dello sfruttamento lavorativo. La progressiva recrudescenza delle politiche di controllo delle migrazioni e la crescente centralità di strumenti necropolitici e repressivi è la cornice di riferimento del contributo di Francesca Esposito. L’autrice, focalizzandosi sul tema della detenzione amministrativa in Italia e in Europa, propone una riflessione critica di orientamento transfemminista e abolizionista indicando la necessità di guardare alle molteplici interconnessioni tra la violenza confinaria e violenza di genere, con particolare riferimento allo sguardo portato nel dibattito attuale dal femminismo anticarcerario. Anche il contributo di Luca Ceraolo affronta il tema della detenzione delle persone migranti all’interno del Cpr. Tenendo la salute mentale come cornice generale di riferimento, in questo contributo viene messa a fuoco la relazione tra diversi campi del sapere – con particolare attenzione a quello medico – nelle pratiche detentive e la materializzazione di un “continuum coloniale” nei processi di stigmatizzazione che riguardano le soggettività migranti. Luca Daminelli e Andrea Contenta si focalizzano sulla Grecia e sul borderscape rappresentato da quella particolare porta d’ingresso verso l’Europa, segnata fortemente dagli accordi con la Turchia che continuano ad avere molteplici conseguenze. In questo contributo l’attenzione è rivolta ai dispositivi di privazione della libertà, che fungono in modo sempre più diffuso e normalizzato come strategie di regolamentazione, esclusione ed inclusione subalterna dei migranti irregolarizzati, ma anche dei richiedenti asilo. Infine troviamo le riflessioni presentate da Giovanni Marenda, che volge lo sguardo verso la Bulgaria, di nuovo imperniate sull’analisi della centralità assunta dalla pratica della detenzione nel governo delle migrazioni indisciplinate. Secondo l’autore le prassi osservabili in quel territorio, segnate da diffusi soprusi e violenze discrezionali degli attori istituzionali, possono essere interpretate come una sorta di anticipazione del recente Patto europeo sulle migrazioni che tende ad incorporarle, legalizzandole. Quest’ultimo infatti viene immaginato non tanto come cambio di paradigma, ma come normalizzazione di un sistema che prevede lo strapotere di polizia e la generalizzazione della detenzione come fulcri operativi. CONTROFUOCO N° 2 GIUGNO 2025 SOMMARIO I nuovi centri di detenzione per i richiedenti asilo. Genealogia di un fallimento governativo Chiara Denaro Da dove viene la singolare pretesa di trasportare i migranti in Albania per aumentare i rimpatri? Francesco Ferri Geografia del controllo: note da Palazzo San Gervasio Rocco Sapienza Per una critica transfemminista abolizionista della detenzione amministrativa in Italia Francesca Esposito Politiche della diagnosi e continuum della colonia. Riflessioni sulla salute nella detenzione amministrativa Luca Ceraolo La Grecia scudo d’Europa. Di razzismo istituzionale, condizioni di vita inumane e politiche di morte Andrea Contenta e Luca Daminelli Reclusi alla periferia d’Europa. Uno sguardo sulla detenzione dei migranti in Bulgaria Giovanni Marenda Clicca sull’immagine di copertina per scaricare gratuitamente la rivista o qui sotto Download in pdf Acquista una copia cartacea Fotografie: Silvia Di Meo, Rami Sole, Luca Greco, Marios Lolos, Francesco Cibati, Rocco Sapienza, Stop CPR Roma e Mel Progetto grafico: Giacomo Bertorelle Gruppo redazionale: Jacopo Anderlini, Emilio Caja, Francesco Della Puppa, Francesco Ferri, Enrico Gargiulo, Barbara Barbieri, Stefano Bleggi, Giovanni Marenda, Omid Firouzi Tabar, Martina Lo Cascio La foto di copertina è stata scattata durante la mobilitazione del Network Against Migrant Detention in Albania l’1 e 2 dicembre 2024. NAMD è una rete di attivist* transnazionale che chiede l’abolizione della detenzione amministrativa. Cooperativa editrice Tele Radio City s.c.s., Vicolo Pontecorvo, 1/A – 35121 Padova, Italy, Iscr. Albo Soc. Coop. n. A121522 Melting Pot è una testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Padova in data 15/06/2015 n. 2359 del Registro Stampa. Controfuoco è un processo aperto e collettivo che vuole coinvolgere saperi e conoscenze composite e crescere a partire dalle diverse esperienze e biografie che intreccerà. Per contribuire scrivi a collaborazioni@meltingpot.org.